domenica 24 febbraio 2019

Relazione sulla conferenza di Lorenzo Gianotti - a cura di Enrica Gallo


Relazione sulla conferenza di Lorenzo Gianotti (già Senatore della Repubblica)

UN SECOLO DI RUSSIA:
DALLA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA 
A  PUTIN

Presentazione:

A nome di CircolarMente, Massima Bercetti porge un caloroso benvenuto ad un relatore ben conosciuto dal pubblico, sia per il suo percorso politico – è stato parlamentare e Senatore della Repubblica per tre legislature, prima per il PCI e poi per il PDS - che per la sua attività di studioso, in cui si è occupato in modo approfondito della Russia (si fa menzione in particolare del suo libro più recente, scritto con Nicola Lombardozzi e intitolato “Un secolo di Russia. 1917 – 2017 – Dalla rivoluzione bolscevica a Vladimir Putin”). Con il dott. Gianotti  si intendono per l’appunto affrontare alcune questioni relative alla situazione attuale di questo paese, che non a caso è stato inserito come importante tema culturale e geopolitico nel programma annuale dell’Associazione, intitolato “Futuri”. Si è tenuto conto infatti di alcuni elementi, che vengono ora evidenziati da Massima Bercetti con un movimento in tre mosse, come aprendo una di quelle matrioske che rappresentano una delle più conosciute immagini simbolo della Russia. In primo luogo, si fa riferimento alla nuova aggressività della politica putiniana, estesa sia nell’area medioorientale che nei confronti della Crimea e di altri paesi limitrofi, andando in qualche modo a mettere in discussione quelli che erano i limiti, i patti, i confini e le stesse istituzioni nate alla fine del secondo conflitto mondiale. Un elemento di cui non possiamo non tenere conto, e da cui emerge una prima domanda: ci sarà la Russia, nel nostro futuro? Più dinamismo, più ingerenze, più aggressività, anche nei confronti dell’Europa? La seconda motivazione è relativa invece al recente avvicinamento al Cremlino da parte delle destre radicali e sovraniste europee, e allo sguardo alquanto benevolo che alcune di esse hanno certamente ricevuto in cambio, il che ci spinge di nuovo a chiederci quanta Russia ci sarà nel nostro futuro, nelle nostre iniziative commerciali, nei nostri meccanismi decisionali. Ma è nell’ultimo di questi elementi che si cela, secondo Massima Bercetti, il vero nocciolo – la bambolina interna, più piccola ma non meno importante: esso è emerso infatti dalla lettura del testo breve ma denso del dott. Gianotti, in cui si dà rilievo all’analisi  di un romanziere, Vladimir Sorokin, secondo il quale  la Russia soffre di una patologia della memoria,  una “ecmnesia” intesa come un atteggiamento in cui ci si distanzia dal presente, lo si dimentica, si confonde in qualche modo il presente con il passato facendolo coincidere con il futuro. Una tendenza che secondo Sorokin nasce dalle difficoltà che il paese incontra nella sua politica interna e lo fa sprofondare lentamente in un passato millenario e favolistico. Lo stesso, osserva Massima Bercetti, che sembra attirare alcune delle nostre forze politiche che guardano con nostalgia ad un passato di fatto mai esistito, come se da esso potesse nascere un nuovo e più allettante futuro. Motivazioni molteplici dunque, sulla base delle quali è stato richiesto l’intervento del dott. Gianotti come persona particolarmente adatta a confrontarsi con il pubblico di CircolarMente su questi temi.   
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UN PAESE CON LO SGUARDO RIVOLTO AL PASSATO?
RITRATTO IN CHIAROSCURO DEL “PIANETA RUSSIA”

Nella sua ampia e chiara relazione, il dott. Gianotti ha inteso soprattutto porre l’attenzione sulle somiglianze e sulle differenze che si evidenziano fra la Russia attuale e quella storica: la Russia rivoluzionaria per intanto, da cui è emersa quella che per lungo tempo abbiamo conosciuto come l’Unione Sovietica, ma anche la Russia zarista. Un confronto che a suo giudizio può dare alcune utili indicazioni per comprendere il presente, e che naturalmente va affrontato su diversi piani, da quello sociale ed economico a quello politico-istituzionale e ideologico, dalla cui lettura possiamo evincere un quadro per molti aspetti problematico e contradditorio. Vediamoli dunque separatamente, seguendo il suo discorso.
 Il piano sociale ed economico:
Cominciamo dal piano sociale, in cui le differenze che possiamo riscontrare rispetto al recente passato sono davvero astronomiche. Nella vecchia Unione Sovietica, come sappiamo, la proprietà privata non esisteva e le differenze di reddito fra le varie categorie della popolazione erano estremamente limitate, mentre oggi si riscontra che l’1% della popolazione possiede il 75% della ricchezza del paese, e che una fascia molto ampia di essa, stimata attorno al 25%, vive in condizioni di povertà. Manca inoltre una politica di redistribuzione del reddito, in quanto è prevista una sola imposta del 13% uguale per tutti (non è certo un paese dove si toglie ai ricchi per dare ai poveri, commenta il dott. Gianotti) e in aggiunta non ci sono dei sindacati che possano assumere la difesa dei lavoratori. Giusto chiederci, dunque, come sia vissuta questa sperequazione da parte della popolazione, e se essa dia adito o no a proteste di una certa entità. Questo è successo in effetti di recente per via dell’innalzamento dell’età pensionabile (dai 55 anni ai 60 per le donne, dai 60 ai 65 per gli uomini) che ha dato il via ad una protesta diffusa, ben comprensibile se teniamo presente che le prospettive di vita sono in Russia molto più basse che in occidente (66 anni, per gli uomini). Il trattamento pensionistico è inoltre di bassa entità, il che obbliga spesso i lavoratori a continuare l’attività per riuscire ad avere un livello di vita almeno decente. Se poi dal piano sociale ci spostiamo a quello economico, troviamo una situazione sotto molti aspetti contradditoria. Intanto, di fronte ad un prodotto interno lordo grosso modo simile a quello italiano, abbiamo un controllo statale fortissimo e una presenza davvero impressionante dei cosiddetti “oligarchi” legati al potere politico; dobbiamo inoltre rilevare che sulla situazione economica generale c’è una forte incidenza della corruzione. Ci sono sicuramente fonti importanti di ricchezza, che per il paese derivano per il 70% del suo export dal petrolio e dal gas di cui il territorio russo ha ampie riserve, ma l’industria manifatturiera è ancora debole, e non pare abbia dato esito particolarmente brillante il tentativo di incrementarla, dopo la rottura con l’Occidente, con prodotti sostitutivi. Ha invece una buona tenuta il settore cerealicolo (la Russia è ancora oggi uno dei maggiori esportatori di grano al mondo), anche se deve importare dall’estero, in particolare dall’Africa e dall’Asia, buona parte degli altri prodotti alimentari.
Il piano istituzionale e politico:
Se invece esaminiamo la situazione dello Stato possiamo riscontrare un riavvicinamento fra la situazione odierna e quella che caratterizzava il periodo precedente. Permane infatti una tendenza che viene definita dai teorici come “la verticale del potere”, intendendo con questa espressione un processo per cui il potere decisionale viene fatto discendere dall’alto verso il basso, dal Cremlino al più remoto dei villaggi, secondo una logica centralistica assoluta.
Non ci sono più in effetti dei veri e propri partiti che possano raccogliere le istanze sociali ed agire come mediatori istituzionali: ci sono bensì dei candidati che si presentano alle elezioni, ma questo avviene entro una cornice organizzativa estremamente condizionante (la loro possibilità di partecipare deve essere infatti convalidata da una commissione nominata dal governo, e sottostare a criteri rigidi e alquanto scoraggianti). Ma più ancora di questi elementi, già di per sé sufficientemente illuminanti per cogliere l’atmosfera non proprio liberale del paese, va registrata un’idea  “complottista” largamente diffusa secondo la quale il mondo intero, e in particolare l’Occidente, è ostile alla Russia, il che porta ad una esaltazione massima del tema della sicurezza (pensiamo, osserva il dott. Gianotti, al fatto che le ONG non direttamente dipendenti dallo stato sono inserite nella categoria degli “Agenti stranieri”); è stata inoltre istituita di recente una Guardia Nazionale alle dirette dipendenze di Putin, composta da  340.000 uomini e con attrezzature militari di tutto rispetto. Questa atmosfera generalizzata fa sì che l’opposizione sia davvero sotto scacco e che la possibilità di sviluppare forze non subordinate al potere, e capaci di intervenire con iniziative proprie, sia davvero scarsa: gli oppositori del regime sono costantemente sotto sorveglianza, le manifestazioni sono vietate o represse quando nonostante tutte le difficoltà si riesce ad organizzarle. Se poi prendiamo atto del fatto che la magistratura è in Russia direttamente dipendente dall’esecutivo - il che viola, come ben sappiamo, uno dei principi fondamentali dello stato di diritto – vediamo bene che ci troviamo di fronte ad una “democrazia sovrana” che inibisce il pluralismo politico, riavvicinandosi non solo al passato marxista-lenilista, ma addirittura per certi versi a quello zarista, come se ci fosse una linea di continuità fra momenti storici pur apparentemente così diversi.
Il piano ideologico:
Per definire meglio questa situazione può essere utile portarci sul terreno dell’ideologia. Se infatti riflettiamo su quali possano essere i comuni fondamenti di questi diversi passati storici, troveremo un trinomio basato sull’ortodossia (intendendola qui sotto l’aspetto religioso, per quanto questo fosse assente nella Russia sovietica), sull’autocrazia sul piano del potere politico e sul nazionalismo, che è sempre stato percepito come indispensabile elemento unificante di un insieme altrimenti dispersivo e caleidoscopico di etnie e di popoli. Parole antiche, osserva il dott.Gianotti, che però connotano ancora  il presente della Russia.
Sappiamo infatti che l’alleanza fra stato e chiesa ortodossa è molto stretta (se può essere in qualche misura folkloristico registrare che Putin, ex ateo del KGB ora redento, abbia un confessore personale, è più preoccupante venire a conoscenza del processo che di recente è stato istituito contro un cittadino danese residente in Russia, con l’accusa di proselitismo in quanto Testimone di Geova). La legge statale stabilisce infatti una netta differenza fra le confessioni religiose considerate nazionali (in primis quella ortodossa, seguita dalla musulmana e dalla buddista) e quelle che vengono definite “straniere”. Quanto all’autocrazia, è parola che può ben ancora definire, secondo il dott. Gianotti, il nuovo potere putiniano, mentre il centralismo trova una nuova versione in quella “verticale del potere” cui abbiamo già fatto accenno (il partito di Putin, Russia Unita, domina la Duma e fornisce praticamente tutto il personale politico, dai ministri ai sindaci). Che cosa è rimasto dunque della Russia rivoluzionaria, nella Russia di oggi?  Una domanda questa che spesso gli viene posta nel corso dei suoi interventi pubblici, a cui ora risponde anticipatamente attraverso alcuni esempi quanto mai illuminanti per rendere l’idea di uno “stemperamento”, più che una vera e propria cancellazione.  Se è vero  infatti che la salma di Lenin ancora riposa nel grande mausoleo della Piazza Rossa, non è privo di nota il fatto che nel 2016 lo stesso Putin abbia inaugurato con grande enfasi un mausoleo dedicato al principe Vladimir,  come colui che nel  988 ha introdotto il cristianesimo nel paese; e ancora non è irrilevante che  la data del più importante giorno festivo sia stata spostata dal 7 novembre, anniversario della rivoluzione d’ottobre, al 4 novembre, celebrando la cacciata dell’esercito polacco da Mosca avvenuta nel 1617. Aggiungiamo a ciò la rivalutazione di Stalin, che può apparirci sorprendente se pensiamo ai crimini di cui si è reso responsabile: eppure, in un recente sondaggio di opinione in cui è stato chiesto ai partecipanti di indicare le personalità mondiali di maggiore gradimento, il suo nome appariva ai primi posti. Si parla inoltre il meno possibile dei campi di concentramento: gli archivi sono chiusi, e coloro che più si attivano per riaprirli vengono giudicati al pari di agenti stranieri, come se questo fosse paragonabile ad un atto di sabotaggio.
La politica estera:
In questa ricostruzione, pur succinta, non può mancare naturalmente l’analisi delle ambizioni geopolitiche di cui la Russia di Putin ha dato ultimamente più di una prova. Non è infatti un caso, osserva il dott. Gianotti, che Putin già all’indomani della sua ascesa al governo del paese abbia dichiarato che la scomparsa dell’URSS andava vista come la più grande tragedia del secolo: tutta la sua azione politica è infatti visibilmente intesa a recuperare la potenza che il riferimento a quel passato evocava. Parlare di politica estera significa peraltro distinguere due diversi fronti. C’è intanto un estero “vicino”, rappresentato dalle 14 repubbliche che un tempo facevano parte dell’Unione sovietica: di esse le tre baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) sono ormai da tempo fuori dall’influenza russa, mentre con le tre caucasiche (Georgia, Azerbaigian e Armenia) i rapporti sono più problematici (buoni con l’Armenia ma pessimi con la Georgia). Più ambiguo e complesso il rapporto con la Cina, con cui c’è stato un avvicinamento dopo la rottura con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, in seguito all’annessione della Crimea. Restano però alcuni elementi di difficile composizione, fra cui il fatto che la Cina come attore politico è relativamente nuovo, ma è già ora un gigante economico mentre la Russia, nonostante le sue ambizioni, quanto ad economia e sviluppo tecnologico è indietro rispetto sia alla Cina che ai paesi occidentali. Restano poi aperti alcuni forti motivi di contesa dovuti principalmente all’intervento economico cinese nell’Asia centrale, dove ci sono alcune delle repubbliche che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica, il cui territorio è ricchissimo di combustibili fossili. Quello che più ha colpito di recente gli osservatori occidentali in prospettiva geopolitica è peraltro il nuovo attivismo russo in Medio Oriente, il cui successo, secondo il dott. Gianotti, non è solo dovuto al fatto che sul piano militare la Russia dispone di un notevole arsenale, se pure ancora inferiore a quello degli Stati Uniti, ma alla scarsa volontà contrastiva dimostrata proprio dal suo antagonista storico.
Il rapporto con l’Europa e in particolare con l’Unione Europea:
Qui la situazione è per molti versi curiosa. Da un lato la Russia è il nostro principale fornitore di gas, ed è dunque fondamentale per soddisfare il nostro bisogno energetico, ma dall’altro i rapporti con l’Unione Europea si sono profondamente incrinati per via delle tendenze annessionistiche della Russia (la questione ucraina). In questa incrinatura la Russia si sta muovendo abilmente, sfruttando a proprio vantaggio la situazione politica problematica che sta vivendo la UE: cerca dunque rapporti diretti con i singoli stati oltrepassando l’Unione, e punta a stabilire buone relazioni con le forze che nei paesi occidentali si pongono in modo antagonistico e conflittuale con l’Unione stessa, in qualche caso finanziandole direttamente. In questo atteggiamento peraltro, secondo il dott. Gianotti, non c’è soltanto l’applicazione del vecchio adagio per cui “i nemici del mio nemico sono miei amici”, ma anche una indubbia concordanza di idee, di principi ideologici, di sentimenti nazionalistici e identitari. Come in alcuni paesi dell’est europeo, prima di tutti l’Ungheria di Victor Orbàn - il teorico della “democrazia illiberale” che è poi una democrazia svuotata della sua essenza – prevale nella Russia di Putin il culto della tradizione, che si accompagna all’ostilità verso tutte quelle forme di libertà civili e di diritti della persona che sono state la conquista della modernità (per fare un esempio, l’omosessualità costituisce un reato punibile per legge); il sentimento nazionale e patriottico è molto forte, non solo perché sostenuto da un perfetto apparato propagandistico (tutte le televisioni e le principali testate giornalistiche sono praticamente asservite al potere) ma perché in effetti si posa su di una mentalità che ha radici popolari profonde (la Grande Madre Russia), e che si è presumibilmente formata sulla necessità di un forte collante ideale e patriottico che tenesse insieme un paese così composito. Un mondo diverso dal nostro, dunque, quello che ci troviamo di fronte, quasi “un mondo parallelo” (come ha avuto occasione di osservare Angela Merkel dopo un incontro con Putin, riscontrando nel loro colloquio   la mancanza di riferimenti comuni su quanto accade nel mondo). Ed è proprio qui che si pone, secondo il dott. Gianotti, quell’idea di “ecmnesia” cui ha fatto riferimento Massima Bercetti nella sua introduzione alla conferenza e che ora il relatore riprende chiudendola: la tendenza cioè a pensare il presente come fosse il passato, che è cosa a suo giudizio assai pericolosa, su cui conviene davvero interrogarsi.

INTERVENTI DEL PUBBLICO E APPROFONDIMENTI

Molti gli interventi e le domande da parte di un pubblico numeroso e attento, con cui il dott. Gianotti ha avviato un dialogo molto aperto. Qui ci permettiamo peraltro di sintetizzarne solo brevemente i temi, al di là delle modalità e dell’ordine con cui sono stati richiamati all’attenzione del relatore, cercando di mettere in luce gli elementi utili di approfondimento relativi al piano storico e a quello sociale e istituzionale.
Sul piano storico:      
Alcuni interlocutori hanno chiesto al relatore di confrontarsi con quelle figure che hanno segnato a loro giudizio una tappa importante nel processo di modernizzazione del paese e di sia pure parziale evoluzione democratica. Gorbacev, in primis, di cui il dott. Gianotti ha riconosciuto la sincera volontà di trasformazione democratica, vanificata peraltro dal fatto di essere tardiva rispetto ad un sistema che si era ormai troppo slabbrato (pensiamo a Chernobyl!) così che la “glasnost” si è conclusa con un sostanziale fallimento; e ancora prima Kruscev, che certamente ha avuto a suo giudizio grandi meriti nella modernizzazione del paese: oltre alla denuncia dei crimini staliniani e alla chiusura dei campi di concentramento, ha avviato infatti riforme importanti procedendo per  balzi improvvisi, come era nel suo stile - non era certo un intellettuale dal pensiero lungo,  ma poteva contare su di un sano pragmatismo contadino. In effetti la sua defenestrazione è stata opera degli apparati burocratici ostili ad ogni cambiamento, che hanno aperto la strada alla presa del potere da parte di Breznev.
Sul piano politico, sociale e istituzionale:
Nella maggior parte degli interventi peraltro si è tornati ai temi impostati nella conferenza, in qualche caso per confermare, da parte di quegli interlocutori che hanno avuto un’esperienza diretta della situazione russa, quella sorta di rassegnazione al potere da parte della popolazione le cui origini, secondo il dott. Gianotti, posano su di un senso della patria davvero dominante rispetto ad altri valori (per esemplificare ulteriormente queste considerazioni, ricorda quanto è successo nel 42, quando di fronte alla minaccia tedesca Stalin ha aperto i campi di concentramento per trasformare in soldati coloro che vi erano imprigionati – più di un milione di persone, la maggior parte delle quali erano state vittime di una persecuzione tanto implacabile quanto ingiusta. Eppure non ci fu alcuno fra loro che pensasse ad una ribellione, nel momento in cui la patria era in pericolo). Viene anche evidenziata, da parte di chi ha avuto diverse occasioni di confrontarsi con interlocutori russi, una vera e propria paura delle idee di minoranza, considerate portatrici di un potenziale pericolo; è probabilmente questo atteggiamento a far sì che una buona parte della società civile, in cui dovrebbero risiedere gli anticorpi all’involuzione democratica del regime, giustifichi in qualche modo le limitazioni alla libertà. Occorre peraltro tenere conto, osserva il dott. Gianotti, che i pericoli delle opinioni di minoranza non sono solo potenziali, perché chi le esprime va incontro a situazioni alquanto spiacevoli! E forse è anche utile ricordare che la vasta pletora dei dipendenti pubblici gode di alcuni privilegi (uno dei quali è sicuramente quello di poter contare su diverse possibilità corruttive) il che li rende in generale poco propensi ad una attitudine di cambiamento. Il tema della società civile ritorna ancora nelle parole di chi, facendo riferimento alle tesi di Gramsci secondo il quale la rivoluzione russa è avvenuta con quelle particolari modalità proprio perché nel paese la società civile di fatto non esisteva, si chiede che segni essa dia, oggi, della propria esistenza. In effetti, secondo l’esperienza del  dott. Gianotti, non si può dire che essa non esista, tutt’altro: ci sono moltissime persone in Russia che hanno studiato, che viaggiano, che hanno esperienza del mondo, ma il sistema è imperniato su di una sorta di imbrigliamento che non ci consente di parlare di una vera e propria opposizione e che comunque non assume connotati radicali, anche quando si esprime. I pochi giornali di opposizione prendono infatti principalmente di mira gli alti funzionari del partito e la corruzione governativa, ma difficilmente toccano Putin che in qualche misura simboleggia la patria e l’unità del paese, diventando così intoccabile.
Sul piano economico:
Pur nel quadro di un sistema per molti aspetti contradditorio, quale è stato esposto nella conferenza, ha destato comunque un certo sconcerto in uno degli interlocutori la rapidità con cui il tessuto economico e sociale ha potuto passare dalla negazione della proprietà privata alla concentrazione oligarchica. In effetti, secondo il dott. Gianotti che riprende ora il discorso, si è trattato di un’appropriazione totalmente indebita che è avvenuta fuori da ogni regola e che è stata compiuta con la protezione del potere politico dagli alti funzionari dello stato e del partito, spesso vicini allo stesso Putin (senza dimenticare peraltro il ruolo giocato dalla criminalità organizzata). Il relatore fa comunque notare come la stessa vicinanza al potere, che ha permesso che ciò avvenisse senza mai essere legalizzato, comporti tanto rapide ascese quanto cadute rovinose, nel momento in cui il potere cambia di segno (pensiamo, dice, a Khodorovskij, che è stato per un certo tempo l’uomo più ricco della Russia per essere poi accusato di evasione fiscale e peculato, reati per cui sta scontando otto anni di carcere in una prigione siberiana…).  Si tratta comunque di un elemento di grande debolezza del sistema, oltre che di grande ingiustizia. Fra gli interventi che si riferiscono a temi economici, segnaliamo ancora la richiesta di approfondire il rapporto della Russia con quelli che consideriamo elementi tipici della modernità, da Internet ai vari dispositivi digitali e all’alta tecnologia in genere. Alcune osservazioni interessanti vengono in questo caso forniti da chi, esperto del ramo, ha avuto occasione di approfondire questo aspetto e si sente pertanto di affermare che se pure un ritardo c’è stato rispetto all’occidente, esso è stato brillantemente colmato (non sempre in effetti il ritardo è dannoso, si impara anche dagli errori altrui!): a quanto ha potuto notare, le nuove infrastrutture sono di ottimo livello come in generale quelli che abbiamo definito come elementi fondanti della modernità, da Internet all’alta velocità alla potenza di calcolo ecc…
Sul piano del rapporto con l’Europa:
Poniamo in ultima posizione un tema che in realtà ha aperto la discussione, perché ci sembra adatto a concludere questa breve rassegna di interventi in quanto si riallaccia idealmente ad una delle domande da cui si è partiti (“C’è la Russia nel nostro futuro?”).  Muovendo da alcune riflessioni sull’equiparazione sul piano storico e concettuale fra l’esperienza storica del nazismo e quella del  comunismo, che gli pare fuorviante (anche se naturalmente possono ben essere accostati  nelle atrocità compiute), un interlocutore ha posto infatti il tema del rapporto fra Europa e Russia chiedendosi se non sarebbe davvero il caso di giocare d’anticipo con questo futuro, stringendo un rapporto organico con la Russia in cui punti di forza e punti di debolezza potessero equilibrarsi. Non sarebbe possibile – questa la domanda - pensare ad un unico continente, dotato di enormi risorse energetiche e di un grande mercato disponibile? Rispetto a questa proposta, il dott. Gianotti esprime tutte le sue perplessità (al di là del fatto che un tale continente rischierebbe a suo giudizio di diventare fin troppo “arioso”, arrivando al Pacifico!): allearsi con un autocrate in cui si pone l’idea del potere unico e sovrano non gli sembra proprio buona cosa. Vero è che le difficoltà attuali dell’Europa non sono poche, ma essa rappresenta pur sempre un baluardo in tema di diritti umani e democrazia a cui non è certo il caso di rinunciare.  Con questo, il relatore non intende certo rappresentare la Russia come il regno del male, ben sapendo che bene e male non sono mai così nettamente suddivisi (lui stesso, per un certo periodo, ha creduto di vedere in Putin l’uomo nuovo che se pure con una certa rudezza poteva essere in grado di risollevare il paese dal baratro in cui era caduto, anche se poi ha dovuto ricredersi): nondimeno, non gli pare né possibile né augurabile un’alleanza organica con un paese bloccato da una impasse democratica che non consente a tutte  le forze interne di esprimersi e di stabilire rapporti internazionali diversamente  impostati.

 N.B. = Terminiamo con questa riflessione la nostra relazione sulla conferenza del dott. Gianotti, assumendo come di consueto ogni responsabilità per eventuali errori e fraintendimenti del suo discorso

Per CircolarMente,
Enrica Gallo

giovedì 21 febbraio 2019

L'occhio della macchina - Articolo di Andrea Signorelli


Nel corso delle nostre conferenze e seminari dedicati al tema dei “futuri” ci siamo spesso confrontati con il tema dell’Intelligenza Artificiale. Lo abbiamo fatto aggiornando le nostre conoscenze, da inesperti totali, su cosa bolle in pentola ed esprimendo, con maggiore cognizione di causa, sbalordimento ma anche non poche perplessità sugli eccessi di entusiasmo tecnologico che sembra avvolgere questa nuova frontiera umana. L’articolo che qui pubblichiamo, tratto dalla rivista on-line La (Il) Tascabile, può fornirci ulteriori elementi di valutazione perché illustra, dal di dentro, alcuni dei criteri guida che stanno ispirando aspetti decisivi di questa ricerca. Criteri che cercano di coniugare gli aspetti tecnici con più generali considerazioni “umanistiche”. A dimostrazione che l’obiettivo finale delle macchine intelligenti ha caratteri di ambizione decisamente elevata. A voi decidere se questa considerazione attenua o accentua sbalordimento e perplessità al riguardo.


L’occhio della macchina
Storia e filosofia della visione artificiale,
 da Galileo Galilei al deep Learning.

Andrea Daniele Signorelli milanese, classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel 2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti” per Informant Edizioni.

Nel suo ultimo libro, L’occhio della macchina (Einaudi editore), Simone Arcagni racconta di uno dei primi esperimenti di laboratorio per dotare i computer di una visione artificiale. È il 1966 e siamo al laboratorio di Intelligenza Artificiale dell’MIT di Boston, fondato dal matematico Marvin Minsky. “Minsky propone allo studente Gerald Jay Sussman di passare l’estate provando a connettere una camera a un computer e chiedere alla macchina di descrivere cosa ‘vede’”. È un esperimento ingenuo per i canoni di oggi; immaginato quasi come se fosse sufficiente collegare una telecamera a un computer per creare un sistema in grado di vedere. “Minsky sa che il processo di apprendimento che prefigura la costruzione di una qualche forma di intelligenza, a partire dall’immagazzinamento di dati e informazioni, fino alla loro trasformazione ed elaborazione, avviene fondamentalmente attraverso la vista. L’intuizione è quella di dotare il computer di questa facoltà”. Da un certo punto di vista, questo esperimento ricorda i tentativi, falliti anche quelli, di creare una vera intelligenza artificiale dotandola di tutte le conoscenze dell’uomo: un meccanismo “dall’alto” secondo il quale, per esempio, sarebbe stato sufficiente dare in pasto a un software i dizionari e i libri di grammatica di italiano e francese perché imparassero a tradurre da una lingua all’altra. È un sistema che, nei casi in cui si seguono regole molto precise (come negli scacchi), ha portato a qualche successo, ma che certamente non poteva funzionare in settori pieni di sfaccettature come il linguaggio. Se ne accorse anche Marvin Minsky, vedendo fallire il suo esperimento: “È quello il momento in cui si è capito che non si poteva replicare l’occhio umano collegando una telecamera a un cervello informatico”, racconta a Il Tascabile Simone Arcagni. “L’idea era probabilmente venuta a Minsky dalla lettura del saggio di Alan Turing Computing Machinery and Intelligence, in cui sostiene che, per dotare la macchina di un vero cervello, sarebbe stato necessario fornirle prima la vista, l’udito, l’olfatto”. Noi capiamo le cose perché abbiamo esperienza del mondo, mentre la macchina non possiede questa esperienza. “Si riteneva quindi che il primo passo da compiere fosse proprio dotarla degli strumenti – i sensi – necessari a conoscere ciò che la circonda”. Ma da dove nascono le idee che hanno reso, oggi, la computer vision uno degli elementi fondanti dell’intelligenza artificiale, con applicazioni nel campo medico, delle auto autonome, della sorveglianza? Nei dodici capitoli del libro, Simone Arcagni riesce a ricostruire lo sviluppo di una disciplina informatica le cui origini più antiche risalgono al pensiero di Platone, e che trova invece le sue basi scientifiche moderne nel lavoro di filosofi come Leibniz, Pascal e Cartesio. Per poi arrivare agli sviluppi compiuti negli ultimi decenni: come vede una macchina? In cosa differisce la visione artificiale da quella umana e cosa succede quando queste si fondono nella realtà aumentata e virtuale? Arcagni scruta in profondità l’occhio della macchina, intraprendendo un viaggio matematico, cibernetico e algoritmico in uno dei settori più affascinanti dell’innovazione tecnologica. Un settore che compie un cruciale salto di qualità proprio quando, in seguito al suo fallimentare esperimento, Marvin Minsky comprende che l’approccio da seguire dev’essere differente. A questo scopo invita al MIT David Marr, neuroscienziato e informatico che inizia a studiare non solo il modo in cui noi vediamo, ma soprattutto come interpretiamo ciò che vediamo e come il cervello comprende, per esempio, cosa c’è in primo piano o cosa invece sia un contorno. David Marr inizia a studiare come insegnare alle macchine a comprendere tutto questo. “Le neuroscienze hanno permesso di capire che la funzionalità visiva di un computer non va immaginata come se fosse un occhio che si apre e si chiude o la cui pupilla si dilata. Quello che davvero importa è il sistema che ci permette non solo di vedere, ma anche di riconoscere gli oggetti, di memorizzarli, di interpretarli…”, prosegue Arcagni. “Tutto questo si è potuto fare quando si è cominciato realmente a studiare come vedono le persone e anche perché alcune persone vedono diversamente da altre o hanno delle anomalie visive”. È proprio con David Marr che si inizia a parlare di computer vision (il suo saggio fondamentale nel 1982, pubblicato postumo, si chiama Vision), anche se lui preferiva il termine neuroscienze informatiche, che trasmette più precisamente l’idea di comprendere tutti i significati che noi raccogliamo sotto il verbo vedere. “L’informatica ha vissuto per qualche momento l’idea e l’utopia di poter trasformare alcune funzioni biologiche umane ricreandole in maniera tecnologica”, racconta Arcagni. “Invece bisognava trovare una via macchinica, che copiasse solo alcune funzioni – come le reti neurali imitano le sinapsi”. Per l’apprendimento, per esempio, col tempo ci si è affidati al sistema opposto rispetto a quello “dall’alto”: lasciare che le macchine imparassero autonomamente, fornendo loro tutti i dati utili all’apprendimento di un determinato esercizio. Per il riconoscimento dei numeri scritti a mano, così, non si doveva insegnare alla macchina com’è fatto un 5, ma le si dovevano fornire decine di migliaia di numeri correttamente etichettati; dopodiché, sarebbe stato compito dell’algoritmo imparare in autonomia a distinguerli con precisione. È il metodo che ancora oggi è alla base del machine learning e degli algoritmi di intelligenza artificiale, che – nonostante imitino per certi versi il funzionamento del cervello – creano uno scarto decisivo rispetto all’idea di inserire forzatamente nelle macchine le conoscenze umane. “Lo stesso è avvenuto per l’occhio umano: si pensava di poterlo replicare sia in robotica sia in computer vision; poi ci si è resi conto che si doveva sviluppare un percorso in buona parte indipendente”. In poche parole, l’occhio della macchina non sarà mai l’equivalente artificiale dell’occhio umano, ma un sistema completamente differente con abilità diverse dalle nostre: “Da un punto di vista quantitativo, per esempio, la visione artificiale è più potente dell’occhio umano; basti pensare all’hyperimaging di IBM che permette di vedere cose che noi non potremmo mai visualizzare da soli e che arrivano anche da spettri non ottici. Questo non significa che la computer vision sia migliore dell’occhio umano – che per esempio ha qualità in termini di adattabilità e connessione con un cervello creativo che potrebbero essere irraggiungibili – ma che ha accesso a una dimensione quantitativa e a dati a cui l’uomo non può accedere”. Invece che procedere per imitazione, insomma, ci si deve muovere in direzioni completamente diverse. D’altra parte, anche solo parlare di vista può essere fuorviante. Quando si parla di computer vision – la tecnologia che, tra le altre cose, permette alle auto autonome di riconoscere e interpretare ciò che le circonda – si tende a immaginare che i sensori utilizzati dal software possano, letteralmente, vedere. Le cose non stanno così: “La macchina non vede niente, è cieca”, dice Simone Arcagni. “Siamo noi che le diciamo di interpretare in senso visivo alcuni dei dati che riceve. Per esempio, la maggior parte dei dati che riceviamo dalle sonde dello spazio non sono ottici. Quando sentiamo parlare di un apparecchio che ha visto oltre la galassia, in realtà non ha visto proprio niente; ha ricevuto dei dati che noi, dopo averli elaborati, possiamo riproporre come fossero immagini”. Tutto questo crea un elemento di rottura rispetto al passato, quando tutte le macchine ottiche – dal telescopio di Galileo in avanti – avevano la funzione di amplificare la potenza del nostro occhio. “Oggi invece stiamo creando macchine autonome, dispositivi molto complessi che elaborano dati, ma che non ripropongono e non potenziano le funzionalità dell’occhio. È anche per questo che sostengo che si debba studiare il settore del visivo digitale come se fosse una biologia”. Come se stessimo sviluppando una biologia artificiale con l’obiettivo di creare delle entità biologiche non viventi. “Non sono un transumanista o un seguace della singolarità, non sto dicendo che ci riusciremo; ma la via che stiamo intraprendendo è questa”. L’ibridazione di queste tecnologie con il cervello umano apre opportunità stupefacenti. “Si parla molto di impianti artificiali collegati ai nervi ottici per riparare malfunzionamenti della vista”, spiega Arcagni. “Un artista come il britannico Neil Harbisson, che in natura non riesce a distinguere i colori, si è fatto impiantare un’antenna nel cervelletto che capta i segnali visivi e gli consente, in un certo senso, di vederli”. L’antenna, infatti, cattura i colori grazie a un sensore e li converte in frequenze audio differenti; comunicandole ad Harbisson e permettendogli di superare un’anomalia congenita, l’acromatopsia, che limitava la sua visione a una scala di grigi. Sistemi futuristici, che potranno avere un grande impatto sulla società, e che affondano le loro origini in epoche antiche, secondo la visione di Arcagni. “Leonardo, Galileo, Cartesio e poi il Barocco a cavallo tra Seicento e Settecento”. È lì che nasce e si sviluppa l’idea della scienza come possibilità di comprendere il mondo e della matematica come linguaggio formale che permette di descrivere queste scoperte. “L’osservazione scientifica può essere metrizzata e riprodotta dal linguaggio matematico. Nel Barocco, poi, si passa dall’abaco alla pascalina di Pascal e alla macchina di Leibniz; sistemi che permettono di fare calcoli evoluti e arrivare in alcuni casi anche alla moltiplicazione. Di fatto, si tratta dei primi elaboratori. Ma questo è anche il secolo in cui ritorna l’interesse nei confronti degli automi e in cui si cercano di riprodurre funzioni umane complesse come, appunto, la vista”. La volontà di descrivere il mondo in termini matematici è alla base della rivoluzione digitale che stiamo vivendo oggi. È quindi in quei secoli che si gettano i primi semi della futura computer vision? “Nell’età barocca si perfezionano le lanterne magiche e la camera oscura; è il periodo in cui si concepisce un’idea nuova di visivo. Andando a ritroso, ovviamente, tutto questo non nasce all’improvviso, ma con il metodo cartesiano, con Galileo e Leonardo e quindi arrivando fino al Rinascimento; quella è già un’epoca in cui si inizia a vedere la matematica come il linguaggio della costruzione del mondo”.  Sotto questo aspetto, un passo fondamentale è sicuramente la scoperta della prospettiva: “La prospettiva è l’applicazione matematica di concetti visivi; non poteva che nascere in una società che l’aveva eletta a suo linguaggio primario”, spiega Arcagni. E allora l’importanza di Piero della Francesca è cruciale, perché “la sua prospettiva è quella non solo più affascinante, ma ancora oggi la più perfetta dal punto di vista scientifico. Il lavoro matematico e geometrico che ha svolto è qualcosa di incredibile”. D’altra parte è proprio il Rinascimento l’epoca in cui viene “metrizzata” la visione del mondo. “Cominciano a prendere potere i mercanti, che hanno bisogno di contare i loro denari e quantificare con precisione le merci da caricare sulle navi. Ed è sempre nel Rinascimento che nascono le banche e gli assegni, assieme alle proiezioni geometriche e agli assi cartesiani”. Ovviamente, nulla nasce dal nulla e risalire alle origini della visione scientifica che ha posto le basi della rivoluzione digitale ci porta ad attraversare il Medioevo (“Non è un caso che il protagonista de Il nome della rosa, che cito in apertura del mio libro, porti gli occhiali: è il simbolo della sua volontà e necessità di capire”) e approdare, inevitabilmente, a Platone e al Mito della Caverna. “È quello il primo momento in cui viene teorizzata l’idea che il visivo non sia solo ciò che vediamo, ma sia anche l’interpretazione di quello che vediamo e il riflesso di quello che vediamo”. Non c’è solo Platone: anche Democrito, Pitagora, Epicuro, Lucrezio; sono i primi che hanno l’idea di un mondo che non sia più continuo (e quindi analogico) ma discreto. “Gli atomi di Lucrezio o i numeri di Pitagora, per esempio, vanno a comporre un universo complesso in cui tutti gli elementi sono correlati l’uno all’altro. Ed è proprio questa l’idea forte del digitale e dell’informatica, come della teoria del caos e della complessità. Non sono solo, ancora oggi, elementi fondamentali della scienza, ma anche del nostro modo di vedere il mondo”.

martedì 12 febbraio 2019

La reinvenzione dell'alienazione nell'epoca della rivoluzione digitale - Articolo di Stephane Haber


Riceviamo questo articolo dall’amico di CircolarMente Elvio Balboni che, sollecitato dalle nostre discussioni sui temi dei futuri, dell’alienazione e del WEB, ci propone come riflessione “filosofica” su questi argomenti



La reinvenzione dell'alienazione
 nell'epoca della rivoluzione digitale
Articolo di Stéphane Haber (professore di filosofia all'Università Paris Nanterre) nella traduzione di Giovanni Campailla tratto dal sito on-line consecutio.org



La recente evoluzione delle discussioni circa Internet e la rivoluzione digitale – che queste discussioni siano giornalistiche, di saggisti o di accademici – costituisce il fenomeno culturale maggiore della nostra epoca. All'inizio, negli anni 2000, queste discussioni avevano maggiormente seguito le intuizioni che derivano dal cyber-libertarismo degli hacker e dall'anarchismo dei teorici del software libero1. Diversi nel tono così come nel contenuto, essi avevano senza dubbio la loro espressione più compiuta dal punto di vista teorico nei lavori di Lawrence Lessig et di Yochai Benkler. Promotore della licenza “Creative commons”, Lessig vedeva nell'esplosione di Internet il principio di una estensione straordinaria del tema liberale del free speech che incita la comunicazione peer to peer. Essa farebbe scoppiare, egli spiegava, l'alleanza oggettiva, fino a quel momento dominante, dello Stato autoritario e dell'impresa capitalistica; alleanza sigillata da un'organizzazione della proprietà che sacralizza abusivamente il possesso privato ed esclusivo, grazie soprattutto al diritto della proprietà intellettuale. Benkler, da parte sua, partiva più direttamente dall'economia. L'abbassamento drastico del costo dell'informazione, egli affermava, è portatore di un modo di produzione caratterizzato dalla partecipazione in rete. Implicherebbe una decentralizzazione che potrebbe liberare radicalmente la diffusione e l'innovazione, reinventando l'impresa nel senso di una radicale apertura. Così, in sintesi, all'inizio del primo decennio del nostro secolo, si era diffuso un discorso influente sull'universo digitale che, più o meno esplicitamente, vedeva nello sviluppo di Internet il principio di un promettente superamento di quella modernità bloccata che noi abbiamo conosciuto finora a causa dell'influenza  di due istituzioni – lo Stato e la grande impresa privata – le quali riposavano su (o almeno convalidavano in un secondo tempo) una concentrazione considerevole e insaziabile del potere sociale, due istituzioni che hanno del resto da lunga data l'abitudine di lavorare mano nella mano e di imitarsi. È facile identificare a cose fatte i limiti e le fragilità di queste posizioni. Sopravvalutando l'autonomia del mondo digitale sulla base di un certo determinismo tecnico, Benkler e Lessig si sono certamente mostrati imprudenti annunciando il prosciugamento tendenziale delle risorse che permettono alle grandi potenze costituite, essenzialmente lo Stato e le mega aziende capitaliste massimizzatrici, di mantenere la loro forza ed influenza. Quali lezioni bisogna trarre da questa imprudenza?

1.  L’assorbimento capitalista della rivoluzione digitale Constatiamo innanzitutto che esiste oggi una forte corrente scettica che intende liberarsi dalle suggestioni tipiche delle utopie liberali e libertarie. Ad esempio, in L'ingenuità della Rete, un'opera che ha beneficiato di una larga audience internazionale in questi ultimi anni, E. Morovoz insiste sul fatto che il secondo decennio del secolo presente sia segnato da una disillusione sulla portata effettiva della rivoluzione digitale4. Per Morozov, la visione intellettualista di Internet, condivisa da Lessig e Benkler, partiva da cattive basi. Essa non resiste alla constatazione evidente secondo cui gli usi ricreativi, ludici e commerciali di Internet (con, al centro di questa costellazione, l'alleanza di business e consumismo), erano e restano ancora predominanti, come è stato del resto il caso dei grandi media del XX secolo, a cominciare dalla televisione. Anche quando l'utilizzo di Internet si conforma più o meno all'immagine seducente di uno strumento democratico, la sua importanza oggettiva resta limitata. Morozov insiste, ad esempio, sul fatto che Facebook e Twitter, contrariamente alla legenda, non hanno giocato che un ruolo marginale nel corso delle rivoluzioni che hanno scosso il mondo arabo nel 2012. A suo parere, conviene ammettere serenamente il fatto che il mondo di Internet resti nel migliore dei casi neutro rispetto ad alcuni mali classici della vita delle società, come l'autoritarismo e l'estremismo, o, più semplicemente, la stupidità, la menzogna e la manipolazione di massa. Morozov lo esprime dicendo che noi abbiamo appreso in questi ultimi anni che, in fin dei conti, Internet e il mondo digitale in generale non si trovino in una situazione totalmente estranea in rapporto alla natura umana e alla vita sociale come esse esistono realmente, e cioè in modo molto imperfetto. L'emergenza di un nuovo medium di comunicazione non è mai in se stesso la garanzia di trasformazioni sociali univoche. Certo, a pensarci bene, l'enorme questione di sapere se lo sviluppo dello spazio pubblico digitale abbia avuto, o avrà degli effetti tangibili in termini di addomesticamento del dominio sociale, di limitazione delle ineguaglianze, o, più semplicemente, di miglioramento delle condizioni di vita, non invoca nessuna risposta semplice. Eppure, esistono degli elementi chiari che vanno nel senso di un disincanto alla Morozov. Così, è possibile chiedersi se, a lato del ruolo persistente degli Stati come dimostrato dallo sviluppo costante della censura digitale, la velocità stupefacente con la quale i colossi di Internet (ciò che si raggruppa alla buona sotto l'acronimo GAFA – Google, Apple, Facebook, Amazon) sono arrivati a costituire dei quasi-monopoli di scala mondiale non costituisca il segno, nella sfera economica, di un'incapacità, forse ontologicamente costitutiva, propria all'universo digitale: l'incapacità di emanciparsi da una logica di concentrazione/intensificazione gerarchica della potenza che è stata al cuore della modernità e di cui i promotori di Internet sentivano tuttavia bene l'assurdità. Naturalmente, l'avvenire non è scritto da nessuna parte, e il destino futuro di questi grandi monopoli attuali resta difficile da prevedere. Sembra però che la maledizione moderna non sia stata del tutto scongiurata, e, rispetto a tali rapporti di forza, è possibile pensare che essa non possa esserlo indubbiamente. Ma per quale ragione? Il caso di Google ci fornisce qualche indicazione

2.  L'impresa Google non fabbrica niente e non «accumula» neppure, almeno nel senso dell'economia politica classica. Google mette semplicemente in atto i mezzi per appropriarsi e diffondere alcune espressioni dell'intelligenza umana presente (i contenuti e i comportamenti degli internauti in quanto essi possono migliorare le prestazioni del motore di ricerca), ma anche, in modo complementare, alcune espressioni dell'intelligenza umana passata (via Google Books) per metterle al servizio di una serie indeterminata di fini redditizi possibili (la pubblicità rimane la principale). Queste risorse sono poi, in sostanza, impiegate da altre imprese. Stando al gioco in questa maniera, queste inoltre accrescono a volte l'influenza della forma imprenditoriale sulla società, così come l'influenza dell'éthos che vi si collega: esse naturalizzano e dunque stabiliscono la situazione nella quale l'innovazione e lo scambio sono condizionati dal profitto. Globalmente, il modello è pertanto quello, per niente inedito e anche molto prosaico, della vendita dei servizi alle imprese, ma si diffonde e si ramifica a partire da questa funzione fondamentale, benché in direzioni diverse e nuove – fra le quali, il motore di ricerca non ne rappresenta che la più conosciuta. È l'insieme delle prestazioni che si compiono seguendo queste differenti direzioni (e di cui alcune implicano dei servizi gratuiti offerti ai consumatori) che il mercato dei valori stimava, all'inizio del 2014, della somma astronomica di 400 miliardi di dollari. In fondo, dal punto di vista filosofico, è a questo prezzo che il mondo finanziario globale valuta ciò che ha realizzato storicamente e ciò che realizza attualmente Google: riuscire fondamentalmente a mettere al servizio delle imprese massimizzatrici, cioè della logica del profitto, i risultati di una rivoluzione digitale che alcuni intellettuali avevano creduto, del resto per buone ragioni, di orientamento piuttosto anarchico, distributivo, quasi anti-capitalistico. Questo prezzo è quello di un recupero tanto inatteso e rapido quanto perfettamente riuscito. In qualche modo, è l'ammontare di una ricompensa. Seguendo ciò che suggerisce questo esempio, vediamo quel che non andava in Benkler o in Lessig. Essi hanno largamente sottovalutato la capacità delle forme moderne di captazione della potenza (che si trovano al cuore del capitalismo cieco, per esempio di tipo neoliberista, come sanno molto bene sia l'uno che l'altro) di rinnovarsi e di rigenerarsi a contatto con le innovazioni della rivoluzione digitale; forme che, così facendo, si sono emancipate dai modelli caratteristici (ad esempio, i modelli legati all'impresa industriale moderna) che implicano il predominio di alcune modalità determinate di appropriazione e di creazione di ricchezza e potenza. Inoltre ciò che potremmo dire seguendo Morozov, è che è probabile che le promesse di Internet non siano state agevolmente sciupate dall'infelice intervento di forze esteriori, ben conosciute e costituite già da prima, che avrebbero cominciato per interesse a limitarne la portata rivoluzionaria. Non esiste un'epoca d'oro di Internet da rimpiangere. Ciò che è in gioco, è forse piuttosto una mutazione dell'esercizio del potere e della potenza in generale, di cui l'arrivo di Internet è, sin dall'inizio, allo stesso tempo l'elemento rivelatore e acceleratore. Questa mutazione si manifesta per il fatto che, invece di comprimere le forme emergenti, a volte promettenti, di produzione e di scambio, come avevano fatto prima lo Stato e le grandi aziende, i nuovi attori economici le liberano e ne incrementano alcune modalità per gestirle al meglio; essi non sono in ogni caso perfettamente solidali. Una tale constatazione conferma un'ipotesi euristica oggi largamente accettata dagli autori che cercano di sviluppare le idee di Foucault: le forme post-disciplinari del potere hanno via via la tendenza a specializzarsi nella definizione dei quadri, delle regole che permettono il controllo dei flussi. Esse definiscono i limiti di uno spazio di gioco, anziché impegnarsi nel modellamento diretto (costoso in energia e aleatorio nei suoi risultati) delle azioni e delle soggettività. In breve, ciò che non hanno compreso Benkler et Lessig, è che l'intuizione dualista e vitalista che guidava i loro sviluppi (da un lato, la stupidità conservatrice dello Stato e dell'Impresa capitalista come noi li abbiamo conosciuti, dall'altro, l'autonomia dinamica, anarchica, di una società civile sveglia, connessa e critica) si trovava progressivamente invalidata dai fatti – principalmente a profitto, possiamo dire, dell'impresa neoliberista di cui Google fornisce una illustrazione parossistica. La nostra tesi sarà che una tale situazione può essere colta in gran parte richiamando insieme due grandi categorie classiche della teoria sociale critica: lo sfruttamento (il fenomeno dell'appropriazione del lavoro) e l'alienazione (la situazione nella quale la vita sociale si trova oppressa da forze separate e autonome, che esprimono qualcosa dell'intelligenza e dell'energia umane).

3.  Rivoluzione digitale e metamorfosi del lavoro La rivoluzione digitale ha accompagnato la reinvenzione dello sfruttamento. L'idea secondo cui la fase “neoliberista” del capitalismo si caratterizzi per la rottura delle frontiere tra il lavoro e il non-lavoro è comunemente ammessa. Può essere mostrata da numerosi fenomeni, tra i quali l'allungamento del tempo di lavoro non costituisce che una modalità fra le altre. Ad esempio, per l'imprenditore o per il manager, possedere un telefono cellulare o un personal computer connesso significa già che le occasioni di essere richiesto e sollecitato si moltiplicano indefinitamente, oltre la durata del lavoro regolata dal diritto o dal costume. Viceversa, al di là di questo dato socio-tecnico ben noto, la ridefinizione dell'impiegabilità in termini di capitale umano implica che le competenze e le qualità trasversali delle persone, quelle che si sono sviluppate fuori dal lavoro, divengano delle carte vincenti indispensabili in un mondo del lavoro via via sottomesso alla pressione concorrenziale. Tutto ciò ci invita a parlare a tal proposito delle nuove forme di sfruttamento, in una maniera che si conforma assai chiaramente alle ipotesi marxiane. Ma non è solo questo. Alcuni autori statunitensi parlano così di «lavoro clinico», designando con ciò un continuum di fenomeni in cui si raggruppano la gestazione altrui, il dono di organi, il dono di cellule riproduttrici, la partecipazione ai protocolli dei test per l'industria farmaceutica. A loro avviso, è esemplare la messa in servizio per contratto di se stessi a profitto delle imprese al di fuori della classica relazione salariale; espressione, questa, di un approfondimento dello sfruttamento che ormai sussume i cicli biologici e la stessa corporeità vivente. Dello stesso parere, altri autori, come Trebor Scholz, accennano oggi al «lavoro digitale». Questo sarebbe caratteristico del Web interattivo (il Web 2.0), dominato da reti sociali e dal commercio partecipativo. Acquistando su Amazon, cliccando “Mi piace” su Facebook, navigando sotto la sorveglianza dei pedinatori automatici di Google e di altri dispositivi panottici analoghi, l'internauta partecipa all'attività redditizia di queste differenti imprese. Ad esempio, rende più efficace la pubblicità mirata che costituisce il loro centro di gravità. Contribuisce senza saperlo – indubbiamente meglio che il consumatore ingenuo, dipinto in modo sarcastico dall'anticonsumismo degli intellettuali del XX secolo – a rafforzare la loro posizione commerciale sul mercato dell'offerta dei servizi digitali. L'estensione dello statuto di prosumer cambia la situazione11. L'idea generale che emerge da queste ricerche sociologiche è dunque che il lavoro, nel senso marxiano dell'utilizzo della forza lavoro nel quadro di rapporti di classe che sono anche rapporti di forza, ha recentemente imboccato molte vie al fine di liberarsi dal peso del salario regolato, forma tipica del XX secolo, almeno nei paesi del vecchio capitalismo. Innanzitutto, l'informalizzazione e il precariato, certamente. Ma anche uno spazio di larga diffusione della subordinazione soft che ha finito per invadere le pratiche quotidiane relative tradizionalmente al tempo libero così come, alla base del mondo della vita, la stessa auto-riproduzione biologica12. Nell'epoca di Internet, ci siamo messi a lavorare gratuitamente (e docilmente) per alcune imprese, e questo genere di lavoro si è esteso alla gran parte dei momenti della nostra vita. Con una tale liquefazione generalizzata, ci si allontana del resto ancora di più dalla violenza aperta, faccia a faccia, che Marx già sottolineava come si celasse nel salario: qui le tracce della modernità disciplinare e carceraria, ancora illustrata in maniera limpida dalla fabbrica fordista, sembrano cancellarsi completamente. E ciò allorquando, peraltro, la mutilazione del corpo, motivo ricorrente di famose analisi de Il Capitale, può ormai esprimersi a volte molto apertamente, come quando, nel Sud del mondo, la miseria obbliga la gente a vendere uno dei loro reni o a diventare delle cavie da laboratorio per Big Pharma, senza alcuna rete di protezione. Lo sfruttamento in Rete, più discreto che mai nelle sue manifestazioni immediate, si connette in maniera indiretta al dominio di una brutalità senza limiti. Il nostro argomento può essere riassunto brevemente. Nel recente universo digitale, proliferano delle pratiche che si intersecano o sono molto vicine (almeno attraverso un legame di analogia) con ciò che promette, nella sfera sempre determinante del lavoro, un neocapitalismo fluido, insidioso e invasivo, ostile alle separazioni tracciate e alle delimitazioni protettrici. Diremo che questi fenomeni segnano una metamorfosi parziale (poiché possono sussistere le forme classiche) di ciò che Marx chiamava lo sfruttamento. Così, sul piano epistemologico, la critica del lavoro sfruttato (diciamo innanzitutto: del lavoro reso indebitamente appropriato di forza da una classe dominante, e quindi incapace di farsi riconoscere socialmente nella sua dignità e nella sua centralità) resta pertinente, anche indipendentemente da quell'eccessiva esaltazione ontologica del lavoro in generale che il marxismo ha a volte incoraggiato e che, di fatto, ha ostacolato numerosi filosofi nel corso del XX secolo.

4.  Alienazione oggettiva La critica dello sfruttamento può però, da un punto di vista epistemologico, funzionare da sé? È poco probabile. Perché in realtà, nel capitalismo, l'ingiustizia dello sfruttamento si associa spesso con l'irrazionalità sociale dell'alienazione oggettiva. Non beneficiare del riconoscimento (compresa la remunerazione) al quale il lavoro dovrebbe condurre, da una parte, ed essere sottomessi a delle potenze estranee che, esprimendo qualcosa di noi, fanno male le cose13 prosperando a nostre spese, dall'altra, costituiscono due aspetti di una stessa organizzazione sociale. Insistendo sul fatto che il capitalismo non privi soltanto il lavoratore di un reddito legittimo, ma privi tutti (a cominciare dalla classe operaia) della capacità di agire, di sviluppare le abilità, il sapere e la sociabilità cooperativa, il marxismo “critico” del XX secolo, basato sul tema dell'autonomia, vedeva perfettamente giusto14. Non è che l'impressionante reinvenzione dello sfruttamento (come modalità dell'ingiustizia di ripartizione), di cui il mondo digitale è stato il teatro di questi ultimi anni, occulti una simile feconda articolazione. Però è questo il timore che si prova nel leggere alcuni interpreti del digital labor, i quali, pur soffocando la ricchezza delle antiche discussioni interne al marxismo, sembrano comunque aver bisogno, in materia di teoria sociale, della categoria dello sfruttamento15. La nozione di alienazione oggettiva, quanto ad essa, riassume una maniera particolare di concepire il mondo sociale che si è affermata per la prima volta nelle opere del giovane Marx (i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e L'Ideologia tedesca). Quando qualcosa del sociale si trova interrogata in funzione dell'idea o dell'immagine di una obiettività che prende corpo, che prende consistenza, quindi si emancipa a partire da un'attività primaria o anche da una vitalità iniziale, il modello dell'alienazione oggettiva è all'opera: grazie ad esso, vediamo come le potenze che si separano dalla vita e da un certo livello primordiale della pratica sociale si formino e prosperino. Beninteso, questo modello comporta un certo numero di difficoltà e di limiti. Ad esempio, non è concepito per tracciare un percorso verso i settori in cui la vita sociale è più segnata dal dominio e/o dalla violenza. Semplicemente, si impongono in questo caso altri strumenti teorici. Ugualmente, è certo che, nella sua stessa costituzione, esso oscilli tra un diabolico divenire altro delle «potenze indipendenti» dell'essenza alienante (esse sono ormai fuori portata, pure fonti dell'oppressione e della costrizione, lasciate al proprio dinamismo autistico) e una forma di indulgenza persistente nei loro confronti (dopo tutto, esse non sono completamente irrazionali; sono continuamente lo stesso tese ad esprimere il meglio dell'essere umano). Questa eredità dell'hegelismo non è indubbiamente debole. In ogni caso, è lontana dal poter chiarire tutto. Eppure, dal punto di vista filosofico, uno dei suoi vantaggi proviene ancora dal fatto che faciliti ampiamente il compito consistente nel rispondere alla difficile questione dei «fondamenti della critica». Parlando di una «potenza indipendente», alienata, detto altrimenti di una distanza presa in rapporto all'azione e alla vita primarie, indichiamo di colpo che la critica è possibile e in che modo lo è: essa si radica nell'intuizione secondo la quale l'emancipazione di alcune oggettività sociali, benché necessaria per certi aspetti, ha anche delle possibilità di degenerare, dando allora luogo a dei processi e a dei fenomeni problematici (nel senso in cui sbagliamo a riconoscerli). Ad esempio perché nefasti o semplicemente incontrollati. Perché portatori, comunque, di costrizioni evitabili e di spossessamenti imprevisti. La nostra tesi sarà che, nel mondo di Internet, a lato di altre esperienze, siamo confrontati in maniera particolarmente netta con l'esistenza di potenze autonome di questo genere che assorbono e sconvolgono l'intelligenza e l'energia umana, fissando le loro espressioni a nostra distanza, in più sensi (metaforici e non) di questo termine. Se un simile fenomeno può connettersi con lo sfruttamento del lavoro, questo legame non appare tuttavia né costante né necessario. Anche se resta centrale, il sentimento di spossessamento può nascere in occasione di altre esperienze rispetto a quella del lavoro monopolizzato da un gruppo sociale o da un'istituzione dominante. Queste esperienze sono innanzitutto legate all'enorme crescita del ruolo delle grandi imprese massimizzatrici dentro la vita sociale. Sappiamo che la rivoluzione digitala ha conferito una certa verosimiglianza al motivo, ricorrente da tempo nella letteratura e nel cinema di fantascienza, di una rete universale che ingloba tutto, che sviluppa tutto, condizionando i movimenti più intimi. Ma, con il Web così come si è evoluto dall'epoca dei pionieri californiani e dei teorici libertari, questo scenario si è realizzato sotto una forma molto singolare, che non implica del resto il totalitarismo, nello stile dei regimi iper-dittatoriali del secolo scorso né l'emancipazione assoluta della Tecnica. In sostanza, alcune imprese private si sono prese l'onere di accumulare il sapere e la potenza (compresa la ricchezza) che è loro legata. Queste hanno così preso in conto il compito di gestire a loro profitto l'infittirsi degli scambi e la moltiplicazione delle possibilità d'azione e di pensiero inerenti alla mondializzazione e agli avanzamenti tecnici che vi si connettono. Ancora una volta, l'irruzione dei «giganti di Internet», che si tratti di siti commerciali come Amazon, di siti di scambio e di condivisione (eBay, Airbnb, ...), di reti sociali come Twitter o Facebook, fornisce degli indicatori molto chiari. Il loro successo riposa sempre su delle varianti di un medesimo meccanismo che la categoria di «capitalismo cognitivo», troppo larga, non permette di cogliere. Ci si trova direttamente al centro dell'iniziativa, della creazione, dello scambio e della comunicazione. Più precisamente, ci si trova in un angolo strategico, laddove il traffico è già o può diventare più denso, quindi, da questa posizione favorevole, vengono sollecitate, canalizzate e organizzate le emergenze e i flussi nella prospettiva della concentrazione imprenditoriale massimale di ricchezza e di potere. Recentemente, sono certamente le startups dell'economia della condivisione (ad esempio nell'ambito del carpooling) che hanno perseguito l'esplorazione di questo terreno (i beni comuni emergenti, il centro della comunicazione e dello scambio). Ma esse lo hanno fatto seguendo il movimento iniziato dalle grandi aziende. In breve, non è la rivoluzione digitale in quanto tale – la quale comporta molteplici dimensioni che nessun giudizio di valore è capace di apprendere – che costituisce un fattore di alienazione sociale, privandoci delle espressioni dell'intelligenza e dell'attività collettiva, ma la grande azienda capitalista nella sua configurazione neoliberista, la quale investe attivamente, ed efficacemente, gli strumenti e i risultati di questa rivoluzione. Qui non è più la dimensione gerarchica e autoritaria dell'organizzazione che pone il problema, ma la sua dimensione di cattura.

5.  Per un rinnovamento della nozione di alienazione oggettiva Al contrario, la rivoluzione digitale fornisce l'occasione di rinnovare il tema filosoficosociologico dell'alienazione. Non si tratta di limitarsi a riaffermare perentoriamente la sua validità. Perché a partire da Marx, esso era rimasto dipendente da una semantica troppo semplice, se non addirittura un può piatta. Vi è dapprima l'azione, l'intelligenza, l'abilità e successivamente il sequestro delle espressioni di tutte queste facoltà nei prodotti oggettivati. E questi prodotti, queste “opere” rapprese (dai dispositivi inglobanti, dalle istituzioni, dalle norme, dalle abitudini, dalle collettività, ...), a volte, limitano e opprimono le facoltà in questione. È così che, per i marxisti, l'azienda tipica del corporate capitalism costituisce una maniera deformata di organizzare il lavoro e la cooperazione. Al peggio, queste “opere” si inscrivono nella dinamica irrazionalmente espansiva delle entità (di cui lo Stato e la grande impresa massimizzatrice hanno dato un'immagine paradigmatica in seno alla teoria sociale critica) che muove il desiderio di perseverare nel proprio essere e di ampliarsi a spese del loro comportamento per meglio affermare la propria autonomia. Lo spettacolo che offre il capitalismo digitale così come è messo in opera dalle grandi firme che dominano oggi Internet conferma l'esattezza del motivo dell'Entfremdung. Ma invita anche a rivederne in parte il contenuto. Filosoficamente non è in effetti indifferente che si abbia a che fare con una caricatura e con una captazione stimolante della vitalità, piuttosto che con una negazione repressiva. E non è neppure indifferente che ad essere alienato sia un potere di agire che comporta delle potenzialità tendenti verso delle modalità non-capitaliste dell'organizzazione sociale ed economica. Apparentemente, la ricerca della traiettoria capitalistica non implica dunque soltanto il parassitare delle forme sociali tradizionali e precapitalistiche (la diagnosi di Rosa Luxemburg), ma anche quello delle forme emergenti, atipiche, forme che sono parzialmente legate, in alcuni attori, all'obiettivo riflessivo di una correzione, se non addirittura di un superamento del capitalismo realmente esistente. C'è, in qualche modo, cattura del possibile futuro, e non più soltanto di un passato sedimentato nelle abitudini e nelle istituzioni. Più concretamente, la forma di alienazione oggettiva inerente al capitalismo digitale si caratterizza per un certo numero di aspetti storicamente originali che possiamo raggruppare sotto quattro rubriche: velocità, complicità, complessità, ambiguità.

·     Velocità. Ciò che colpisce innanzitutto, è la grandezza e la velocità stupefacenti del processo attraverso cui si pone, all'interno dello spazio digitale, il terreno favorevole all'espansione delle «potenze indipendenti» e attraverso cui queste ultime si installano e si sviluppano. Tutte le cifre che riguardano Internet da vent'anni (l'aumento del numero di internauti, l'aumento del volume del traffico, del numero dei siti, ecc.) danno la vertigine: si tratta di fenomeni a livello storico assolutamente incredibili. Tuttavia, non è solo questo. Così, possiamo sorridere davanti all'arroganza ingenua del tale dirigente di Google (Larry Page, in questo caso) che sentiamo strombazzare che ciò a cui mira la sua impresa sia rendere universalmente accessibile tutto il sapere umano nel suo più intimo dettaglio. Possiamo vederci la manifestazione di un fatto ben noto ai lettori e alle lettrici di Marx: dietro l'apparenza di una “crescita” tranquilla, il capitalismo ha per natura il bisogno di rilanci permanenti, di cambiamenti di scala spettacolari, di fughe in avanti auto-rinforzanti. È comprensibile che questa costrizione incontri presso alcuni lo spirito dell'eccessività, anche quando questo non si è specializzato nell'avidità egoistica. Semplicemente, diventa più chiaro ormai che una tale tendenza esercita anche un effetto di attrazione irrefrenabile su dei settori via via numerosi della vita sociale: essa coopta, mette sotto la sua orbita, dei fenomeni che, al primo approccio, sembrano situarsi lontano dal mondo del profitto. Nella sociologia e nella filosofia sociale contemporanea, questa constatazione dà luogo a delle orchestrazioni teoriche ben note circa il tema dell'«accelerazione» e dell'«urgenza». Ma il lato folgorante della dinamica espansiva inerente alla rivoluzione digitale in corso cambia soprattutto la situazione per il pensiero dell'alienazione oggettiva. Perché al cuore del mondo economico, quella dinamica, alla quale partecipano i giganti della Rete, naturalizza il regime di accrescimento esponenziale, che per Malthus, ad esempio, non apparteneva ancora che all'ordine di una natura sregolata. Normalizza la collusione tra la potenza in generale e l'espansione immediata, assoluta e irresistibile, un tempo probabilmente limitata all'universo molto particolare della conquista militare. Rimodella l'idea stessa di una forza indipendente che travolge dall'esterno, attraverso la sola forza del suo successo, la società e le persone. Si produce pertanto una saldatura tra l'alienazione oggettiva e la tendenza espansionista sfrenata.

·     Complicità. Una delle difficoltà classiche che incontra ogni filosofia sociale critica è quel che suscita l'adesione delle masse alle situazioni che essa intende svelare: come si può sopportare e a volte approvare, ossia far esistere, ciò che è oggettivamente nocivo? Nel XX secolo, la risposta data a questa questione ha spesso riposato su una psicologia segnata dalla prospettiva coerentista e da quella determinista. Se possiamo amare, o almeno tollerare, ciò che e coloro che opprimono, se possiamo far funzionare il Sistema contro i suoi propri interessi, si diceva, è perché la personalità degli oppressi ne fa l'oggetto di una sorta di riprogrammazione tale da ridefinirla interamente: abbiamo «interiorizzato» il dominio. Però, da un lato, la rivoluzione digitale ha accompagnato un allargamento e un approfondimento senza precedenti degli effetti di coinvolgimento, di complicità e di connivenza: su Internet, accade molto spesso e molto esplicitamente che si domandi alla gente di partecipare al funzionamento di quei dispositivi oggettivamente alienanti che noi abbiamo menzionato ricordando l'azione dei giganti del capitalismo digtale, al fine di alimentarli coinvolgendosi coscientemente in questo compito e trovando quest'ultimo allo stesso tempo razionale ed eccitante, inevitabile ed appassionante. I due fenomeni che possiamo rilevare – al limite, i siti diventano le piattaforme destinate a gestire i contributi volontari degli internauti; le imprese e le loro merci riescono a farsi amare – risultano profondamente legati. Ma, dall'altro lato, la rivoluzione digitale ha considerevolmente abbassato i costi di adesione all'alienazione e ai dispositivi alienanti. Essa ha così permesso la moltiplicazione, sotto l'egida della gratuità, e per mezzo di un sistema di gratificazioni  sofisticato, di incitazioni ad identificarsi con il medium che li rende possibili e con gli attori che lo popolano. Ed essa ha fatto in modo che il movimento di adesione divenga tanto semplice quanto immediato, senza profondità psicologica. Se, per Adorno, bisognava essere una «personalità autoritaria» molto pesante per stare al gioco dei regimi fascisti, far esistere e ingrandire i colossi più o meno inquietanti di Internet è divenuta la cosa più semplice del mondo, la più indolore. Qualche clic occasionale, qualche manipolazione divertente sul computer, sono già sufficienti. E gli algoritmi fanno il resto.

·     Complessità. Classicamente, la critica dell'alienazione oggettiva sosteneva un programma teorico preciso: si trattava di svelare la maniera in cui alcune oggettività sociali (se non addirittura un «Sistema» tutt'intero) funzionassero mobilitando e al contempo reprimendo l'energia e l'intelligenza umane. Se realizzare questo programma è diventato difficile nell'epoca della rivoluzione digitale, è, tra le altre cause, perché il modo di esistenza e di azione di queste obiettività è in corso di mutazione e di sofisticazione permanenti. Si tratta inoltre probabilmente del cuore della forma attuale della «razionalizzazione». Sempre più sapere e intelligenza si trovano utilizzati dagli universi economici da cui dipendono le grandi aziende di Internet – che si tratti di algoritmi, di management, di strategie di marketing. Lungi dall'essere abbandonati ad una dinamica naturale di crescita e di influenza, esse si sviluppano in maniera iperriflessiva. L'alienazione non è più sinonimo di vittoria dell'inerzia e di accecamento sull'iniziativa intelligente e sul movimento.

·     Ambiguità. In Morozov o in altri autori, lo scetticismo davanti alla rivoluzione digitale si riferisce ad una serie di fenomeni impressionanti: essa ha aperto immensi campi alla criminalità (fra cui la corruzione), allo sfruttamento brutale, alla manipolazione di massa. Ma al di là di ciò che implica l'allargamento di uno spazio pubblico critico, è facile vedere come Internet formi anche un sostegno, così come uno spazio di sperimentazione e di diffusione, simbolicamente denso, per delle esperienze di sottrazione alle logiche capitalistiche centrali, favorendo un'innovazione sociale portatrice di uno spirito di riflessività e di responsabilità contraria all'accecamento neoliberista. Eppure, questo spazio critico è omogeneo, per molti aspetti, al mondo inventato dalle grandi aziende massimizzatrici che noi abbiamo identificato come le manifestazioni contemporanee più evidenti del principio di alienazione sociale. Google e Facebook (o altri siti simili, di rivolta e di ricerca di alternative etico-politiche) sono inoltre diventati indispensabili all'esercizio e alla diffusione della riflessione critica. Questo fatto aneddotico illustra bene l'idea che l'universo digitale veda la moltiplicazione sconcertante di ambiguità e zone grigie, in cui l'affermazione trionfante dell'alienazione e della sua contestazione si inseguono incessantemente, mutuandosi l'una l'altra, e a volte si assomigliano e si sviluppano su uno stesso terreno.

Conclusione Da quando Feuerbach ha interpretato la credenza teologica come il risultato di una proiezione fittizia delle migliori possibilità umane, da quando il giovane Marx ha definito la «proprietà privata», e poi le «forze produttive», come delle condensazioni illegittimamente rese autonome, e automatizzate, dei risultati dell'attività umana creativa e intersoggettiva, il modello dell'«alienazione», a lato di altri modelli, ha brillantemente accompagnato la coscienza critica della modernità. Ha giocato, in particolare, un ruolo cruciale nella messa in questione delle forme di organizzazione razionale-gerarchica che si sono schiuse nel quadro dello Stato-nazione e dell'Impresa massimizzatrice. La nostra conclusione è che tale concetto possa continuare a farlo. In un certo modo, non è mai stato tanto fecondo quanto oggi: senza rimpiazzare i più antichi, i fenomeni nuovi che vengono formandosi gli danno assolutamente ragione. È ciò che noi comprendiamo, paradossalmente, provando a trarre le conseguenze dalle novità tecno-sociali sbalorditive di cui noi siamo contemporanei. Per certi loro aspetti, esse esprimono in effetti niente di meno che una reinvenzione completa dell'alienazione oggettiva, contribuendo a tracciare i contorni di un capitalismo di nuovo genere, che fa anche emergere delle tensioni nuove.

domenica 3 febbraio 2019

Il "Saggio del mese" - Febbraio 2019


Il “saggio” del mese

Febbraio 2019

E’ vero, dobbiamo riconoscerlo, come CircolarMente non abbiamo finora dedicato grande attenzione ai temi di “economia pura”. Ci ha frenato, con buona probabilità, la diffidenza e la ritrosia, per altro molto diffuse, verso una disciplina “specialistica”, ostica, all’apparenza freddamente “scientifica”, con basi matematiche e statistiche. Ed inoltre divisiva e a sua volta divisa fra scuole di pensiero che si fronteggiano ricorrendo a concetti e parametri da “addetti ai lavori”. Eppure non serve certo richiamare il marxiano concetto del rapporto fra struttura, per l’appunto quella economica, e sovrastruttura, tutte le restanti attività umane, per sapere che essa riveste un ruolo centrale, decisivo, per ogni singolo individuo e la società intera. Va subito detto che non poche voci critiche mettono in discussione la presunta “scientificità” dell’economia, e la possibilità, che ne conseguirebbe, di gestire i processi economici sulla base quasi esclusiva di equazioni e algoritmi. Queste voci sostengono che questa sorta di aureola è stata strumentalmente creata ad arte dalle idee economiche “mainstream” (quelle dominanti) che nel corso del Novecento, ed in particolare nella seconda parte del secolo scorso, hanno pervaso, salvo rarissime eccezioni, tutte le più importanti istituzioni economiche mondiali. Una di queste voci discordanti è quella di Mariana Mazzucato [Mariana Mazzucato, economista statunitense nata in Italia, insegna Economia dell’Innovazione presso l’University College London, dove ha fondato e dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose. E’ consulente di vari governi in tutto il mondo. E’ stata indicata nel 2013 tra i tre più importanti pensatori sul tema dell’innovazione. Autrice di diversi saggi, alcuni dei quali sono stati pubblicati in Italia sempre nei titoli della Laterza: “Lo stato innovatore” (2014) e “Ripensare il Capitalismo (2017)]. Abbiamo scelto come “Saggio del mese” il suo ultimo libro “Il valore di tutto” proprio perché è una coinvolgente occasione per recuperare, almeno in parte, le nostre scarse conoscenze in fatto di economia, per meglio comprendere i termini fondamentali del dibattito economico, ad iniziare dal “valore”, per capire che anche i processi economici, ben lungi dall’essere uno sviluppo inarrestabile di leggi “scientifiche”, possono procedere lungo percorsi diversi a seconda di scelte che la società nel suo complesso deve, consapevolmente, assumere, e per formarci utili opinioni in questo senso. Ci sembra infine rilevante evidenziare che le forti e lucide critiche della Mazzucato non vengono da una “estremista”, anzi: come si avrà modo di cogliere in alcune delle recensioni al suo saggio emerge, dall’insieme del suo lavoro, una sua collocazione “liberal” tutt’altro che rivoluzionaria. Ci pare quindi, a suo ulteriore merito, che anche in questo saggio la sua analisi, condivisibile o no, non sia comunque stata mossa da “presunti” pregiudizi ideologici


Per entrare nello spirito del saggio e per capirne le finalità conviene affidarci alle parole con le quali la stessa Mazzucato le anticipa…… Banchieri, imprenditori, politici: tutti parlano della necessità di ‘creare valore’ per creare ricchezza. Ma cos’è realmente il ‘valore’? Chi crea ricchezza? Come decidiamo il valore delle cose che produciamo e quanto spetta a chi le realizza? …….dobbiamo porci una serie di domande radicali: da dove viene la ricchezza? Chi crea il valore? Chi lo estrae? Chi lo sottrae?
Raccogliamo qui di seguito, in forma ovviamente molto sintetica, e seguendo in crescendo il piano dell’opera, le osservazioni che la Mazzucato analiticamente sviluppa
 ……Il valore può essere definito in molti modi ma sostanzialmente consiste nella produzione di nuovi beni e servizi…..Il valore è un termine, un concetto, una grandezza economica che individua quindi un processo, un flusso costante, non è la fotografia statica di una certa ricchezza, se per ricchezza si deve intendere uno stock di valore che si è creato fino ad un dato istante. E come tutti i processi può, deve, essere governato avendo a monte definito, in modo il più possibile concorde, quali attività economiche, e con quali modalità, concorrono a formarlo, e quindi cosa e chi è “produttivo” piuttosto che “improduttivo”.  Il richiamo a “concordare” cosa si debba intendere per valore non è casuale, la storia delle teorie economiche si è infatti da sempre mossa in direzione opposta; nelle diverse fasi storiche per valore si sono intese attività umane decisamente diverse.
………..Nella iniziale presentazione del saggio si è anticipato la sua capacità di offrire a tutti noi la possibilità di recuperare un minimo di conoscenza su alcuni elementi di base del dibattito economico. E ‘ quanto è possibile fare scorrendo i primi due capitoli, davvero chiari e precisi, che illustrano l’evoluzione di cosa si è progressivamente inteso per valore…………….
I prodomi della moderna economia vengono convenzionalmente fatti coincidere con l’affermarsi del “mercantilismo” del sedicesimo secolo, il valore, concetto al tempo ancora poco usato e spesso aleatorio, veniva semplicemente fatto coincidere con …..l’eccesso dei ricavi sulle spese…….. Un primo salto qualitativo avviene con la scuola fisiocratica francese del 1700 (Francois Quesnay) che però riferisce……alla sola produzione agricola, alla “terra”, la creazione di valore….. Tutte le restanti attività godono di questa unica fonte di valore, la sola ad essere considerata “produttiva”. L’avvento della Rivoluzione Industriale capovolge i termini della questione: Adam Smith prima, e David Ricardo poi, i padri fondatori dell’economia classica, spostano l’attenzione sul lavoro…..il valore di mercato di un prodotto è determinato dalla quantità di manodopera o lavoro impiegata nella sua produzione….Una delle conseguenze di questa centralità consisteva nel ritenere tutti i servizi, finanza compresa, settori improduttivi che non concorrevano alla creazione di valore. Ricardo in particolare elaborò su questa base la sua teoria della rendita, definita…..trasferimento di valore a chi possiede un monopolio su una risorsa scarsa…..Collegandosi alle idee di Smith e Ricardo Karl Marx nella seconda metà dell’Ottocento elabora una, non a caso, “rivoluzionaria” concezione del valore: il valore di ogni singola merce, e quello dell’intera produzione di merci……sono determinati dalla forza-lavoro……, ossia dalla quantità di  ore/lavoro impiegata e “comprata” sul mercato, nel quale il lavoro stesso è stato ridotto a merce; quel valore così prodotto copre in parte i salari, forza lavoro che si ricrea, e profitti, ossia la quota, ampiamente maggioritaria, che resta ai capitalisti in quanto detentori dei mezzi di produzione. Fra le tante intuizioni profetiche di Marx va annoverata anche quella della crescente finanziarizzazione del capitale; la finanza, a differenza di Smith e Ricardo, rientra quindi, già nella concezione marxiana, nella sfera delle attività che contribuiscono alla produzione. Le idee, filosofiche, politiche, ed economiche, di Marx diventano decisiva spinta alle crescenti lotte sindacali e politiche ed impongono, di conseguenza, alle scuole di pensiero borghesi un urgente cambio di paradigma nella concezione del valore. Ciò avviene a cavallo fra Ottocento e Novecento con un innegabile progressivo successo, perlomeno nel mondo occidentale, restando il blocco “sovietico” legato all’idea di forza lavoro marxiana, fin dai primi decenni del secolo scorso. E’ la svolta imposta dalla “scuola neoclassica”, dal “marginalismo”. Economisti quali Leon Walras, William Jevons, Alfred Marshall, non solo fissano, rendono canonico, il carattere scientifico, matematico, dell’economia, ma elaborano una nuova concezione del  valore partendo dal concetto di “utilitarismo” ……..il valore delle cose è misurato dalla loro utilità per il consumatore, non è quindi oggettivo, perché il mercato è mutevole, l’unico parametro che può incidere è la disponibilità  del prodotto offerto, più essa decresce più il prezzo/valore aumenta e viceversa………….La “rivoluzione marginalista”, sancisce quindi che, in una situazione di mercato perfetto e di libero incrocio fra domanda e offerta, il valore altro non è che il “prezzo”, ossia la preferenza che il mercato, i consumatori, accordano ad un prodotto, ad ogni tipo di prodotto, lavoro e finanza compresi,  fino al limite della “utilità marginale”, ossia della convenienza o meno ad accrescere, anche di una sola unità, la disponibilità del prodotto. Questa teoria del valore ……ancora oggi dominante…… ha comportato la cancellazione di ogni classificazione di ciò che è produttivo e di ciò che non lo è, stante l’assioma che…..tutto ciò che ha un prezzo ha un valore ed è produttivo…. Scompare quindi in questa visione lo stesso concetto di rendita, tutto ciò che è sul mercato è ed ha valore, e non è pertanto rendita. Poco hanno inciso nel contrastare la rivoluzione marginalista le idee di economisti, critici verso molte delle sue logiche, fra i quali emergono gli italiani Wilfredo Pareto e Piero Sraffa. Si è così giunti, ai giorni nostri, ad una situazione cristallizzata che vede ..la maggior parte degli studenti di economia….non conoscere altro approccio di teoria economica globale se non quello marginalista, ed in particolare, negli ultimi decenni del Novecento, nella sua neoliberista versione, ancor più rigida, aggressiva, e pretenziosamente “scientifica”.
Ma se questa è ormai la concezione predominante, mainstream, del valore, come si misura quello complessivo di una nazione, di un’area? Il Capitolo 3 ci aiuta a ripercorrere la storia dell’unità di misura altrettanto predominante: il PIL.
…..E’ importante ricordare che tutti i tipi di metodi contabili sono convenzioni che riflettono le idee, le teorie e le ideologie dell’epoca in cui sono concepiti…….la moderna concezione del PIL è influenzata dalla teoria del valore sottostante……L’influenza della concezione marginalista su cosa si debba intendere per PIL (Prodotto Interno Lordo), ossia il valore di tutto ciò che è definibile “prodotto”, è innegabile. Di fatto se, secondo il marginalismo, tutto ciò che ha un prezzo concorre alla creazione di valore in linea teorica resterebbero escluse da questo calcolo….le sole attività del Governo, pagate dalla tasse, e i percettori di “sussidi”….. All’atto pratico non mancano però problemi e contraddizioni, generati proprio dalla logica marginalista. Considerato che il PIL può, concretamente, essere misurato o guardando al valore della produzione, o al reddito generato, o sommando la spesa (domanda) per i prodotti finali, ritenere che tutto ciò che ha un prezzo generi valore da solo non aiuta a sciogliere evidenti nodi. Si pensi che, al termine di un percorso storico iniziato sin dagli albori della rivoluzione industriale, e all’interno del quale in epoche recenti hanno avuto un ruolo fondamentale, i lavori di Simon Kuznets e di John Maynard Keynes, le attività economiche che, con margini di discrezione nelle singole situazioni nazionali, possono comporre il PIL sono fissate da un manuale, il S.A.N. che, nella sua versione attuale, arriva a 662 pagine! Da questo elenco infinito di voci citiamo qui, per ovvie ragioni di spazio, solo alcuni casi emblematici in grado di farci capire come il PIL non sia affatto un inattaccabile monolite scientifico;
· La questione tecnicamente più controversa è calcolare l’incidenza della spesa statale, un esempio, all’apparenza banale, fra i tanti: quanto della spesa per la rete stradale incide sul trasporto “personale” o su quello “produttivo”? Come classifico i veicoli che passano su una strada per la quale si sono sostenute spese magari rilevanti?

· Più in generale come si deve gestire l’incidenza delle spese “intermedie” che intervengono nel processo di creazione di un “prezzo/valore” finale, specie se sono riferibili ad attività pubbliche?
· Il lavoro domestico e di cura, che non ha un prezzo sul mercato se non è affidato ad imprese, genera valore o no?
· Le abitazioni private, salvo quelle in regime di affitto, hanno un valore anche per il PIL?
· La prostituzione contribuisce? Nei paesi dove è legale la risposta è sì, negli altri è no. Ma l’attività, anche dal punto di vista strettamente economico, non è la stessa?
· E l’inquinamento? Se per affrontarlo si attivano interventi genera valore, la cui incidenza però varia a seconda se l’intervento è pubblico o privato. Se non si attuano interventi rappresenta unicamente un costo. Come valutarlo e conteggiarlo?
· Ed infine come valutare l’incidenza del famigerato “nero”, ossia il valore riferibile ad attività economiche, che pure hanno un “prezzo”, però non rilevabile? Per alcuni paesi, Italia compresa, questa è una voce che vale, purtroppo, tantissimo, ed è fondamentale capire la validità delle stime con cui viene ipotizzato per “arrotondare” il PIL
Ma la questione “centrale” per la Mazzucato è il peso del settore finanziario. Come già visto in precedenza il successo delle teorie marginaliste ha fatto sì che…..dall’essere vista come “trasferimento” di valore già esistente e come “rendita” nel senso di “reddito non guadagnato” la finanza è diventata produttrice di nuovo valore……e quindi interamente considerata nel conteggio del PIL.  Si chiude con il Capitolo 3 la parte “storica” del saggio, dedicata alla ricostruzione dei modi con i quali nelle diverse epoche economiche il valore è stato definito e dei parametri con i quali lo si è misura. Sicuramente la parte più coinvolgente per noi lettori “profani” di economia.  Nei successivi Capitoli 4 – 5 - 6 la Mazzucato sviluppa, con considerazioni inevitabilmente più tecniche” e quindi di lettura e comprensione più complesse, la sua critica al peso ed al ruolo assunto dalla finanza nella realtà odierna. Partendo dalle sue perplessità sulla teoria  marginalista del valore la Mazzucato ritiene infatti  che non solo non sia corretto farla rientrare nel conteggio del PIL, ossia nel processo di creazione di valore ritenendola un semplice trasferimento di quello da altri creato, ma che le sue finalità e le sue modalità di perseguimento di profitti (….denaro  che crea denaro….) arrechino un grave pregiudizio all’efficienza, alla sostenibilità ed all’etica dell’intera economia, alla stessa creazione autentica di valore……..la vera sfida non è definire la finanza come creazione o estrazione di valore, ma di trasformarla radicalmente, in modo che essa sia effettivamente creazione di valore……..In particolare nel Capitolo 4 sono esaminati i percorsi e le  modalità con le i quali la finanza ha potuto assurgere al  suo attuale ruolo centrale nell’economia. Hanno contribuito in questo senso non solo le “comprensibili”, per certi versi, aspirazioni al massimo profitto degli operatori finanziari, banche in primis, ma la accondiscendente complicità della politica che, troppo spesso indotta da una sua acritica adesione alle teorie economiche mainstream, ha modificato le regole del gioco in senso troppo permissivo. L’esempio più citato, e che ancora resta al centro del dibattito, è stata la concessione alle banche “commerciali” (le “nostre” banche, tradizionalmente preposte alla raccolta dei risparmi ed alla concessione di prestiti nei limiti consentiti dalla raccolta) di muoversi senza limiti sul mercato finanziario invadendo il campo precedentemente esclusivo delle “società finanziarie”. In questo mare magnum della “intermediazione finanziaria” la finanza ha così potuto non solo acquisire un peso decisivo sullo stesso settore economico della produzione reale, ma, lasciata libera di auto-conformarsi, di seguire le proprie finalità di profitto con la creazione di strumenti ad hoc, quali i “derivati” e le “cartolarizzazioni” (in parole “molto” povere i primi sono prodotti finanziari il cui prezzo “deriva” da una sorta di “scommessa” sul prezzo che ad una certa data avranno altri prodotti, reali e non, le seconde sono la vendita, fatta per ricrearsi margini di manovra, ad altri soggetti, spesso creati ad arte, dei crediti che un operatore finanziario, banche comprese, vanta nei confronti di mutuatari ai quali ha erogato prestiti), veri creatori di “denaro mediante denaro”, che si sovrappongono alla già eccessiva libertà di concessione credito (i mutui erogati da banche e finanziarie sono, anche dal punto di vista tecnico, una vera e propria “creazione di denaro”) . Con il risultato, inevitabile, del formarsi di una dimensione finanziaria del tutto slegata dal valore reale, e soggetta quindi, altrettanto inevitabilmente, al formarsi di “bolle” ingestibili che, al loro esplodere, come nel 2008 con il mitico default della Lehmann Brothers, creano danni impressionanti all’intera economia. Nel successivo Capitolo 5 la Mazzucato esamina le caratteristiche delle attività concretamente svolte dal settore finanziario così abnormemente cresciuto. Dobbiamo, va da sé, abbandonare l’immagine della banca tradizionale e sostituirla con quella di  società in grado di presiedere ad una mole enorme di transazioni che viaggiano incessantemente nell’intero pianeta….oggi il settore si è ampliato fino a coprire una immensa congerie di strumenti finanziari che formano una nuova forza nel moderno capitalismo: la gestione patrimoniale…..Se si considera che dall’insieme di queste attività, in termini di fondi erogati, solo il 15% va ad imprese non finanziarie, ossia imprese operanti nell’economia reale, emerge chiaramente un settore che si auto-alimenta “sottraendo” valore prodotto da altri. Il benessere che, nel mondo occidentale, si è effettivamente realizzato, anche in modo diffuso e grazie all’economia reale, nel famoso “trentennio d’oro” (anni 50-60-70) ha creato un patrimonio finanziario complessivo di straordinarie dimensioni: è questo il terreno di pascolo, la gestione patrimoniale, che alimenta la finanza mondiale a partire proprio dagli anni 70, quelli che hanno visto il decollo della finanziarizzazione dell’economia…..come fa la finanza a sottrarre valore? Vi sono a grandi linee tre risposte: costi di intermediazione ….caricando oneri troppo alti rispetto ai rischi…..potere monopolistico…….Sono forme di sottrazione di valore che, in aggiunta, lasciano spazio a degenerazioni speculative.  Ad esempio: se le percentuali applicate come costo di transizione mantengono, per ragione di concorrenza, una certa rigidità, si può creare un guadagno suppletivo aumentando il numero di transizioni giustificandolo con la ricerca di maggiori guadagni. E’ quello che è successo…..la frequenza degli scambi è aumentata in modo esponenziale…..al punto da rilanciare l’idea di introdurre  una tassa sulle transazioni (Tobin Tax) proprio al fine di ridurne l’esasperata e strumentale proliferazione. Ancor più impattante è la concentrazione monopolistica. Al culmine dei percorsi descritti nel Capitolo 4 si deve infatti constatare una concentrazione di potere di mercato in un numero sempre più ristretto di operatori finanziari…..nel 2010 cinque grandi banche americane controllavano il 96% dei contratti sui derivati e nel Regno Unito dieci istituzioni finanziarie oltre all’85% dei derivati gestivano il 77% del mercato dei cambi……Governi ed imprese possono quindi rivolgersi ad un numero ristretto di banche per ottenere i servizi finanziari necessari alle attività a loro in capo, e non lo possono certo fare da posizioni dominanti, anzi. Un altro fenomeno ha parallelamente accompagnato questi processi nel campo della gestione patrimoniale: la crescita spaventosa delle disuguaglianze economiche e delle rendite denunziata da Thomas Piketty nel “Capitale del XXI secolo”. Quella che agli inizi degli anni settanta era la gestione di un patrimonio relativamente diffuso, frutto del trentennio d’oro, si è trasformata nel costante accrescimento di una ricchezza, sempre più slegata da ogni processo economico reale e sempre più concentrata nelle mani di pochi, pochissimi. Va da sé che è lecito stabilire una stretta connesione fra questi due processi. A chiudere questa seconda parte del saggio, la Mazzucato esamina, nel Capitolo 6, le conseguenze della finanziarizzazione sulla stessa economia reale…..la straordinaria crescita della finanza non si è limitata al settore finanziario, essa ha permeato l’intera economia come l’industria manifatturiera e i servizi non finanziari….per certi aspetti un fenomeno ancor più straordinario della stessa espansione della finanza……Sono, a grandi linee, due i percorsi della finanziarizzazione dell’economia reale: il primo consiste nell’aver affiancato alla produzione ed alla commercializzazione l’offerta di prodotti finanziari puri (l’industria dell’auto, ad esempio, ottiene margini di ricavo più alti dal finanziamento per l’acquisto che dalla vendita dell’auto stessa), il secondo, ancor più impattante perché si inserisce in un capovolgimento delle filosofie aziendali classiche, è il riacquisto delle azioni societarie. Una strategia che consente, innegabilmente, di aumentare il valore nominale delle azioni riducendone il numero, ma che comporta per l’azienda lo spostamento di fondi tendenzialmente destinabili agli investimenti. Ciò avviene in un quadro complessivo che vede, con il concorso, interessato, dei dirigenti di alto livello aziendali (remunerati in base al rendimento azionario e legati a contratti di breve termine), e di quello, spesso inconsapevole, degli stessi azionati, e in coerenza con una teoria economica neo-liberista (Milton Friedman), l’abbandono di fatto di visioni aziendali di lungo periodo sacrificate sull’altare del guadagno azionario a breve. Un dato evidenziato dalla Mazzucato riassume, in modo esemplare ad estrema sintesi della seconda parte, lo sconvolgente spostamento dell’attenzione economica dall’economia reale alla finanza……nel 1965 solo l’11% dei laureati alla Harvard Business School andarono nel settore finanziario, solo vent’anni dopo nel 1985 tale percentuale era salita al 41% e da allora è sempre cresciuta……….Nelle parte finale del suo saggio, Capitolo 7 – 8 – 9, la Mazzucato  prende in esame  i meccanismi di creazione di valore nell’economia reale, manifattura, industrie in genere, e servizi non finanziari per  riprendere, infine,  alcune proposte  di cambiamento  da lei stessa già esaminate nel suo precedente saggio “Ripensare il Capitalismo”. ……. Non mancano problemi, per quanto concerne la produzione di valore reale, neppure nei settori economici produttivi. La stessa “economia dell’innovazione” nasconde al suo interno situazioni definibili come…..imprenditoria improduttiva……spesso riferibili proprio a quelle attività assurte a simbolo dell’innovazione. La Mazzucato fornisce, per comprendere la genesi di questa contraddizione, una chiara indicazione delle caratteristiche chiave dei processi innovativi……l’innovazione è per natura molto cumulativa, mette insieme più componenti…..è spesso il risultato di investimenti precedenti……è collettiva e richiede tempi lunghi…..In sostanza quelle che all’apparenza si presentano come invenzioni rivoluzionarie sono il frutto di investimenti a lungo termine, che si accumulano uno sull’altro nel corso degli anni fino a formare la base insostituibile per il finale “colpo di genio” innovativo…….all’inizio sono agenzie di ricerca e sviluppo pubbliche che finanziano la ricerca scientifica di base e solo quando l’innovazione è vicina ad avere applicazioni commerciali entrano in gioco  operatori privati….. Questo è quello che è successo proprio per le tanto celebrate imprese “rivoluzionarie” della Rete e dell’informatica americane. Alcuni esempi:…..l’Iphone (Apple) dipende dalla tecnologia dello smartphone realizzata grazie a investimenti pubblici durati molti anni……Internet (Microsoft, Facebook e compagnia cantante) quelli del Ministero della Difesa ……il GPS quelli della Marina Militare……lo schermo touchscreen quelli della CIA…….per l’appunto tutti finanziamenti “pubblici”. Sui quali si è “innestata” la finale indubbia genialità creativa (in generale il mondo delle “start-up) che ha, grazie a meccanismi specifici del mercato di questi settori economici, realizzato profitti sotto molti aspetti ingiustificati che hanno “falsato” la creazione di vero “valore”. Un secondo fattore di squilibrio del mercato che consente posizioni ingiustamente predominanti tali da generare profitti non commisurati al volume effettivo di investimenti, e incidendo quindi sulla creazione di valore reale, consiste nella scorretto sfruttamento dei “brevetti”. Lo strumento che teoricamente doveva proteggere un inventore dall’essere copiato, e che, garantendo una esclusiva per un periodo limitato, doveva stimolare un diffuso adeguamento tecnologico si è trasformato nella giustificazione “legale” per imporre prezzi del tutto slegati dai costi effettivi di produzione e di investimento. Ciò avviene per tre ragioni…..il campo di azione dei brevetti si è allargato a dismisura comprendendo anche la “conoscenza dietro i prodotti”, i brevetti possono, grazie a nuove norme, essere rinnovati più volte arrivando in alcuni casi a valere per molti decenni…..i brevetti sono più facili da ottenere perché le commissioni che li devono valutare spesso si trovano di fronte a complessità di giudizio tali da indurre alla concessione immediata….L’esempio che più testimonia  questo abnorme ruolo dei brevetti è quello dei medicinali di punta anti-tumorali e anti-epatiti (cure che per singolo malato costano centinaia di migliaia di dollari/euro). Emerge quindi l’evidenza che se la creazione di vero valore è inscindibile dal ruolo dell’innovazione nei processi economici reale, (Joseph Scumpeter è sicuramente l’economista che, riprendendo riflessioni profetiche di Marx, di più ha enfatizzato il ruolo dell’innovazione per il capitalismo), è fondamentale che essa sia…..adeguatamente governata per far sì che il prodotto ed il modo di produrlo portino alla creazione di valore e non ad espedienti per l’appropriazione di valore….Dall’insieme di queste considerazioni si evince che l’innovazione deve avere una direzione ed una velocità, deve cioè essere “guidata”. Compito che non può non essere che in capo alla politica, che deve inoltre valorizzare il carattere “collettivo” dell’innovazione, facendo sì che le tutte le sue ricadute positive premino in modo equo l’intera società, i produttori ed i consumatori. Questo vale, a maggior ragione, se si considera il ruolo del settore pubblico nei processi innovativi e nel suo effettivo ruolo nella creazione di lavoro. Il Capitolo 8 la Mazzucato ci offre una appassionata difesa del ruolo dello Stato in economia. Riassumendo in modo lucido i termini dell’aspro confronto fra teorie economiche, marginalisti e neo-liberisti, quelle prevalenti, da una parte e keynesiani dall’altra, emerge con chiarezza che il contributo del pubblico al valore è, spesso strumentalmente, di molto sottovalutato. Non solo le azienda statali e municipalizzate che gestiscono servizi pubblici (trasporti, poste, fornitori di energia) sono considerate, nel conteggio del PIL, come “privati”, ma la creazione di valore che, ad esempio, deriva dall’istruzione pubblica, che “forma” futuri lavoratori, non è valutata, essa rappresenta solo una spesa, quella degli stipendi degli insegnanti. E’ chiaro che con una considerazione preconcetta come questa trova buon gioco il pensiero mainstream neo-liberista di considerare lo Stato solo una zavorra da alleggerire privatizzando ed esternalizzando quanto più possibile. E diventa il presupposto per le politiche di austerità, quasi sempre cieche e controproducenti, avviate in tutto l’Occidente. Ma è lo stesso Stato che in molti casi si auto-consegna ad un ruolo marginale. Non solo non fa valere il suo effettivo apporto alla creazione di valore, ma, pressato com’è dall’obbligo di “stare entro i conti”, rinuncia al ruolo fondamentale, che le stesse logiche di mercato gli consegnerebbero visto che il privato non è “geneticamente” preposto a ciò, di investire, anche rischiando, in ricerca ed innovazione. Condannandosi così molto spesso a semplice erogatore di assistenza e sussidi redistribuitivi. Ma è nel finale Capitolo 9 che la Mazzucato, tracciato il quadro storico e strutturale del “valore”, avanza alcune sue proposte per valorizzare, incrementandolo, la creazione di vero valore e per ridimensionare il peso dei settori e delle attività che al contrario lo sottraggono al suo essere un prodotto “collettivo”. Non è a suo avviso sufficiente, per quanto necessario e condivisibile, ridefinire il PIL e le attività che concorrono a formarlo, tassare la ricchezza attuando una redistribuzione irrinunciabile……..la sfida più grande è ridefinire e misurare il contributo collettivo alla creazione di ricchezza……Una sfida che non potrà essere vinta se si resta legati al concetto di prezzo uguale valore., una relazione che, come si è visto,  falsa completamente la vera origine del valore. Un passaggio essenziale consiste nella stessa ridefinizione di “mercato”; che non può essere solamente visto come il luogo di incontro fra domanda ed offerta e la dimensione economica nella quale si definisce il prezzo delle merci. Riprendendo le magistrali indicazioni di Karl Polanyi…..i mercati sono i risultati di processi complessi di interazioni tra i differenti attori dell’economia, incluso lo Stato….invece di concentrarci su quali attività sono produttive possiamo lavorare in modo da assicurare che tutte le attività promuovano i risultati che vogliamo e quindi, da questo punto di vista, siano creatrici di valore…….E questo rimanda alla questione di fondo:….quale direzione dovrebbe prendere l’economia per giovare al maggior numero di persone…..E, aggiunge la Mazzucato, per uscire da questa folle corsa al suicidio del pianeta per inseguire il mito della crescita….non solo puntando ad una crescita sul lungo periodo  concentrandoci però meno sul tasso di crescita e di più sulla direzione della crescita…..Il concetto di vero valore sarebbe così ridefinito in termini corretti come il risultato dello spostamento delle attività che rispondono a questi obiettivi entro il perimetro delle attività produttive, escludendo, penalizzandole, tutte quelle che non sono coerenti alla direzione tracciato. Il saggio si chiude con questa frase……se non possiamo sognare un futuro migliore e cercare di realizzarlo non c’è nessuna ragione per cui dovrebbe importarci del valore. E questa è forse la lezione più grande di tutte….

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Commenti e recensioni al saggio di
Mariana Mazzucato “Il valore di tutto”

Fra i molti circolanti in Rete abbiamo selezionato alcuni commenti/recensione del saggio della Mazzuccato, per alcuni aspetti, come anticipato nella presentazione del saggio, anche critici, ma in grado di fornire a chi fosse interessato ulteriori elementi di giudizio……..

Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è la forma attraverso la quale la produzione di valore viene «realizzata» nelle forme dominanti della ricchezza sociale (denaro e profitto). È in questo passaggio che la finanza ha svolto e continuerà a svolgere un ruolo essenziale nel definire gerarchie sociali e priorità nel regime di accumulazione capitalistico.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione «parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi, bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme, incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei rapporti sociali capitalistici. Sono queste le premesse di un libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo. In questo libro l’economista si spinge molto più in là, alza cioè l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa che ne fanno un libro di agile lettura. Il volume ha infatti molte chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo estrattivo e cosa quello di piattaforma. Un libro, infine, da mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen, autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine come problema e non come soluzione politica). Un lessico e un frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico (sono note le sue simpatie liberal che l’hanno però portata anche a dichiarazioni e collaborazioni con il Labour Party di Jeremy Corbyn). Dunque distinzione tra produzione di valore e sua realizzazione. Al primo polo, c’è l’organizzazione produttiva, la successione di determinazioni che assume il capitale e il lavoro. Varia nel tempo e nello spazio. Ha bisogno di innovazione, di coordinamento, di uno Stato nazionale (la nazione è la forma dominante assunta dal capitalismo nella modernità) che definisca regole e produca le necessarie infrastrutture affinché l’economia funzioni. La Mazzucato ne offre un affresco vivido, dai primi atelier sorti dopo l’accumulazione originaria di capitale fino ai campus-fabbriche ipertecnologici della Silicon Valley. Anche la finanza svolge qui la sua necessaria parte, come credito, recupero sociale dei capitali necessari per progetti imprenditoriali rischiosi, a partire dai fondi pensione, ai risparmi del ceto medio, al capitale in «eccesso» di imprese e singoli capitalisti. Il venture capital non è perciò coniglio tirato fuori in California: c’è sempre stato. Importante è la sottolineatura dell’autrice che riguarda i capitalisti di ventura: fanno di tutto meno che rischiare. Intervengono sempre quando i maggiori rischi li ha corsi chi vuol intraprendere una temeraria attività produttiva e chi (lo Stato) ha per anni inondato di denaro università e centri di ricerca pubblici e privati. I venture capital favoriscono a posteriori il decollo di una start up, avendo come contropartita una quota esagerata di futuri profitti e salvaguardandosi comunque da possibili fallimenti. Insomma, i capitalisti di ventura cadono sempre in piedi. C’è un però, nello schema delle tesi elaborate, che l’autrice non sempre riesce a padroneggiare. Il peso enorme assunto dalla finanza. Una spiegazione sta nel fatto che senza questa superfetazione finanziaria il capitalismo esploderebbe nelle sue contraddizioni. Ha un ruolo di stabilizzazione politica, per la gestione delle contraddizioni e disuguaglianze sociali: non per risolverle ma per renderle compatibili con la società del capitale. Echeggiano, tuttavia sempre sullo sfondo, le analisi sulla privatizzazione dei diritti sociali di cittadinanza attraverso la finanza (acquisti sul mercato pensione, assistenza sanitaria, formazione, mentre il credito al consumo assicura che la costante riduzione dei salari non si traduca in stagnazione). Più rilevanza hanno le tendenze all’oligopolio, presentate a ragione non come una «degenerazione» ma un fattore essenziale per imprese che hanno il pianeta come orizzonte di mercato e produttivo – le big five della Rete testimoniano tutto ciò – e di un numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato. Le diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica senza crescita di occupazione. Anche l’elusione fiscale rientra in questo carnet de doléance. La finanza organizza infine i flussi di denaro – ormai quasi puro segno, cioè convenzione socialmente necessaria scandita da una successione astratta, automatizzata di bit e byte dentro e fuori la Rete. Qui si addensano non pochi problemi. Non è tuttavia scontato che la «cattura» del valore sia da analizzare alla stessa stregua dell’estrazione di un minerale o dell’appropriazione violenta da parte di spregiudicati imprenditori della ricchezza sociale. Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è espressione di rapporti sociali incardinati su plusvalore relativo e assoluto (ne scrive così anche Mazzucato). Ignorare questo elemento significa condannare la critica a un posticcio costrutto etico, una romanticheria che salva tutt’al più l’anima. L’autrice non si vuol certo salvare l’anima, ma si ferma sull’uscio degli atelier della produzione. Preferisce cioè constatare gli elementi di disequilibrio, di instabilità del capitalismo, che va salvato, ripete più volte, da se stesso. Identico procedimento per il capitalismo delle piattaforme, il quale è sì intermediazione tra produzione e realizzazione del valore, ma anche fattore pienamente produttivo.
In altri termini, il focus si dovrebbe spostare sul lavoro vivo, sulla sua eterogeneità, nella sua organizzazione su base planetaria e locale. E sulla sua violenta ripartizione gerarchica in base alle competenze, la razza, il sesso, uno statuto mutevole e definito arbitrariamente della cittadinanza. L’assenza di un’analisi dei bacini del lavoro vivo dentro e fuori il capitalismo delle piattaforme conduce l’analisi a una generica richiesta di riequilibrio keynesiano nella redistribuzione della ricchezza, elemento che Mazzucato fa suo in più pagine. Ma il suo è un libro, non un programma politico. E ha molte frecce nel suo arco. La lettura non può che constatare che alcune di esse sono schioccate con efficacia.

Nicolò Bellanca-Il valore economico come prodotto collettivo–Blog MICROMEGA
La distinzione tra la produzione e l’estrazione di valore è apparentemente ovvia. Così Luciano Gallino la presenta all’inizio del suo Finanzcapitalismo: «L’estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un sistema operativo più efficiente del suo predecessore o si piantano alberi. Per contro si estrae valore quando si provoca un aumento del prezzo delle case manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo; si impone un prezzo artificiosamente alto alla nuova medicina; si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario; si impedisce a sistemi operativi concorrenti di affermarsi vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema, o si distrugge un bosco per farne un parcheggio». Non appena però si esaminano i singoli passaggi di un brano come quello appena riportato, i dubbi sorgono numerosi. Costruire una casa è sempre positivo, anche quando nessuno è in grado di comprarla, o anche quando viene edificata sulla collina panoramica? Fino a che soglia una variazione dei tassi d’interesse deriva da dinamiche mercantili, e da che punto in poi è invece una manipolazione speculativa? Se per creare un posto retribuito occorre che il lavoratore intensifichi i ritmi di lavoro, cosa è preferibile per il disoccupato? E così via. Malgrado i dubbi, una qualche distinzione tra attività che creano valore e attività che lo sottraggono e lo redistribuiscono non è evitabile. L’importante è che una tale distinzione sia resa esplicita e sorretta dalle migliori argomentazioni. In caso contrario, è probabile che i gruppi più forti e organizzati facciano surrettiziamente adottare dall’intera collettività una versione della distinzione a loro favorevole. Il libro più recente di Mariana Mazzucato ruota intorno all’esigenza di chiarire chi crea valore economico nel capitalismo contemporaneo, e chi invece si limita a redistribuire, se non talvolta ad espropriare, il valore ottenuto da altri. La ricerca viene introdotta dall’autrice richiamando un’altra distinzione: quella tra l’uso informativo o performativo di un messaggio. Informativo è l’avviso apposto sui pacchetti di sigarette: “Nuoce gravemente alla salute”. Se non seguo l’avviso il rischio è mio, ma posso far divergere l’azione dal messaggio. La performatività si realizza, piuttosto, quando la parola e il comportamento coincidono, ossia quando il messaggio si traduce immediatamente in una pratica sociale. Se il cartello segnala “Vietato fumare”, esprime un divieto che, se non lo rispetto, mi rende perseguibile. Ancor meglio, se il Sindaco proclama “Siete sposati”, rende con ciò stesso esecutivo il mio matrimonio. Mazzucato sostiene che i messaggi elaborati e trasmessi dalla scienza economica hanno in prevalenza un carattere performativo, puntando a modificare direttamente la realtà sociale. Tra questi messaggi performativi, spicca il metodo adottato per misurare il flusso di nuova ricchezza delle nazioni: il PIL, ossia il valore totale dei beni e servizi prodotti nel sistema economico. Poiché la misurazione del PIL prende le mosse da un modo preciso con il quale valutiamo le attività economiche, essa contribuisce all’incremento di certe attività a scapito di altro. Più esattamente, «la moderna nozione contabile di PIL è influenzata dalla teoria del valore sottostante che è usata per calcolarlo». Se dunque vogliamo rimettere in discussione i criteri di costruzione del PIL, che peraltro sono già cambiati più volte nel tempo, dobbiamo riesaminare la teoria del valore economico. Torniamo quindi alla domanda iniziale: chi crea valore economico nel capitalismo contemporaneo? Mazzucato dedica una parte sostanziosa del libro a ripercorrere alcune tra le impostazioni teoriche storicamente più importanti. Una prima tesi risale ai fondatori dell’economia politica, gli economisti classici: per essi la creazione di valore economico è legata inestricabilmente alla produzione di nuovi beni e servizi, anziché alla circolazione di merci già prodotte. Il valore si forma lungo un processo che, combinando varie risorse, ottiene nuovi beni e servizi, mentre il valore si redistribuisce quando risorse e merci già esistenti vengono trasferite da un soggetto all’altro, e quando la loro commercializzazione comporta guadagni sproporzionati[6]. Una seconda posizione, denominata neoclassica, si afferma dalla fine del XIX secolo, mantenendosi dominante fino ad oggi: essa sostiene che è il prezzo di mercato a determinare il valore. Basta che qualcuno sia disposto a pagare per un bene o per un servizio, affinché l’attività che fornisce quella merce aggiunga valore; e basta che chi svolge quell’attività riscuota un reddito, affinché il guadagno di quel reddito sia giustificato. Dunque secondo i neoclassici ogni attività economica crea valore, purché il mercato la retribuisca; e ogni retribuzione è legittima, purché vada ad un’attività creatrice di valore. Questo approccio considera non generative di valore unicamente le attività prive di una domanda in grado di pagare, anche qualora esse soddisfino bisogni personali e sociali di decisivo rilievo; le attività del settore pubblico, che sono alimentate dalle tasse; e, infine, le attività che percepiscono un reddito «nella forma di trasferimenti, come i sussidi alle imprese o i contributi assistenziali alle famiglie». La terza e ultima tesi sulla creazione del valore che qui richiamo deriva dalle teorie keynesiane: per essa, a differenza dei neoclassici, le spese statali possono contribuire all’espansione dell’economia. Nella prima versione del Sistema di contabilità nazionale delle Nazioni Unite, risalente al 1953 e plasmata da questa tesi, il settore pubblico fu trattato non soltanto in termini di spesa, bensì pure come un fattore di crescita del reddito, il cui contributo al PIL (misurato solo con i salari da esso versati, senza contare gli acquisti statali di beni e servizi da privati) varia per gli Stati Uniti, dal dopoguerra ad oggi, fra l’11 e il 15%. D’altra parte la finanza rientrò nel PIL soltanto come input intermedio, che contribuisce al funzionamento di altri settori economici. Tuttavia, dagli anni Settanta dello scorso secolo, gli attivi del settore finanziario (prestiti, obbligazioni, azioni e derivati bancari) iniziarono a crescere fino a diventare un multiplo dell’economia reale. Ecco che, sulla spinta della natura performativa dell’economics, ciò rovesciò i criteri di calcolo del PIL: mentre il settore pubblico venne riclassificato come improduttivo, nota Mazzucato, la finanza diventò produttiva. La giustificazione avanzata fu che la “intermediazione finanziaria”, svolta dalle banche commerciali, e le “assunzioni di rischi”, affrontate dalle banche d’investimento, sono entrambe attività produttive in quanto muovono il capitale verso un’allocazione efficiente. Quando però, come spesso accade, l’allocazione dei capitali rimane ben lontana dall’efficienza, o addirittura scatena una crisi finanziaria provocando gravi perdite, il settore finanziario non perde la produttività che gli è stata conferita e non viene tolto dal calcolo del PIL.  Nell’illustrare dettagliatamente le convenzioni che presiedono al calcolo del PIL, Mazzucato documenta che esse vengono scelte non soltanto per giustificare un determinato assetto del potere economico, ma, soprattutto, per crearlo. Proponendosi di scardinare quelle convenzioni, ella persegue un programma politico, nel senso più alto del termine. La sua tesi è che la creazione di valore richiede sempre uno sforzo collettivo. Non sono i proprietari dell’impresa (gli shareholders, nel caso di una società per azioni) a generare da soli il valore economico; piuttosto, sono gli stakeholders (tutti i soggetti a vario titolo coinvolti) a innescare i percorsi innovativi, a sostenerli ripartendone i rischi, a rafforzarli con gli investimenti di lungo periodo e infine a beneficiarne con la distribuzione dei proventi. Accanto agli imprenditori e ai lavoratori, è lo stato l’altro cruciale stakeholder che partecipa alla produzione di valore istituzionalizzando i mercati, migliorando la produttività e la futura capacità di crescita dell’economia (con investimenti in educazione, innovazione, infrastrutture e salute), assumendosi rischi (con il finanziamento della ricerca di base e delle nuove tecnologie). Senza lo stato, il capitalismo semplicemente non potrebbe riprodursi. Un primo limite del libro riguarda, a me pare, il modo semplificato con cui Mazzucato usa il concetto di performatività nel discutere le posizioni sull’origine del valore economico. È indubbio che nell’economics i messaggi intellettuali diventano azioni politiche, ma l’impatto di un messaggio dipende anche dalla sua robustezza, e questa a sua volta deriva da una filosofia sociale e da una modellizzazione analitica. Quando ad esempio Adam Smith o Karl Marx s’interrogano sulla “causa della ricchezza delle nazioni”, essi rispondono appellandosi ad «un’idea precisa sulla posizione che l’uomo occupa nell’ambito della natura: solo l’uomo è vivo, la natura è morta; solo il lavoro umano crea dei valori, la natura è passiva». Si tratta di una filosofia nella quale il lavoro umano costituisce l’unico costo sociale reale dei beni, e che, traducendosi nel modello del valore-lavoro, giustifica, nel XIX e in parte del XX secolo, le rivendicazioni politiche della classe operaia. Questo approccio perde forza per il convergere di tre motivi: le sconfitte politiche del movimento dei lavoratori, il ridursi della centralità del lavoro umano nel sistema economico e le difficoltà scientifiche del valore-lavoro. Se non teniamo adeguatamente conto dell’intreccio di motivi per i quali un messaggio intellettuale può avere impatto sociale, non capiamo perché il brano di Gallino riportato in apertura suona, allo stesso tempo, così seducente e così ambiguo. Esso seduce per il retroterra filosofico, analitico e politico che ce lo fa sembrare “ovvio”; quando però iniziamo a districare un filo dall’altro, cominciamo a coglierne l’ambiguità. Nel trattare le varie posizioni, e nel presentare la propria, Mazzucato evita di confrontarsi con questo complesso intreccio di motivi, e tende a enfatizzare le sole ripercussioni politiche, riferendosi ad un’accezione ristretta della performatività. L’altro limite consiste, a mio avviso, nel ridurre la natura collettiva della creazione del valore alla partnership tra privato e pubblico. Per Mazzucato, il contributo collettivo passa esclusivamente dal settore pubblico dell’economia. Tuttavia, secondo una diversa linea di pensiero, la produttività è, dentro l’impresa, espressione di una squadra (composta da lavori con vario livello di qualifica, beni strumentali e capitali di rischio), e gli apporti individuali non sono quasi mai calcolabili; a livello sociale, la produttività non dipende soltanto, come afferma Mazzucato, dai beni collettivi forniti dalle istituzioni politiche, poiché ad essa contribuiscono pure beni collettivi che si formano nell’ambito di altre sfere istituzionali (ad esempio, il capitale sociale che si sedimenta grazie ad una determinata tradizione civica, oppure il capitale culturale ereditato dalla storia locale) e che vengono resi disponibili dall’ecosistema (ad esempio, la terra fertile oppure l’acqua pulita). Se dunque adottiamo la concezione secondo cui il valore economico è un processo collettivo, la sua creazione va attribuita ad una molteplicità di fonti: private, pubbliche, sociali e ambientali. O, comunque, non va ridotta alla coppia imprese-stato. Infine, Mazzucato ha ragione nell’osservare che la politica progressista non può limitarsi a propugnare la tassazione di redditi e ricchezze, e ad “aggiustare” le imperfezioni dei mercati esistenti. La sua proposta è che la sinistra ripensi «come dirigere a lungo termine l’economia». Si tratta di un’indicazione che recupera le ragioni profonde dell’intervento pubblico, il quale non è soltanto anticiclico, come in Keynes, bensì plasma intensità e qualità dello sviluppo. Ma non basta, a mio parere: collocandosi interamente dentro il binomio privato-pubblico, questo suggerimento trascura la problematica del cambiamento del rapporto tra economia e società, e quindi del distacco dall’orizzonte capitalista. Un tempo “uscire” dal capitalismo era la parola d’ordine di “frange estremiste” e di inguaribili utopisti. Oggi è una prospettiva inevitabile, per provare a salvare le collettività umane e il pianeta

Massimo Giannini-Così si batte la religione del profitto-La Repubblica” 15/11/18
Nel suo nuovo saggio, l’economista Mariana Mazzucato propone una strategia per fronteggiare disuguaglianze e patologie di un capitalismo rapace. Quando penso al "club dell’1 per cento" che si mangia la metà della ricchezza del pianeta, al manager che incassa un superbonus 450 volte maggiore del salario medio dei suoi dipendenti, ai 5 milioni di italiani in povertà, mi torna in mente una delle leggendarie vignette di Altan. I due soliti signorotti che parlano: «Ma in questo mondo conta solo il profitto?» «Ma no, c’è anche il lucro!». Ridiamoci sopra, anche se non c’è niente da ridere. L’esplosione delle disuguaglianze sociali spiega la crisi del nostro tempo. Il mesto tramonto delle democrazie liberali e l’alba dorata delle destre populiste. Nel discorso pubblico moderno questo non pare un incidente della Storia, che ha imboccato un tornante contromano. Sembra piuttosto un destino che si compie, ineluttabile e immodificabile. E allora viva Mariana Mazzucato, che nel solco di Piketty e Stiglitz ha il coraggio di battersi contro i falsi miti di cui si nutre la Società Diseguale nella quale siamo precipitati e alla quale sembriamo condannati. Il suo ultimo saggio, Il valore di tutto (Laterza), spiega il paradosso della vignetta di Altan. Come siamo arrivati a credere che, al di là del profitto, nel capitalismo contemporaneo ci sia spazio solo per il lucro? Quando abbiamo scambiato il reddito con la rendita, chi guadagna con chi produce? Perché abbiamo confuso la "creazione di valore" (cioè l’uso delle risorse per produrre nuove merci e servizi) con la "estrazione di valore" (cioè il trasferimento di risorse o prodotti esistenti, e il guadagno che deriva dalla loro commercializzazione)? Ci aveva già dilettato con Lo Stato innovatore, un libro quasi eversivo di quattro anni fa. Adesso, partendo da Ricardo e Marx, Mazzucato arriva al cuore del problema. Nel diciassettesimo secolo l’economia del mondo cresce grazie all’incentivazione delle attività produttive e alla penalizzazione di quelle improduttive. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo avviene la prima mutazione: il "valore" passa da una dimensione collettiva a una declinazione individuale. Oggi la metamorfosi si compie, l’economia "di carta" e la finanza "a breve" vincono sull’industria, si afferma il primato delle gestioni patrimoniali, si impone la "massimizzazione del valore per gli azionisti". Sulla scia della Grande Recessione del 2008 nasce un capitalismo rapace e parassitario, che impone ai governi uno storytelling, deviato e deviante: «A loro alte remunerazioni, a noi gli avanzi». "Loro" sono le mosche del Capitale. I «creatori delle favole che governano il mondo», come diceva Platone. "Loro" sono i banchieri di Goldman Sachs che, nonostante i disastri del Big Crash di dieci anni fa e i 125 miliardi spesi dal governo Usa per il suo salvataggio, tra il 2009 e il 2016 accumula 63 miliardi di utili. "Loro" sono i giganti di Big Pharma, che per tre mesi piazzano sul mercato il farmaco Gilead contro l’epatite C al modico prezzo di 94.500 dollari. "Loro" sono gli Over The Top tipo Apple, che per non pagare le tasse in America sposta all’estero il suo giro d’affari da 187 miliardi di dollari, o i colossi della Gig Economy tipo Uber o Airbnb, che lucrano profitti e dividendi sulle spalle del sistema pubblico. Dimenticando che senza i colossali investimenti pubblici nell’hi-tech degli ultimi trent’anni non sarebbero mai nati Internet, il Gps, il Touchscreen, Siri, cioè tutte le piattaforme dalle quali si estrae valore per azionisti e manager. E alimentando un altro mito, che Mazzucato aveva sfatato col suo saggio precedente: quello del "privato ghepardo" che batte in velocità e in efficienza lo "Stato tartaruga". Una bugia, alla quale però crediamo ciecamente come al racconto della lotta tra il bene e il male. Senza neanche farci attraversare da un dubbio: e se fosse tutto falso? Niente da fare. Noi non abbiamo tempo per le domande. Eppure "noi" siamo il popolo bue, che sta ai margini di questa élite capace di orientare politiche industriali e fiscali e di drenare sgravi crescenti sui guadagni in conto capitale. "Noi" siamo il lavoro svilito, precario e sottopagato. Oggi - ci ricorda Mazzucato - il patrimonio dei 62 uomini più ricchi del mondo è pari a quello della metà più povera, cioè 3,5 miliardi di individui. Tra il 1975 e il 2017, solo negli Stati Uniti, il Pil reale è triplicato da 5.490 a 17.290 miliardi di dollari, la produttività è cresciuta del 60%, ma i salari reali sono rimasti invariati. Tutto il resto è finito dov’è naturale che finisca, in questo sistema traviato: nelle tasche di raider e "rentier". Gli "estrattori" travestititi da "creatori". Se questa è la malattia, Mazzucato azzarda una cura. E qui arrivano i dolori. Non perché le terapie non siano convincenti. Al contrario: sono talmente lucide che per ciò stesso diventano Utopia. Capire cos’è il valore, chi lo crea e chi lo sottrae, è la premessa per ricostruire un capitalismo sostenibile e inclusivo. Bisogna «ridare una missione all’economia», riformando le istituzioni finanziarie, cambiando le norme sui brevetti, ridando un ruolo forte allo Stato regolatore e innovatore. L’economista italiana trapiantata a Londra, che sta incappando nelle maglie strette della Brexit, non si ritrae dal confronto sull’attualità che vede l’Italia Sovranista al centro della sfida con l’Europa Tecnocratica. E lo risolve da convinta sviluppista keynesiana: "no all’austerità", che in questi anni ha soffocato la ripresa. Il basso deficit «è un obiettivo sbagliato». Per la crescita serve «una direzione di marcia», non una «lista della spesa». Servono investimenti nei settori strategici, la ricerca, l’istruzione, l’economia verde. Un programma "di sinistra", verrebbe da dire se non stessimo vivendo la sua penosa eclissi. Che culmina nell’affondo finale: è il momento di una politica capace di sostenere un sistema di tasse più progressivo, «che colpisca la ricchezza». Scrive proprio così, Mazzucato: «che colpisca la ricchezza». Una bestemmia in chiesa, per una sinistra che i ricchi li ha vezzeggiati, dimenticandosi dei poveri e degli ultimi.