mercoledì 4 settembre 2019

Il "Saggio" del mese - Settembre 2019


Il “Saggio” del mese

 SETTEMBRE 2019

L’ecosofia (nostra “parola del mese” di Agosto 2019), in tutte le sue diverse declinazioni, ma soprattutto l’attuale concreta corsa che rischia di diventare davvero inarrestabile verso il disastro ambientale, ci invitano a riconsiderare il rapporto antropocentrico (nostra “parola del mese” di Marzo 2018) con il pianeta Terra e tutte le forme di vita che lo abitano. Una svolta che richiede scelte concrete e coraggiose nell’immediato, ma che può essere preparata e il più possibile condivisa non soltanto guardando al presente, ed ai suoi tantissimi problemi, ma anche ripercorrendo il percorso che l’umanità ha sin qui fatto. Uno sguardo rivolto ad un passato che, per essere coerente alle intenzioni e fecondo nei risultati, non deve però avere come protagoniste soltanto le vicende umane, anche se da queste è comunque impossibile prescindere, ma deve saper conoscere, e capire, l’evoluzione di tutte le altre componenti del pianeta Terra. Un interessante contributo in questo senso lo fornisce il saggio di Hansjorg Kùster “Storia dei boschi”.

P.S. = A sintesi del saggio completata sono arrivate le sconvolgenti immagini dell’Amazzonia in fiamme per mano dell’uomo. L’umanità è ancora molto lontana dall’aver compreso la lezione che la storia del nostro pianeta da tempo sta impartendo. Continuiamo a correre verso l’autodistruzione. Il mondo vegetale, e quello boschivo in particolare, sono sempre di più la nostra ultima speranza. Questo saggio ci ricorda anche questo.
Hansjorg Kùster (1956, docente di geobotanica presso l’Università Leibniz di Hannover, autore di numerosi saggi di ecologia ambientale) ci offre con questo suo recente volume l’opportunità di seguire l’affascinante evoluzione, dalle origini ad oggi, di una delle componenti fondamentali dell’ecosistema terrestre.  Lo fa con un racconto molto accurato sia dal punto di vista scientifico, vista la sua specifica competenza in materia, sia come ricostruzione storica. La mole della dettagliata esposizione ha reso impossibile una sintesi più accurata, Ci siamo quindi limitati a ripercorrere il racconto di Kùster riassumendolo a grandi linee. Ci siano pertanto perdonate eventuali eccessive semplificazioni.

1 - Dalle origini alla fine delle grandi glaciazioni (preistoria)
Sul nostro pianeta Terra, che ha 4,5 miliardi di anni, le prime evidenze incontrovertibili della presenza di forme di vita, vale dire semplicissimi organismi unicellulari, risalgono a 2,7 miliardi di anni fa, ma è opinione condivisa che la vita terrestre abbia avuto origine molto prima e che possa essere retrodatata a circa a 3,9 miliardi di anni fa. L’evoluzione a forme di vita pluricellulari, via via sempre più complesse, è pertanto proceduta con estrema lentezza per circa due miliardi di anni a causa della grande instabilità geologica e di una atmosfera, in piena formazione, ancora priva di significative quote di ossigeno. Quasi tutti i primi organismi viventi con struttura cellulare complessa rientrano certamente nel regno vegetale, ad essi va riconosciuto un merito straordinario: quello di aver contribuito in modo decisivo alla successiva evoluzione della vita sulla terra. Grazie alla loro caratteristica di vivere mediante il processo di fotosintesi, con il quale consumano anidride carbonica e producono ossigeno, essi hanno modificato la composizione della atmosfera terrestre arricchendola di ossigeno e consentendo così la successiva comparsa delle forme di vita animali, uomo compreso. Con le “piante”, in senso lato, abbiamo quindi un primo formidabile debito, senza di loro tutti noi semplicemente non esisteremmo. Queste prime forme già più complesse di vita vegetale, prevedibilmente comparse circa 700 milioni di anni fa, necessitavano di un apporto continuo e costante di acqua, erano quindi piante completamente acquatiche, assimilabili tanto per intenderci ad alghe. Il loro passo verso la terraferma è stato un processo altrettanto lento e tormentato, tant’è che le prime evidenze di piante terrestri risalgono solamente a circa 400 milioni di anni fa. Si tratta di piante ancora solo erbacee, ma che già contenevano alcune tracce di “lignina” la sostanza che costituisce il legno di tronchi e rami, lo “scheletro” dei futuri veri alberi, che crescevano in stretta prossimità con l’acqua, ad esempio in zone paludose. Per quanto limitate a questi areali queste primissime piante conoscono da subito una crescita molto rigogliosa che innesca, seppure sempre con una progressione lenta e complicata, la base per la successiva evoluzione verso forme vegetali non solo più erbacee. Questi primi antenati dei boschi terrestri erano una sorta di fittissima giungla ancora quasi esclusivamente verde, non esistevano tronchi, rami e neppure fiori, e quindi non molto sviluppata in altezza. L’evolutivo gioco incrociato di acqua, luce solare, formazione di terreni adatti, con l’affermarsi di alberi più robusti con foglie più grandi in grado di assicurare una maggiore e migliore fotosintesi, e la dispersione sempre più ampia delle spore, riesce a “creare” i primi veri boschi finalmente costituiti dai primi veri alberi. E’ una evoluzione che si realizza in circa ottanta milioni di anni, 320 milioni di anni fa queste tipologie di bosco, del tutto differenti da quelli attuali come composizione arborea, fanno così la loro comparsa per quanto ancora limitata a determinati ambiti, quelli dove l’incrocio di tutti quegli elementi costitutivi poteva meglio realizzarsi. Solo nel pieno del periodo carbonifero (circa 300 milioni di anni fa), si realizzano condizioni geologiche e climatiche che consentono una vera e propria colonizzazione vegetale di buona parte delle terre emerse. La conformazione della Terra è però ancora completamente diversa da quella attuale, la deriva dei continenti è molto lontana dal completare la formazione di quelli oggi esistenti. Questi continenti primordiali erano soggetti a lenti ma sconvolgenti processi di allontanamento e di riavvicinamento. Nella fase di allontanamento lo sviluppo delle forme vegetali, quello consentito dalle condizioni ambientali, procedeva in maggior misura per specifiche specializzazioni, la seconda, quella di riavvicinamento, consentiva invece una maggiore promiscuità di specie. Certo è che le foreste del Carbonifero, “produttrici” di buona parte degli enormi giacimenti di carbone, erano davvero un tripudio vegetale, che nella nostra fantasia “cinematografica” tendiamo ad associare ai grandi dinosauri, commettendo però un errore di datazione di svariati milioni di anni. Queste prime foreste, questi primi boschi, erano infatti, stanti i tempi evolutivi, incredibilmente silenziosi, solo il rumore del vento e di qualche albero che cadeva interrompeva la quiete che i pochi anfibi di piccolissime dimensioni ed i primi rettili striscianti certo non disturbavano.  Queste foreste del Carbonifero, un fittissimo intrico di piante molto lontane progenitrici di quelle attuali, scompaiono completamente circa 270 milioni di anni fa. Sopravvivono invece, in contemporanea alla fine del Carbonifero, altri boschi che avevano caratteristiche diverse dalle sue rigogliose foreste. Concentrati in aree molto limitate su un continente primordiale il Gondwana, comprendente porzioni delle attuali Sudamerica, Africa, India, Australia e Antartico e destinato nel gioco di allontanamento e riavvicinamento a scomparire del tutto, erano boschi diversi perché, a differenza delle foreste carbonifere cresciute in ambienti molto umidi e con clima annuale costante di tipo tropicale, erano costretti a fare i conti con un clima stagionale da zona temperata che non consentiva una crescita costante per tutto l’anno. Sono pertanto boschi fatti di alberi che conseguentemente si sviluppano nei mesi caldi e si fermano in quelli freddi. Sono da considerare gli antenati delle attuali specie di piante che ne hanno ereditato, sviluppandola, la caratteristica di crescita stagionale. Le ormai scomparse foreste del Carbonifero vengono progressivamente sostituite da boschi e foreste che, coerentemente con la deriva dei continenti e le collegate variazioni climatiche, accentuano il processo di specializzazione e di variazione. Iniziano così a comparire specie arboree che, a seconda dell’areale climatico, iniziano ad avere le principali caratteristiche costitutive delle conifere (sono i primi stretti antenati di pini, abeti, larici, cipressi, sequoie) piuttosto che delle attuali piante tropicali. Anche questi processi evolutivi si sviluppano lungo archi temporali lunghissimi: nel Triassico inferiore, circa duecento milioni di anni fa, e quindi settanta milioni di anni dopo la scomparsa delle foreste carbonifere, la vegetazione boschiva, così specializzatasi, è ormai in grado di colonizzare buona parte degli habitat ambientali: dai terreni umidi alle zone secche, da quelli a caldo tropicale a quelli più temperati. Ed ogni habitat ha un suo specifico patrimonio boschivo fatto di specie evoluzionisticamente sempre più vicine a quelle attuali. Solo in questa fase evolutiva ha senso immaginare la presenza dei grandi dinosauri in foreste ormai piene di rumori e frastuoni animali! A metà del Cretaceo, iniziato 150 milioni di anni fa e terminato 70 milioni di anni fa, si ha una ulteriore importante evoluzione della flora: compaiono le prime piante “angiosperme”, ossia piante con fiori, le dirette antenate di numerosi alberi odierni: fra i tanti platani, querce, castagni, salici, noci, aceri. Un complesso percorso evolutivo che, sempre in relazione alle turbolenze geologiche, vede boschi e foreste, di diverse tipologie, comparire, sparire, riformarsi, spostarsi, modificarsi, con tempi relativamente molto lunghi, almeno di diverse migliaia di anni per ogni singola fase di crescita piuttosto che di arresto e regressione. Un arco temporale significativo, ma che in una percorso complessivo di circa 80 milioni di anni diventano provvisorie parentesi. E’ durante il Terziario (da circa 70 milioni a circa 2 milioni di anni fa) che questo intenso processo di specializzazione vegetale vede un suo, seppur sempre parziale e provvisorio, compimento. Ed è sempre nel corso del Terziario che i continenti assumono l’attuale posizione, anche se è ben noto che la deriva dei continenti è un processo in costante evoluzione! Nel Terziario ha però comportato che le intervenute distanze fra i singoli continenti hanno limitato enormemente lo scambio botanico accentuando di conseguenza le specifiche specializzazioni del patrimonio vegetale. Si completa inoltre anche la conformazione della crosta terrestre; si creano cioè le barriere fisiche, catene montuose in primis, che concorrono in modo importante alla specializzazione del patrimonio boschivo. Se prosegue costante il processo evolutivo verso le attuali tipologie arboree la loro dislocazione geografica, in particolare in Europa ed nell’America del Nord, è lontana dall’assumere l’attuale conformazione che sarà frutto del successivo periodo glaciale. Per una ancora lunga fase, prima che i processi di specializzazione si completino, convivono a stretto contatto nello stesso bosco piante diversissime: pioppi e salici accanto ad aceri e magnolie, tigli vicini a corbezzoli, fichi assieme a faggi, querce, olmi e carpini. Il campionario boschivo è ormai di fatto completo ma è lungi dall’essere disposto in via definita.  Si entra così, con queste caratteristiche boschive, nella decisiva era geologica del Quaternario (da circa due milioni/due milioni e mezzo di anni fa ai giorni nostri)  quella che vede il sempre più consistente affacciarsi sulla scena dei primi ominidi, nel pieno di un processo evolutivo iniziato due milioni di anni prima, e che è caratterizzata da un clima estremamente mutevole con lunghi periodi di temperature straordinariamente rigide, le cosiddette “fasi glaciali”. Non si sa con precisione quante siano state le glaciazioni, le ipotesi variano da un minimo di sei fino ad un massimo di diciannove, ovviamente non tutte della stessa intensità e durata. Certo è che questa ’alternanza di periodi caldi e periodi molto freddi incide moltissimo sulla vita delle piante e dei boschi. Nei limiti imposti dalla conformazione geologica ormai assestata di cui si è detto, della disponibilità di terreni più o meno umidi e più o meno pianeggianti, quando il clima migliorava le piante amanti del calore avanzavano e colonizzavano il territorio resosi disponibile, così obbligando quelle più amanti del freddo ad arretrare e a consolidarsi negli areali a loro più adatti provvisoriamente lasciati liberi dai ghiacci. Si ipotizza che queste alterne fasi di avvicendamento, di intervallo più stabile tra un periodo glaciale e l’altro, potessero mediamente durare dai diecimila ai quindicimila anni. Nei periodi di glaciazione l’intero patrimonio vegetale, boschivo e forestale, soffriva, scomparendo, a discendere dalle regioni polari, sotto spessi strati di ghiaccio, ovvero diradandosi moltissimo in quelle più a ridosso del fronte dei ghiacciai, oppure adattandosi, anche a costo di sostanziali modifiche, nelle residue fasce tropicali. Molte specie non sono riuscite a superare gli stress termici e sono definitivamente scomparse dalla scena vegetale. L’ultima glaciazione, denominata Wurm, ha avuto inizio circa ottantamila anni fa, la sua fase più fredda si è realizzata circa ventimila anni fa per poi terminare definitivamente, all’incirca diecimila anni fa, con una lenta e contrastata discesa, fatta di alternanze ormai molto limitate e di breve durata e quindi sostanzialmente stabile, che ci ha portato all’attuale condizione climatica, quella, ahi noi!!!, del global warming! Ovviamente il ritiro dei ghiacciai, che lasciavano a ricordo del limite del loro avanzamento le catene collinari moreniche, quella valsusina compresa, si realizzava con tempistiche relativamente lunghe. In questa fasi di “interregno” avvenivano, condizionati da fattori locali di diverso genere, i processi di nascita, consolidamento e composizione, dei boschi. L’incidenza dei fattori locali è tale che, fatte salve alcune caratteristiche di valore generale: ad esempio piante che amano o non amano il freddo e l’altitudine, i singoli boschi, le singole foreste, magari confinanti l’uno con l’altra, hanno sviluppato, con estrema varietà di situazioni, le loro caratteristiche compositive. Il manto boschivo ha così visto una crescita rapida e rigogliosa in tutto il pianeta- In Europa prima nelle regioni più meridionali e successivamente verso Nord inseguendo il fronte del ritiro dei ghiacciai. Lo sviluppo della copertura boschiva si è innestato sulle porzioni di territorio lasciate libere dai ghiacci in una prima fase colonizzate da forme di vegetazione bassa, erbe e arbusti, che, a seconda della composizione dell’humus, aveva le caratteristiche di prato, di steppa o di tundra. Ed è in questo contesto che si è realizzata la prima “interferenza” fra piante, animali, e l’uomo. Le zone a vegetazione bassa erano l’habitat preferito dagli animali erbivori che però non brucavano solo erba e cespugli bassi ma anche i giovani germogli delle piante che tendevano ad allargare il bosco. Ovviamente non su scale ampissime ma, secondo molti studiosi, è possibile che la caccia sempre più tecnicamente raffinata dei nostri antenati abbia, limitando in misura crescente la popolazione di erbivori (si pensi allo sterminio dei grandi mammuth), contribuito in misura significativa all’espansione del bosco. Questo è valso, probabilmente per la maggiore presenza umana, soprattutto per l’Europa continentale, molto meno ad esempio, per America del Nord, là dove un rapporto squilibrato tra cacciatori e prede ha consentito che in vastissime aree ila prateria sia rimasta l’habitat prevalente. Si tratta comunque, al di là della significativa suggestione di un rapporto uomo-bosco a favore di quest’ultimo, di uno scenario da lì in poi mai più ripetuto, di un fattore evolutivo fra i tanti che spiegano l’avanzare della copertura boschiva. I boschi si sono allargati indipendentemente dall’azione di uomini e animali, con una espansione durata circa cinque/seimila anni e con una progressione che vedeva, in linea di massima, l’iniziale prevalenza di conifere, e il successivo insediarsi di alberi e foglie larghe e di angiosperme. La storia dei boschi prosegue infatti lungo linee di sviluppo interne, non condizionate cioè da fattori esterni diversi da quelli ambientali. fino al neolitico. I nostri antenati del paleolitico non pare proprio che avessero una particolare attenzione verso il bosco, meno ricco di selvaggina rispetto alle praterie aperte, meno facilmente percorribile, più pericoloso in generale. Ma l’evoluzione delle tecniche di costruzione di utensili, seppure ancora in pietra, stava per modificare tale rapporto
1 – Da diecimila anni fa ai nostri giorni (storia)
Dalla fine dell’ultima glaciazione la storia dei boschi diventa in effetti strettamente intrecciata, in forma crescente, con quella degli uomini. Alle “normali” difficoltà di crescita e sopravvivenza legate ai fattori ambientali si aggiungono, come vedremo, quelle di un rapporto con la specie animale più invadente ed aggressiva. Va ricordato che la normale espansione del bosco, della foresta, è già di per sé stesso un processo lento e laborioso. Le usuali “tecniche” di diffusione dei semi (vento, trasporto animale) hanno di norma bassissime percentuali di successo, legate in prevalenza alla “quantità” dei semi impiegati ed alla possibilità di non trovare nell’areale circostante ostacoli troppo difficili da superare. Solitamente il bosco, la foresta, si espandono con un processo progressivo di allargamento che vede alberi giovani iniziare a crescere ai margini del nucleo di partenza creando una zona di transizione molto graduale. Le difficoltà di colonizzare il terreno quasi sempre consentono che in una fase iniziale più specie legnose si giochino il primato nella partita dell’espansione. Il processo di specializzazione interviene successivamente ed è quasi sempre determinato dalle caratteristiche ambientali del contesto interessato. Le stesse che sostanzialmente determinano i limiti invalicabili dell’espansione. Nel contesto europeo, ad esempio, le variazioni climatiche di lungo periodo sono il fattore decisivo per il prevalere di boschi di latifoglie piuttosto che di aghiformi. I primi periodi post glaciali vedono in molte aree una accanita concorrenza tra abeti rossi e noccioli, con frequenti cambi di scena dovuti proprio al variare del clima. Nel complesso, sempre restando al contesto europeo, nel periodo compreso tra i novemila ed i settemila anni fa si sono in questo modo differenziati diversi tipi di bosco, che potevano convivere anche con relazioni di vicinato. Una anche minima differenza di composizione dell’humus, piuttosto che di esposizione ai venti, poteva decidere il prevalere di una specifica specie. E’ molto interessante notare che, all’interno di questo complesso, tormentato e differenziato processo di colonizzazione del territorio da parte dei boschi, intervengono fattori collaterali che svolgono un ruolo speso decisivo. Uno in particolare è indicativo di come il mondo vegetale, le piante, siano in grado di sviluppare vere e proprie tecniche di alleanza, di cooperazione che rimandano ad una capacità vitale tutt’altro che banale. Diverse specie di piante, ad esempio betulle, pini e larici, crescono bene, ed i loro boschi riescono ad allargarsi, solo se le loro radici riescono ad instaurare un rapporto di simbiosi con i funghi. Una particolare forma di convivenza chiamata “micorizia” in cui entrambi i partner traggono un vantaggio: i funghi assicurano all’albero acqua, sali, azoto e fosforo ed in cambio ricevono i carboidrati indispensabili per la loro struttura che non attiva il processo di fotosintesi. Se ne evince l’ulteriore conferma che la storia del boschi, anche quelli “moderni” si basa su processi molto delicati, complessi e variegati, che si sviluppano in modo tenace ma che richiedono tempi molto lunghi per completarsi. L’irruzione in questo contesto dell’uomo non poteva non avere un impatto molto significativo
Si sono visti i nostri antenati cacciatori/raccoglitori nelle vesti di “alleati” del bosco nel ridurre con la caccia la popolazione di erbivori, ma quello che si realizza progressivamente a partire da diecimila anni fa, con l’avvento dell’agricoltura ed i primi insediamenti umani stanziali è un impatto di tutt’altro segno. L’avvento della agricoltura, e della collegata pastorizia, è stato un passaggio decisivo nella storia dell’uomo segnando di fatto l’avvio della “civiltà” umana intesa in senso lato. L’affermarsi delle prime rudimentali attività agricole è avvenuto pressochè in contemporanea in più zone del pianeta, seppure con caratteristiche diverse da luogo a luogo e lasciando “scoperte” parti significative, ad esempio l’Africa ed il Nord America. Ovviamente Kùster non affronta il tema in modo analitico limitandosi a ripercorrere le modalità con cui i primi agricoltori/pastori si sono relazionati con il bosco, la foresta, e la successiva evoluzione di questo rapporto. Giustamente la “civiltà dei fiumi” del Medio Oriente è considerata la culla dell’agricoltura che qui, da diecimila ad ottomila anni fa, ha conosciuto estensioni significative proprio grazie al fatto di svilupparsi in spazi aperti già del loro, ovvero non occupati più di tanto da boschi. Diverso è stata l’avvio di coltivazioni in Europa là dove, salvo limitatissime zone già predisposte del loro alla destinazione agricola, boschi e foreste avevano ormai colonizzato tutti gli spazi che si prestavano ad esserlo. Qui la messa a coltura, e pascolo, di pezzi del territorio ha richiesto, come primo passaggio, di “liberarli” dalle piante, di “arretrare” il bosco. I protagonisti di questa faticosissima “conquista”, realizzata con laboriosi lavori di disboscamento realizzati con strumenti per tutta una lunga prima fase di pietra, sono piccoli gruppi di cacciatori/raccoglitori che, a partire da settemila anni fa, lentamente ma progressivamente si convertono all’agricoltura ed all’allevamento, le attività che potevano garantire una maggiore e più costante fonte di alimentazione. Le ricerche archeologiche hanno consentito di ipotizzare che la struttura media di questi gruppi, disseminati in modo crescente lungo le direttrici da sud verso nord e da ovest verso est, consisteva in circa un centinaio di membri le cui esigenze alimentari richiedevano di aprire nella foresta una radura di circa trentacinque ettari (un ettaro vale 10.000 metri quadri, si tratta quindi di un “campo” di circa tre chilometri e mezzo per lato). Siamo quindi ancora in presenza di vere e proprie isole in un mare verde, ma sono isole che si moltiplicano nel corso dei millenni e che hanno sul bosco, sulla foresta, diversi impatti. Si creano ad esempio margini più netti del bosco: là dove prima questo diradava in modo graduale ora esiste una linea di demarcazione netta. Questa mescolanza di boschi, la “zona esterna”, e terreni agricoli, la “zona interna”, comincia a costituire il paesaggio culturale dell’uomo europeo. Ma era al contempo necessario mantenere il più fitto possibile il bosco non toccato per conservare la sua capacità di esercitare, anche sulla adiacente zona messa a coltivazione, un effetto calmieratore sul clima e sugli sbalzi termici. Così come era conveniente e comodo far pascolare nel bosco il bestiame della comunità. Ma soprattutto era indispensabile “prendere” nel bosco, confinante l’area liberata, il legname necessario per il fuoco, gli strumenti e per le stesse “abitazioni”. Per una lunghissima fase, prima dell’avvento della casa mono-familiare con un solo fuoco, l’abitazione dei primi contadini è consistita in una sola grande casa, la cosiddetta “casalunga”, una sorta di grande capanna lunga anche trenta metri, con una intelaiatura di grossi travi di sostegno e di intelaiatura del tetto, con pareti di rami piccoli intrecciati e ricoperti di fango ed argilla, tetto di grosse fascine di rami secchi, e con all’interno più fuochi. La crescente abilità costruttiva ha implicato la sempre più ottimale scelta delle essenze legnose più adatte a questi scopi, in particolare per gli attrezzi e le caselunghe veniva utilizzato il legno di querce. Con una conseguenza importante sulla composizione arborea di porzioni crescenti di bosco: la progressiva scomparsa delle querce è stata spontaneamente compensata dalla crescita di altre essenze quali ad esempio faggio e frassino. L’ammirevole abilità costruttiva non impediva però il naturale deterioramento delle caselunghe che si calcola avessero una durata media non superiore a trent’anni. La fine del loro utilizzo implicava di fatto la necessità di spostarsi altrove in parti del bosco ancora ricche di alberi grandi a adatti alle esigenze costruttive senza ricorrere ad impossibili loro trasporti. Un’altra porzione del bosco veniva quindi liberata per ricavarne una radura coltivabile, si costruiva una nuova casalunga e si riavviava un nuovo identico processo di utilizzo del bosco, con analoghe conseguenze su di esso. Piccole conseguenze di per sé stesse se si vuole ma in grado, nell’arco di millenni - in alcune zone questa pratica è durata, come meglio si vedrà successivamente, fino al Medioevo! - di incidere in modo considerevole sulla storia dei boschi europei che, seppure in grado di riconquistare la radura abbandonata, vedevano così modificata la loro natura e composizione. Questa prima lunga fase di utilizzo umano della foresta ne ha di fatto implicato la fine dell’evoluzione naturale, spontanea. Se ne ricava una indicazione fondamentale che mantiene inalterato il suo valore anche ai giorni nostri: là dove l’attività antropica è intervenuta sul bosco, sulla foresta, originari, “davvero naturali”, ha comunque inciso sulla loro natura in modo irreversibile al punto che, anche lasciando libero corso, come non pochi attualmente sostengono, al loro rimboschimento quello che si avrà sarà comunque un “bosco di seconda mano”. E di bosco di seconda mano è quindi corretto parlare, per buona parte dell’Europa, già a partire perlomeno da settemila anni fa.
Successivamente, nell’arco temporale che va dalla fine del neolitico all’età del ferro, si consolidano due processi che accentuano ulteriormente l’impatto antropico sul bosco: l’utilizzo di metalli e la formazione di “città”. Ambedue questi fattori, fra di loro connessi e collegabili all’aumento della popolazione umana, accentuano di molto il fabbisogno di legname, sia per la lavorazione di fusione sia per le accresciute necessità legate alle nuove modalità di vita “urbana”. La loro incidenza sulla storia dei boschi non si concretizza solamente in una maggiore deforestazione ma anche nel fatto che si accentua il peso delle attività umane sulla composizione del bosco. La nascita delle “città”, e dei villaggi stabili, implica una definitiva stanzialità, la fine degli spostamenti verso nuove aree da sfruttare e la possibilità per il bosco, a parziale compenso del crescente disboscamento, di ripossedere, seppure mutandole, le vecchie aree abbandonate. Al contrario attorno ai nuovi insediamenti “civilizzati” il bosco non poteva più ricrescere ed anzi il fabbisogno urbano di legna ha iniziato a richiedere lo sfruttamento di boschi “lontani” e la collegata nascita di un “sistema di trasporti” del legname prevalentemente basato su quello fluviale. In contemporanea la necessità di combustibili legnosi sempre più energetici, in grado cioè di assicurare le temperature di fusione sempre più alte richieste dal mutare dei metalli utilizzati, incide sulla selezione delle essenze legnose. Ad esempio il faggio, che nell’epoca precedente aveva ampliato di molto il suo areale in sostituzione delle querce, inizia ad arretrare proprio per la sua ottimale resa termica. Se quindi è innegabile che le prime relativamente grandi concentrazioni urbane stanziali hanno azzerato, nelle aree a loro più prossime, la presenza del bosco, è interessante notare che esso, quasi ovunque, è stato sostituito da un particolare tipo di vegetazione arborea: attorno a città e villaggi, a soddisfare le esigenze alimentari, sorgono frutteti ed uliveti spesso di rilevanti estensioni. L’ulivo porta con sé un preciso significato simbolico: da sempre considerato l’albero della stabilità, della capacità di vivere a lungo, e come tale citato in tutti i racconti dell’antichità, esso simboleggia la volontà di durare nel tempo degli stessi insediamenti ormai stanziali. Piantare ulivi non era solo ottenere una preziosa fonte alimentare, era un impegno verso un futuro duraturo di stanzialità. Allo stesso modo la presenza in località prossime alle “città” dei “boschi sacri”, resi tali dalle “divinità” che li abitavano, e quindi intoccabili, testimonia del rispetto, della gratitudine che al bosco, alla foresta, l’uomo sentiva di dovere. A questo sentimento se ne accompagna uno di segno opposto ben sintetizzato da Tacito nei suoi resoconti sui Germani là dove, per descrivere il territorio da loro occupato, ricorre al significativo termine di “selve orride”. Il bosco, la foresta, quando ancora inviolati, incutono nell’uomo, per quanto ormai postosi al centro del creato, paura, timore, panico, sicuramente generati dalla sensazione di forza, di potenza che da essi emana. Ma Tacito è anche un acuto osservatore perché è vero che, al termine di un ciclo di millenni che vedono la storia dei boschi definitivamente segnata dalla presenza dell’uomo, la loro presenza si è ormai di molto diversificata. Nel Medio Oriente, già naturalmente povero di vegetazione boschiva, l’agricoltura e lo sfruttamento umano iniziano ad amplificare il processo di desertificazione, nell’area mediterranea, quella più investita dallo sviluppo delle civiltà umane, il bosco resta progressivamente confinato nelle parti del territorio meno adatte agli usi agricoli e di allevamento, per quanto esse siano, soprattutto lungo le dorsali montuose, di rilevanti dimensioni. Al di là delle Alpi, dei Pirenei, dei Carpazi, addentrandoci nel cuore dell’Europa continentale fino a raggiungere le aree del Baltico e della penisola Scandinava un colpo d’occhio dall’alto coglie ancora, fino alle soglie dell’Anno Mille, la presenza di vaste aree forestali, le “selve orride” di Tacito, che si estendono fin dove il terreno lo consente lasciando poi spazio alla bassa vegetazione delle brughiere e delle steppe. Restando nello specifico europeo la fine dell’Impero romano ha segnato per alcuni secoli un periodo di incertezze, di crisi economica e sociale. Che ha comportato anche una fase transitoria, quella di maggiore incertezza, di ritorno alle pratiche dei disboscamenti mobili, con villaggi di poche centinaia di abitanti che sfruttavano, con le modalità già descritte, il bosco per poi, dopo alcuni decenni, spostarsi in un’area di nuovo sfruttamento. Una fase quindi di relativa “tranquillità”, dal punto di vista del bosco, che gli ha consentito di rioccupare parte del territorio.
Inizia, con la successiva ripresa ed il progressivo consolidamento del sistema di potere feudale, una più accurata storiografia, attenta anche a questi aspetti naturali, che, da qui in poi, consente di incrociare le fonti storiche con i risultati delle analisi dell’evoluzione dei diagrammi pollinici, della composizione dei terreni, dell’archeologia forestale, ossia i dati sui quali poggiano tutte le osservazioni sin qui svolte da Kùster. Sono fonti scritte che accrescono sicuramente la conoscenza ma che, stanti le loro caratteristiche di “cronache” non appaiono sempre affidabili come resoconto storico scientifico, devono pertanto essere sempre incrociate con le altre modalità di ricostruzione storica. Vale come esempio l’incerta attribuzione del termine “barbari” a situazioni diverse di gruppi umani con attitudini “nomadi”. In effetti una componente significativa di questi gruppi era costituita proprio da quelle comunità locali che, nei tempi difficili all’indomani della fine dell’Impero con il connesso crollo del sistema dei trasporti e del commercio, furono costrette a riprendere le antiche modalità agricole di sfruttamento del bosco. Non necessariamente quindi il termine “barbari” si deve riferire in modo esclusivo alle popolazioni nomadi provenienti dall’Est europeo. La nascita del Sacro Romano Impero segna una svolta importante. Soprattutto in Francia il consolidamento di un nuovo potere “centrale” dà l’avvio ad una ripresa dei commerci che si sviluppano lungo vie fortificate che poco alla volta tornano a riattraversare l’intera Europa. I castelli e le case fortificate che costituiscono l’ossatura di questa ripresa delle vie e dei commerci sono al tempo stesso la base del sistema di potere feudale locale e la presenza di un potere attento a garantire sicurezza e protezione. Le comunità, i villaggi ora hanno un “signore” che, come garante della sicurezza, ottiene una quota rilevante da ogni attività economia, a partire da quella agricola. L’impatto sul bosco di questo nuovo ordine è immediato ed evidente. Carlo Magno, nel suo editto “Capitulare de villis” del 795 stabilisce che uno dei compiti delle signorie locali fosse proprio quello di “impedire che le foreste tornino a occupare i terreni resi agricoli”. Gli insediamenti riprendono una maggiore e più diffusa stanzialità, il bosco viene nuovamente utilizzato con le modalità che si erano precedentemente affermate con l’avvento delle città e dei metalli. Con una significativa novità: il ruolo del signore locale consentiva a questi di considerarsi padrone del bosco e del diritto di deciderne l’uso, molto spesso in netto contrasto con l’utilizzo “comunitario” che di esso si era sin lì consolidato. Se quindi non sono dissimili le “tecniche” di utilizzo del bosco, ossia pascolo, taglio delle piante alte per ricavarne legnami e combustibili, cambiano, anche con forti contrasti, i protagonisti delle scelte e delle decisioni e le modalità di ripartizione dei suoi frutti. Per tutta una lunga fase del Medioevo la pratica del pascolo non si è basata, in continuità con quanto prima, su prati e aree esclusivamente destinate a ciò. Il pascolo, come in precedenza, avveniva nella parte del bosco nella quale si era avviato il disboscamento e l’utilizzo intensivo del patrimonio boschivo. Il ritorno alla stanzialità, l’impossibilità di usare il bosco senza il benestare del signore locale, hanno così implicato una forte accentuazione dello sfruttamento boschivo. Aree sempre più vaste del bosco erano di conseguenza “sfruttate” fino alla sostanziale loro “morte”, non essendo neppure più destinate ad una immediata destinazione agricola. Il paesaggio si stava mutando: nei dintorni dei villaggi iniziano a formarsi vaste aree di territorio ridotto ad una sorta di brughiera, di prateria: nascono così i moderni pascoli. Se da una parte si tentava di proteggere gli alberi di maggior valore, quali le querce, l bosco residuo, sottoposto a questo sfruttamento intensivo, progressivamente si trasformava in “boscaglia”, quella conformazione boschiva che tecnicamente viene definita “bosco ceduo semplice”. La composizione boschiva era ovviamente modificata in modo drastico. Là dove lo sfruttamento era in qualche modo tenuto sotto controllo si affermava, sempre con il beneplacito del signore, un’altra tipologia di bosco ceduo, quello “composto”, perché basato su più tipologie di piante. In quasi tutti i boschi europei si consolida, anche grazie a questo impatto, la presenza degli stessi tipi di alberi: querce, carpino, nocciolo, betulle, olmi, tigli, frassini, pioppi, quelli cioè meglio in grado di fornire la legna destinata agli usi diversi della comunità. Si collega a questo tipo di utilizzo “selezionato” del bosco l’inizio della pratica agricola della rotazione. Lle aree rese libere dal bosco vedevano infatti una rotazione, pluriennale, basata sull’alternanza, sulla stessa area, di: coltivazione, pascolo, piantumazione di nuovi alberi da taglio precoce. Non era invece utilizzato il dissodamento mediante incendio, se non per esigenze molto particolari, al contrario di quanto, all’incirca nello stesso periodo, inizia ad avvenire in alcune zone tropicali. In questi territori il recupero ad area coltivabile richiedeva il ricorso all’incendio controllato della foresta perché la vegetazione, oltremodo rigogliosa, che la componeva assorbiva completamente le sostanze del terreno; l’incendio costituiva quindi una efficace forma di concimazione. La rinascita di un forte potere centrale, ossia la struttura di comando e controllo del territorio, ha comunque consentito, al di là delle evidenti ingiustizie sociali, una reale ripresa dei traffici commerciali. Le comunità rurali, i villaggi, iniziano, in aggiunta al fabbisogno di sopravvivenza locale, a produrre eccedenze, lentamente quindi prendono forma attività locali sempre più specialistiche, con conseguenti più specifiche modalità di utilizzo del bosco. Una tendenza alla ricrescita economica che implica anche la ripresa della fondazione di città, della crescita demografica, e, conseguentemente, della costante domanda di legno e legnami. Questo quadro in movimento deve però fare i conti con le forme di potere ed i collegati diritti di proprietà su boschi e foreste in capo al sovrano ed ai suoi feudatari. E’ interessante rilevare quanto questo stato di cose abbia inciso sulla stessa denominazione di bosco e foresta. Il “bosco padronale” assume sempre più frequentemente il nome di “foresta”. I nomi “forèt” in francese, “forst” in tedesco, “forest” in inglese, derivano tutti dal latino “forestis”, derivazione da “foris”, la cui più probabile etimologia è traducibile in “all’esterno”. Ossia il territorio, tutto il territorio, composto da alberi che sta al di fuori delle aree agricole. E che, nella sua completezza, rientra nella proprietà regale e feudale. Non a caso il territorio boschivo in questo modo denominato “foresta” veniva anche definito “riserva di caccia”, una pratica di esclusivo diritto della nobiltà, con tutti i ben noti conflitti sociali che ne sono drammaticamente derivati. Spettava comunque in via esclusiva al “potere” decidere le modalità di utilizzo del bosco che sempre più viene considerato una preziosa fonte economica. La crescente domanda che la ripresa della concentrazione urbana, la nascita di nuove città, l’ampliamento di quelle ancora esistenti, implica da una parte la crescita esponenziale del disboscamento ma dall’altra anche l’avvio di fenomeni sempre più importanti di rimboschimento mirato, ovviamente, alle tipologie di alberi più richiesti dal “mercato”. Un mercato che non può più essere soddisfatto solo con il patrimonio boschivo immediatamente limitrofo alle città ma che ormai richiede “forniture” costanti da altri luoghi anche molto distanti. Non a caso quasi tutte le città medioevali in tutta Europa sorgono vicino a fiumi, a corsi d’acqua, in grado di garantire, come meglio si vedrà, la forma di trasporto più efficiente all’epoca. Nello specifico europeo la ripresa del ruolo delle città, del commercio, la progressiva introduzione di lavorazioni sempre più raffinate, l’altalenante ma costante crescita demografica segnano, a partire dall’Alto Medioevo la fase di maggior utilizzo del patrimonio boschivo.
Fino a tutto il Settecento la storia dei boschi vive la fase storica di maggior arretramento e impoverimento direttamente legata all’impressionante fabbisogno umano di legna, di legname. Fino all’avvio della vera e propria industrializzazione, prima del subentro di altre fonti energetiche, il bosco rappresenta la materia prima essenziale per tutte le attività umane. Al punto che è la scarsità di legno a rappresentare il maggior limite allo sviluppo economico e urbanistico. Scomparsi ormai i boschi e le foreste a ridosso delle città è l’intera copertura boschiva europea ad essere trasformata in risorsa utilizzabile. Il legno è essenziale per l’edilizia, lo è per tutti questi secoli in molte parti d’Europa in crescente combinazione con la pietra e materiali laterizi, e lo è in particolare per tutte le città che, come si è visto, sorgono, proprio per essere meglio approvvigionate, vicino ai corsi d’acqua ed al mare. Basti pensare a Venezia, città splendida per i suoi marmi e le sue case di pietra ma interamente poggiante su una foresta di palafitte. O al castello di Amsterdam costruito su fondamenta formate da quattordicimila conifere ad emblematico esempio dell’intera situazione dei Paesi Bassi le cui città poggiavano quasi tutte su palafitte. Ancora ai nostri giorni nella Foresta Nera della Baviera, da cui proveniva buona parte di questo legname, si chiamano “abeti olandesi” quelli che crescano più grandi e più dritti! Lo è per la crescente industria dei cantieri navali che devono mettere a disposizione delle pressanti necessità di navigazione commerciale, ormai transcontinentali, e delle strategiche flotte militari. Un numero impressionante di navi sempre più grandi e capaci, la cui costruzione richiede legnami pregiato sia dritto che curvo. E lo è per i collegati porti, con pontili e bacini di carenaggio a lungo fatti dii soli legnami. Lo è come combustibile per il ciclo della lavorazione dei metalli, dall’estrazione alla fusione e forgiatura. Lo è per la produzione di vetro e per quella della ceramica e del gres, e per i forni della calce. Lo è, in forma di cellulosa, per la crescente industria della carta. Lo è per la costruzione di botti ed imballaggi indispensabili al trasporto di liquidi e prodotti solidi. Lo è ovviamente per l’industria e l’artigianato in legno. Non c’è attività, per tutti questi secoli, che sfugga al fabbisogno di legname.  E non c’è bosco, non c’è foresta, che conseguentemente sfugga al taglio intensivo e molto spesso distruttivo. Questa impressionante quantità di legno che per cinquecento anni almeno ha attraversato l’intera Europa ha implicato la costruzione, ovviamente in legno, di una rete di canalizzazioni utile a convogliare sui grandi fiumi europei, le vere vie europee di trasporto legnami.
Sfruttandone la corrente si è trasportato legname con modalità perfezionate nel tempo basate su due tecniche di base: la flottazione, una sorta di “zattera” fatta legando insieme i diversi tronchi, e la fluitazione, lasciando viaggiare a sé stanti i singoli tronchi. Le “zattere” più grandi potevano raggiungere i trecento metri di lunghezza e i trenta di larghezza, su di esse per tutto il tempo di viaggio, spesso di settimane, viveva, mangiando e dormendo in apposite baracche, un centinaio di lavoranti, ed erano precedute da una imbarcazione di preavviso per far sgomberare il fiume e consentire il passaggio senza pericoli. Questo frenetico processo di deforestazione durato così tanti secoli ha implicato inoltre una legislazione specifica per tentare di trovare un equilibrio fra le varie esigenze di rifornimento. Le “leggi forestali” europee rappresentano in effetti la prima forma, seppur primitiva, di pianificazione territoriale.  Nonostante questo sforzo per regolamentare lo sfruttamento intensivo del bosco, tanto distruttivo quanto formidabile fonte di profitto, i conflitti per godere dei suoi proventi sono stati ovviamente moltissimi, coinvolgendo Stato contro Stato, poteri locali, e tutti quanti a discapito dei contadini ai quali restavano le briciole di un disboscamento che spesso azzerava l’unica loro fonte di sostentamento. Sforzi normativi peraltro incapaci di una reale inversione di tendenza: boschi e foreste arretrano in tutta Europa, in poche aree sostituiti da una boscaglia fatta di pochi ed incerti alberi, nella quale emergono rarissimi esemplari di querce e faggi che crescono isolati assumendo forme bizzarre e imponenti. Alcuni di questi alberi sono sopravvissuti fino ai nostri giorni tanto da essere considerati monumenti naturali e sottoposti a vincoli conservativi.
Lo stato di degrado boschivo è così accentuato da iniziare a colpire alcune sensibilità, una fra le altre è quella del Conte di Buffon che nella sua “Histoire naturelle” del 1764 così scrive …….la natura è ormai orrenda e agonizzante, solo noi possiamo darle amenità e vita…… In questo quadro emergono tuttavia alcune isole felici nell’Europa Centrale là dove i residui del potere feudale, più forti negli Stati tedeschi basati su numerosi principati, consentono di salvaguardare alcuni boschi di esclusiva proprietà dedicati alla pratica della caccia. Isole felici che, per mantenersi tali, richiedono però di chiuderle all’accesso esterno con muri  e recinzioni. (non sfuggono a questa versione della riserva di caccia le stesse residenze dei Savoia che a noi vicine). In collegamento con ciò quasi in contemporanea si accentua in tutta Europa il vezzo della costruzione dei “giardini”, vezzo sempre riservato ai soli sovrani e nobili. E’ interessante l’etimologia del termine giardino che in origine non definiva aree particolari con fiori ed alberi, ma semplicemente un terreno delimitato da muri e recinzioni. Dalla parola “gart/grad” sono derivati nelle varie lingue nazionali termini come “gorod” e “grad”, usati nelle lingue slave per indicare “città”, al tempo contate da mura, piuttosto che “garden”, “jardin” e “giardino”, tutti quanti salvaguardati da recinzioni. Kùster offre una loro breve ma esauriente descrizione qui non riportata per restare meglio concentrati sul tema. Il Conte di Buffon non è stato isolato nel evidenziare il degrado ambientale dovuto al disboscamento intensivo. Nel 1700 si concretizzano due presupposti decisivi per una svolta significativa. Il primo, esaminato meglio in seguito, è legato alla rivoluzione del vapore ed alla collegata miglioria delle attività estrattive che consentono l’utilizzo intensivo del carbon fossile. Il secondo ha un carattere più culturale. Già nel 1713 Carl von Carlowitz, sovrintendente alle miniere della Sassonia, pubblica un importante volume considerato il primo vero e proprio trattato di selvicoltura. Certo mosso da particolari sensibilità ambientali quanto piuttosto dallo scrupolo di salvaguardare una risorsa essenziale per l’intera economia, compresa quella mineraria, a von Carlowitz va il merito di aver codificato la norma, da lì a breve assunta da tutti gli Stati europei, che fissava l’obbligo di ripiantare esattamente la quantità di alberi tagliati nel corso dell’anno. Nasce da questo obbligo la consuetudine, successivamente a carattere simbolico, di piantare nuovi alberi in occasione di matrimoni o nascite di figli. Ma soprattutto la sua applicazione su larga scala da origine alla nascita della pratica dei “vivai”. Nel corso del Settecento la ri-piantumazione assume via via consistenza creando una sorta di forma mentis positiva. Nasce in questo secolo, ad esempio, l’uso di delimitare le vie più importanti con filari di alberi, e quindi la creazione dei viali alberati che ben presto si impongono come elemento fondante l’arredo urbano di moltissime città. Ed è sempre nel Settecento, e sempre con lo scopo di favorire la ricrescita di alberi, che viene vietato il pascolo nel bosco, ovvero in quelle residue boscaglie rimaste dopo il grande disboscamento. Questa forma di pascolo era di grave danno per la ricrescita del bosco, il bestiame infatti si ciba anche delle tenere pianticelle appena nate. Sorgono di conseguenza i veri e propri pascoli, ovvero campi coltivati ad erba sui quali far pascolare il bestiame piuttosto che usati per produrre fieno. Rinasce di conseguenza una più netta linea di demarcazione fra il bosco ed il territorio circostante. Là dove ripiantato o salvaguardato non si crea più quella zona intermedia di alberi radi, la boscaglia, ma il bosco inizia subito nella sua conformazione più fitta. Ma a fronte di una evoluzione più cauta e positiva non mancano tuttavia nello stesso secolo episodi, seppur guidati da altre logiche, di segno opposto. E’ sempre nel 700 che in Gran Bretagna avviene il fenomeno delle “enclosures”, ossia la chiusura all’uso collettivo dei boschi e dei campi “comuni” per destinarli all’esclusivo utilizzo della nobiltà e della borghesia, condannando così buona parte della forza lavoro agricola alla perdita dell’unica fonte di sostentamento e a divenire manodopera a basso costo nelle nascenti industrie. Il clima “culturale” che agevola questa inversione nel rapporto con il bosco diventa fecondo anche per altre evoluzioni. La “Germania” di Tacito torna ad essere citata, ma ora quelle “selve oscure” acquistano una inaspettata valenza di identità nazionale. Il recupero  che molte opere letterarie del periodo fanno della forza mitologica dello spirito delle “foreste”, e delle querce in particolare, diventa la base sulla quale si innesta, già ai primi dell’Ottocento, in chiara chiave anti-napoleonica, il nascente orgoglio nazionalistico tedesco, Una patria al tempo ancora di là a venire, ma la cui costruzione potrà contare anche su questo mito dello spirito tedesco legato indissolubilmente alla foresta ed alla quercia come “albero dei tedeschi”. La svolta avviata da von Carlowitz era sicuramente sollecitata da considerazioni di ordine economico, dal timore che con gli esasperati ritmi di utilizzo del bosco si esaurisse una fonte molto significativa di introito per le casse pubbliche e private. Ma l’abbinamento con il filone letterario di celebrazione dell’intimo rapporto fra spirito tedesco e bosco apre la strada ad una vera sensibilità ecologica ante litteram, che si concretizza con l’idea di una “gestione duratura dei boschi”. Scontato ormai il fatto che il bosco, la foresta, sono del tutto dipendenti dalle scelte umane si dà avvio con questa idea ad un organico complesso di attività umane mirate a gestire il bosco in una logica di lungo periodo. Nascono da qui le “scienze forestali”, che diventano corso specifico di studi in tutta l’area tedesca già verso la fine del 700, e il corpo delle “guardie forestali” al quale viene affidato il compite di gestire, controllare, proteggere il patrimonio boschivo.
Il bosco diventa una parte del territorio nettamente separata da tutto il resto, ed in particolare da pascoli e campi agricoli, un mondo a sé stante che viene “governato” in modo mirato. Da qui quella divisione netta, visivamente percepibile, che caratterizza il paesaggio extra urbano di tutta l’area germanica, e che ha, di riflesso, interessato ad esempio anche alcune regioni italiane: il Trentino Alto Adige, l’alto Veneto e parte della Lombardia. Il rimboschimento, inserito in questo quadro, persegue al tempo stesso logiche economiche - ovunque possibile si pianta l’abete rosso, albero di rapida crescita, di ottimo legno ed inoltre facilmente galleggiabile e quindi trasportabile - ma anche finalità estetiche, il bosco assume forme che accompagnano armoniosamente la conformazione del territorio.
Non stupisce che questi boschi del tutto artificiali siano progressivamente visti come naturali, come l’essenza stessa della natura. Sono però occorsi diversi decenni perché questo nuovo rapporto uomo bosco, inizialmente limitato alla sola area germanica, producesse i suoi frutti. La vera ripresa della copertura boschiva europea si ha solamente quando il progresso tecnologico mette a punto tecniche e strumenti che eliminano di fatto il ruolo centrale del legno come combustibile primario. E’ l’avvento del motore a vapore a rappresentare la vera svolta. Progressivamente perfezionato ed utilizzato su ampia scala a partire da 700 da una parte consente di migliorare enormemente le capacità estrattive minerarie, di carbon fossile innanzitutto, dall’altra permette che questo diventi la fonte energetica per eccellenza sostituendo totalmente il legno. Nel corso dell’Ottocento i boschi sono utilizzati solamente più per le cartiere, per l’industria e l’artigianato dei mobili, e per limitate esigenze locali. Il rapporto uomo/bosco che nel corso del 1700/1800 si crea nell’area germanica non ha corrispondenze negli altri paesi europei. In Inghilterra, dove il disboscamento fu non meno intensivo, la penuria di legname, che iniziò a manifestarsi in modo pesante prima dei cambiamenti tecnologici di cui si è detto, venne in buona misura colmata con il ricorso a massicce importazioni dai paesi che componevano l’esteso impero coloniale inglese. Le foreste pluviali tropicali dell’India, quelle del Sudafrica, dell’Australia e della nuova Zelanda furono il polmone di soccorso per le crescenti necessità di legname per tutti gli usi visti in precedenza. Non meno intensa fu l’importazione dalla ex colonia dell’America del Nord. Si importavano alberi di tipologia indistinta, molti dei quali erano essenze del tutto sconosciute in Europa. La scoperta che alcune di esse, mogano e tek ad esempio, avevano una ottima qualità per diventare mobili di pregio non avvenne subito, ma quando avviata diede in fretta origine ad una sorta di “moda” che, durando nel tempo fino ai nostri giorni, ha contribuito non poco alla deforestazione in molti paesi extra-europei. La Francia ed i Paesi Bassi restarono a lungo “clienti” delle foreste tedesche, ed in parte russe, seppur attraverso passaggi talvolta complicati dalle turbolenze belliche del 1800. Questa diversa necessità di rimboschire il proprio patrimonio forestale fa peraltro il paio con un rapporto “culturale” con il bosco del tutto diverso. L’esperienza tedesca è rimasta davvero unica. Un piccolo ma indicativo esempio lo dimostra molto bene: Santa Claus/Babbo Natale, in quasi tutti i paesi occidentali, arrivano in slitta dalle lontane foreste boreali dei paesi del Nord, in Germania arrivano direttamente dal bosco “davanti alla porta di casa”. Nei paesi di lingua inglese la foresta, il bosco, è rimasta per tutto questo periodo una realtà separata, selvaggia, oscura, primitiva.  Una realtà da proteggere ma separandola dal contesto “civile”. Nasce da qui la tendenza, in primis americana, dei grandi Parchi Nazionali. Curiosamente le recinzioni che una volta separavano la città, il villaggio, dal mondo di fuori sono diventate quelle che “chiudono” il bosco separandolo dal mondo esterno. A completare questo quadro variegato è utile ricordare che nel corso del 1800, per soddisfare esigenze crescenti di mercato, si estende con vigore la piantumazione di vasti frutteti, nata come si è visto nell’Alto Medioevo. Non pochi villaggi e medie cittadine diventano letteralmente immersi in questo particolare tipo di bosco. In generale, nel contesto europeo, si realizzano attraverso questi processi le condizioni che consentono al bosco di superare, lungo tutto il 1900 e fino ad oggi, lo stress del disboscamento esasperato dei secoli precedenti. Accanto al mirato prelievo compensato dalla corrispondente messa a dimora di nuovi piante non mancano situazioni locali di operazioni di abbattimento anche intenso ed esteso di alberi ma sono operazioni limitate e contingenti e sempre più spesso avversate apertamente dall’opinione pubblica. Va subito detto però che il sollievo di cui possono godere i boschi europei è reso possibile dal disboscamento selvaggio che, sulla scia dell’esperienza inglese di cui si è detto, avviene ormai in tutte le restanti aree del pianeta: le foreste africane, amazzoniche, e quelle dell’estremo oriente sono fortemente minacciate da abbattimenti tanto intensi quanto del tutto incontrollati. Si sta ripetendo altrove esattamente lo stesso processo che aveva messo a serio rischio di sopravvivenza i boschi europei. I quali, al tempo stesso, ritornati ad accettabili livelli di copertura del territorio sono stati però, lungo tutto il secolo scorso ed ancora attualmente, oggetto di ripensamenti anche fortemente critici. L’operazione avviata nel 700 e completata, con le modalità viste, nel corso dell’800 ha evidenziato in effetti serie problematiche. Le nuove foreste europee, per quanto attente, come si è detto, ad assecondare esteticamente la conformazione del territorio, sono troppo mono tipologiche. In particolare quelle di conifere, ed in ispecie di abete rosso, che ne costituiscono la parte in gran misura prevalente, con la loro disposizione geometrica a file ordinate non consentono una crescita più naturale dell’ambiente boschivo.
Questi boschi “artificiali” sono troppo poveri di specie vegetali e di fauna animale; le loro stesse caratteristiche impediscono che in essi si formino le condizioni di una biodiversità  indispensabile alla loro stessa salute. Rendendoli, in aggiunta, molto meno atti a resistere e controbattere le pesanti, e progressive, ricadute dell’inquinamento ambientale e del cambiamento climatico. E’ in corso da molti decenni, e tutt’altro che concluso, un acceso dibattito fra i sostenitori della “crescita duratura dei boschi” e quelli di una visione più “naturale” del bosco. Se è innegabile che un eccesso di una sua progettazione e gestione scientifica può avere ricadute negative è altrettanto vero però che il ritorno al bosco “originale” sia una sorta di utopia irrealizzabile. Nel senso che, fatta salva la necessità di creare nel bosco condizioni di una più ottimale biodiversità e varietà di essenze, ritenere che vadano ripiantati alberi che si “presuppone” costituissero il bosco “originale” poggia su basi storiche troppo labili e brevi rispetto alle reali tempistiche della storia dei boschi. A partire da diecimila anni fa la mano dell’uomo ha ormai segnato in modo indelebile ed irreversibile la conformazione boschiva rendendo impossibile anche solo la ricostruzione “vera” del suo aspetto originario. Le foreste sono un organismo vivente tutt’altro che statico, in grado quindi di rigenerarsi in modi stupefacenti, ma un vero ritorno ad un ideale stato originario, al di là dell’impossibilità di individuarlo con esattezza, è operazione fisiologicamente impossibile.
Il bosco dal passato al futuro
La storia dei boschi, determinata per milioni di anni dai soli fattori “naturali”, testimonia quanto sia stata impattante l’attività dell’uomo sulla loro evoluzione sotto tutti i punti di vista. Riflettere oggi sul futuro delle foreste significa innanzitutto capire quali criteri guideranno le future attività umane che, in ogni caso, resteranno determinanti ed inevitabili. Al centro deve comunque stare la consapevolezza che le migliaia di anni di impatto umano sul bosco, unite ad una popolazione mondiale sempre più vicina a dieci miliardi di persone, impediscono oggettivamente di immaginare un ritorno reale ad un bosco “originario”. Un condizione che non è neppure evidenziabile in natura. Il bosco, la foresta, sono elementi naturali in costante e mutevole divenire. Tengono memoria, si potrebbe dire eterna, di quanto hanno già vissuto e si conformano in continua relazione con il costante mutare dei fattori, naturali e non, che incidono sul loro sviluppo.  E’ del tutto utopico immaginare che un totale “ritiro” dell’uomo sia condizione sufficiente per il ricrearsi dei boschi, e delle foreste, “delle origini”. Non solo, è molto alto il rischio che l’influenza antropica, in ispecie nelle attuali condizioni di impatto sull’intero ecosistema terrestre, sia comunque causa di pesanti problematiche per la stessa loro sopravvivenza. La storia dei boschi, il loro passato peraltro così complesso da ricostruire, non può quindi indicare uno stato concreto, stabile, ben definito, di una ottimale condizione boschiva. Può semmai aiutare a capire quali errori l’uomo non deve più compiere nel suo rapporto con il patrimonio boschivo, un rapporto che se, da una parte appare del tutto ineliminabile, dall’altra sempre più deve essere finalizzato ad “accompagnare” la loro evoluzione spontanea, questa sì “naturale”. Gli errori non sono solo quelli dell’utilizzo criminale e suicida del mondo vegetale ma sono anche quelli di una ricostruzione del bosco che non tiene nella giusta considerazione l tutti i fattori che incidono sulla salute e sullo sviluppo naturale del bosco. Se in quelle parti del pianeta in cui si stanno, oggi, commettendo gli stessi crimini che nel mondo occidentale sono stati compiuti nei secoli scorsi, il primo inderogabile passo è quello di fermare questo scempio, allo stesso modo vanno rivisti i criteri che hanno in buona misura sin qui guidato le pur lodevoli operazioni di rimboschimento. I boschi “artificiali” costituiti da una sola specie arborea impediscono ogni possibilità di un bosco più naturale. Occorre quindi ritornare ad un bosco “misto” che agevoli la presenza animale, fattore decisivo per la buona salute del bosco stesso, che rafforzi le sue “difese” naturali, che progressivamente premi lo sviluppo delle piante che meglio possono adattarsi “naturalmente” ai vari contesti specifici, e che sia oggetto di un rapporto da parte dell’uomo sempre e comunque rispettoso della sua esistenza ed evoluzione.

domenica 1 settembre 2019

La parola del mese - Settembre 2019


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

SETTEMBRE 2019

Sicuramente molti di noi hanno vissuto con un poco di sgomento lo spettacolo, perché di spettacolo si deve parlare, di un vicepremier della nostra Repubblica, in aggiunta Ministro degli Interni, che annuncia urbi et orbi di voler far cadere il Governo di cui faceva parte agghindato in costume da bagno, dalla consolle di un club in riva al mare, circondato da cubiste in tanga. Non ha colpito il merito politico, sempre che di merito si possa parlare, ma hanno fatto impressione il luogo, il contesto, il (non) abbigliamento, i modi, il linguaggio. Eufemisticamente si potrebbe dire che si trattava di qualcosa di più di una dimostrazione di sfrontato anticonformismo. Difficile se non impossibile non aver avuto un moto di sgomento per noi di Circolarmente che continuiamo, compatibilmente con le nostre modeste risorse e capacità, l’impegno a promuovere una migliore cittadinanza attiva basata innanzitutto su conoscenza e cultura attraverso, elemento non secondario, un confronto pacato anche nelle forme, ma tutt’altro che “bacchettone”. Uno sgomento accentuato dalla consapevolezza che quell’episodio è emblematico di una situazione generale sempre più diffusa. Quasi in contemporanea allo spettacolo in questione è apparso un articolo di Alberto Asor Rosa che, riflettendo sui medesimi fenomeni, usava un termine che riassumeva perfettamente il nostro stesso giudizio. Ci è sembrato utile presentare questa parola come quella “del mese” ,perché se tanto è semplice ed immediato il suo significato, tanto sono complessi e preoccupanti gli scenari che ne derivano.

Imbarbarimento

Imbarbarimento = Diffuso decadimento del livello culturale e dei valori civili.

E’ bene ogniqualvolta si richiamano i barbari nella loro ormai consolidata accezione negativa, ricordare il torto che viene loro fatto. Torto che ci è stato illustrato dal prof. Alessandro Barbero nella conferenza tenuta, per il nostro programma di allora, nel Novembre 2017 dal titolo “Le invasioni barbariche”. Il termine “barbaro” deriva dal greco antico “barbaros” . letteralmente balbuzienti”, ed indicava semplicemente le genti che, venendo da fuori, non parlavano greco.  Solo successivamente è diventato il modo di definire genti “selvagge”. Ma i barbari che spiegano l’attuale imbarbarimento non vengono da fuori. E’ quanto evidenzia Asor Rosa nell’articolo citato

I barbari visti da vicino
articolo di Alberto Asor Rosa – La Repubblica 12 agosto 2019
È da molto tempo che non mi capitava di cogliere un’eco di cose da me dette e pensate nelle dichiarazioni di politici illustri (o presunti tali). Accade oggi, quando leggo che Beppe Grillo denuncia con forza il rischio in Italia di “nuovi barbari”. È la conclusione cui io giungo in una delle pagine finali del mio “Machiavelli e l’Italia” recentemente apparso. I veri “barbari”, in Italia, non vengono più da fuori, come lamentavano e temevano Machiavelli e Guicciardini e tanti altri nella fase conclusiva del nostro Rinascimento, ma ora, — scrivo io, — sono qui da noi dappertutto, un’invasione cresciuta internamente, che rischia di diventare catastrofe. Naturalmente non si tratta — suppongo — di una citazione, ma di una coincidenza. Però anche le coincidenze hanno un loro peso e significato. Perciò, legittima è secondo me la domanda: è vero che siamo minacciati da “nuovi barbari”, da una nuova ondata barbarica?  La mia risposta è senz’altro positiva. La “barbarie” è quel tipo di fenomeno storico che prevede, sia istituzionalmente sia spontaneamente, la distruzione di ogni aspetto dell’assetto precedente, nell’assoluta vaghezza dei tratti e delle caratteristiche di quello che dovrebbe sostituirlo. In questo senso Matteo Salvini è un autentico barbaro, anche fisionomicamente, direi (o almeno così ha deciso di apparire, e ci riesce benissimo), e non semplicemente un Ostrogoto o un Visigoto, che per lunga contiguità finirono per addomesticarsi e “aderire”, ma un Unno, un Vandalo, cui importa soltanto che il vecchio sistema precipiti. Se le cose stanno così, — e io penso che stiano così, — è evidente che appare lecito e giusto esperire innanzi tutto tutte le misure atte a contrastare l’ondata barbarica. Anche Romolo Augustolo ce l’avrebbe fatta, se nei decenni precedenti qualcuno si fosse mosso seriamente, in provincia e a Roma, in questa direzione. Quindi, l’isolamento bellico (faccio per dire naturalmente) del barbaro è la condizione preliminare di qualsiasi passaggio successivo. E però... E però... Affidarsi in prospettiva a qualche (apparentemente) astuta manovra parlamentare e politica sarebbe anche questa volta un rimedio peggiore del male. Infatti: se il Barbaro oggi avanza, ciò accade perché l’Italia è stata sottoposta nel suo complesso, nel corso degli ultimi decenni, — come l’antica Roma, si potrebbe azzardare. — a un autentico processo di “barbarizzazione”. È assolutamente ovvio quello che sto per dire, ma devo dirlo, per concludere. Il capo barbaro rischia di prevalere, soprattutto perché, come ho già scritto altrove, la “barbarie” oggi è dappertutto, costumi, persuasioni etiche, forme della politica, rapporti umani, persino, come è stato più volte notato, usi e abitudini della lingua, impropriamente ormai, definita nazionale, ecc. ecc. Se non s’interviene a cambiare tutto questo (cominciare a cambiare), il barbaro avrà comunque il sopravvento, come accadde nell’antica Roma. Per farlo, non basta l’ampiezza formale della risposta. Bisogna cambiare le cose, tutte le cose, con idee, programmi, comportamenti... e una visibile, da chiunque inattaccabile buona fede. Lo raccomandava già cinquecento anni fa, dalla sua altezza di pensiero, Niccolò Machiavelli, possibile che non abbiamo ancora imparato questa semplice lezione?

Questo è l’indubbio quadro dell’italico imbarbarimento. Con il quale siamo costretti a fare quotidiani conti, in tutti gli aspetti delle relazioni sociali. Perché deve essere chiaro che i barbari non vivono e si muovono solo nell’ambito politico. Purtroppo persone e comportamenti barbari albergano in modo diffuso, e purtroppo crescente, nella società italiana tutta e semmai alimentano, venendo a loro volta alimentati e sdoganati, le barbarie in campo politico. Quella a cui siamo chiamati è quindi una riflessione autocritica ad ampio raggio. Non è sufficiente lo sgomento, non ci si può fermare al prenderne le distanze e s degnarsi. Occorre individuare le cause di questa decadenza ed attivare ogni possibile azione correttiva. In ogni ambito della nostra società ed in ogni luogo preposto alle relazioni sociali. Un primo contributo in questo senso può venire da questo articolo tratto dal sito on-line “Cosmopolis, rivista di filosofia e teoria politica” N° 1–2/2018 a firma di Stefano Martelli (professore di Sociologia dei processi culturali ed educativi presso l’Università di Bologna) che offre una riflessione a campo lungo sulle possibili matrici culturali e sociali dell’imbarbarimento, in particolare con un interessante aggancio ai modelli comportamentali indotti dal mondo dello spettacolo e dello sport

L'erosione del tessuto civile dell'Italia
Premessa
Maleducateneo: è questo il titolo della copertina di “Campus” (ottobre 2009). La rivista, di grande diffusione perché distribuita gratuitamente in molti atenei italiani, già in quel anno ha dedicato sia l’editoriale del primo numero del nuovo anno accademico (p. 6), sia un dossier (pp. 18-22) a stigmatizzare comportamenti incivili di docenti e studenti universitari. Per restare ai primi, si legge di professori che chiacchierano tra di loro di argomenti privatissimi e ridacchiano mentre stanno svolgendo esami orali o ascoltando la discussione di tesi di laurea; di altri che rispondono al cellulare interrompendo la lezione o gli esami; di altri ancora che fissano un ricevimento studenti il 22 agosto senza poi presentarsi e senza neppure avvisare gli studenti, alcuni fuorisede, con un foglio scritto o con un avviso messo sul sito web di Facoltà. Ciascuno di noi potrebbe contribuire al cahier de doléance dell’inciviltà raccontando episodi di cui è stato testimone – dal comportamento in autobus irriguardoso verso anziani disabili o mamme in dolce attesa o con bambini piccoli, a quello degli automobilisti prepotenti nel traffico delle ore di punta, al gergo insolente e volgare che inframmezza anche le normali conversazioni. Tuttavia il fine di questa sezione monografica è quello di riflettere sull'imbarbarimento della vita civile in Italia, e pertanto darò un contributo di tipo sociologico per individuare le cause che favoriscono l’erosione del tessuto civile del nostro Paese. A mio avviso occorre distinguere tra la tendenza evolutiva generale – l’affermarsi della società “post”-moderna, ovvero della comunicazione “glocale” – e ciò che appare invece specifico del nostro Paese. A livello generale occorre interrogarsi sui diversi fattori, materiali e culturali, che favoriscono o, al contrario, si oppongono all’evoluzione sociale. Seguendo l’appassionata ricostruzione fatta da Norbert Elias del processo di incivilimento, mi chiederò se oggi non si sia giunti ad una battuta d’arresto e mi interrogherò sulle caratteristiche della società “post”-moderna. Adottando la prospettiva offerta dalla sociologia relazionale noterò che fattori strutturali sono legati a cambiamenti nella sfera culturale e anche a modifiche nella socializzazione e nella formazione dell’identità personale, che oggi avviene in un ambiente ricco di simboli e di messaggi provenienti dai mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi, ma anche straordinariamente povero di relazioni umane significative e privo di contesti comunitari che favoriscano l’interiorizzazione dei valori.
L’individualismo consumistico che si sta diffondendo costituisce una situazione inedita, che pone grandi sfide educative alle capacità di una società di restare integrata. È, questa, una condizione comune a tutte le nazioni sviluppate, ma essa in Italia assume aspetti di particolare gravità a causa di una particolare situazione politica, creata da tendenze a delinquere proprie delle élite dominanti, che oggi si traducono in atti di governo, in leggi ad hominem e in programmi di revisione della Carta costituzionale e quindi del patto stesso di cittadinanza, in senso oligarchico e censuario. Su questa pericolosa deriva italiana non è il caso qui di trattenersi, perché già approfondita da questa rivista. L’obiettivo invece di questo contributo, perseguito collegando l’analisi “macro”-sociologica del processo di incivilimento al piano “micro” dei comportamenti individuali, sarà invece quello di illustrare le trasformazioni materiali e socio-culturali in atto, che favoriscono comportamenti incivili o “barbari” nella vita quotidiana. Questi ultimi appaiono conseguenze impreviste – anzi, «perverse» – dei grandi progressi tecnologici e materiali finora compiuti, i quali tuttavia non si sono accompagnati a strutture culturali e a trasformazioni nella personalità di base in grado di reggere le esigenze dell’ulteriore avanzamento nel processo d’incivilimento. Qualche esempio sul formarsi di inedite connessioni tra i sistemi sociali, ad esempio tra lo sport, da un lato, e il mondo della produzione e della pubblicità, dall’altro, grazie alla presenza diffusa dei mezzi di comunicazione – specie la televisione –, favorirà la comprensione dell’attuale dinamica socio-culturale. In effetti la «società dello spettacolo. favorisce il formarsi di personalità narcisisticamente orientate, e questo a mio avviso costituisce la causa prossima dell’inciviltà lamentata, così come della disgregazione del tessuto sociale nelle società occidentali, fenomeno più accentuato nel nostro Paese per ragioni specifiche di lungo e breve periodo
1. Il processo di incivilimento e le sue lentezze
Com’è noto Norbert Elias, il sociologo tedesco di cultura ebraica che, fuggito dalla Germania nazista, a Leicester (GB) ha fondato assieme ad Eric Dunning la prima scuola europea di sociologia dello sport, nelle sue opere ha inserito il processo di sportivizzazione all’interno di una grande analisi sullo sviluppo sociale dell’umanità. Specie ne La civiltà delle buone maniere e in Potere e civiltà Elias ha ricostruito il lento e faticoso consolidarsi in Europa, a partire dalla società feudale, di strutture di addomesticamento della violenza; queste si collocano sia a livello “micro”-sociologico (controllo degli impulsi individuali), sia a livello “macro” (consolidarsi dell'apparato statale). Nelle suddette opere, ora riunite nel volume dal titolo Il processo di civilizzazione egli mostra di aver tenuto presente sia la lezione di Max Weber sulla genesi delle istituzioni moderne, in particolare lo stato, sia l’istanza freudiana della necessità dell'autocontrollo e della repressione istintuale, al fine di prevenire il «disagio della civiltà». Quest'ampio lavoro – in cui il sociologo tedesco padroneggia un imponente materiale storico sforzandosi di cogliere le tendenze sociali emerse nell’arco dell’ultimo millennio, e ciò senza cadere nell’idiografia ma facendo sociologia processuale – ricostruisce il lento incivilirsi della cavalleria feudale a partire dal X secolo, il suo parziale trasformarsi in una “curia” intorno al sovrano, il sorgere nelle corti principesche di una «civiltà delle buone maniere» che si esprime in varie forme, tra cui hanno avuto una funzione di tutto rilievo le regole dell'etichetta (come comportarsi bene a tavola, come tenere una conversazione o comportarsi educatamente nelle relazioni interpersonali, ecc.). Alcune norme – ad esempio, l'uso delle posate per portarsi il cibo alla bocca anziché afferrarlo con le mani; il nettarsi la bocca col tovagliolo anziché colla manica della giacca, ecc. – hanno faticato molto a vincere la resistenza dei comportamenti tradizionali; una volta però che i comportamenti più “civili” sono stati socialmente approvati, essi – nota Elias – vengono trasmessi nella socializzazione dei nuovi nati come cosa “ovvia”. Lentamente il processo di incivilimento avanza elevando le soglie delle “buone maniere”, ovvero rafforzando l'autocontrollo individuale e la repressione degli istinti: in tal modo si stabilizzano personalità più civili – è una legge fondamentale della psicogenesi – e, al tempo stesso, nella storia emergono formazioni sociali più evolute – è la sociogenesi della civiltà. In sintesi il sociologo tedesco condivide la concezione evolutiva della storia ma, a differenza di altri – sia “classici” (Comte, Spencer, Durkheim) sia contemporanei (Parsons) –, è consapevole della lentezza e, soprattutto, della precarietà del processo. Se la direzione verso cui scorre il fiume della storia è un grado maggiore di civiltà, non è affatto certo che la corrente sia rapida, né che il cammino sia privo di ostacoli; si verificano pertanto stagnazioni o, addirittura, riflussi. Elias non offre previsioni sugli esiti futuri del processo di incivilimento, però si dimostra convinto della validità del percorso fatto dalla civiltà europea e appare prudentemente ottimista sull’estendersi ad altre società dell’unica civilizzazione. La ragione di questa prudenza eliasiana è dettata dall’attenzione a una duplice pre-condizione della riuscita: occorre infatti che le strutture sociali, pur nelle inevitabili trasformazioni e adattamenti a un ambiente via via più complesso, restino coerenti con i valori universali e, al tempo stesso, favoriscano l’emergere di nuove interpretazioni di detti valori; inoltre, che personalità all’altezza degli imperativi e delle competenze sociali richieste continuino a riprodursi nei gruppi primari (famiglia, reti parentali) e secondari (scuola, chiesa, gruppi giovanili, ambienti di lavoro, ecc.). In breve il processo di civilizzazione si regge e potrà svilupparsi solo combinando la creazione di strutture della personalità progressivamente più controllate e distaccate dalle emozioni (livello psico-genetico), con strutture della società progressivamente più differenziate ma anche coordinate da centri organizzatori e propulsori (livello socio-genetico).
In breve l’intera opera di Elias è dedicata ad individuare le strutture sociali e psichiche che si sono formate in questa lunga evoluzione socioculturale, che ha interessato l’ultimo millennio dell’umanità. Egli mette in evidenza il gioco reciproco di rafforzamento o, al contrario, di indebolimento delle strutture sociali e di quelle della personalità: in tal modo ammette pure la possibilità di retrocedere dai livelli di civiltà faticosamente raggiunti, com'è avvenuto in Europa negli anni 1930-'40 con la barbarie dei regimi totalitari (nazismo, fascismo, comunismo).
2. La società “post”-moderna o “dello spettacolo”: una battuta d’arresto nell’incivilimento della società occidentale?
Una battuta d’arresto del processo di incivilimento: è, questa, l’impressione diffusasi nei primi anni di questo terzo millennio, iniziati col crollo delle Twin Towers di New York abbattute dal gruppo terrorista islamico Al Kaheda (2001), e poi proseguiti con guerre in Medio Oriente, che hanno offerto il pretesto per l’arretramento dei diritti civili fondamentali persino nei paesi occidentali. Ciò nel quadro di un aggrovigliarsi della crisi economica, in cui il rincaro delle materie prime (non solo petrolifere!) e le insolvenze della finanza internazionale (2008-09), combinandosi con politiche di restrizione del credito al fine di evitare l’inflazione, ha provocato chiusure di fabbriche e di istituti bancari, licenziamenti in massa, e la crisi di un intero modello di produzione, basato sullo sviluppo illimitato e libero da valori che non siano la massimizzazione del profitto individuale.
Solo dopo il crollo di tante certezze si torna a ragionare sui limiti dello sviluppo, sulla necessità dei valori negli affari e si dichiarano i primi impegni per evitare conseguenze irreparabili sull’ambiente (vertice di Copenhagen 2009). Documenti come l’enciclica di Papa Benedetto XVI Caritas in Veritate (2008) richiamano a un modello di sviluppo solidaristico tra i popoli, basato su energie rinnovabili e tecnologie “soft” e a basso consumo, a cominciare dalla micro-elettronica e dalle bio-tecnologie.  Nel frattempo analoghe profonde trasformazioni sono avvenute nelle strutture culturali. Le «narrazioni della modernità», le grandi ideologie che hanno animato guerre e rivoluzioni per oltre un secolo, appaiono oggi de-costruite, eppure il loro posto è stato preso da nuove ideologie “dimezzate”, come il consumismo. La maggiore libertà acquisita appare illusoria, a fronte della caduta di tensione morale verso l’avanzamento della società, sostituito da un’idea ingenua di facile arricchimento individuale. Il progresso sociale oggi viene messo in discussione non solo in termini di possibilità, ma – cosa ancora più preoccupante – in termini di valore: si nega l’idea stessa di evoluzione sociale, e con ciò ci si condanna a non avere più un modello collettivo di riferimento. La negazione di un tal fine – il progresso della e nella civiltà – avviene non solo a livello etico, ma anche epistemologico: crescono i dubbi sulla capacità della ragione di conoscere oggettivamente la natura e la società. Viene così compromessa la plausibilità stessa del «modello-scala» – l’avanzamento di tutte le società su una via comune perché unica, così tenacemente difeso da Elias contro la sociologia funzionalista allora dominante, e si teorizzano vie plurali – il «modello-collana» –, o anche l’impossibilità stessa che i processi sociali in corso portino a un progresso. Il relativismo oggi sembra prevalere, ed erodere, qualsiasi posizione costruttiva e progressiva; però in tal modo il pensiero occidentale dubita del progresso stesso – il progetto della modernità! – e rinnega la propria eredità culturale, condannandosi a restare privo di identità e di orientamento per l’avvenire.
Uno dei compiti oggi irrinunciabili per le scienze – tra cui la stessa sociologia dei processi culturali – potrebbe essere proprio questo: comprendere le pre-condizioni socio-culturali del relativismo “post”-moderno e reagire, ri-legittimando il progresso come processo orientato ad un fine di incivilimento. Vorrei riassumere un’ampia analisi, che richiederebbe tempi e spazi assai maggiori di quanto siano disponibili in questa sede, facendo un solo esempio: al fine di sostenere la tesi che l’imbarbarimento della vita civile, di cui si parla in questo fascicolo, è un effetto imprevisto e perverso dei successi ottenuti dalla modernità, mostrerò che lo sviluppo dei mass media – specie la televisione! – e la diffusione dello sport, quale pratica – sia attiva, sia passiva – nel tempo libero favoriscono l’affermarsi di comportamenti consumistici e orientati al self individuale, i quali però hanno un effetto deleterio in termini di incivilimento. Più precisamente l’esempio che porterò mostra la convergenza in atto tra strutture sociali – sia materiali, sia culturali –, che per brevità chiamerò la «società dello spettacolo», e il tipo oggi dominante di personalità, che chiamerò «individualismo consumista», la quale ha come effetto collaterale il lamentato imbarbarimento della vita civile.
3. Il circuito media-sport-aziende: le basi strutturali dell’individualismo consumista
L’enorme sviluppo dei media nella società contemporanea alimenta l’immaginazione degli individui in molteplici modi, offrendo loro modelli di comportamento, quadri d’azione e modi di pensare, che diventano per ciascuno di essi altrettante risorse nella vita di tutti i giorni e nella costruzione della propria identità. Le riviste offrono ricette che sollecitano l’ambizione di poter realizzare un pranzo perfetto; la pubblicità delle vacanze genera il sogno ad occhi aperti di potersi godere spiagge incontaminate, sole e libertà; la televisione offre nelle soap opera esempi di interazione tra individui, che possono divenire risorse nei rapporti sociali; il cinema tramite i suoi divi, e lo sport tramite i suoi campioni offrono alla gente, specie ai più giovani, modelli di identificazione su cui fantasticare. In breve, i media nella società contemporanea sono risorse per l’immaginazione degli individui: essi abituano la gente a guardare la realtà come uno «spettacolo». Muoversi nella vita sociale come se si assistesse ad una rappresentazione, di cui ciascuno di noi è solo uno spettatore, è un modo di vivere tipicamente “post”-moderno, che si distingue sia per la durata – che è indefinita, rispetto alla brevità dell’evento che gli antichi vivevano recandosi al teatro o al tempio –, sia per le sue cause: la società dello spettacolo a molti appare una delle conseguenze della colonizzazione della vita quotidiana tramite lo scambio di merci, attuata dal capitalismo “maturo”. Anche sotto questo aspetto si può misurare tutta la distanza che intercorre tra l’attuale formazione sociale e la prima modernità, in cui filosofi e sociologi di opposta ideologia, come Karl Marx, Auguste Comte ed Herbert Spencer, concordavano però nella pretesa di trasformare il mondo per migliorarlo. Oggi, invece, nella società “post”-moderna, ci si accontenta di osservarlo. L’attuale società è pure caratterizzata dal diffuso narcisismo. Una società è tale se la gente agisce come se fosse sempre osservata da qualcuno, come se ciascun individuo fosse al centro dell’attenzione di un pubblico, reale o immaginario che sia. Christopher Lasch ha notato che la società attuale è caratterizzata dalla diffusione di un tipo particolare di personalità, la narcisistica, più di frequente rintracciabile nelle posizioni sociali più elevate ed influenti. Nel lavoro il narcisista non è interessato a ottenere risultati duraturi né al progresso sociale, ma mira solo all’apparenza e al successo immediato.
Cambiamenti nei modelli di socializzazione, sia in famiglia, sia nei luoghi di lavoro, i quali sono stati favoriti dal grande sviluppo di televisione e altri media, hanno favorito l’emergere di personalità, che sono preoccupate narcisisticamente solo delle apparenze, mentre non si preoccupano affatto di conseguire obiettivi socialmente rilevanti o di fornire prestazioni utili alla comunità. Il tratto principale è un’ipertrofia del sé, che non conosce limiti o confini rispetto al mondo. Ne consegue pure l’aumento dei problemi sociali e un accresciuto senso di disagio individuale.In una società narcisista la realtà è concepita come un succedersi di spettacoli, in cui c’è qualcosa da vedere e in cui farsi vedere. Il legame tra il narcisismo come pratica socializzatrice diffusa, lo spettacolo, la produzione di merci e la formazione sociale “post”-moderna e della comunicazione globale è assicurato dai media, la cui pervasività in ogni ambiente sociale consente il funzionamento di questo sistema. Lo sport, in particolare i grandi eventi teletrasmessi come le Olimpiadi, le Paralimpiadi e i Campionati internazionali di calcio, sono un esempio di come la società dello spettacolo al tempo stesso promuova i consumi e rafforzi le tendenze narcisistiche degli individui.
Lo sport è un campo che offre molti e rilevanti esempi della riuscita circolarità tra strutture sociali – materiali e culturali – e la formazione delle identità personali, su cui si fonda la società “post”-moderna. La fig. 1 mostra il circolo “virtuoso” realizzatosi tra media, vita quotidiana, rappresentazione e spettacolo/narcisismo a livello individuale (micro-sociologico); la disciplina sportiva scelta per l’esemplificazione è il calcio, mentre i media sportivi svolgono una funzione lubrificante del circuito. In questa prospettiva anche le audience, e in particolare le audience sportive, hanno assunto nuove caratteristiche rispetto al pubblico che nelle formazioni sociali pre-moderne si recava a teatro o al tempio. L’audience mediale attuale è pure differente dalle masse che nella prima età moderna leggevano i giornali, andavano al cinema oppure ascoltavano la radio. Tifosi e fan per Abercrombie e Longhurst sono esempi di audience diffusa, che essi considerano un terzo tipo di pubblico, apparso nella seconda fase della modernità grazie alla pervasività dei media e al formarsi di un senso di appartenenza ad una «comunità immaginata» – un processo favorito dall’attuale società narcisistica e dello spettacolo. Oggi è evidente il nesso stabilitosi tra costruzione dell’identità individuale e media – bypassando gli ambienti educativi tradizionali (famiglia, scuola e chiesa), che altrove ho proposto di chiamare «videosocializzazione». Ad esempio i tifosi di una squadra di calcio che gioca nei tornei internazionali sviluppano più facilmente un senso di appartenenza ad una comunità immaginata: seguire in televisione (a pagamento) le partite internazionali della propria squadra vestiti della maglia del club e festeggiare i goal e le sue vittorie uscendo in piazza e sventolando la bandiera o la sciarpa, consente a questi tifosi di sentirsi parte di una collettività. Questa si distingue dalla comunità tradizionale, basata sugli incontri “faccia a faccia”, per il fatto che le relazioni tra i membri, pur decontestualizzate, sono assicurate da simboli sportivi e vengono ricreate virtualmente dalla fruizione televisiva della partita e dal gossip che la segue.  In breve lo sport “mediato” svolge una funzione rilevante nel quadro della società “post”-moderna, ovvero dello spettacolo e della comunicazione globale, che qui ho sinteticamente descritto. I media sportivi oggi si sono moltiplicati: oltre ai mass media tradizionali (giornali a stampa, radio e cinema) oggi il tifoso ha a disposizione la televisione digitale terrestre e quella satellitare (free o a pagamento), ma anche internet e il videocellulare. Tali mezzi di comunicazione riversano nelle case e negli ambienti sociali una quantità finora inimmaginabile di immagini e di eventi sportivi, e questi consentono ai tifosi di plasmare la propria identità, coltivando il proprio senso di appartenenza ad una (o più) squadre acquistandone la maglia i gadget e i prodotti sponsorizzati, seguendola nelle trasferte e così aderendo nei fatti all’individualismo consumista, che è l’ideologia soft della società “post”-moderna e dello spettacolo.
Conclusione
Come qualsiasi fenomeno sociale, il reciproco rafforzamento oggi in atto tra industria dello spettacolo (piano “macro”-sociologico) e narcisismo individuale (piano “micro”) comporta aspetti positivi e aree di debolezza. Dal mero punto di vista economico i conti “tornano” per ciascuna delle istituzioni – sportive, mediali e aziendali – che compongono il circuito dello spettacolo. Dalla vendita dei diritti di trasmissione televisiva dei grandi eventi sportivi il Comitato olimpico internazionale e la Fifa incassano miliardi di dollari, con i quali riescono ad organizzare Olimpiadi, Paralimpiadi e Campionati mondiali di calcio, e in più a sostenere l’espansione dell’olimpismo o del football/soccer nei paesi in via di sviluppo. A loro volta, trasmettendo le competizioni sportive, le grandi catene televisive – la Nbc negli Usa, le antenne europee aderenti all’Ebu, l’australiana Channel 7, ecc. – sono in grado di attirare pubblici immensi e quindi a loro volta di rifarsi delle spese incassando cifre ancora maggiori dalla vendita degli spazi pubblicitari inseriti nei programmi sportivi. Infine le aziende sono felici di pagare tali cifre, pur di promuovere i propri prodotti con spot pubblicitari che saranno visti da audience vastissime e che, trasformatesi in clienti, riverseranno profitti decuplicati nelle loro casse. Eppure i conti non tornano dal punto di vista sociale. Lo spettacolo sportivo – come gli altri tipi di spettacolo ma di certo in maniera assai più incisiva – rafforza la personalità narcisistica, che appare il tipo prevalente nella formazione sociale “post”-moderna. Gli individui non sono solo centrati su se stessi, assorti nel piacevole compito di consumare beni e di auto-gratificarsi materialmente e simbolicamente, ma soprattutto appaiono insensibili ai diritti altrui, disattenti al bene comune e disimpegnati nella sfera pubblica. Peraltro questi narcisisti sono anche pericolosamente soli e per di più appaiono impauriti di fronte alle sfide che un cambio epocale comporta, tanto da prestare orecchio a politici che, novelli profeti di sventura, fanno leva sulla demagogia e sulla xenofobia per far passare leggi ed azioni incivili. In altri termini l’imbarbarimento che si nota nella società italiana non è solo la somma di tante cadute individuali dalle buone maniere, ma è pure il risultato di paure e tensioni collettive dovute al forte cambiamento in atto, che richiederebbe personalità all’altezza delle tante possibilità offerte da una società complessa, ma che dai più vengono rifiutate in nome del quieto vivere o della sindrome narcisistica. Purtroppo l’aver smarrito la via dello sviluppo come incivilimento ha un prezzo elevato: l’aggressività e la paura alimentano scelte irrazionali, che vengono adottate solo perché “nuove”. Se poi a queste difficoltà a individuare soluzioni virtuose – che l’Italia condivide con gli altri paesi sviluppati –, si accompagnano condizioni depressive locali, quali quelle create nel Belpaese da politiche di governo cesaristiche e demagogiche, il quadro non potrà non essere preoccupante e confermare la diceria corrente, che i barbari sono di nuovo tra noi, anzi, siamo noi stessi, nella misura in cui cediamo all’illusoria potenza delle tecnologie più avanzate e alle suggestioni della società dello spettacolo.