lunedì 31 ottobre 2016

Direi di No - Saggio di Enrico Donaggio. Presentazione ed intervista







Costruire luoghi di libertà migliori e diverse
Dove sono oggi i compagni di speranza?
Intervista a Enrico Donaggio a cura di Camilla Emmenegger

(Enrico Donaggio insegna Filosofia della storia all’Università di Torino e Figures du pouvoir e Écrire et Penser all’Université Aix-Marseille)

Mai come oggi viviamo una vita spezzata. Che crediamo solo nostra e invece ci accomuna a tanti. Viviamo spezzati tra il desiderio di “dire di no” – a un mondo palesemente assurdo, a un ordine delle cose indifferente all’umano... – e l’impotenza di «fare di sì». Scissi tra una voce che ci dice «dì di no» e un’altra che replica “resistere non serve a niente” E così, incapaci di ricomporre il gap tra la vita e la critica, finiamo per evadere dal reale in modi che durano un weekend Non mancano però esperienze dove si tenta di pensare e agire altrimenti. Piccole enclave di umanità diversa dove i no provano ad aggregarsi, in nome di libertà migliori. Non provando paura, ma speranza. provano ad aggregarsi, in nome di libertà migliori. Non provando paura, ma speranza.

Nel libro Direi di no. Desideri di migliori libertà (Feltrinelli, 2016) di Enrico Donaggio, filosofo che insegna a Torino e Marsiglia e presidente dell’Associazione culturale Franco Antonicelli, personaggi noti e meno noti – da Marx a Rustin Cohle di True Detective, dal conte di Montecristo allo scrivano Bartleby – sono mobilitati per dare voce, e corpo, ad alcuni dei nodi in cui sembrano strette le vite quotidiane di molti di noi: l’impossibilità di agire come si riterrebbe giusto, l’incapacità di dire di no al mondo in un modo che non si riveli sterile e solitario. L’affresco che ne risulta è quello di individui scissi tra il sentimento di riprovazione verso un mondo che non è come si vorrebbe, e l’incapacità di modificare in meglio, anche se solo di poco, sfere circoscritte della propria esistenza. In cui il senso di impotenza sembra annichilire alla radice la possibilità di agire in modo congruente alle proprie convinzioni e in cui sempre in perdita risultano i compromessi con il mondo.
Una diagnosi che non lascia spazio a illusioni a buon mercato, ma che si rivela tutt’altro che pessimistica. Come già nel libro precedente – C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi (Mimesis, 2014), frutto di un lavoro collettivo alla ricerca di possibili vie d’uscita (teoriche ma non solo) dai ritratti neri, e monolitici, del presente – si tratta di non lasciarsi andare a condanne apocalittiche e senz’appello. Nella convinzione, in questo caso, che nei sogni a occhi aperti, nelle evasioni andata/ritorno che costellano le nostre vite, si celino desideri di migliori libertà: i segni incontestabili di una passione critica tutt’altro che spenta.
Si tratta allora – e qui risiede la scommessa maggiore del libro – di rintracciare quegli spazi in cui la passione critica è riuscita a tradursi in azione, a consolidarsi in pratiche quotidiane e collettive: esperimenti più o meno riusciti, e mai solitari, di costruzione di luoghi in cui «dire e fare di no» risulta possibile.
Un presente che si accontenta di poco.
Il tuo libro Direi di no si avvicina nella forma, più che al saggio filosofico, a un flusso di coscienza: ragionamenti, immagini, personaggi si susseguono intorno ai temi della critica e delle nuove forme di asservimento e libertà. Che cosa ti ha portato a scrivere questo libro?

Pur non considerandomi un tipo particolarmente radicale o estremista, neppure eccessivamente di sinistra, mi ritrovo ormai quasi quotidianamente – in ogni situazione di lavoro, ma anche solo ragionando un po’ con gli altri – a essere più o meno il solo a sostenere come ovvie, nel senso di sacrosante ed evidenti – tutta una serie di cose che sino a non troppo tempo fa avrebbero trovato l’accordo generale, scontato, di un sacco di persone. Per fare solo l’esempio più banale, il fatto che non si può far lavorare gratis la gente. Posizioni che vengono liquidate dai più vecchi con una scrollata di spalle, con cinismo e rassegnazione: relitti di un tempo andato e perduto per sempre. E che oggi vengono guardate da chi è giovane come un curioso film di fantascienza: «Davvero è esistita in Italia un’epoca in cui si poteva dire di no a cose del genere?», sembrano chiedersi, con la faccia di chi scopre che le cose non sono sempre andate come dal giorno in cui sono venuti al mondo: il ventennio berlusconiano e l’attuazione di quella distopia neoliberista da parte di Renzi e del Pd. Tutta una serie di luoghi comuni e dogmi dell’essere di sinistra – morali più che politici, nel più nobile senso di questi termini – sono insomma stati completamente spazzati via. Una certa idea di uomo e della sua dignità è scomparsa dalla faccia della terra, la sinistra è morta. E chi non se ne è ancora reso conto – il sottoscritto – si ritrova costantemente tra due fuochi. Tra un passato improponibile e un presente che si accontenta di poco, quando non di pochissimo. Il futuro poi, a quanto pare, è scomparso dai radar. Il che significa, semplicemente, che il futuro dei nostri padri non esiste più e che a chi oggi è giovane tocca sognare e progettare, cioè lottare, per un futuro diverso. Cosa facile da scrivere, ma difficile da fare, in una situazione di precarietà generalizzata e di singolare commistione tra gratitudine e ricatto generazionale in cui un conflitto dei giovani contro i vecchi risulta quasi inconcepibile. Come si fa infatti a contestare in modo serio ed efficace chi è simultaneamente quello che ti mantiene fino a 60 anni, quello che ti frega il posto di lavoro e quello della cui eredità, che ti piaccia o meno, camperai?

Oggi si dice di no, ma poi «si fa di sì»
Quali sono le conseguenze di questa situazione di appiattimento sull’esistente?
Da questa situazione deriva, mi pare, una forma di vita spezzata. Che crediamo soltanto nostra, ma che invece ci accomuna a moltissima gente che ci sta accanto o non troppo lontana, i nostri «compagni per caso». È infatti come se tutto quel che diciamo e facciamo risultasse scisso tra due piani, spaccato in due. Da un lato diciamo di no a quel che non ci convince, ci offende, ci indigna. Simultaneamente, per tutta una serie di ragioni opposte, «facciamo di sì». Se si volesse restituire con un’immagine la malattia sociale tipica del nostro tempo, secondo me sarebbe proprio quella di individui spezzati tra il desiderio di dire di no e l’impotenza di «fare di sì». Questo ci rende deboli e fragili dal punto di vista individuale e collettivo. Perché rende impossibili la coerenza e l’integrità morale – virtù o facoltà che non sono da intendere in senso bacchettone, come rigidità, ma come capacità di sentirsi soggetti interi, individui liberi. Gente degna di essere presa in parola, perché sai che farà quel che dice e promette. Uomini e donne capaci di mettere speranza a chi gli sta vicino e paura a chi gli sta di fronte.

Puoi chiarire meglio che cosa intendi con «vita spezzata»?                                                                È una forma di ipocrisia questa incoerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa?
Di solito, quando c’è qualcosa che non ti va, dici di no e agisci di conseguenza. Invece oggi per moltissimi di noi risulta assai difficile mettere in atto questo rifiuto, essere coerenti con se stessi, con le ragioni, i sentimenti e i valori che ci farebbero dire di no. Sappiamo tutti benissimo che cosa non funziona, ma ogni giorno subiamo o compiamo atti contrari ai nostri princìpi. Diremmo volentieri di no, ma ci sembra un gesto inutile, irresponsabile, pericoloso. Che situazione viene così a crearsi? L’impossibilità che tra il piano dei convincimenti morali più profondi di ciascuno di noi, la nostra identità morale, e il piano dell’agire quotidiano si dia un bilancio di senso che torna. No, i conti non quadrano. È come se l’agire quotidiano fosse costantemente in perdita dal punto di vista morale. In una scissione e schizofrenia tra la vita e la critica. Questo comporta l’impossibilità di essere soggetti integri, di riconoscersi nei propri atti. Insomma una forma di grande fragilità, laddove invece potrebbe benissimo darsi una grande forza.

Resistere non serve a niente?

Chi analizza questo fenomeno, nei libri o nelle discussioni, di solito lo fa in due modi.
Uno miserabile, che liquida questo problema come ipocrisia: la gente dice sempre cose in cui non crede, e lo fa solo per smerciare agli altri e a se stessi una certa immagine di sé idealizzata, molto più nobile e bella della sua reale e meschina verità. Questa a me sembra una pista cinica, perdente e miserabile: bisogna sempre dubitare di chi descrive gli uomini in questi termini, ammazzando nella culla tutti i loro desideri migliori, cioè quelli di migliori libertà. C’è qualcosa di terribilmente triste in chi la pensa così, addirittura di morto. Ammazzano i sogni degli altri per vendicarsi di quel che è stato fatto ai loro. C’è poi un secondo modo, che chiama in causa il fenomeno della servitù volontaria. Servi volontari sono coloro che provano un certo assurdo piacere nel servire, che per una sorta di strana infatuazione giocano dalla parte del potere contro i propri compagni, addirittura contro se stessi.
Di servitù volontaria si è parlato qualche anno fa – in modo un po’ retorico – in riferimento al periodo berlusconiano, ma anche, se si risale più indietro, durante il periodo fascista. Al di fuori di questi specifici contesti storici, esistono secondo te persone che amano servire?

Gente del genere esiste, eccome se esiste! Ma per fortuna quelli seri sono una minoranza. In tutti gli ambienti che frequento incontro una minoranza di persone pronte a morire per salvaguardare lo status quo, per importelo e fartelo accettare, anche o proprio perché loro ne sono state le prime vittime; gente che vive solo perché il loro capo o chi ha il potere gli faccia una carezza. Sono i cani da guardia del potere, le guardie del corpo del sistema, quelli che rendono il sistema invincibile. Gente di cui bisogna davvero avere paura, molto più che dei loro padroni. Lo dice bene una canzone dei Pink Floyd: «But whatever you change, you know the dogs remain». Massima brutta e saggia come un monito a cui non si scappa. Con la quale tocca fare i conti o si è spacciati. Puoi dannarti per cambiare qualsiasi cosa. Ma i cani, alla fine, saranno sempre lì, perché sono gli ultimi a mollare l’osso. Meglio non scordarlo e, nel dubbio, prendere sempre a bastonate il cane che ci viene incontro scodinzolando per trasformarci in suoi simili. Ma per gli altri, per noi, la maggioranza della gente normale, il discorso è diverso e più articolato. Si tratta infatti di individui scissi tra una voce che ti dice «dì di no» e una voce che ti dice «resistere non serve a niente». L’azione congruente alla critica, al sentimento di riprovazione verso una situazione, sembra spesso troppo difficile: alla portata di individui rari o di chi non ha più nulla da perdere. Ci si sente impotenti, incapaci di incidere in modo significativo sulla realtà e sulla propria vita. Ed effettivamente oggi non si fa più paura al potere. E non che siano mancate in questi anni manifestazioni oceaniche, di milioni di persone: che non hanno però ottenuto nulla, non hanno fatto paura a nessuno. È un’enorme bugia che gli anni in cui viviamo e quelli che li hanno preceduti siano stati un deserto della critica. Il problema è che gli individui scissi sono individui impotenti, di cui il potere non ha paura. Una delle domande all’origine del libro è proprio questa: come si può tornare a fare paura a qualcuno, al potere, dicendo di no? Perché il no è un’arma potente, che può e deve mettere paura.

Se detto bene, il no è un’arma.
Eppure oggi si tende a considerare il «no» come una forma sterile di opposizione, se non addirittura come una difesa conservativa dei propri privilegi. Che cosa vuol dire per te dire di no? E in che modo il «no» può diventare un’arma della critica?

L’idea che mi sono fatto leggendo un po’ di libri di psicologi – la produzione sterminata di testi che ti spiegano quanto sia difficile, importante, bello, ti aiuti a crescere... dire di no – è che «no» sia un monosillabo fatale, come «io», «tu», «noi». Che dire no e dire io sia più o meno la stessa cosa. Il dire di no viene spesso visto male, come una forma di rifiuto sterile, senza proposte, debole. Dire di no può in effetti essere qualcosa di sterile, persino qualcosa di mostruoso. Il no sterile è quello di Bartleby: il famoso scrivano del racconto di Melville il cui mantra «I would prefer not to» era sui muri e gli striscioni dei vari Occupy e di altri recenti movimenti di protesta. Bartleby improvvisamente comincia a dire di no a qualunque cosa gli si chieda e poi muore d’inedia, si spegne e consuma quasi come un minerale. Muore come una pietra o un altro oggetto della natura. C’è poi il no mostruoso, che è il no di Rustin Cohle, protagonista cinico e disilluso  della serie True Detective, un eroe del mio libro; è un no amaro, della posizione snob e disperata, dell’isolamento di chi non capisce di non essere solo nella sua condizione, ma circondato da compagni per caso che si dibattono nella stessa difficoltà. È il no che porta a considerare mostruosi gli altri: il no che tutti noi pronunciamo quando c’è qualcosa che non va e ci pare di essere membri di una piccola legione di eletti circondati da un’umanità raccapricciante.
Ma c’è anche un no che, se detto bene, può essere un’arma. È un no detto quando il diavolo vuole comprarti l’anima e tu gli dici di andare a farsi fottere, che si tenga pure i suoi soldi e il suo potere perché tu non sapresti che fartene. Perché hai di meglio e di ben altro da fare. Un no fertile, fecondo, un no pieno di vita. Il no può essere un’arma a patto che sia in qualche modo preludio a un sì più grande: a un sì di libertà, di emancipazione. Pensa anche solo al primo no che dice un bambino, a cosa diventa la sua vita e quella dei suoi genitori da quel momento in poi. Si tratta dell’inizio dell’identità e della libertà, del tracciare la linea che ti separa, ma anche ti unisce agli altri. Una cosa di una potenza vitale straordinaria, che non deve essere spezzata o prosciugata. Il no – per fare il verso a uno slogan usurato – non deve essere una passione triste.
In ogni uomo brucia una passione critica
Anzi, in quest’ultimo senso dire di no rivela una passione critica – una passione che, come affermi nel libro, abita ogni individuo, almeno una volta nella vita.
Il no è alla base della passione critica, un sentimento e un modo di stare nel mondo di cui tutti siamo capaci. Non è infatti corretto pensare che il monopolio della critica spetti agli specialisti, ai martiri e agli eroi. Oggi sembra invece che solo queste figure siano in grado di incarnare lo spirito critico: individui eccezionali che ormai non esistono più.
La mia idea è che ciascun essere umano sia capace di passione critica: che l’uomo sia un animale capace di dire no perché è l’unico animale che nutre desideri di libertà migliori di quelle che ha già. Non è vero che la libertà non c’è, che la nostra società è come un campo di concentramento, come dicono pensatori molto, troppo radical chic. Ma è vero che un sacco di gente vorrebbe una libertà decisamente migliore di quella che c’è già. E questo è il lavoro e l’effetto della passione critica. Di tutte quelle reazioni davanti al male del mondo, davanti a ciò a cui si dice no, che non si placano con l’indifferenza, con la rassegnazione, con il cinismo, con l’egoismo. La passione critica si può manifestare in qualunque modo o forma noi prendiamo distanza dal mondo. Pagando un prezzo di ascesi, di rinuncia al piacere e alla libertà che già ci sono. In ogni uomo brucia una passione critica e questa passione critica non è minimamente monopolizzata dalla teoria; per cui è falso, è un alibi dire che oggi la gente è rassegnata perché mancano grandi discorsi, narrazioni, prospettive, ideologie. La teoria è solo uno dei tantissimi modi – come l’arte, lo sport, la mistica, la danza, la musica – in cui la passione critica si manifesta e si esprime.
Pensa ad esempio a chi percorre a piedi i chilometri del cammino di Santiago o agli eserciti di corridori che affollano i parchi di ogni metropoli. Lo sguardo classico vede queste cose come una forma di intontimento, di consumo o di spreco agitato da parte di nevrotici sessualmente complessati. Differente è lo sguardo che ha pietà per i mostri, che riconosce in tutti questi fenomeni dei tentativi di creazione di distanza tra la propria vita ordinaria e una possibile vita migliore, perché in quelle esperienze si sperimenta qualcosa di meglio. La passione critica non è insomma monopolio di chi scrive libri, di chi si fa fucilare da un regime autoritario, di Gramsci che muore in galera. C’è invece in circolo nella società una quantità di passione critica mostruosa e la teoria serve solo a far passare la critica da una generazione all’altra. È uno dei luoghi, tra i tanti, in cui la passione critica può essere elaborata. Il discorso sulla morte della critica, sugli individui incapaci di passione critica, non riesce a vedere gli altri luoghi, le altre forme, in cui la passione critica si manifesta.
Evasioni della durata di un weekend
Una passione che sembra però incapace di tradursi in atto: di incidere in modo significativo sul reale e sulla vita delle persone...
Il problema è di come la gestisci, questa passione. Qui si ritorna al tema della scissione tra vita e critica. Siamo ancora capaci di provare passione e di prendere distanza dalle cose così come sono, dalla società così com’è, per metterla in questione e in dubbio, per trasformarla. Dopodiché la gestione di questa sfasatura, di questa non coincidenza con lo status quo che la passione critica ti consente, è qualcosa di complicato.
Si tratta infatti di un andare e venire. Di un alternarsi tra giorni feriali, in cui fai magari un lavoro schifoso, e di momenti in cui ti chiami fuori, vai lontano. Ma non per una vacanza o per stordirti, ma per sperimentare libertà migliori e diverse, per cui sei disposto a pagare un prezzo – non solo e non anzitutto economico – anche molto alto. Vai a correre la maratona di New York, te ne vai in cima al Monte Bianco... Questi sono ormai fenomeni di una magnitudo talmente eclatante che non si possono negare, perché hanno cambiato il modo di vivere della gente. Sono modi, ormai di massa, di creare una distanza critica tra sé e il mondo; non sono semplicemente una fuga dalla realtà, ma un modo per mettere la propria vita e la propria epoca in prospettiva, allontanandosene quanto basta per osservarle e giudicarle dall’esterno. Evasioni di tipo inedito, a tempo determinato, di solito della durata di un weekend. Ma comunque innervate da una disciplina della distanza, perché chi le attua dimostra la tenacia e il rigore di chi dice no al mondo. Pratiche in cui è richiesta una immane quantità di muscoli, coraggio, fiato, impegno; in cui viene sprigionata un’energia psicofisica mostruosa. Ma che terminano la sera, quando si torna a casa. E a quel punto devi decidere cosa fare. Chiunque torni dal cammino di Santiago non può più vedere il proprio lavoro, la propria famiglia e la propria routine come le vedeva prima di partire. Adesso che è tornato deve decidere come muovere la testa e il corpo. Dire di no o girare la testa dall’altra parte. Nel momento in cui si prende distanza dal mondo si pone la grande opzione tra la critica e l’indifferenza. E molto spesso è quest’ultima a prevalere. A questa lotta tra la critica e l’indifferenza nella vita di ciascuno di noi il libro dedica molte pagine, in cui si tenta di capire anche quale ruolo svolgano in questo conflitto tutti quei dispositivi – smartphone, tablet... – e quelle pratiche – selfie, facebook... – che con l’indifferenza hanno un legame

Praticare la libertà con dei compagni
Il problema consiste allora nel costruire qualcosa a partire da questa passione critica, evitando che si riduca all’esperienza effimera di un weekend e si polverizzi nel suo contrario, l’indifferenza. E questo mi riconduce a una questione centrale del libro, cioè a come sperimentare e praticare la libertà. Tu dici: non da soli.

Occorre trovare e unirsi a chiunque intorno a noi abbia la sensibilità e il coraggio di ammettere la propria scissione tra direi di no e faccio di sì. I nostri «compagni per caso». In ogni epoca la domanda politica decisiva, quella delle cento pistole, è sempre la stessa: «Chi sono oggi i miei compagni? Chi i miei nemici?». E con loro si può provare a lottare insieme. Contro cosa?
Nel libro uso un’immagine di Italo Calvino, che parla di una fortezza le cui mura si assottigliano quanto più aumenta la speranza di uscire, ma s’ispessiscono quanto più si è disillusi. Si tratta della sua riscrittura de Il conte di Montecristo, contenuta nella raccolta T con zero. L’immagine serve a contestare l’idea che ci sia un’umanità completamente vergine di fronte al mostro. Il rapporto tra individuo e società è invece di tipo simbiotico: è una sindrome, in cui uno si nutre vicendevolmente dell’altro. È difficilissimo tirare una linea che separa te dalla società, distinguere i fili che ti tengono in vita dai fili che ti opprimono e ti alimentano. Al bando comunque qualsiasi visione demoniaca. Perché si tratta sempre di una simbiosi, di una complicità. Ma il collettivo, il fatto di avere dei compagni, resta la base perché i no individuali abbiano un senso e una forza, perché non restino fragili e deboli. La critica è una passione democratica, un privilegio democratico, ed è una cosa che non si può fare da soli. Si deve dunque mettere completamente in crisi il modello dello spirito libero. Del tipo stravagante e lunatico che spezza le consuetudini e rompe gli schemi. Roba che si vende bene, ma che non serve politicamente a nulla.
Tentativi di liberazione dal basso e tra pari
Nel libro parli di «luoghi comuni di umanità» come luoghi in cui, insieme con dei compagni, si pratica la passione critica, la si traduce in qualcosa d’altro. Puoi fare degli esempi, anche tratti dalla tua esperienza?
Un luogo comune di umanità – così io lo chiamo nel libro – è uno spazio d’esperienza collettiva in cui si possa tentare di pensare e agire altrimenti. Dove dire e fare di no dimostrino ancora un qualche senso ed effetto, poco importa se limitato. Dove ci si possa sentire meno soli e sbandati, impotenti e disarmati, quando si viene colpiti da certi desideri di migliori libertà. Per il sostegno che si può ricevere da compagni, incontrati anche per caso, a loro volta sensibili alla critica come passione. E da un sapere, antico o recente, fatto di pratiche e racconti. Risorse umane che consentono di prendere corpo e parola, cioè posizione, contro l’ordine del discorso e della realtà dominante. Per giocarsela alla pari, almeno sul piano della rappresentazione del mondo, non certo su quello dei rapporti di forza, con chi ripete, come un martello pneumatico puntato al cuore e alla testa, che le cose non possono andare altrimenti. E che se non ti sta bene, in fondo è un problema tuo. Un luogo comune di umanità è insomma una situazione in cui una minoranza di persone abbastanza normali può compiere cose relativamente eccezionali, in rapporto al periodo in cui si trova a vivere. Esperimenti di reciproca emancipazione e riconoscimento, tentativi di liberazione dal basso e fra pari. Ho in mente esperienze precise che sono, ad esempio, per come le ho viste e conosciute dai protagonisti, quelle dei lavoratori che si riprendono le loro fabbriche (ci sono dei film su queste vicende, come Dell’arte della guerra e Comme des lions). Sono storie meravigliose: di esseri umani normalissimi, ma completamente diversi. Orgogliosi, contenti, pieni di vita. Gente che è riuscita, attraverso il lavoro, a riprendersi in mano la propria vita. Che stava per essere spazzata via da una multinazionale, da un sindacato corrotto, dalla rassegnazione.

Mettersi insieme a fare delle cose

Io ho la fortuna di sperimentare una cosa in certo modo analoga a Marsiglia. Lì un gruppo di ricercatori, dopo essere stati sconfitti nella protesta contro una legge identica alla legge Gelmini, ha deciso che avrebbe creato un corso di laurea basato su regole, materie, norme di comportamento completamente estranee all’università neoliberale che quei disegni di legge, con la rassegnazione o l’opportunismo di docenti e studenti, stanno creando in tutta Europa. Hanno inventato da zero materie completamente diverse; hanno fatto il patto che nessuno di loro avrebbe fatto carriera, né per sé né ai danni degli altri; hanno stabilito che l’unica cosa che conta è l’insegnamento e la relazione con gli studenti. Quando sono arrivato lì credevo di essere sbarcato sulla luna. Questa cosa esiste, funziona, arrivano ragazzi dalla Cina, dal Sud America. Ma ci sono anche pescatori che si organizzano in cooperative, ereditando e attualizzando speranze e solidarietà del movimento operaio, o squadre di calcio femminile che decidono di farsi un campionato. O, se si cercano esempi mitici nel passato, la rivoluzione di Basaglia, che inizia non a caso con un «E mi no firmo», la prima risposta data dopo l’arrivo a Gorizia a chi gli chiedeva di sancire con un gesto della penna che tutto sarebbe andato avanti come prima. L’unica cosa che tutte queste esperienze, così diverse, hanno in comune è che non sono solitarie, che sperimentano un modo di fare, di lavorare diverso, che cercano in qualche modo di essere delle piccole enclave di umanità diversa. Sono in qualche modo votate al fallimento, non si condannano a vita eterna, sanno quello che vogliono, ma sono pronte a perderlo in qualunque momento se andare avanti comportasse uno snaturamento. E danno alla gente che le mette in atto una gioia di vivere, una forza, un piacere. Queste persone sono vitali, giovani, sorridenti, s’incazzano anche se hanno settant’anni. Hanno ripreso in mano il proprio destino, in una piccola – non bisogna esagerare – regione della propria esistenza. L’idea di fondo è dunque questa: tu devi aggregare i tuoi no e i tuoi desideri di migliori libertà sull’unico terreno su cui oggi tu e questi desideri contano ancora qualcosa. E l’unico terreno su cui tutti contiamo ancora qualcosa – anche se appena più di zero – è il lavoro. Dal lavoro devi cominciare a togliere tutte quelle forme di servitù volontaria, autosfruttamento, zelo che oggi lo devastano e connotano. Devi creare luoghi di umanità condivisa in cui chiudi il gap tra la vita e la critica. Non ci deve essere un’ideologia. Perché si tratta di roba contagiosa. Perché la libertà è contagiosa. Se entri in contatto con uno di questi posti, lo senti, lo capisci dalle persone. E non riesci più a tornare al tuo lavoro come prima, come se niente fosse successo.

Attribuire una funzione centrale al lavoro evoca una prospettiva marxista, per la quale il lavoro racchiude un portato emancipativo – una posizione oggi un po’ fuori moda. Perché per te il lavoro è così importante?
Guarda cosa stava succedendo in Francia prima che gli attentati bloccassero tutto. Manifestazioni enormi, represse con una violenza orrenda. Perché mai un presidente di sinistra sconfitto ricorre a norme che sono state applicate solo in guerra per far passare una riforma del lavoro che è poi fondamentalmente il Jobs Act? L’interessante non è tanto capire perché in Italia la riforma è passata senza nessuna protesta e in Francia si stanno ribellando, ma per quale motivo per tutti i governi europei distruggere un certo tipo di organizzazione del lavoro è la cosa più importante che c’è, letteralmente questione di vita o di morte. Perché il lavoro è importante e fa ancora paura al potere.
Sul piano dei rapporti di forza come su quello della costruzione dell’identità, della realizzazione dei soggetti, io non riesco a immaginare un’altra forma di esperienza che da un lato renda i soggetti così pericolosi per il potere, dall’altro trasmetta loro la sensazione di fare, contare, creare, costruire, organizzare qualcosa. Inoltre, se oggi esiste un luogo di umiliazione universale della vita, questo è proprio il lavoro: è la più democratica forma di umiliazione – sia per chi ce l’ha che per chi non ce l’ha. Faccio fatica a immaginare che un terreno del genere possa essere completamente lasciato in mano all’avversario. Nel dibattito della cosiddetta sinistra radicale italiana il tema viene invece completamente abbandonato in nome dei beni comuni, del reddito minimo garantito. C’è una forma assurda di snobismo che considera il lavoro soltanto come repressione, sfruttamento, calvinismo borghese. Un pregiudizio radical chic da figli di papà, dello spirito o del conto in banca. Il lavoro resta invece fondamentale: è l’unica forza che hanno i senza forza. Non riesco a immaginare un altro ambito in cui chi non conta niente possa contare qualcosa sul piano dei rapporti di forza. Bisogna mettersi insieme a fare delle cose, non soltanto trovarsi a parlare, a discutere, a bere e mangiare.
La critica è una promessa di felicità
Nel libro enumeri alcune caratteristiche fondamentali dei «luoghi comuni di umanità». Mi vorrei soffermare su due in particolare. Il primo tratto è l’onerosità: la pratica della libertà non è una cosa facile, immediata. Il secondo è la felicità: l’esercizio di critica, il dire di no collettivo e continuato, racchiude una forma di felicità. Puoi chiarire la tensione tra felicità e onerosità?
Spesso si dice: che senso ha criticare, che senso ha opporsi, se non c’è una prospettiva, un’alternativa? Questa secondo me è una convinzione che andrebbe smontata. Il gesto in sé ha una vitalità e un portato di senso tale da rendere la vita più bella. È il concetto di integrità: se tu ricomponi alcuni pezzi di te stesso, ti rendi conto che puoi incidere sulla realtà. È chiaro che non incidi in una prospettiva palingenetica, di rivoluzione, ma cambi di un grado la tua vita, la vita dei tuoi compagni più o meno per caso, di chi ti sta vicino e lavora con te. Il nemico deve essere la rinuncia preventiva. Una valanga di gente non ci prova nemmeno. Il successo è nel fare le cose, nel dire di no, non nell’ottenere qualcos’altro.
Ma può naturalmente trattarsi di un’esperienza onerosissima, che si espone al rischio di fagocitare l’intera vita. Come ai rischi della setta, della tribù ipermorale. Quelli che Luca Rastello ha giustamente denunciato ne I buoni. Per chi cerca felicità lievi non è dunque esattamente la cosa più interessante o attraente del mondo. Però l’impressione è che oggi di felicità leggere non ce ne siano poi tante in giro.
Adattarsi e mandare giù bocconi amari, fare finta che tutto vada bene, credere che resistere non serva a niente, o che il mondo si riduca al perimetro del tuo muso fotografato senza tregua con uno smartphone, come in una roulette russa, non costa meno, semmai più fatica che dire di no. Ecco, questa forse è una possibile conclusione incoraggiante per i cacciatori di felicità: la fatica che comporta creare luoghi comuni di umanità è spesso inferiore a quella di stare al mondo perennemente spaccati tra i no che desidereremmo dire e i sì che, nostro malgrado, ci escono di bocca.

lunedì 24 ottobre 2016

Commenti a margine del seminario: "Declinazioni dell'infinito nell'arte Moderna e Contemporanea" 
tenuto dal Prof. Valter Aloviso.
(sintesi di Enrica Gallo)


Porsi come meta del percorso le declinazioni dell’infinito nell’arte moderna e contemporanea - pur attraverso un sentiero già predisposto come quello allestito dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino - è certo impresa non semplice, a meno di non poter contare su di una guida d’eccezione come Walter Alovisio, che ha messo a disposizione la passione e la competenza che gli derivano dal suo essere artista e insieme insegnante e studioso in un seminario propedeutico alla visita vera e propria, inteso a creare la possibilità di un riconoscimento foriero di un più fecondo incontro con le opere esposte.
Con una scelta preliminare che non ha temuto di sacrificare la completezza e l’orizzontalità del percorso per entrare in profondità su alcuni temi e autori, il nostro relatore ha voluto far precedere all’ingresso virtuale nelle varie stanze della mostra un’introduzione atta a prepararci, attraverso un forte impatto emotivo e concettuale, all’incontro con un mondo artistico che intrattiene col tema dell’infinito un rapporto di continua interrogazione. Un breve “Prologo” in cui siamo passati dall’ambigua figura femminile sospesa fra terra e cielo dipinta da Magritte nel 1945 (“Black Magic”), che rende magistralmente l‘idea di un infinito che non deve risolversi in pura speculazione e in cui davvero i vuoti possano essere legati e i pieni slegati - come recita il titolo che il relatore ha scelto per il seminario - perché dentro di noi cielo e terra, pieni e vuoti coesistono e trapassano gli uni agli altri, per fermare poi la nostra attenzione sul simbolo matematico dell’infinito, quel doppio occhiello  individuato da John Walls nel 1655 (ma presente già come simbolo nei capitelli di  molte chiese romaniche) che può essere percorso senza fine  rappresentando l’andare e venire del tempo; ci siamo immersi nella palpitante visione di memoria della “Notte Stellata” di Van Gogh, in cui i fasci di luce splendenti vorticano nel cielo dando vita ad un’idea di infinito come eterno movimento, per porci poi di fronte alla dolente e quasi sovrumana bellezza della “Pietà Rondanini”, l’opera incompiuta  di Michelangelo in cui il non-finito diventa un infinito aperto, teso verso Dio. E così, attraverso l’emozione e l’intelligenza delle immagini scelte dal relatore, siamo entrati nel tema della mostra, accompagnati dai versi di Dino Campana (“Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità?”) e dal ricordo dell’infinito leopardiano, su tutto risonante.

PRIMA STANZA: L’INFINITO NELL’ESTETICA ROMANTICA
Rinforzati nella consapevolezza dell’esperienza artistica come domanda sul senso del nostro essere nel mondo, creature finite che aspirano all’infinito, siamo entrati virtualmente nella prima stanza in cui la nostra guida ha scelto di farci confrontare con due interpreti piemontesi della sensibilità romantica, declinata intorno alla metà dell’ottocento in chiave paesaggistica: Carlo Piacenza (“Il temporale”) e Francesco Gonin (“La rocca di Sapay presso Viù”). Artisti minori, certo, rispetto alla grande pittura romantica che ha trovato nel tedesco  Caspar David Friedrich (“Il monaco sulla spiaggia”, “Viandante sul mare di nebbia”, per citare alcune delle sue opere più note) una delle più compiute espressioni di una poetica che ponendo l’uomo nella sua fragile finitudine rispetto ad una natura grandiosa e potente privilegia il sublime sul bello, creando nello spettatore un senso di sgomento, secondo i principi  espressi filosoficamente da Edmund Burke  (ripresi poi  da Kant nella “Critica del Giudizio”).
                                                                  
SECONDA STANZA: INFINITE COMBINAZIONI E VALENZE DEL COLORE
In questa seconda stanza, intesa a farci ripercorrere il novecento e le avanguardie in un’ottica nazionale, abbiamo potuto apprezzare una metodologia di presentazione volta a far dialogare fra loro autori diversi, offrendoci un panorama sfaccettato e mosso e dando così una maggiore intensità relazionale all’incontro con gli artisti. Abbiamo infatti visto a confronto Giuseppe Pellizza da Volpedo con Piero Dorazio: l’uno che mette a sintesi, ne “Lo specchio della vita” del 1889, l’impianto ancora naturalistico con la ricerca analitica ottenuta attraverso il cosiddetto “divisionismo”, in cui il colore invece di mescolarsi  si spezzetta in linee e punti per ottenere una particolare luminosità; l’altro che a partire dal dopoguerra, seguendo una linea radicalmente diversa dal realismo socialista di un Guttuso, si fa alfiere di una pittura che rifiuta la figurazione esprimendosi invece in una ricerca di tessiture quasi monocromatiche, oppure intrecciate di fili diversi di colore che acquistano così un particolare risalto in luce e  movimento.
 E ancora, nella ricerca di un assoluto artistico quasi privo di forme materiali o comunque profondamente originale nel suo disporle, abbiamo potuto vedere alcune opere di Yves Klein, che negli anni 50 abbandona gli schemi visivi per ricercare, attraverso una nuova tecnica di fissazione dei pigmenti, la profondità e l’essenza del colore (in particolare, di un “blu oltremare” che colora le tele, si spande sui corpi lasciando su di essi tracce d’ infinito, respira nelle spugne imbevute, si staglia sul puro oro coprendo i calchi di gesso di figure amicali…) in un percorso artistico che rappresenta davvero, secondo il nostro relatore, un salto nell’idea metafisica di un vuoto che possa esistere al di là di ogni nostra rappresentazione;  a dialogare con lui Ettore Spalletti, un artista che si è proposto, a partire dagli anni settanta, di solcare i confini della pittura e della scultura creando, con linee semplici ma di grande effetto plastico, installazioni che si staccano dalle pareti immergendosi nel vuoto della sala, ricercando a sua volta una bellezza metafisica  attraverso la rarefazione di tessiture monocromatiche, giocate fra gli azzurri che ovunque ci avvolgono anche se non possiamo toccarli, i rosa dell’incarnato che muta a seconda degli stati d’animo, i grigi  dell’accoglienza in cui tutto può sostare…

TERZA STANZA: MANCANZA DI CONFINI
Nella terza stanza lo smarrimento leopardiano di fronte all’infinito ha fatto da sfondo alla dimensione dell’oltre che la abita. Qui la nostra guida ci ha fatto incontrare Giulio Paolini, un artista torinese che è stato ed è tuttora uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “arte concettuale”: una definizione, questa, certo ambigua perché tutta l’arte lo è, atta nondimeno a dare il senso di una ricerca che non si appunta sulla produzione di oggetti ma è invece intesa a suscitare una riflessione sull’arte stessa; un metalinguaggio che comporta nel suo caso uno sfondamento della prospettiva, un rispecchiamento degli sguardi (“Ritratto di giovane" di Lorenzo Lotto), un interrogarsi come di fronte ad un oracolo (“Delfo”), operando una rottura degli schemi tradizionali non diversa da quella che Pirandello ha prodotto a sua volta con i “Sei personaggi in cerca d’autore” e destinata pertanto a provocare uno spaesamento, come tutto ciò che costringe lo spettatore ad entrare in gioco uscendo dalla finzione. Un’impossibilità della rappresentazione artistica che non comporta ovviamente la fine della ricerca stessa, di cui il nostro relatore ha segnalato un altro momento importante avvenuto negli anni 50 con i gesti provocatori di Lucio Fontana, che imprimendo nelle sue tele monocromatiche buchi, ferite e tagli  ha inteso far dialogare il dentro e il fuori, lasciando entrare lo spazio nella tela e creando a sua volta una sensazione di infinito.  

sabato 15 ottobre 2016

Commenti a margine della conferenza sulla "memoria nello spazio pubblico" tenuta da G. De Luna
(sintesi di Enrica Gallo)

Partendo dall’assunto che la memoria del passato sia fondamentale per costruire quel sentimento di appartenenza che sta alla base di una cittadinanza consapevole, Giovanni De Luna ha impostato una riflessione su come è stata costruita la memoria pubblica nel nostro paese, intendendo con essa il patto con cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar andare degli eventi del nostro passato: esso è infatti la risultante di una costruzione culturale, di una serie di scelte con cui si stabiliscono le priorità nell’uso pubblico della storia (i pilastri, per così dire, su cui si elaborano i programmi scolastici, si stabiliscono le date canoniche delle festività laiche, si eleggono i luoghi monumentali come presenze concrete e insieme simboliche senza le quali nessuna comunità può davvero reggere).
Questo patto memoriale è naturalmente qualcosa di dinamico e mobile, che viene rinnovato di volta in volta a mano a mano che cambiano i contraenti, scandendo le diverse fasi storiche. Il problema sta peraltro nel fatto che nel nostro paese, dopo la fase “eroica” del dopoguerra in cui i partiti storici della Prima Repubblica hanno scelto come fulcro della nostra religione civile l’antifascismo, considerando  la resistenza come momento aurorale della nuova democrazia e impostando su questi valori la Carta costituzionale, i nuovi contraenti che si sono presentati via via sulla scena (in particolare i partiti nati dopo l’implosione del biennio 92-94) si sono rivelati a suo giudizio totalmente inadeguati, e incapaci di proporre un nuovo patto memoriale in grado di reggere l’urto secessionistico della Lega e di contrastare la seduttività del nuovo e potente costruttore di memorie e di identità rappresentato dal mercato.
In un contesto in cui  lo Stato, esposto dall’alto ai flussi della globalizzazione e dal basso alle istanze della privatizzazione, è stato costretto a ritirarsi progressivamente, il mercato è diventato infatti sempre più invasivo, scegliendo come elemento caratterizzante più o meno esplicito la celebrazione del dolore e del lutto che scaturiscono dal ricordo delle vittime (della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, del dovere, delle catastrofi naturali…), foriero di emozioni trasformabili  in merce.
E’ cominciata così quella che De Luna ha definito “l’era del testimone”, in cui la memoria privata ha preso via via il posto di quella pubblica, e il rapporto fra memoria e storia è andato sempre più spostandosi a favore della prima, mentre le emozioni venivano a sovrapporsi alle argomentazioni con una dilatazione dello spazio simbolico non certo funzionale a costituire una religione civile unificante: a suo giudizio infatti la centralità delle vittime, esasperata da quella “televisione del dolore” che ad esse si richiama e che ha finito col trasformare il nostro spazio pubblico in una sorta di “Repubblica del dolore“ (da qui il titolo del libro assai avvincente che De Luna ha scritto su questi temi), indebolisce i legami di cittadinanza anziché rafforzarli, e soprattutto non suscita vere istanze di cambiamento trasformando le ormai molteplici “giornate della memoria” in occasioni istituzionali  retoriche ed esposte al rischio di insignificanza.

Da qui, le domande che l’autore si è posto nel testo e che sono parimenti risuonate nei molti interventi del pubblico, intesi ad aprire una discussione su come contrastare questa tendenza e su cosa sostituire a questa memoria esposta a suggestioni emotive assai fluttuanti e comunque troppo deboli per contrastare quei nuovi e pericolosi costruttori di memorie nazionalistiche e regressive che sono rappresentati dalle destre populiste. A giudizio di De Luna i materiali per la rifondazione di una nuova religione civile non mancano ed è certo possibile rivitalizzare quelli approntati dalla tradizione, ma occorre soprattutto ampliare lo sguardo, uscendo dai nostri confini nazionali e facendo dell’Europa un nuovo spazio memoriale più inclusivo e dinamico.   

sabato 8 ottobre 2016

Commento al post "Direi di no" - a cura di Nives Enrietti


In luogo di un commento personale al post “Direi di NO. Desideri di migliori libertà” segnalo l’articolo di Nicolas Martino apparso su “Il Manifesto” del 12/09/2016 come recensione del saggio di Donaggio che propone, anche in forma, guarda caso, critica, ulteriori riflessioni sul tema della necessità di esercizio della critica. La lunghezza dell’articolo ha imposto di pubblicarlo come post a sé stante   Nives Enrietti



Nella conferenza Qu’est-ce que la critique? del 1978 Michel Foucault proponeva di definire la critica come l’arte di non essere eccessivamente governati. La critica sarebbe quindi una vera e propria forma di vita, un’attitudine etica nata nel XVI secolo, prima dell’Illuminismo e anche di Kant, il quale, se da una parte ha fatto sua questa attitudine, dall’altra ne ha attenuato la radicalità piegando la critica sui limiti della conoscenza più che su quelli del potere. Niente a che vedere allora con un sapere particolare gestito da una casta. Ma è anche possibile definire la critica come il gesto elementare di «dire» e «fare» di no. È così che la intende Enrico Donaggio nel suo saggio Direi di no. Desideri di migliori libertà dove ripercorre la storia di questo gesto, la parabola e la crisi di questa attitudine radicale che ha caratterizzato la cultura e la politica dell’Occidente moderno.«Dire» e «fare» di no è un atto fondamentale di soggettivazione e metamorfosi, sottolinea giustamente Donaggio, un’attitudine che oggi però, questa la tesi sostenuta, sarebbe entrata in crisi uscendo sconfitta dallo scontro con il capitalismo, una forma di vita che avrebbe dimostrato una straordinaria capacità di resilienza, ovvero un’abilità particolare nel sussumere e neutralizzare, o addirittura mettere a profitto e restituire in forma di merce, ogni gesto critico, anche quello più radicale. Se nella prima parte del libro Donaggio ripercorre la storia di questo gesto tipicamente moderno, nella seconda parte ne sonda lo stato di salute nel capitalismo contemporaneo, decretandone appunto l’asfissia. Non è tutto perduto però, un filo di speranza rimane, ed è legato alla costruzione di quelli che Donaggio chiama «luoghi comuni di umanità», ovvero «collettivi di pensiero e di azione organizzati per fare altrimenti», collettivi costituiti fuori dai grandi partiti di massa e fuori dalla sinistra, ma anche dal comunismo. Se il realismo della diagnosi è difficilmente contestabile e il disincanto è sempre salutare, non è però condivisibile il sentimento apocalittico e malinconico di marca francofortese che attraversa queste pagine e la declinazione «debole» che ispira la resistenza proposta. Il fatto è che occorre insistere ancora meglio sulla distinzione foucaultiana tra i due generi di critica e insistere sul fatto che se la critica è stata gesto fatto proprio da un ceto specifico, ovvero gli intellettuali – e Donaggio giustamente su questo insiste – esso è anche e da sempre costruzione collettiva di forme di vita. A essere in crisi allora non è la critica tout court, ma è senz’altro la critica in quanto prodotto teoretico dell’intellettuale separato, perché è l’intellettuale stesso, così come lo abbiamo inteso dal Settecento in poi, a essere in crisi, o meglio ancora, è la sua storia a essersi esaurita. Ed è bene sottolinearlo, questa storia si è esaurita grazie alla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e all’emergere del lavoro cognitivo diffuso come prodotto delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, e come straordinariamente profetizzato da Hans-Jürgen Krahl, esponente particolarmente brillante del pensiero critico francofortese. Ma la scomparsa di questo «mostruoso» intellettuale non è qualcosa di cui rammaricarsi, e piuttosto che gettarci nel baratro del disorientamento apre invece all’organizzazione politica dell’intelligenza collettiva e alla costruzione delle sue specifiche forma di vita che non possono che essere contro il capitale, pur essendo prodotte nel capitale, perché la loro natura è in quel comune della cooperazione che esiste al di là di ogni appropriazione privata. La fine della critica in questo senso non ci condanna, con una certa rassegnazione, alla costruzione «debole» e «amicale» di luoghi comuni di umanità, ma apre alla critica come biopolitica, come organizzazione della potenza collettiva, certamente al di là della sinistra che come gli intellettuali si è anch’essa, evviva, dissolta. E se non si tratta di rifondare il comunismo con altri mezzi, come ricorda Donaggio, senz’altro si tratta di stare dentro la dimensione del comune. Si tratta di iniziare a raccontare un’altra storia, e in questo siamo d’accordo con l’autore quando sottolinea la straordinaria capacità di un visionario come Quentin Tarantino di riscattare nei suoi film la storia degli oppressi, donne, ebrei e neri. Si tratta di «saper vedere» resistenza, esodo e costruzione di alternative, si tratta di raccontare una liberazione e non una sconfitta. Si tratta, insomma, di esercitare la potenza del no nelle forme di vita che costruiamo, come già il Bartleby di Melville, ma anche e soprattutto di andare al di là della sola negazione puntando, in positivo, sulle capacità progettuali collettive.

venerdì 7 ottobre 2016

"I brutti scherzi del passato" di Manuel Cruz - sintesi a cura di Enrica Gallo


LA MEMORIA FRA PASSATO E FUTURO



“I BRUTTI SCHERZI DEL PASSATO”

saggio di Manuel Cruz



(breve sintesi dell’ultimo capitolo a cura di Enrica Gallo)





In questo testo, dal titolo sicuramente intrigante, Manuel Cruz  imposta un’ interessante riflessione sul rapporto fra identità e memoria e sul concetto di “responsabilità”, ponendo poi al centro del suo discorso il tema della memoria, a partire dall’idea che il nostro rapporto col passato non sia mai del tutto innocente e che dietro la forte rivalutazione della memoria cui assistiamo oggigiorno si nascondano intenti meno nobili di quanto ci venga fatto credere. In questa breve relazione faremo peraltro riferimento solo all’ultimo capitolo del libro, in cui l’autore mette a fuoco le due istanze ugualmente forti che devono guidare il lavoro dello storico, se il suo intento è quello di trarre dal passato ciò che può servire a cambiare il presente: e cioè tanto la necessità di difendere il passato dalle aggressioni che gli vengono rivolte quanto quella, non meno importante, di difendersi dal passato impedendogli di insediarsi nel presente, opacizzandolo e soffocandolo.



- l’eccesso di passato e la  disattivazione della memoria:



Vediamo dunque come si articola la sua argomentazione, che parte da un richiamo a due modalità di pensiero che sono a suo giudizio ugualmente errate e foriere di conseguenze decisamente negative.

In primo luogo, quella che vede nella memoria una sorta di contenitore neutro, un magazzino in cui gli eventi e le esperienze vengono conservati in attesa del nostro ripescaggio. Di fatto non è così, perché la memoria è piuttosto da intendere come un insieme di pratiche attraverso le quali noi elaboriamo la nostra biografia: essa non conserva ma evidenzia, segnala, sceglie, a seconda delle nostre necessità (possiamo paragonarla, dice Cruz, ad una matita che sottolinea ciò che ci ha fatto essere ciò che siamo fino a quel determinato momento). Allo stesso modo, è ugualmente pericoloso considerare il passato come una sorta di proprietà da conservare o come un territorio da scoprire, perché il passato non è mai ciò che è stato, ma si trasforma a seconda di cosa siamo noi che lo guardiamo: averne un’immagine rigida, in cui fissare dei momenti costitutivi da cui tutti gli altri derivino secondo una causalità coerente, è  a suo giudizio oltremodo fuorviante.

Certo non giova, a darci un’immagine più corretta del passato, il fatto che i mezzi di comunicazione di massa si rivolgano sempre più ad esso  facendone l’oggetto di una serie infinita di rievocazioni, e non solo perché le continue ripetizioni fanno perdere al passato la sua aura, ma anche perché il rinnovamento dei supporti tecnologici lo modernizza (pensiamo alle masterizzazioni, alla digitalizzazione delle immagini), pulendo gli oggetti dalla polvere del tempo e cancellandone dunque ogni traccia temporale.

Avviene così che il passato, avendo acquistato lo stesso colore del presente, faccia sempre più fatica a lasciarlo, finisca anzi con l’invaderlo incorporandosi in esso e questo, secondo Cruz, è destinato a cambiare inevitabilmente la nostra percezione del presente, che si dilata e allo stesso tempo si opacizza. Se tutto può tornare, se l’istante che stiamo vivendo può essere rivissuto più e più volte, questo ci rende incapaci di viverlo sul momento, inducendo quella perdita di esperienza su cui già Benjamin, e più recentemente Agamben, hanno attirato la nostra attenzione; e ancora, in un paesaggio temporale in cui non ci lasciamo mai nulla definitivamente dietro le spalle, in cui tutto è sempre presente, e soprattutto in cui sono altri a fissare i nostri ricordi, noi perdiamo, dice Cruz, il potere di selezionarli, di sceglierli, e la memoria fatalmente non solo tende ad omogeneizzarsi, ma  si disattiva.



- il miraggio della possibilità infinita e la scomparsa del futuro:



Ora, dare la causa alla tecnologia, che pure in tutto questo ha un ruolo rilevante, può diventare fuorviante: a giudizio dell’autore infatti la tecnologia non è il motore, ma piuttosto “il braccio esecutore” di altri fermenti che in qualche modo stavano lì, fermi, in attesa di rivelarsi. E qui il discorso di Cruz incrocia, a nostro parere, le considerazioni che Zigmunt Bauman pone nel suo “Il teatro dell’immortalità”. Entrambi questi autori infatti concordano nel sottolineare come nella società contemporanea la morte venga in qualche modo negata, o altrimenti pensata “spezzettando” l’inevitabile  percorso verso di essa  in una serie di malattie per cui una guarigione sia sempre da ritenersi possibile, nell’idea che il limite possa spostarsi in modo indefinito fino a scomparire del tutto: non è certo casuale, osserva Cruz, che l’immortalità, a cui prima potevamo rivolgere un pensiero puramente speculativo (“ti immagini se…”) sia ora diventata l’oggetto di un immaginario predittivo (“verrà un giorno che…”). 

Il miraggio della possibilità è stato posto, e questo fa scomparire, secondo l’interpretazione dell’autore, l’idea stessa di futuro: il nostro correre verso l’idea di immortalità cancella di fatto quella di posterità, che anche secondo Bauman ha rappresentato nei secoli la più potente “invenzione” che la civiltà abbia messo in campo per sfuggire all’inesorabilità della morte,  mentre nel contempo il fatto che tutto sia sempre presente dà il definitivo colpo di grazia all’idea di continuità storica, e questo aumenta sicuramente la difficoltà che abbiamo ad autonominarci.

Allo stesso tempo, questo miraggio che mette a rischio la nostra capacità di pensare il futuro come il contenitore della nostra immaginazione e della nostra volontà va a deteriorare l’immagine stessa del passato. Non tutto, infatti, è possibile, osserva Cruz aprendo un importante riferimento a Benjamin: la radicalità del suo discorso sull’inadempiuto, sulle schegge messianiche che il passato conserva tra le sue pieghe e che potrebbero attualizzarsi se volgiamo ad  esse il nostro sguardo, non implica infatti che il passato possa essere restaurato: non c’è una seconda possibilità per i vinti della storia, dice Benjamin, ricordare la nobiltà della loro disfatta e le sofferenze su cui il presente è stato edificato non li farà rivivere, servirà bensì ad impugnare il presente, diventando la molla per cambiare il futuro.

In questo dunque il passato è davvero essenziale: se prima Cruz ha rivendicato una sorta di diritto all’oblio, la necessità di dare al passato la possibilità di stare davvero “dietro” di noi, non è certo per cauterizzare le sue ferite anestetizzando la memoria, ma per rendere credibile e concreta la possibilità di uscire da una storia bloccata che ci fa credere da un lato, con l’idea di “immortalità” che sempre più si affaccia nel nostro immaginario, che tutto sia possibile, dall’altro che niente lo sia, impedendoci le pratiche di una buona politica che si volge necessariamente al futuro a partire da una considerazione attenta del presente.  



- la responsabilità dello storico:



E’ questa, in sostanza, la sfida che lo storico deve affrontare: contribuire con la sua analisi a rendere il presente più poroso e malleabile per renderci più capaci di pensare il futuro, chiedendoci come vogliamo che sia, senza pensare che il nostro desiderio sia la cosa, ma parimenti senza rimanere paralizzati nel sentimento della disfatta dei nostri desideri non realizzati.

Forse, dice Cruz “bisogna accettare una volta per tutte che alcuni di questi obiettivi sono come stelle lontane, che vediamo ancora ma che già da tempo non esistono più“ e non attribuire al disincanto la responsabilità del nostro mutamento. Chi si è fatto carico della propria vita come di un processo accetta di riesaminare le proprie posizioni e di misurarsi con una realtà diversa, senza vedere in essa solo il fallimento delle proprie aspettative utopiche: il loro fallimento non equivale infatti alla sconfitta di ogni possibilità.  Soltanto, dobbiamo rinunciare, secondo Cruz, a tormentarci inutilmente sul problema del fondamento o sull’assenza di fondamento di ciò che vogliamo proporre – forse non c’è nessuna risposta alla vecchia domanda “che cosa dobbiamo fare?” - ma piuttosto, usando la memoria del passato in funzione critica per fornirci dei quadri di riferimento, chiederci se siamo capaci di dare una risposta ad un’ altra domanda, ancora più antica e oggi, in questo declino della passione del futuro che ci circonda, sicuramente più decisiva: “che cosa vogliamo fare?” .



……………………………………………



Manuel Cruz insegna Filosofia contemporanea all’Università di Barcellona. E’ autore di numerosi libri, fra cui ricordiamo quelli che sono apparsi in traduzione italiana:

“Farsi carico. A proposito di responsabilità e di identità personale” (2005)

“Come fare cose con i ricordi. Sull’utilità della memoria e sulla convenienza di rendere conto (2009)

Direi di no - saggio di Enrico Donaggio. Sintesi a cura di Elvio Balboni

Pubblichiamo con piacere la sintesi, fatta da un amico di Circolarmente, Elvio Balboni, del saggio di Enrico Donaggio (docente universitario presso la Facoltà di Filosofia di Torino che contiamo di avere come futuro relatore) dal titolo “Direi di no”. In tempi di campagna referendaria può sembrare un invito a schierarsi per il NO, ma così non è. Si tratta di una riflessione a cavallo fra filosofia e letteratura sulla necessità di opporsi alla tante ingiustizie del nostro tempo. Se poi qualche lettore troverà ragioni per orientare la sua personale scelta referendaria in un senso coerente al titolo non crediamo che la cosa possa dispiacere allo stesso Donaggio




Direi di no
                            desideri di migliori libertà
saggio di Enrico Donaggio (Feltrinelli  - Giugno 2016)
Sintesi, accompagnata da qualche riflessione, per un invito alla lettura integrale
 a cura di Elvio Balboni


Viviamo in un mondo politico, la pietà scaraventata a mare, la vita è un riflesso, la morte una maschera, ogni banca una cattedrale.
Viviamo in un mondo politico, l'unico a portata di mano è bene ordinato, non ha responsabili tocca crederci e ci crediamo.
Viviamo in un mondo politico, appena svegli ci trasciniamo, cerchiamo l'uscita più comoda, poi restiamo dove stiamo.
Mondo politico -  Bob Dylan (traduzione di Francesco De Gregori)


L’autore ha la capacità di sorprendere, non si tratta di un corposo saggio filosofico, quello che si potrebbe attendere dal docente di filosofia dell’università di Torino, invece nessuna pesantezza, neppure una nota a piè di pagina, la lettura scorre, ci prende, ci porta via una giornata, restituita con un più di leggerezza e consistenza nell’affrontare la nostra vita quotidiana.
Lo stupore si attenua per chi ha avuto modo di seguire qualche suo corso, Donaggio non si limita alla tradizionale lezione frontale, coinvolge gli studenti con relazioni, le sue lezioni si svolgono in orari frequentabili anche da lavoratori-studenti, promuove seminari interdisciplinari con altri docenti, stimola la lettura degli scritti più interessanti e forse meno conosciuti dei "maestri del pensiero".
Forte è la provocazione, resa esplicita nella domanda: Desidera ancora qualcosa?  Che dà il titolo alla quarta ed ultima parte del libro, insomma una domanda che cela un grido d’allarme: ci riteniamo così felici e soddisfatti al punto da non provare più desideri autentici? Oppure i nostri desideri sono diventati così mediocri da poter essere soddisfatti senza particolare dispendio?
L’autore avverte il pericolo della scomparsa di un tipo di uomo poliedrico, irretito dentro un'unica dimensione, quella economica, che produce felicità sempre più effimere.
Centocinquanta pagine che mettono le nostre opinioni consolidate spalle al muro, che fanno risuonare il rock di I can't get no satisfaction affiancato ad una forte  passione per il reale”, espressione ripresa dal filosofo francese Alain Badiou, per lasciarsi alle spalle la contrapposizione tra passione e ragione, e per mettere in tensione il polo dell’utopia e quello del disincanto.
Che fare? Re-agire! Reagire contro i tempi dello scoramento e dell’apatia, della delusione e dell’impotenza, della servitù volontaria e dell’assoggettamento, del nuovo furore dei crociati di tutte le religioni e dell’illimitata avidità di ricchezza e di potere.
Risentire almeno il desiderio di dire NO, no al pensiero unico, riassaporare il gusto della critica per non  inchinarsi davanti al fatto, per non accettare quello che esiste come il proprio ideale ribellarsi alla realtà non più contestabile della globalizzazione liberista espressa dall’acronimo femminile TINA (there is not alternative) non c’è alternativa anche se non è il migliore dei mondi possibili.
Tina ci accompagna nel viaggio di una vita povera di legami sociali, trascorsa come divertissement, da una distrazione all’altra, dai centri commerciali alle notti della movida, dalle pagine virtuali di Facebook colme di selfie narcisisti, ai giochi compulsivi dei nuovi cacciatori con Pokemon go.
Ma come è avvenuto tutto ciò? Cosa è successo? A quale seduzione abbiamo ceduto?
E’ accaduto qualcosa di sbalorditivo, che continuamente torna a ripetersi non solo in occasione degli EXPO’ ma tutte le volte che il consumatore medio, entrato in un moderno super-mercato del pianeta, percorre quelle gallerie dove trova una quantità infinita di merci, esposte dietro alle moderne lastre di vetro inaugurate nella Parigi dei passages di metà ottocento, dove l’oscuro oggetto del desiderio diventa letteralmente trasparente, a portata di mano, anche per quelle tasche che non possono permettersi di acquistarlo.
Per lo più l’esodo avviene di domenica, ormai consacrata al pellegrinaggio nei nuovi templi con sacerdoti mondani, i commessi, sempre disponibili e sottopagati; altri acquirenti, soprattutto i giovani inclini al software, acquistano on-line e a breve riceveranno la merce che verrà recapitata da un drone, sempre da Amazon.
(La sola Walmart, transnazionale super-market statunitense, conta 11.000 sedi in 15 nazioni, oltre due milioni di dipendenti e un fatturato di circa 450 miliardi di dollari, cioè superiore al PIL di oltre 150 paesi)
L’evento che diede inizio a tutto questo,  avvenne a Londra, al Crystal Palace, il palazzo di cristallo costruito per l’esposizione universale del 1851, e lì ripetuta nel 1862, destando una impressione enorme allo sguardo profondo e psicologico di Dostoevskij: “lì si raduna una folla sterminata e trionfante, giunta da ogni parte del globo, attratta da qualcosa di sbalorditivo, da una forza irresistibile … tante piccole statuette, nuovi falsi dei che sostituiscono il dio Baal (l’antico dio fenicio della fertilità) e come un unico gregge essi si rannicchiano e rimpiccioliscono e al moderno Baal, il dio sostituto, si inchinano” (Baal, Note invernali di impressioni estive,1863).
Questi falsi dei, queste piccole statuette, sono le moderne merci della società industriale, del consumismo e dell’opulenza, la loro forza irresistibile viene descritta da Marx come “feticcio, cosa imbrogliatissima, fatta di materia sensibilmente sovrasensibile, piena di sottigliezze metafisiche singola merce che costituisce la cellula elementare della moderna ricchezza “la ricchezza si presenta nella società capitalistica come una immane raccolta di merci” (celebre incipit del Capitale, 1867)
Il pensiero critico e maturo del rivoluzionario di Treviri e la cultura “conservatrice” del grande romanziere russo, si uniscono nella denuncia del bagliore accecante dei nuovi idoli, capaci di richiamare nella sconfinata e colossale London (capitale mondiale allora ed anche oggi con i suoi 250 grattacieli e la Borsa) un incalcolabile numero di persone giunte da ogni parte del mondo, riunite in un unico ideale in cui tutti vivono soddisfatti, o meglio: in cui tutti quanti si sforzano di convincersi di essere soddisfatti ed effettivamente felici … e li si son fermati, tutto è fermo, tutto è come deve esseresoggiogati da un unico pensierolì si sta realizzando qualcosa di definitivo”.
Note, queste di Dostoevskij, che esprimono concetti come “fine della storia e l’ultimo uomo”, banalizzati nel best seller di Francis Fukuyama, apparso dopo il 1989, dopo il crollo del comunismo reale, che fa una apologia del migliore dei mondi possibili, quello moderno del capitalismo globale, “non possiamo raffigurarci un mondo che sia essenzialmente diverso da quello attuale” , abitato dall’ homo democraticus, sostanzialmente privo di memoria e speranza, soddisfatto quel tanto che basta per assopire qualsiasi virtù timotica, che non attua nessuna denuncia delle disuguaglianze e delle contraddizioni, né immaginazione, né ribellione, che al massimo tenta di limitare i “danni collaterali”.
I contrasti laceranti della società, gli uni accanto agli altri, è come se appartenessero ad un passato remoto, come se non continuassero a ripetersi nelle moderne megalopoli, da Città del Messico a Mumbai, da Rio de Janeiro a Dubai, milioni di cloni di quei “negri bianchi” ammassati nel formicaio in quei quartieri terribili della city di metà ottocento, homeless che continuano a vagabondare negli slums e nelle favelas di oggi “una moltitudini, ubriaca, senza allegria, cupa e silenziosa … avida di preda, che si getta con cinismo sul primo che capitain una London dall’aria pregna di carbon fossile, con il Tamigi inquinato, in un apparente disordine che in sostanza è invece l’ordine borghese”.
A Dubai, simbolo della sfida tecnologica sito in un luogo invivibile, temperature da 50 gradi di calore a meno 40, dove sorge il grattacielo più alto del mondo, il 90% dei residenti sono lavoratori stranieri per la maggior parte ridotti in schiavitù; ed anche in città con disparità certamente meno accentuate e vistose, come la nostra Torino, le nuove povertà, insieme alle quasi povertà, sfiorano il 10% degli abitanti (dati Caritas) e la speranza di vita si differenzia tra i residenti della periferia con quelli del centro con un meno 7 anni (fonte Iistat).
Così un secolo e mezzo dopo la “schiavitù nera e quella salariale” (ovvero l’ordine borghese, o ordo-liberalismo, o neo-liberismo, o “nuova ragione del mondo”) continua a mietere le sue vittime, fra le tante:
·         due turni consecutivi di 8 ore alla Foxon cinese, oltre un milione di dipendenti, per assemblare i componenti Apple, luci accecanti per tenerli svegli, reti di protezione fuori dalle finestre per limitare i non pochi casi di suicidio;
·         piuttosto che le condizioni massacranti di vita e lavoro dei minatori in Senegal per estrarre il colton indispensabile per cellulari e computer;
·         piuttosto che la brutale repressione dei minatori in sciopero nella miniera di platino a Marikana – Johannesburg, là dove, il 16 agosto 2012, la polizia spara ai minatori partecipanti ad una manifestazione causando 34 morti, all’indomani di questo eccidio la multinazionale inglese Lonmin concederà 75 euro di aumento mensili anziché i 500 richiesti, così i minatori superstiti, in cambio di un lavoro massacrante, riscuoteranno una paga di 575 euro al mese.
Le altre forme che assume il lavoro sono: delocalizzazione, riduzione del salario reale e del reddito delle piccole impresa, imprese tascabili, partite IVA, realtà formalmente autonome ma spesso soggette a condizioni capestro, prive di leggi che regolamentino la sub-fornitura e i tempi di pagamento: dilaga così, inevitabilmente, la corruzione e l’evasione fiscale.
Piuttosto che contratti a termine, a chiamata, tutte realtà con minori diritti, minori tutele e scarse risorse finanziarie.
E’ così arrivato “il quinto stato”  dove “l’imprenditore di se stesso” anziché realizzarsi si scopre in altre forme sottomesso, dove i pochissimi personaggi che arrivano al successo si contano con le dita di poche mani, e sono quasi tutti figli delle elites.
Le disuguaglianze di reddito e patrimoni sono tornate ad essere quelle di inizio novecento, a tutti i livelli, in ogni luogo del pianeta:
·         il due/terzi della popolazione mondiale possiede il 3% della ricchezza totale, mentre l’8% ne possiede più del 80%, in questo solo dato si incarna la società dell’opulenza;
·         il 40% della popolazione mondiale vive con un solo dollaro al giorno, mentre lo 0,7% più ricco, circa 35 milioni di persone, si accaparra il 41% della ricchezza totale cioè 99 trilioni di dollari (dati centro studi Credit Suisse al 2012).
Una  realtà sociale in stridente antitesi con il primo articolo della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” della rivoluzione francese:  le distinzioni sociali non possono che fondarsi sull’utilità comune” Parigi 1789.
Donaggio non si dilunga sui dati sopra riportati ed i riferimenti alle innumerevoli metafore sono stringati, percorre a volo radente gli aspetti più vivi dei grandi pensatori, i quali, come abbiamo visto, avevano ben presente le condizione materiali di vita della classe operaia e del popolo, parte dalla necessità di ridefinire i concetti di “critica” e di “libero pensiero” .
Nel primo capitolo dal titolo "Pietà per i mostri"  invita a non separare l’indispensabile coerenza critica dalla necessaria pietas nei confronti di coloro che praticano, o subiscono, le ideologie dominanti, perché così facendo si cadrebbe nell’errore più grave: una divisione manichea tra bene e male, ma al tempo stesso sollecita a non limitarsi al "tutti hanno il diritto alle proprie opinioni" che rivela una tolleranza ipocrita dietro la quale si celano conformismo e indifferenza.
“Critica“ è senza dubbio l'espressione più usata da Karl Marx, sin dai primi scritti sulla filosofia del diritto di Hegel, (la Sacra famiglia”, scritta con Engels, ha come sottotitolo “Critica della critica critica”,  nel 1859 pubblica Per la critica dell'economia politica” ,la sua opera più famosa, “Das Capital”, nel sottotitolo specifica nuovamente “Critica dell'economia politica”.
Donaggio, nell’esaminare gli scritti giovanili di Marx, sottolinea che "il suo pathos essenziale è l'indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia" e precisa "la critica non è la passione del cervello, è il cervello della passione": dal pathos al logos.
Come primo step, pone quindi l'accento sulla critica che Marx rivolge alla religione il "presupposto di ogni critica”, essa rivela che il mondo in cui viviamo è un mondo capovolto, nel quale sono le cose che dominano gli uomini, è il capitale che li comanda, non si tratta di un mondo naturale, è un mondo politico, con le sue relazioni sociali e istituzionali e la storicità dei suoi modi di produzione.
La religione da un lato è la coscienza capovolta di questo mondo, gli uomini vivono a testa in giù con dentro idee false, falsi idoli e dogmi superstiziosi, promesse di salvezza nell'al di là per compensare una vita di sacrifici e sopportazioni, per altro verso è "religione della vita quotidiana" dove i concetti di alienazione e feticismo rivelano una sottomissione non più a Dio, ma agli stessi oggetti creati dalla mano dell'uomo, le moderne statuette sostituti del dio Baal.
Non basta cambiare le coscienze, esse sono il riflesso di un mondo capovolto che genera il bisogno di oppio, che produce le religioni.
Ciò che conta è cambiare il mondo, non solo interpretarlo come fino ad ora hanno fatto i filosofi, occorre una forza materiale che susciti la partecipazione delle masse, una passione per il reale capace di far agire le armi della critica con la stessa potenza della critica delle armi, in modo tale che la critica delle armi sia l'ultima delle possibili scelte, un pensiero radicale memore che "la radice per l'uomo è l'uomo stesso".
Secondo step: il libero pensiero, l’emancipazione kantiana, la fuoriuscita dallo stato di minorità che l’uomo deve imputare a se stesso, senza la guida di un altro, autorità o tradizione, sono ciò che si deve intendere per “Illuminismo”: pensare con la propria testa, tenere la schiena dritta.
Terzo step: il rifiuto a considerare il reale come ciò che appare nella sua struttura immediata e quotidiana, occorre andare oltre il determinismo economico per cogliere "il disagio della civiltà",  sulle orme di Freud, ossia il “remoto segreto”, ma senza illuderci, ricadendoci, né con il “sol dell’avvenire” né con “le magnifiche e progressive sorti”  poiché “la storia non lavora più per noi”,  consapevolezza già colta da Pasolini nella bellissima poesia “le ceneri di Gramsci” e nella critica all’idea di progresso raffigurata nell’angelo della storia di Walter Benjamin.
Il secondo capitolo Da lontano nessuno è normale rovescia la nota frase dello psichiatra Basaglia “visto da vicino nessuno è normale”, che potete trovare scritta sul muro salendo la scala di ingresso del Caffè Basaglia, circolo ARCI di Torino, luogo di interessanti occasioni culturali e conviviali.
La distanza dagli accadimenti fu necessaria per l’avvio della riflessione filosofica.
Oggi è ancora possibile osservare il naufragio, metafora del tumulto storico, dalla terra ferma sulla quale poggiano i piedi ben saldi (episteme) di Lucrezio, forte della filosofia di Epicuro? Non siamo ormai tutti dentro la stessa barca?
Esposti alle intemperie in mare aperto come esplicita Pascal?
Nel pianeta non vi sono più luoghi incontaminati, irraggiungibili, sconosciuti, immuni da altri accadimenti, tutti siamo coinvolti in tutto ed è sempre più difficile raggiungere un porto sicuro dove fermarsi per riparare la nave.
Possiamo limitarci a interpretare il mondo senza porci l’obiettivo di cambiarlo? 
Non corriamo così il pericolo che il mondo continui a cambiare senza di noi? Senza la presenza in esso della specie umana?
E per converso una simile lontananza non ci preclude una comprensione autentica degli accadimenti relegandoci nella torre d’avorio del distacco intellettuale?
La lettura di questa seconda parte fa sorgere un flusso continuo di domande, non vi  anticipo i contenuti, vi lascio alla piacevole lettura.
Nella terza parte, la sindrome di Montecristo,  Donaggio mette in evidenza il fatto che tutti viviamo come se ci trovassimo rinchiusi dentro ad una unica fortezza, prigione e gabbia, le cui pareti  sono però diventate fluide e avvolgenti consentendo una prigionia confortante, metafora di una società nella quale più trascorre il tempo della nostra presenza in essa, più diventa difficile scorgere una via di fuga.
Il racconto cui si fa riferimento e da cui trae spunto è “Il conte di Montecristo” , però non quello originario di Dumas, ma quello, assai breve, rivisitato da Italo Calvino: in esso  Edmond Dantes e l’abate Faria escogitano differenti ed opposte strategie di evasione, contrapponendo razionalità esasperata e prassi ostinata, due vie di uscita alternative ma nel contempo tra di esse coessenziali in un intrigante rapporto per riuscire a lasciarsi alle spalle la fortezza di IF, sita nella baia di Marsiglia, a poca distanza da quelle meravigliose Calanques, luoghi di una arrampicata plasir immersi nella splendida natura mediterranea.
Questa voglia di riscatto, di libertà, di ricchezza di vita, simbolo di una società priva di muri e ricca di tesori nascosti e di nuove opportunità, finirà per rovesciarsi nel fallimento del socialismo reale, nel progressivo spegnersi della spinta propulsiva fino al suo inevitabile crollo: “è questa l’ossessione di chi si è considerato di sinistra, … dalla presa della Bastiglia alla caduta del muro di Berlino.”
Nel breve racconto di George Steiner Il correttore” si svolge un intenso dialogo tra alcuni compagni italiani, prima nel P.C.I. poi espulsi perché accusati di troskismo e anarchismo, capaci però di cogliere l’essenza nefasta e suicida del socialismo reale.
Padre Carlo, l’unico prete tra i compagni della cellula e Tullio, il correttore di bozze dalla cura maniacale per correggere gli errori, detto il Professore, non si arrendono all’idea che una gloriosa storia di lotte degli oppressi, una storia di sconfitte riscattate dalla rivoluzione, di tante vite spese per il nobile ideale di “liberi tutti, qui ed ora“, si sia rovesciato in tragedia per milioni di persone.
Come è potuto accadere? Perché?
Carlo si aggrappa al messaggio di Cristo, al senso delle sconfitte legato al millenarismo, al futuro riscatto, alla redenzione, una escatologia cristiana e proletaria, la nuova Gerusalemme sempre posticipata “nell’indomani, dopo l’indomani di domani”.
Tullio lo interrompe tagliente: “sai che cos’è realmente il socialismo? E’ impazienza. Impazienza. Ecco cosa è il socialismo, la furia dell’adesso”.
Volere la liberazione dell’uomo e la realizzazione del socialismo ad ogni costo, pensare l’utopia come perfezione, impone una sorta di assurda ortopedia: pretendere di raddrizzare quel legno storto che è l’uomo con la violenza.
Per anni non si seppe che nella Cina di Mao per superare la produzione dell’acciaio inglese i passeri divennero i nuovi nemici di classe: con l’obiettivo di incrementare il raccolto agricolo per sfamare i lavoratori dell’industria furono infatti sterminati milioni di passeri, ma così facendo si diede spazio al riprodursi di altri animali ed insetti ancor più nocivi per il raccolto ed in pochi anni circa trenta milioni di cinesi morirono di carestia.
Queste argomentazioni di “Direi di no,” si rivolgono contro tutte le forme di asservimento e di sfruttamento e contro le scorciatoie che eliminano le libertà, mettono in guardia dai dogmi che si celano sotto le vesti del missionario o del rivoluzionario di professione, entrambi  auto-proclamati liberatori di noi tutti in realtà coltivano la morale del gregge.
L’espressione Direi di no, me ne ha immediatamente ricordata un'altra, “i would prefer not to”  avrei preferenza di no.
Questo è il modo, secondo alcuni critici, un po’ manierato e laconico, di Bartleby (Bartleby lo scrivano di Herman Melville, lo scrittore conosciuto per il celebre romanzo “Moby Dick”) di declinare tutti gli inviti a lui rivolti dall’avvocato per il quale lavora per svolgere lavori d’ufficio che non si scostano “dall’usuale pratica di un copista e dal comune buon senso”.
Si tratta solo un formale manierismo? O piuttosto, come sostengono altre interpretazioni, un mite, ma risoluto e irrevocabile NO? Oppure ancora nasconde un energia potenziale che si esprime con maggior forza nel silenzio anziché nella parola o nella scrittura?
Per Bartleby pare non esistere più alcuna possibilità di salvezza, appena dietro al suo luogo di lavoro, come dietro lì l’ufficio” di ciascuno, non vi è che l’immagine di un deserto, solitudine, atomismo e desolazione, sono gli effetti dell’utilitarismo economico che prosciuga e dissolve i legami sociali da ogni linfa vitale.
Questa inerzia, questo riserbo, è ciò che l’utilitarismo considera il male del mondo, la non immediata disponibilità, le pause, l’ozio, la vita senza scopo produttivo, il pensiero che riposa silenziosamente in noi.
Il rifiuto di Bartleby è un amara decisione, esprime la volontà di preservare la nostra irriducibile individualità dall’uniformità dei deserti, che incontriamo appena fuori mettiamo il naso fuori dal nostro ufficio, una società che si rivela sempre più insensata, nella quale finiamo per condurre una vita appiattita sulla dimensione economica, abitudinaria, banale, ripetitiva, piatta, inconsistente.
E’ nei confronti di questa non-vita che Ismahel in Moby Dick sceglie, per netta opposizione, una vita avventurosa, imbarcandosi sulla Pequod alla scoperta del globo terracqueo per scacciare lo spleen , la noia, la malinconia e l’umor nero.
Invece per l’anima sofferente dello scrivano Bartleby non rimane che il ritiro dal mondo e dalla vita, con imperturbabile dignità.
La sesta ed ultima delle sei lezioni previste per l’università di Harvard,  le Lezioni americane,  Italo Calvino, non poté tenerla per l’improvvisa morte, il titolo previsto era Consistenza,  sappiamo che avrebbe fatto riferimento a Bartleby.
E’ la mancanza di consistenza che accomuna i reiterati avrei preferenza di no di Bartleby e il direi di no a questa situazione, per puntare a migliori libertà, di Donaggio.
Italo Calvino propone, nel ciclo delle Lezioni Americane, soprattutto due opzioni culturali: leggerezza e consistenza, la prima e l’ultima delle sei riflessioni magistrali.
La leggerezza del volo di Perseo contro l’insostenibile peso dell’esistenza, la capacità di non guardare Medusa in modo diretto ma solo nel riflesso dello scudo, altrimenti ne rimarremmo pietrificati, così come succede a coloro che idolatrano gli dei, rappresenta la premessa per un altro approccio al mondo: “devo invece cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”.
Non farsi schiacciare dal peso della materia, questa è la preoccupazione di Lucrezio, gli atomi invisibili di Epicuro dissolvono la compattezza del mondo, e le loro declinazioni libere e casuali consentono al Marx della tesi di laurea di preferirlo al rigido determinismo di Democrito.
Si tratta di una leggerezza gaia e pensosa, che si associa con la precisione e la determinazione, e non con la vaghezza e l’abbandono al mero caso, allo stesso modo della scelta del percorso da seguire e della rapidità del gesto che compie l’alpinista per sottrarsi alla forza di gravità.  
Donaggio nel libro non fa alcun esplicito riferimento a Bartleby o alle “Lezioni americane” di Calvino, ma sono evidenti le affinità accompagnate da qualche divergenza, ritroviamo infatti nel suo argomentare un atteggiamento più risoluto nella negazione ed una forte critica all’ideologia neo-liberista estesa alle politiche di austerità, all’inclusione dei pareggi di bilancio nella costituzione, alle forze politiche di sinistra per la loro subalternità alle idee dominanti, sia nella versione social-democratica ridotta alla gestione dell’esistente, sia in quella radicale che però si limita di fatto alla testimonianza, alla rendita di posizione.
Insomma per entrambe si può dire:  “di rosso soltanto l’ombra”.
La differenza sostanziale, con l’atteggiamento dello scrivano Barteby, poggia però soprattutto sulla consapevolezza della necessità di passare da una presa di posizione del singolo, irrinunciabile nella sua libertà e individualità, alla costruzione di una presa di posizione collettiva se posso dirla con il filosofo  esistenzialista Albert Camus: “mi rivolto, dunque siamo”.
Saremo capaci di affiancare leggerezza e consistenza alla posizione critica di Direi di no perché diventi, come auspicato da Donaggio, un “primo gesto di autostima” al quale potranno così seguire dei SI in grado di farci superare quella condizione malinconica dovuta alla perdita del “sogno di una cosa” , evitando in tal modo di ricadere sia nella furia dell’adesso sia nell’attesa messianica della terra promessa?

Rivoli, settembre 2016.                                                                                 Elvio Balboni