martedì 1 luglio 2025

La Parola del mese - Luglio 2025

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

LUGLIO 2025

Corre una sorta di obbligo per il lessico politico di battezzare ogni cambiamento strutturale, nella società, nelle forme del potere, nell’economia, con un termine capace di sintetizzarne quella che viene ritenuta la sua principale caratteristica. Non poteva sfuggire a questa tendenza la trasformazione avvenuta a cavallo del nuovo millennio con la definitiva e totale affermazione della tecnologia in ogni campo. La Parola di questo mese recupera il termine che, inizialmente riferito principalmente all’aspetto economico e produttivo, si è poi esteso a collegate forme del potere e della vita politica …………..

TECNOCAPITALISMO

Dal punto di vista etimologico è una parola che semplicemente mette in relazione due termini: Tècno (dal greco “τέχνη”, primo elemento di parole composte nelle quali significa “arte, capacità tecnica” o indica comunque una relazione con la tecnica) e Capitalismo (dal latino “caput – testa” e “alere – nutrire”, originariamente introdotto nell’analisi marxista, ma  poi accolto dalla scienza e dalla storiografia economica, con il quale si indica il sistema economico e sociale giunto a maturazione nel 19° secolo e poi evoluto in successive forme) che sono ormai entrati, nell’era della tecnologia spinta, in strettissima simbiosi.

Il termine tecnocapitalismo definisce quindi un sistema integrato di tecnica e capitalismo, ossia un sistema economico in cui l’innovazione tecnologica e l’uso intensivo della tecnologia sono al centro dell’attività economica e della creazione di valore. In questa versione del capitalismo sono diventate vincenti le imprese che più e meglio sanno sviluppare e commercializzare tecnologie innovative (di produzione e di offerta/gestione di servizi) che, avendo ormai l’economia carattere globale, consentono di generare profitti significativi in tempi straordinariamente accelerati.

Tecnocapitalismo, se così inteso, sembrerebbe avere una accezione neutra di semplice fotografia di un dato strutturale economico, ma così non è nel campo delle scienze sociali perché la sua declinazione può variare a seconda della diversa importanza attribuita ad uno dei due termini che lo compongono.

Nell’opinione di chi considera le innovazioni tecnologiche l’aspetto più rilevante tecnocapitalismo indica il ruolo determinante che esse hanno assunto nel conformare l’attuale capitalismo, tale da giustificare l’appellativo diquarta rivoluzione industriale(per indicare la crescente compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico, grazie alla somma dei progressi in Intelligenza Artificiale, robotica, l’Internet delle cose,  stampa 3D, ingegneria genetica, computer quantistici e altre correlate tecnologie) vale a dire una totale trasformazione del modo di produrre e di fare economia non dissimile nella sua portata dalle tre rivoluzioni che l’hanno preceduta (la prima, ottocentesca, data dall’avvento dell’energia a vapore, seguita dalla seconda del passaggio, nel primo Novecento, al motore a scoppio e all’energia elettrica, ed infine la terza, in qualche misura propedeutica a questa quarta, con la prima comparsa, iniziata negli anni Cinquanta, di processi automatizzati e computerizzati).

Al contrario per chi ritiene che il capitalismo, seppur così trasformato, rimanga l’aspetto ancora determinante, tecnocapitalismo non indica nessun reale cambio di paradigma, i mutamenti consentiti dalla tecnologia nell’estrarre valore (profitti) da parti sempre maggiori della vita dell’uomo e della società non hanno modificato ed hanno anzi rafforzato quella razionalità strumentale/calcolante-industriale che è la vera anima della modernità. Vale a dire che il capitalismo, nella sua versione tecno, è apparentemente diverso, ma sostanzialmente non dissimile da quello descritto da Marx e da quello novecentesco, perché sempre si basa sulla divisione del lavoro e sulla sua successiva, per quanto modificata, ricomposizione/integrazione in una struttura organizzata maggiore della semplice somma delle parti precedentemente suddivise.

Per lo scopo di questa Parola del mese ciò che più interessa, al di là della diversa importanza attribuibile ai due termini in questione, è piuttosto meglio capire quanto la consolidata affermazione del tecnocapitalismo stia incidendo sulla società, sulla democrazia e sui modi di vivere. In effetti più ancora della rilevanza assunta dall’insieme delle attività economiche tecnologiche, comunque indubitabile e di straordinario impatto sull’intero sistema capitalistico, ciò che sta ormai da alcuni anni impressionando, è il parallelo fenomeno di concentrazione della loro proprietà in un numero ristretto, molto ristretto, di soggetti, non a caso comunemente definititecnooligarchi” e da alcuni “tecnotitani.

Non è infatti dato riscontrare nell’intera storia del capitalismo una simile concentrazione di ricchezza e di potere di controllo dell’intero ciclo economico, ormai assurta a livelli tali da giustificare ampiamente il parallelismo tra tecnocapitalismo e oligarchia (nostra parola del mese di Aprile 2022), il “governo di pochi”. Non a caso quindi è proprio sulla relazione che il tecnocapitalismo sta implicando fra dimensioni economiche e potere esercitabile che si sono concentrate le attenzioni di media, di analisti politici, di studiosi di scienze sociali,del confronto politico e dell’intera opinione pubblica. Fra le tantissime riflessioni sul tema ci è sembrato interessante ed utile recuperare quella di Lelio Demichelis

(docente di sociologia presso il Dipartimento di Economia dell’Università dell’Insubria-Varese) che da diversi anni sta indagando sul tema con un primo testo “La religione tecno-capitalista

seguito poi da “La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo ed il tecnocapitalismo(nostro saggio del mese di Dicembre 2018)

Merita recuperare alcuni passaggi della sua analisi (prevalentemente dedicata alle ricadute della rivoluzione tecnologica nel mondo del lavoro) che, pur non essendo la traccia principale che seguiremo per approfondire il tema sollecitato da questa Parola del mese, bene inquadrano alcune delle conseguenze che derivano dal potere acquisito dal tecnocapitalismo e dai suoi alfieri. Demichelis non è particolarmente interessato alla diversa declinazione di cui si è detto, sostiene infatti che tecnica e capitalismo sono una cosa sola, perché i loro scopi, solo apparentemente diversi, che consistono per il capitalismo nell’accrescimento infinito del profitto privato e per la tecnica nell’accrescimento altrettanto infinito della propria potenza, sono a tutti gli effetti funzionali e integrati l’uno all’altro. Precisa poi che di conseguenza entrambi, nella loro definitiva congiunzione nell’attuale tecnocapitalismo, puntano a superare ogni limite/ostacolo, a vivere di velocizzazione e di accelerazione continua, a non tollerare alcun dissenso soffocando ogni ricerca di alternative, a verticalizzare le relazioni sociali ed i rapporti di lavoro, a rimuovere quindi i corpi sociali intermedi di mediazione e partecipazione collettiva.

Un’autentica duplice volontà di potenza che inesorabilmente sta incrinando l’essenza stessa della democrazia che, così come è stata sin qui intesa, basa al contrario la sua essenza sul bilanciamento dei poteri al proprio interno, e soprattutto conosce e pratica il concetto di limite perseguendo coerentemente il controllo di ogni volontà di potenza e di ogni eccedenza ed eccesso di un potere sugli altri.

Se così stanno le cose il tecnocapitalismo impone alla democrazia ed ai suoi difensori un’attenzione, finora non sufficientemente messa in campo, per la tematica dei “diritti tecnici”, ossia quelli in capo ad ogni cittadino ogni qual volta è inserito, connesso ed integrato, in apparati tecnologici così saldamente in mano di imprese private che, proprio su questa base, hanno acquisito un impensabile potere economico ed oramai anche politico. In questo senso la finalità della democrazia e della giustizia economica da sole non sono  più sufficienti perché la tecnica che compone il suffisso tecno di tecnocapitalismo è con ogni evidenza diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta essendo divenuta “fine e non più mezzo”, tanto da rappresentare la dimensione capace di inglobare l’intero vivere umano (da qui la “grande alienazione” del titolo del saggio di Demichelis). A suo avviso quindi il tecnocapitalismo, ed i rischi che la sua affermazione sta comportando, rendono insufficiente la democratizzazione del capitalismo se non viene completata con quella della tecnologia ovvero della tecnica in quanto sistema.

A maggior ragione diventa utile, in questo contesto, ricostruire il concreto percorso storico delle idee e delle scelte strategiche che hanno condotto a questo stato di cose, lo faremo avendo come traccia l’interessante testo, di recentissima uscita, “Tecnocapitalismo. L’ascesa dei nuovi oligarchi e la lotta per il bene comune

la cui autrice è Loretta Napoleoni (economista e saggista)


Anche per questo saggio (una ricostruzione molto articolata del complesso intreccio di fattori economici, sociali, culturali, politici che hanno costituito il percorso di trasformazione complessiva dell’attuale capitalismo globalizzato) ci limitiamo qui a riprendere le parti più specificamente dedicate all’affermazione, all’interno di tale contesto generale, del tecnocapitalismo:

Cyberpunk = agli inizi degli anni Novanta l’onda da non molto montata delle tecnologie ICT (Tecnologie di Informazione e Comunicazione) ha già prodotto un considerevole numero di imprese di straordinario successo del settore (in primis Microsoft, Apple, IBM e INTEL, quelle che hanno messo a punto le prime innovazioni hardware e software per presto divenire le big company del settore, ma restando ancora lontane dal costituire un tecnocapitalismo compiuto) le più grandi delle quali si sono ampliate anche grazie alle costanti acquisizioni di startup (imprese di recente nascita) che hanno messo a punto, in brevissimo tempo con le geniali intuizioni dei loro creatori, prodotti innovativi vincenti. Vendendo la loro esclusiva alle big company, in questo modo divenute ancora più big, imprenditori di poco più di trent’anni, con in cassaforte patrimoni multimilionari, sono liberi di reinventarsi nuovi ruoli sul mercato. Molti di loro, condividendo passioni e caratteristiche culturali, spesso sono accumunati anche da visioni di lungo respiro che vanno da idee sociali libertarie ad altre più conservatrici se non elitarie, fanno comunque gruppo ed iniziano a concordare strategie di mercato nel settore. In quello che al tempo è stato auto-definito un contesto cyberpunk (genere narrativo che in chiave fantastica critica il controllo capillare dell'individuo da parte di una società oppressiva) prendono consistenza due concetti che in breve caratterizzeranno quella scena imprenditoriale e culturale: la convinzione che sia la tecnologia e non la politica a proteggere le libertà individuali e che essa, per potersi muovere efficacemente, deve proteggersi dai controlli e intrusioni del vecchio sistema di potere. Questo secondo aspetto viene concretamente tradotto, per le loro necessità comunicative, nello sviluppo di sistemi crittografati (sistemi che, a partire dal lancio su vasta scala del sistema “PGP, Pretty Good Privacy, buona e bella privacy”, consentono solo a chi condivide una chiave di accesso di decifrare la comunicazione), un passo fondamentale che aprirà, da lì a poco, le porte all’ecommerce ed alle criptovalute.

Alcuni commentatori hanno fatto notare che nel cerchio, tutt’altro che esteso, dei nerd cyberpunk è stata rilevata un’alta incidenza di soggetti affetti dalla sindrome di Asperger, una sindrome (che colpisce di più i maschi delle femmine) dello spettro autistico, che comportaabilità sociali limitate, propensione all’ossessione, interesse per i sistemi, amore per i numeri, rifiuto del confronto privilegiando il pensiero individuale”. Può sembrare una nota di colore, ma il fatto che ne siano in qualche modo coinvolti molti dei personaggi (tutti maschi) emblema del tecnocapitalismo, (a partire da Elon Musk) qualche riflessione aggiuntiva la sollecita

Bitcoin = Questa ossessiva ricerca e messa a punto di sistemi criptati di comunicazione da subito viene estesa alle modalità di gestione delle comuni attività economiche on-line, incluse quelle finanziarie, compresa una più libera circolazione del denaro, che non tarda a tradursi nell’idea di crearne una ad hoc, naturalmente virtuale. A differenza dell’e-commerce (la vendita di prodotti, di ogni tipo di prodotto, on-line, la cui architettura viene rapidamente messa a punto per presto divenire uno dei settori più rilevanti del tecnocapitalismo) questo secondo obiettivo si presenta però di non facile soluzione, troppo forte e rigido è infatti il potere ed il controllo esercitato dalle autorità monetarie statali e troppo complesse le stesse articolazioni di sistema che devono garantire il massimo di efficienza, di privacy e di controllo, a lungo gli sforzi messi in campo non sortiscono risultati concreti.

La svolta si realizza solo nel 2008, in non casuale coincidenza con la più grave crisi finanziaria del capitalismo globalizzato che sottopone tutte le monete nazionali, o di aree comuni come l’euro, a tensioni pesantissime (la moneta tradizionale è tecnicamente definita uno strumento “fiat”, per indicare che, non essendo più ancorata dal 1971, fine degli accordi di Bretton Woods,  al valore di un metallo come l’oro, essa ha un valore basato esclusivamente sulla fiducia del mercato). Un personaggio di nome Satoshi Nakamoto (un evidente nome di fantasia) del tutto sconosciuto (e tale ancora è) segnala al gruppo dei cyberpunk di aver messo a punto un sistema di gestione telematica di una moneta, chiamata “Bit-coin(nostra Parola del mese di Febbraio 2018), che garantisce piena efficienza di transazioni monetarie ed assoluta riservatezza. Il successo, complice la crisi finanziaria, è immediato, l’era delle criptovalute è iniziata (il tempismo della nascita del Bit-coin ha suscitato non poche domande, troppo elevata era infatti la competenza, informatica e finanziaria, necessaria per creare uno strumento così raffinato. Sono da subito circolate voci secondo le quali dietro Satoshi Nakamoto si siano in effetti mossi soggetti di altissimo livello dello stesso mondo finanziario “ufficiale” interessati a creare nuovi spazi di manovra per investimenti e profitti. Un’ipotesi che, se confermata, rafforzerebbe l’opinione di molti che fin da subito il successo dei cyberpunk sia stato “benedetto” da una parte del potere).

Non interessa qui entrare nel merito del funzionamento tecnico (molto complesso) del Bit-coin piuttosto che individuare il suo vero creatore o valutare l’universo delle cryptovalute da lì in poi evoluto (se ne contano ormai più di diecimila), ciò che merita evidenziare è il fatto che il percorso verso la definitiva affermazione del tecnocapitalismo conosce con questa svolta un fondamentale passo in avanti: l’idea di una economia ed una società alternative a quella classica, al tempo ancora non poco venata di idealismi vagamente libertari, poggia ora, sfondato il muro della dittatura finanziaria e monetaria, su una base più solida sulla quale diventa possibile, tecnicamente e ideologicamente, costruire altre progettualità.

Mondo cripto – NFT = La criptovaluta creata da Satoshi Nakamoto (che con il tempo ha dimostrato, a differenza di molte altre, di possedere buone doti di affidabilità e di controllabilità, grazie al suo rigoroso sistema delle block-chain, letteralmente catena di blocchi ossia una costante verifica, consegnata nelle mani degli stessi utilizzatori, di tutta la trafila delle transazioni) ha infatti fornito, al di là della sua specifica utilizzazione, un’architettura informatica adattabile anche ad altri usi. Buona parte dei quali hanno formato una sorta di mondo cripto che per un certo periodo ha mantenute ferme le due iniziali filosofie di base cyberpunk: autonomizzazione dalle istituzioni statali e rafforzamento ed ampliamento delle libertà individuali.

Qualcosa si è però molto presto incrinato in queste speranze libertarie e nelle prospettive gestionali da loro prodotte, ed è esattamente in questa frattura che si sono sviluppati i germi della nascita del tecnocapitalismo, ossia di un individualismo imprenditoriale che individuava nella tecnologia della Rete, e nella sua pervasività sempre più diffusa, una dimensione ottimale di mercato nella quale conquistare nuove posizioni egemoniche (quelle conquistate da quelli che Loretta Napoleoni definisce i nuovi tecnotitani ), mantenendo al tempo stesso, ma a questo punto per tutt’altri fini rispetto a quelli originari, anche l’ideologico obiettivo di scavalcare le funzioni di controllo e regolamentazione statali fino a prevedere e ad esaltare nuove forme di potere (i nuovi tecnoligarchi). Due esempi lo testimoniano in modo esemplare: con un brevissimo salto temporale, ma con uno sconvolgente salto logico rispetto alle iniziali illusioni libertarie (ancora evidenti nel 2008), si arriva alla nascita di OpenAI nel 2015 e alla clamorosa esplosione del fenomeno NFT nel 2021.

OpenAI (un modello linguistico informatizzato di grandi dimensioni strutturato su una rete neurale, una replica tecnologica del cervello umano) nasce nel 2015 grazie ai finanziamenti di un gruppo di investitori (accomunati dalla fiducia nelle potenzialità, di vario genere, dell’Intelligenza Artificiale AI), quasi tutti provenienti dall’ambiente nerd cyberpunk, con lo scopo, dichiarato come “umanitario, di sviluppare una forma, accessibile per tutti, di intelligenza artificiale a sussidio di esigenze di vario tipo. Solo quattro anni dopo, nel 2019, avvia una partnership con Microsoft (che investirà miliardi di dollari per sostenere lo sviluppo delle versioni di ChatGPT, il nome dell’AI di OpenAI) che manda in soffitta la finalità filantropica per elaborare raffinate strategie di applicazione (estendibili ad ogni ambito produttivo ed economico) per ricavare lauti profitti. Al di là dell’acceso dibattito attorno all’AI, alle sue possibili applicazioni, ai rischi di una sua incontrollata estensione ed ai dubbi sulla sua ragione d’essere, è centrale evidenziare, in questo approfondimento sull’attuale tecnocapitalismo, questo cambio radicale di paradigma, culturale ed economico, attuato dai suoi protagonisti che si è presto tradotto in una sua fideistica esaltazione che va in tutt’altra direzione rispetto alla iniziale finalità umanitaria. Appare sempre più evidente il suo ruolo centrale nelle strategie tecno-capitalistiche tale da giustificare il timore dell’avvento di un capitalismo ipertecnologico fondato unicamente sul capitale.

Non appare dissimile la finalità ultima del nascente mondo degli NFT , Non Fungible Token (letteralmente “Gettone non replicabile”, è la registrazione su una blockchain, come quella dei Bitcoin, del possesso esclusivo di un oggetto digitale, il token, che può essere rivenduto piuttosto che reso accessibile previo compenso di norma in criptovalute) che, nati per certificare opere d’arte create appositamente come NFT, si stanno rapidamente estendendo nel mondo della Rete (sono nate applicazioni perlomeno stravaganti, ma di enorme successo, con un giro d’affari incredibile, come “Criptokitties” un gioco di allevamento virtuale di gattini, che rendono legittimo l’interrogarsi su quale umanità stia nascendo nell’era della Rete). Sono ormai molti i commentatori che pronosticano la loro evoluzione, non solo più nella forma di proprietà di oggetti virtuali, come modo standard di commerciare, sfruttando specifiche blockchain, tutto ciò che richiede una prova della proprietà e che può essere scambiato sul mercato.

Il quale assumerebbe in questo modo una dimensione sempre più ancorata unicamente ad una Rete slegata dalle istituzioni statali e dal loro potere di controllo e regolamentazione.

L’ascesa dei tecnotitani = Non sono meno significativi altri esempi, come quelli di Uber (la modalità di gestione del trasporto automobilistico che mette in contatto diretto utente e autista) e di Airbnb (analogo rapporto diretto tra affittuario e locatore di affitti brevi), che rendono legittima questa previsione. L’intero comparto delle attività economiche che rientrano nell’alveo, sempre più variegato, del tecnocapitalismo  evidenzia, per spiegare il suo successo, la rilevanza, economica e politica, dell’aspetto temporale: l’intero sistema di norme e convenzioni che fino al loro avvento regolavano il funzionamento di settori significativi del mercato è stato letteralmente sconvolto e reso inefficace dalla loro capacità di affermarsi e consolidarsi ad una incredibile velocità di rimodulazione. Il mercato tecnologico viaggia ad una velocità impensabile per le tradizionali attività legislative di controllo e per i classici modelli di gestione contrattuale del lavoro.

Non soltanto il tecnocapitalismo possiede caratteristiche intrinseche alla sua conformazione che gli consentono una buona dose di impermeabilità a controlli e regolamentazioni (spesso favorita da una complice ignavia della politica), ma il suo indubbio successo economico è ormai tale da catturare l’attenzione interessata dell’alta finanza e degli investitori istituzionali (fondi pensione, compagnie assicurative e banche) che, salendo sul carro del vincitore, non poco  contribuiscono alla sua crescita. Si realizza infatti, negli anni immediatamente successivi alla crisi strutturale del 2008, il paradosso che buona parte dei flussi finanziari (creazione di nuovo denaro pagata con debito pubblico) attivati per soccorrere i classici settori economici sono, attraverso questi stessi, dirottati, come finanziamento speculativo, verso quelli tecnologici che, solo pochi anni prima, i Cyberpunk avevano immaginato come alternativi allo Stato ed al vecchio capitalismo. E’ anche grazie a questo flusso di ingenti finanziamenti che le big company del settore – Microsoft, Apple, Amazon, Ndivia, Alphabet (ex Google), Meta (ex Facebook) – sono sistematicamente in grado di fagocitare ogni impresa, ogni nuova attività, che si presti a rafforzare il settore.

L’avidità capitalistica dei nuovi padroni del vapore (tecnologico) è talmente insaziabile da mettere in atto anche uno sfruttamento scientifico, ma di certo non meno pesante, del proprio personale (la “gig economy” del lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo) ipocritamente mascherata anche con la studiata capacità di presentarsi sul mercato con la candida e progressista veste della “sharing economy (economia condivisa)”, una economia “della gente” che dovrebbe realizzare, a dar credito al racconto di comodo, la fusione tra gli interessi dei produttori e quelli del consumatore/utente. La realtà racconta tutt’altra storia.

La fine dello Stato-nazione = La rivoluzione tecno-capitalistica avviene negli USA sulla base della combinazione dei fattori, culturali – scientifici – tecnologici, di cui si è detto, realizzando un sistema di potere economico molto concentrato, di natura oligopolistica, con una formidabile potenza di fuoco: negli anni della pandemia la capitalizzazione azionaria delle citate big company è arrivata a valere oltre 4.000 miliardi di dollari superando il PIL della Germania, la quarta economia mondiale.

Non può certo stupire che una tale potenza abbia cancellato ogni possibile concorrenza (con la sola eccezione della Cina, la recente affermazione della AI cinese DeepSeek è emblematica di una capacità tecnologica non inferiore a quella tecnocapitalista), in particolare quella, quanto mai già timida del suo, del vecchio continente (alla UE allo stato attuale non resta altra arma che quella, non poco spuntata, di tentare di contenere, normandola e tassandola, tale invadenza). In questo scenario il trasferimento di sovranità reale alle tech companies dai vecchi Stati nazione, la dimensione istituzionale entro la quale non a caso si era formato e sviluppato il capitalismo classico europeo, è diventato inevitabile. Con la cancellazione di fatto, in un arco temporale incredibilmente compresso, della dimensione spaziale realizzata grazie alla dimensione globale della Rete, il tecnocapitalismo ha allentato oltremisura tutte le storiche relazioni tra territorio, popolazioni e Stati.

L’avvenuta affermazione planetaria di Google Maps (adottata persino dagli eserciti di molti paesi del mondo per controllare il territorio anche nascondendo agli occhi altrui, previ lauti compensi, installazioni strategiche) e quella in corso di Starlink (la costellazione di satelliti creata da Elon Musk per sistemi di comunicazione) sono solo alcuni degli esempi più significativi del potere di controllo degli spazi fisici, economici, politici e, non ultimi, esistenziali

I baroni dello spazio = A completare la rassegna degli spunti più significativi offerti dal saggio di Loretta Napoleoni recuperiamo quelli relativi ad altri due fondamentali aspetti costitutivi dell’attuale tecnocapitalismo (che, essendo fra di loro strettamente connessi, aggiungono elementi di riflessione anche sulla stessa correlazione, più o meno bilanciata, fra tecno e capitalismo): l’adesione incondizionata al mito della  crescita infinita, proprio delle logiche capitalistiche, e la nuova corsa alla conquista dello spazio, esaltazione prometeica della potenza tecnologica.

A dare sostanza alla prima considerazione, in aggiunta a quanto già esaminato in precedenza, interviene l’evidente assenza nel mondo dei tecnotitani/tecnoligarchi, di attenzioni verso le innegabili ricadute che la rincorsa di una crescita economica sempre più insostenibile sta avendo sulla salute di un pianeta dalle risorse finite. Ogni qual volta l’emergenza ambientale e climatica ha evidenziato l’inconciliabilità fra sostenibilità e ricerca ossessiva del profitto, gli alfieri del tecnocapitalismo si sono fatti notare per la loro assenza se non per una incondizionata difesa della redditività. Non a caso, nell’incredibile campionario delle innovazioni tecnologiche costantemente promosse per quasi tutte le attività umane, praticamente nessuna si prefigge l’obiettivo di soluzioni di mitigazione ambientale, di utilizzo consapevole e mirato delle risorse terrestri, di messa a punto di sistemi energetici alternativi. 

Semmai la consapevolezza, indubbiamente presente nelle loro strategie di lungo periodo, dell’inconciliabilità della crescita infinita con un pianeta dalle risorse finite viene semplicemente declinata nel loro superamento realizzato con una sorta di fuga dalla Terra stessa. Ciò sta chiaramente avvenendo con la messa a punto di progetti che guardano, andando oltre i limiti fisici terrestri, allo sfruttamento dello spazio che circonda la Terra con la realizzazione di strutture artificiali collocabili ben oltre il cosiddetto ““LEO, Low Earth Orbit(l’area compresa tra i 240 e 800 km di distanza dalla Terra, nella quale è attualmente concentrata la maggior parte dei satelliti terrestri in orbita), per intercettare corpi celesti ricchi di minerali e per spostare produzioni ad alto impatto, piuttosto che, ancora più ambiziosamente, alla “terrificazione di altri pianeti(la trasformazione delle loro condizioni ambientali), a partire da Marte (nelle intenzioni a lungo termine di Musk la sua conversione a casa stabile perlomeno di una parte dell’umanità, facile capire quale, è già ben più di un sogno utopico).

Si tratta di programmi che richiedono impressionanti investimenti per la messa a punto di tecnologie che li rendano possibili, a dir poco avveniristiche, ma la logica che li sostiene è evidente: se il pianeta Terra rischia di non bastare più a sostenere l’irrinunciabile crescita, la soluzione è quella di trasferire altrove il business.  E’ questa la convinzione che anima tecnotitani quali Elon Musk, Jeff Bezos, Paul Allen, Richard Branson, soprannominati per questa loro aspirazione i “Baroni dello Spazio”.

In quella che per ora, se si guarda ai suoi aspetti più fantascientifici, ha ancora i tratti di una utopia tecnologica, si stanno concretamente realizzando programmi di colonizzazione della LEO che, anche grazie al fattivo coinvolgimento di organizzazioni pubbliche come la NASA (che da anni ha attivato una joint venture con la SpaceX di Elon Musk), già trasferiscono su satelliti parti significative di attività come la gestione della Rete ed i programmi di comunicazione sensibile (oltre a Musk con Starlink, la società per la gestione della sua costellazione di satelliti, si è aggiunto Jeff Bezos con il progetto Kuiper con identici obiettivi. Secondo la Satellite Industry Association entro il 2030 potrebbero esserci in orbita qualcosa come 100.000 veicoli spaziali di natura commerciale tenendo conto che, a confermare che lo spazio è ormai diventato una concreta dimensione economica e tecnologica, la stessa Cina sta muovendo importanti passi in questa direzione. Sarà interessante capire come saranno gestiti i rischi di incidenti causati da tale sovraffollamento). La pericolosa forza vitale del tecnocapitalismo non si misura quindi solo sulla sua attuale già realizzata pervasività, ma rischia davvero di accentuarsi ogni oltre limite con la sua espansione egemonica nello spazio.

Chiudiamo questa Parola del mese con una citazione dal testo di Loretta Napoleoni che bene riassume i rischi che derivano da questa preoccupante concentrazione di potere economico, tecnologico e sempre più anche politico, definita “tecnocapitalismo” : ……. I tecnotitani, alias Baroni dello Spazio, potrebbero essere considerati i pronipoti dei capitalisti d’industria artefici della Rivoluzione industriale, ma diversamente da loro, che dovevano fare i conti con la forza lavoro umana, non devono affrontare questa dialettica grazie al ruolo sempre più centrale della tecnologia. Se questo capitalismo riuscirà ad espandersi anche nel cosmo, la sua potenza sarà ancora di più un problema per la democrazia e per l’umanità in generale perché inevitabilmente cresceranno disuguaglianze, abusi, rischi di guerre.




domenica 15 giugno 2025

Il "Saggio" del mese - Giugno 2025

 

Il “Saggio” del mese

 GIUGNO 2025

Riprendiamo con questo saggio, “militante” perché indica sulla base delle considerazioni svolte coerenti azioni politiche, il discorso del “cibo” visto nelle sue diverse implicazioni, più volte già affrontato da CircolarMente:

*  nell’ormai lontano Luglio 2018 il Saggio del mese, “Fame” di Martijn Caparros, denunciava la sua drammatica attuale mancanza in molte aree del mondo spesso determinata dalle storture, create dalle logiche di profitto, della catena di produzione e distribuzione

*  nel 2020 i due Saggi di Febbraio e Marzo “Storia del cibo” di Felipe Armesto e “I padroni del cibo” di Ray Patel avevano approfondito tali problematiche, sulle quali si erano tenute tre specialistiche conferenze del nostro Programma 2019/2020 “Ricucire le ferite”: “Globalizzazione, sistemi del cibo e sovranità alimentare in Africa” relatore Giacomo Pettenati – “La politica locale del cibo: uso del suolo, giustizia sociale, accesso al ciborelatore Egidio Dansero – “La criminalità nella filiera del cibo” relatore Davide Mattiello

*  nello stesso anno a Novembre il Saggio del mese “Presi per la gola” di Tim Spector approfondiva la tematica dei danni alla salute, specie delle popolazioni più povere, provocati dal cibo industriale, troppo spesso l’unico accessibile per gli strati più disagiati

*  ed infine con il Saggio del mese di Ottobre 2023 “Mangiare come Dio comanda” di Marino Niola e Moro Elisabetta si era esaminata la particolare relazione che esiste tra precetti religiosi e usanze alimentari.

Questa costante attenzione è sempre stata sollecitata dalla convinzione che nel cibo, nell’insopprimibile azione del mangiare, si condensano fondamentali aspetti culturali, sociali, politici, medici, che di molto incidono sulla salute dell’individuo e ancor di più su quella complessiva delle nostre società. La stessa considerazione è alla base di questo testo ……

il cui autore è Fabio Ciconte (esperto di filiere alimentari, cofondatore dell’associazione ambientalista “Terra!”, Presidente del Consiglio del Cibo di Roma, collabora con Geo (Rai Tre) su cui tiene la rubrica “Dispensa consapevole”, autore di numerose inchieste e saggi sul tema)


che ripercorre buona parte delle tematiche che ruotano attorno al cibo, in particolare sul ruolo del consumatore, per evidenziare la loro valenza politica e per individuare di conseguenza le azioni più efficaci per affrontarla

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I sistemi alimentari vanno resi sostenibili, bisogna capire come  

Negli ultimi decenni si è fatto davvero consistente il numero di consumatori di ogni parte del mondo che, consapevoli della grande incidenza della filiera del cibo sulla crisi climatica ed ambientale, hanno adottato forme di alimentazione attente ad evitare sprechi, alimenti industriali, privilegiando filiere corte ed ecosostenibili di approvvigionamento.

Ferma restando l’opportunità di mantenere ed estendere tali buone pratiche individuali è però evidente che da sole non sembrano essere riuscite ad incidere in modo adeguato su una situazione globale che, a fronte di un’umanità che ha ormai superato la soglia degli otto miliardi di persone (con un incremento che si è ormai concentrato nei paesi in via di sviluppo mentre in quelli ricchi sono progressivi riduzione ed invecchiamento), vede aumentare la produzione di carne (con il connesso spaventoso impatto degli allevamenti intensivi),  l’utilizzo della plastica per confezionamento alimenti (il cibo senza una qualche forma di imballaggio sembra non esistere più), lo spreco alimentare (i cui record vengono costantemente superati ogni anno), l’occupazione di suolo vergine a fini agricoli (per mezzo di incontrollabili deforestazioni) correlato all’impoverimento del suolo di vaste aree iper-sfruttate grazie a pesticidi e fertilizzanti.

Occorre quindi prendere coscienza che la sola adozione di corrette scelte individuali non si sta dimostrando in grado, da sola, di trasformare un settore che resta ispirato da precise logiche di profitto su scala globale, perfettamente in grado di (ri)modularsi adeguandosi alle specifiche scelte del consumatore ed ampliando a dismisura l’occupazione della domanda alimentare di tutte le aree del mondo (cancellando così millenari stili di vita alimentare ed innescando una pericolosa riduzione del numero delle specie e varietà vegetali e animali. Sulle tavole di tutto il mondo arrivano cibi ed alimenti che sono infatti il risultato di una scientifica selezione che privilegia quelli che garantiscono la maggiore resa commerciale. Due semplici esempi: delle centinaia di specie cerealicole esistenti solo nove coprono il 66% della produzione totale, il 90% delle specie di mele immesse sul mercato, sono alcune migliaia, è composto da sole cinque varietà). E si sta parlando, aspetto non adeguatamente tenuto in considerazione, di un settore che nel suo complesso a livello globale è stabilmente responsabile di circa il 30% delle emissioni di gas serra.

Il salto di qualità che di conseguenza s’impone per sperare di avviare una svolta concreta ed efficace diventa obbligatoriamente quello di adeguare le forme di contrasto alle logiche che guidano l’attuale filiera alimentare, partendo dalla consapevolezza che il cibo è politica, proprio perché riguarda aspetti fondamentali della vita umana, e come tale va affrontato. Ed è esattamente questo il tema al centro di questo saggio.

Come siamo arrivati sin qui?

Per meglio mettere a fuoco il salto di qualità che tale svolta comporta è utile ricostruire il percorso con cui si è articolato negli ultimi decenni il complesso rapporto critico tra consumatore e filiera del cibo che, mai emerso in precedenza, ha iniziato ad avere una sua rilevanza con la comparsa in scena dell’innovativa figura del “consumatore consapevole”. Si tratta di una svolta avvenuta, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso al culmine della definitiva affermazione dell’industria globalizzata del cibo, che è stata determinata da un insieme molto variegato di fattori culturali, sociali e politici (in particolare meritano di essere considerati la crescente attenzione verso comportamenti salutistici, il rifiuto giovanile del “consumismo”, ma soprattutto la nascita dei movimenti ambientalisti) che esprimevano, promuovendo un rapporto ragionato con il cibo, un rifiuto critico dei modi di produrlo e di distribuirlo.

Una data assumibile come momento di nascita del consumatore consapevole italiano (avvenuta con tempistiche appena più ritardate di quelle di altri paesi europei e degli stessi USA) può essere quella del 1990 con la pubblicazione di un testo presto divenuto riferimento di base per la controcultura alimentare: “Lettera ad un consumatore del Nord” edito dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo (fondato nel 1985 da Francesco Gesualdi, allievo di don Milani, saggista e attivista), un centro di documentazione (tuttora attivo con sede in Toscana) nato con l’obiettivo di dare prospettive al più generale malessere economico, sociale ed ambientale, all’interno del quale trovava da subito ampio spazio proprio la lotta all’ingiusta filiera globalizzata del cibo che, per alimentare un falso benessere alimentare occidentale, sfruttava il cosiddetto “Sud del mondo(punto di riferimento fondamentale era il concetto disovranità alimentareelaborato dalla “Via Campesina, “la vita dei contadini”, un movimento internazionale, nato in Sud America, di contadini di tutto il mondo in lotta contro le multinazionali alimentari che auspicava a tal fine un’alleanza con i consumatori occidentali).

E’ una data chiaramente simbolica, sarebbe infatti una forzatura ritenere che quel documento abbia di per sé stesso dato il via ad un sentire diffuso che, come si è evidenziato, si stava già formando seguendo sotterranei percorsi dettati da più sensibilità, ma che ha avuto l’indubbio merito di arricchirlo inserendolo in un più definito quadro di considerazioni ecologiche e di giustizia sociale capaci di  dare orizzonti a quelle convinzioni e alle motivazioni individuali che confusamente lo stavano delineando.

Un salto di qualità che ha trovato, pochi anni dopo, un ulteriore fondamentale tassello di carattere decisamente politico: nel 1999 nasce infatti il movimento “No global (che prende forma negli USA a Seattle in coincidenza con le forti contestazioni al vertice OCSE, Organizzazione Commercio Sviluppo Economico, una delle istituzioni promotrici della globalizzazione neoliberista, per conoscere da subito una straordinaria, per quanto effimera, diffusione internazionale). Nella piattaforma complessiva di questa opposizione contro la globalizzazione neoliberista, sintetizzata dal famoso slogan “Pensa globalmente, agisci localmente”, il cibo ed i modi di produrlo e consumarlo avevano una grande rilevanza e la conseguente sollecitazione alla lotta contro le logiche politiche ed economiche della loro gestione fornivano alla figura del consumatore consapevole un ulteriore fondamentale bagaglio di motivazioni.

L’insieme di queste congiunzioni motivazionali ha quindi costituito un quadro d’insieme capace di completare in modo armonico le tante diffuse scelte individuali, comunque si fossero determinate, di consumare cibo prestando attenzione a tutte le implicazioni che questo gesto, di per sé stesso del tutto naturale, aveva ormai assunto nell’era della alimentazione industrializzata e globalizzata. In questo innovativo fervore ha così preso considerevole consistenza l’idea che il rapporto diretto fra il singolo consumatore e l’intera filiera del cibo, esercitato nella scelta di acquisto, potesse avere una capacità regolatoria del mercato in grado di influenzarlo fino al punto di rimettere in discussione le stesso logiche che lo ispirano (nella situazione italiana uno dei più influenti ispiratori di questa idea è stato Alexander Langer, 1946/1995, una poliedrica figura di intellettuale a tutto tondo molto conosciuta e ascoltata nei movimenti di sinistra ed ambientalisti).

Va inoltre precisato che non poco ha contribuito a determinare questo sentire diffuso la sua coincidenza temporale con i primi evidenti segnali di declino delle tradizionali forme di partecipazione politica, rispetto alle quali sembrava in grado di ridare concreta importanza, rimotivando l’attivismo individuale, a forme di democrazia partecipativa.

E’ stato però un vento di cambiamento che troppo presto ha smesso di soffiare, forse troppo fragili erano le sue stesse basi e di sicuro esso si è dimostrato incapace di sedimentarsi in adeguati momenti organizzativi minimamente stabili. Quella che con gran probabilità era un’esperienza destinata del suo ad esaurirsi ha comunque trovato, nella situazione specifica italiana, un’altra data simbolica di definitiva fine: i tragici fatti di Genova 2001, con la brutale repressione della contestazione no-global ai grandi della Terra lì riunitisi per un appuntamento G8, ne hanno segnato il definitivo epitaffio.

L’idealtipo del consumatore consapevole, al termine di un percorso comunque significativo di due decenni, si è riscoperto orfano di orizzonti più ampi, riconsegnato a percorsi basati su motivazioni più individualistiche che si sono sempre più dimostrate inadeguate a fronteggiare le ciniche e potenti logiche dell’industria del cibo

Qualcosa è comunque ancora rimasto di quel fervore, alcune idee ed esperienze si sono dimostrate in qualche modo ancora resilienti. Lo sono state, anche nel nuovo millennio, la rete dei negozi di “commercio equo e solidale”, che tuttora rappresentano una esperienza di tutto rispetto, anche se oggettivamente lontane dal fervore che l’accompagnava nei decenni di fine secolo, e lo sono stati i GAS, Gruppi di Acquisto Solidale, sorti con il duplice scopo di dare una mano ai piccoli produttori locali e di sostenere una filiera alternativa alla grande distribuzione, che ancora resistono in alcuni contesti, ma sempre più racchiusi su sé stessi quasi a formare un microcosmo identitario, e sul piano della tutela politica ed anche legale lo sono state, ed ancora oggi lo sono, le associazioni di difesa del consumatore (quali Altroconsumo, Codacons, , Federconsumatori, Aduc, tutte nate a partire dagli anni Settanta).

Occorre purtroppo ribadire che anche  queste esperienze, residuo frutto della fase più significativa del consumatore consapevole, non sono in grado di rappresentare  un’alternativa vera e di massa alla filiera della grande distribuzione organizzata e semmai confermano il rinchiudersi dell’epopea del consumatore consapevole in orizzonti e percorsi individualistici sempre meno significativi.

A determinare l’attuale quadro della filiera del cibo, globale non meno che nazionale, concorre, come contraltare non meno negativo all’esaurirsi della speranza di costruire una alternativa generale operando quasi esclusivamente sul ruolo esercitabile dal consumatore nell’atto dell’acquisto, un secondo elemento: la capacità dell’industria capitalistica del cibo di aver rimodulato sapientemente la propria immagine adottandone su vasta scala una nuova, all’apparenza attenta proprio agli aspetti più oggetto di critica, ma mantenendo ben salde le logiche di profitto ed ottimizzando semmai i metodi di produzione e distribuzione per realizzarle al meglio. Il cibo “green” è infatti divenuto un diffusissimo brand commerciale cavalcato con cinica perizia dalle multinazionali del cibo a fini di profitto.

Alcune filiere specifiche del cibo raccontano esperienze esemplari in questo senso. Lo è ad esempio quella dello zucchero, che rappresenta un settore globale di grande rilevanza (trenta milioni di ettari di suolo sono dedicati a questa coltivazione). Proprio negli anni della “Lettera ad un consumatore del Nord” lo zucchero bianco prodotto in Occidente con la raffinazione della barbabietola era diventato uno dei simboli della lotta al cibo industriale. Comprare e sostenere la produzione di quello di canna è stata a lungo una delle bandiere del commercio equo e solidale. Peccato però che questa sua acquisita rilevanza, nell’attuale modificato contesto, sostiene ormai una coltivazione industrializzata della canna responsabile di un consistente abbattimento della foresta amazzonica brasiliana (tra il 2000 ed il 2012 si parla di sedicimila chilometri quadrati di foresta abbattuta per fare spazio a piantagioni). Una quantità ormai minima dello zucchero di canna, compreso quello “grezzo”, arriva in Occidente da piccoli produttori locali per sostenere una condivisibile presa di posizione che si è però rivelata un’illusoria alternativa di sistema

E’ lungo l’elenco delle trasformazioni avviate nei settori della produzione alimentare ed ancor di più in quello della distribuzione che testimoniano questa capacità metamorfica presente in tutta la filiera del cibo sollecitata proprio dalle esperienze globali di fine secolo scorso che ponevano al loro centro il ruolo del consumatore consapevole.

L’idea che sosteneva il suo ruolo, quella di poter condizionare con la scelta individuale di acquisto l’intero ciclo del cibo, è stata di fatto espropriata dall’industria alimentare che ha lucidamente compreso la rilevanza commerciale della “dimensione etica del business del cibo”, ovviamente declinandola in modo mirato per sostenere ancor di più il business.

Ormai non c’è prodotto alimentare che non si dichiari “sostenibile”, che non sia confezionato con colori e disegni che richiamano la natura, a creare una grande messa in scena in cui tutto - cibo, confezione e relative informazioni su produzione, modo di consumare e smaltire – è magicamente diventato green.

Tutte le indicazioni così enfaticamente vantate non significano nulla: “agricoltura sostenibile” è parola vuota se non viene specificato in cosa è consistita, e allo stesso modo lo sono “biodegradabile”, “compostabile”, “naturale”, “rispettoso dell’ambiente”, “riciclabile”, “impatto zero”, “carbon neutral”. Nel 2021 sono stati pubblicati i risultati di una indagine UE su queste affermazioni che evidenziavano come nel 42% dei casi fossero palesemente false ed ingannevoli, mentre buona parte del restante 58% era quantomeno strumentalmente enfatizzato

Ha ormai un nome preciso questa prassi consolidata: “greenwashing”, letteralmente “lavare di verde”, lasciando però inalterato il cibo contenuto, i modi di produrlo, di impacchettarlo, trasportarlo, pubblicizzarlo, senza intaccare, ma semmai aumentando, i margini di guadagno. La prassi dell’acquisto si è fatta di conseguenza un’impresa quanto mai complicata anche per un consumatore attento e consapevole perchè è ormai davvero difficile districarsi nella giungla di un mercato così subdolamente architettato.

Le strategie persuasive messe in atto dall’industria alimentare non si concentrano solamente sul prodotto finale, ma molto spesso si articolano in studiate campagne pubblicitarie che assumono la difesa dell’ambiente e la giustizia sociale come testimonial di un più generale impegno ecologico ed etico. Si pensi ad esempio agli spot di Amazon con protagonisti i suoi stessi dipendenti che raccontano della correttezza del trattamento lavorativo piuttosto che ai volti sorridenti e felici dei riders nelle pubblicità delle varie aziende di food delivery. Un esempio ancora più eclatante della mistificazione che passa attraverso queste campagne è quello delle “giornate assieme a te per l’ambiente” da qualche anno organizzate da McDonald’s, il più grande fast food della storia (si stima che globalmente prepari qualcosa come cinquanta milioni di panini ogni giorno), per contrastare l’abbandono di rifiuti nell’ambiente. Sapientemente organizzate e pubblicizzate vantano le migliaia di sacchi di rifiuti raccolti, ma al tempo stesso nascondono in modo elegante che molti di quei rifiuti li produce proprio la catena di hamburger a buon mercato. Sempre McDonald’s si fa vanto di usare solo carne italiana, “100% bovina da allevamenti italiani (il Made in Italy tanto amato dal nostro attuale governo), ben guardandosi dal dire che quella carne viene da qualcosa come 15.000 allevamenti intensivi, concentrati in un fazzoletto di terra compreso tra Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, capaci di produrre una mole impressionante di rifiuti, magari non abbandonati ma non per questo meno impattanti

“Cosa posso fare come consumatore?” è una domanda sbagliata = La solitudine e lo spaesamento che il consumatore, consapevole o inconsapevole, costantemente prova nel gestire i suoi acquisti alimentari (peraltro come di qualsiasi altro prodotto) si sono infatti accentuati in un contesto come quello attuale che oggettivamente vede la totale egemonia dell’industria alimentare in tutte le fasi della catena del cibo. In questo mutato contesto sono ormai divenute stabili e consistenti le due caratteristiche che contraddistinguono l’attuale rapporto consumatore-filiera del cibo: da una parte il definitivo tramonto della speranza che un consumo attivamente consapevole possa incidere sulle logiche di fondo della catena di approvvigionamento e dall’altra il fatto che l’industria del cibo si sia rivelata in grado di affinare la sua capacità di controllo dell’intera filiera anche mettendo a frutto, per i propri fini speculativi, la stessa storica esperienza del consumatore consapevole.

Il quale deve allora (re)interrogarsi sul proprio ruolo ponendo però questa domanda su basi completamente differenti da quelle degli anni Settanta, perché appare ormai evidente che da sole sono insufficienti e inadeguate le classiche prassi di sprecare meno, di mangiare meno carne e cibi industriali, di leggere attentamente le etichette, di rifornirsi il più possibile da produttori locali e da negozi di commercio equo e solidale (per quanto tutte quante mantengano intatti valore e importanza). L’attuale stato delle cose dimostra infatti che il concentrarsi esclusivamente sull’ultimo anello della catena, ovvero sull’atto individuale dell’acquisto, non può essere una forma di lotta vincente se non si aggrediscono, su un piano politico collettivo, le logiche di fondo della filiera del cibo. (papa Francesco in una intervista, dal titolo “Il peccato di gola sta uccidendo il mondo”, concessa al giornale “Avvenire” a Gennaio 2024 sintetizzava lucidamente questa constatazione affermando che “abbiamo abiurato il nome di uomini per assumere quello di consumatori”).

Al tempo stesso, per dare concreto avvio a queste azioni di più mirato contrasto, non ha senso alcuno stigmatizzare i pur evidenti comportamenti non corretti del consumatore “standard”, è molto più utile, individuando e denunciando con adeguate azioni politiche le ragioni che li mettono in atto, far emergere quanto essi siano funzionali all’attuale filiera del cibo proprio perché sono il risultato indotto di sofisticate politiche commerciali

una situazione esemplare è quella delle verdure già selezionate e lavate vendute in buste plastificate. Non vi è dubbio alcuno che siano un acquisto assurdo perchè costano molto di più delle verdure fresche, perché sono ecologicamente molto impattanti, oltre ad essere non proprio salutari, eppure stanno da anni conoscendo un successo crescente grazie alla loro comodità e velocità di uso tali da aver   incontrato il favore ormai consolidato di molti consumatori. Un successo ottenuto dall’industria del cibo sulla base di accurate ricerche di mercato mirate ad individuare e sfruttare le motivazioni esistenziali e psicologiche alla base dell’acquisto

Il passaggio a forme di contrasto che, sul piano politico, sappiano denunciare e contrastare il monopolio capitalistico della filiera del cibo prevede, di conseguenza, che al loro centro stiano tutti i cittadini (gli uomini indicati da papa Francesco) nella loro valenza di soggetti politici e non solo nella loro veste di consumatori. E’ quindi ormai evidente che il consumatore in quanto tale, consapevole o inconsapevole che sia, è troppo segnato da mancanza di informazioni, da bombardamenti pubblicitari, da pressioni contraddittorie determinate da tempi di vita e possibilità economiche, per restare il protagonista principale di una battaglia che deve essere combattuta su un terreno che non può più restringersi alla sola fase dell’acquisto finale.

Un ulteriore ammonimento in questo senso viene dalle stesse campagne greenwashing di cui si è detto, le quali non a caso sempre si rivolgono all’individuo, al singolo consumatore e utente, chiamato a comportamenti correttamente ecocompatibili purché ininfluenti sulle logiche di fondo del sistema. In queste campagne si chiamano ad esempio in causa i comportamenti individuali per le emissioni di gas serra sottacendo però che il 70% di esse è prodotto dalle grandi attività industriali ed agricole. Così come, restando nel contesto del cibo e del suo spreco, enfatizzano con clamore il peso virtuoso di acquisti calibrati, delle azioni di recupero e corretto smaltimento, di quelle stesse famiglie che tempo stesso sono invogliate da pubblicità asfissianti a comprare cibi di ogni genere. Passano quotidianamente su media e social messaggi in cui si parla tanto di spreco domestico e nulla si dice di quello della produzione primaria (ad esempio frutta e verdura che non raggiungendo i previsti canoni estetici restano a marcire sui campi) e su quello dell’industria di trasformazione, che insieme (dati Ispra) valgono il 69% dello spreco alimentare totale mentre quello domestico (in gran parte determinato proprio dall’eccesso indotto di acquisto) vale per il restante 31%.

In questa riflessione concentrata sul rapporto tra filiera del cibo e consumatore non c’è spazio per entrare nel merito delle tante problematiche legate al criminale consumo e impoverimento dei suoli agricoli, allo sfruttamento senza scrupoli dei contadini poveri del Sud del mondo piuttosto che a quello degli addetti ai lavori agricoli nei paesi ricchi, alla crudele gestione degli allevamenti intensivi, alle impressionanti ricadute ambientali dell’intera filiera alimentare, ossia a tutti gli aspetti che segnano l’attuale gestione capitalistica del cibo. All’interno di questo quadro vale la pena di approfondire il peso di quelli che di più sembrano chiamare direttamente in causa il ruolo del consumatore: il ruolo del supermercato, il prezzo del cibo e la filiera della carne.

 

Purtroppo non c’è alternativa al supermercato = è ormai il luogo ideale per mettere a fuoco la valenza politica del cibo. Lo è perché è lì, nei venticinquemila punti vendita (piccoli, medi, grandi, giganteschi) che costituiscono la grande distribuzione italiana, che si concentra la stragrande maggioranza degli acquisti agroalimentari per una percentuale pari all’80% del totale di acquisti (con una crescita negli ultimi dieci anni di ben dieci punti percentuali) capaci di generare un fatturato complessivo di 155 miliardi di euro (un valore pari al 7% del PIL italiano totale). E pensare che quella dei supermercati è una storia recente in Italia (il primo venne aperto all’Eur a Roma nel 1956, mentre negli USA erano già diffusi negli anni Trenta) che racconta una loro costante evoluzione capace di accompagnare e, sempre di più, indirizzare le italiche modalità di acquisto.

La sua ormai totale egemonia non è solo una questione di prezzo, tutti gli studi sulla capacità attrattiva del supermercato evidenziano un insieme di fattori che vanno da aspetti sociologici (ogni marchio ed ogni prodotto hanno un loro corrispondente status) a quelli psicologici (come la sensazione di stare in un posto conosciuto, familiare, dove ci si muove con sicurezza). La  loro crescente diffusione territoriale (tale da suscitare comprensibili perplessità sulla sua stessa sostenibilità peraltro sempre smentite dal costante successo di vendite) spiega il significativo trend di crescita di cui si è detto a riprova di una modalità di vendita che crea nel consumatore l’illusione di essere in grado di governare al meglio i suoi acquisti (magari grazie alla quotidiana faticosa ricerca dell’offerta migliore) anche se, aspetto ampiamente confermato da studi e riscontri statistici, molto spesso succede esattamente il contrario (sempre “si inciampa” in qualche offerta imperdibile anche se non messa in conto).

I supermercati sono la dimensione terminale di una catena alimentare industrializzata che se da una parte ha appiattito, ormai globalmente, gusti, sapori, culture alimentari, dall’altra ha costruito la sua forza attrattiva proprio su questo appiattimento scientificamente studiato per fornire al consumatore la sensazione di muoversi in una bolla rassicurante. L’incontestabile risultato è che non esiste al momento alcuna alternativa al supermercato realmente competitiva: sono in difficoltà non solo quelle sorte attorno alla figura del consumatore consapevole di cui si è detto, ma anche le forme di vendita tradizionali del negozio di vicinato e dei mercati rionali e di paese, che in buona misura sono oramai sostenute solo più dalle generazioni più anziane di consumatori (la stessa sfida dell’e-commerce non sembra aver incrinato la dittatura del supermercato nel settore specifico delle vendite di cibo)

Il cibo costa troppo ed al tempo stesso troppo poco = I fattori concorrenziali che hanno consentito al supermercato di divenire il luogo predominante in cui si chiude la lunga filiera del cibo sono di diversa natura (economie di scala, forte potere contrattuale su fornitori, trasportatori e lavoratori, offerta completa ed articolata capace di coprire la gamma completa di prodotti alimentari, sinergie con altri venditori, accordi di cartello, per citarne alcuni, ma tutti contribuiscono a formare il risultato finale vincente: il prezzo. In generale, al di là della vincente capacità concorrenziale della grande distribuzione, il prezzo del cibo merita uno specifico approfondimento perché, molto più di quello di altre tipologie di merci, è determinato da una serie di storture strutturali che, investendo l’intera sua filiera, in effetti lo falsificano (a tutto vantaggio dell’industria del cibo) così tanto da poter affermare che il cibo costa al tempo stesso troppo e troppo poco. L’argomento è decisamente complesso è richiederebbe un’analisi molto approfondita, merita qui riprendere alcune di queste storture, quelle che di più consentono di capire il determinarsi di questo paradosso.

Il prezzo del cibo infatti, se si applicassero correttamente tutte le voci che concorrono a determinarlo, dovrebbe davvero essere decisamente più alto, così alto però da renderlo di fatto inaccessibile per buona parte della massa dei consumatori. Trattandosi però del “bene primario” per eccellenza, intervengono di norma alcuni correttivi di mercato che consentono, aspetto che non vale alla stessa maniera per la quasi totalità dei cosiddetti “beni secondari”, di non contabilizzare nella sua definizione alcuni costi, sociali, ambientali ed etici, mantenendolo così a livelli tutto sommato accessibili alla maggioranza (anche se sempre troppo alti per i consumatori indigenti). Questi costi sono quelli che gli esperti definiscono “esternalità negative” che, per non gravare sul prezzo finale del cibo, sono fatte ricadere sulla collettività e sui sistemi naturali.

Alle voci che di norma concorrono a determinare il prezzo del cibo – produzione, trasformazione, trasporto, marketing, distribuzione e vendita, margini concorrenziali di profitto in ognuno di questi passaggi – non si aggiungono infatti i “costi sanitari(quelli collegabili alle patologie dei consumatori causate dalla sua qualità e dalle modalità di produzione, si pensi ai cibi ultra-processati con additivi chimici o all’uso eccessivo di antibiotici) che sono coperti dai sistemi sanitari pubblici, i “costi ambientali(ossia l’insieme degli impatti che la filiera del cibo ha sugli eco-sistemi con l’emissione di gas serra e sostanze inquinanti, con la perdita di biodiversità, con il consumo e il degrado del suolo), per coprire i quali interviene la spesa pubblica, ed i “costi sociali ed etici(quelli determinati dal ricorso all’iper-sfruttamento incontrollato della manodopera agricola) almeno parzialmente compensati dalla fiscalità generale. Appare evidente che se questi costi fossero, come logica vorrebbe (e come almeno in parte avviene per i beni secondari), fatti sostenere dall’industria agro-alimentare sarebbero, seguendo le normali logiche del mercato, da essa ribaltati sul prezzo finale del cibo rendendolo di fatto inaccessibile ai più (uno studio ONU del 2023, “The true cost and true price of food” – “Il vero costo e prezzo del cibo”, stima una ricaduta pari al suo raddoppio).

Non esiste soltanto il problema politico della determinazione del giusto prezzo del cibo, certamente non affrontabile dal solo consumatore nella fase di acquisto se non in termini di una insostenibile ricaduta, non è infatti meno grave la ripartizione dei guadagni fra i vari soggetti che operano nella filiera del cibo, nella quale emerge con evidenza una scorretta ed ingiusta redistribuzione della catena del valore. Restando alla sola situazione italiana (ma i dati su scala globale sono persino più gravi) l’ISMEA, l’ente pubblico che analizza i mercati agroalimentari, nel suo ultimo rapporto del 2024 fa emergere che su 100 euro di spesa al supermercato il guadagno netto che va al settore agricolo  varia in una forbice da va da 1,5 a 7 euro, tutto il resto copre i profitti dei vari soggetti che intervengono a vario titolo nella filiera con circa 36 euro medi (lordi) che finiscono alla grande distribuzione finale

Il paradosso della carne = E’ sicuramente il cibo nel quale di più si condensano le problematiche e le contraddizioni dell’intera filiera e che più rappresenta il possibile equilibrio tra consumi individuali ed aspetti politici generali. A partire dalla sua quantità che è spaventosamente alta: la produzione globale di carne è stimata in circa trecentocinquanta milioni di tonnellate all’anno fornite da qualcosa come settanta miliardi di capi tra avicoli, bovini, suini, ovini e caprini, che complessivamente per essere allevati richiedono il 70% della terra agricola anche se coprono solo il 20% delle proteine mangiate. Sono cifre che bene spiegano l’impressionante incidenza del settore della carne (specie bovina) sulla produzione di gas serra e sull’ inquinamento ambientale. Se ne mangia comunque davvero tanta e, se gli attuali trend si confermeranno, se ne mangerà sempre di più (in Cina e India, che fino a pochi anni fa ne consumavano pochissima, il consumo di carne conosce una impressionante crescita).

La soluzione globalmente proposta, a vario titolo e da differenti protagonisti, è finora consistita nell’appello/raccomandazione a “mangiare meno carne(con tutte le conseguenti diatribe fra carnivori e vegetariani/vegani) sono ben poche invece le voci che si sono levate per proporre di “produrre meno carne”, sembra una sottigliezza semantica, ma non lo è. Perché il consumo di carne (che sostiene, come si è visto, i profitti delle maggiori industrie alimentari) rappresenta l’esempio paradigmatico della necessità di spostare le strategie alternative dalla dimensione del consumatore a quella della politica. Non si può infatti prevedere quanto consenso avrà l’invito, per quanto condivisibile sotto diversi punti di vista, a mangiare meno carne (proprio mentre i dati indicano una costante crescita globale del suo consumo), è però certo che i tempi di una augurabile svolta saranno quanto meno molto lunghi, mentre è impellente la necessità di ridimensionare l’impatto di un settore così energivoro e così impattante.

Ed è quindi la politica che è chiamata ad intervenire da subito e con la maggiore efficacia possibile. Lo deve fare a livello locale, nazionale e internazionale, adottando strategie mirate di diversa natura che vanno dal fermare un’ulteriore espansione della zootecnia a sostegni per una sua sostenibile riconversione, dall’adozione di menù con una calibrata offerta di carne per le mense scolastiche e aziendali (aspetto che può sembrare marginale ma che a ben vedere riguarda l’erogazione di centinaia di migliaia di pasti giornalieri)

Le misure ecologiche nel mirino dell’agroindustria = Esiste infine, oltre a quello della carne, un secondo paradosso, che ancor più e meglio conferma l’opportunità di chiamare in causa la politica in luogo della indistinta figura del consumatore, che consiste in un capovolgimento della storia in base al quale i responsabili dell’attuale crisi alimentare sarebbero le misure ecologiche e chi le propone. Se si vuole davvero capire la dimensione politica del cibo questo è un ottimo punto di partenza, confermato da quanto sta succedendo nella stessa UE, ossia nella parte del mondo dove oggettivamente da tempo queste problematiche ricevono le maggiori attenzioni alle quali seguono concreti provvedimenti, come quello della strategia “Farm to fork(dalla fattoria alla forchetta) del 2019 che, nell’ambito del Green Deal europeo, aveva l’obiettivo di rendere più sostenibile il settore agricolo. Purtroppo per un insieme di ragioni che vanno dalla ferma opposizione dell’agro-industria, compresa quella di parte del mondo contadino (le marce dei trattori) troppo succube rispetto alla grande distribuzione, ai timori innescati dalle turbolenze nel mercato alimentare seguite allo scoppio del conflitto russo-ucraino, l’attenzione si è presto riposizionata sulla necessità di difendere, costi quel che costi, i modi tradizionali di produrre cibo. Una svolta retrograda, fatta propria dalle destre sovraniste e populiste, finalizzata a screditare le misure ecologiche in agricoltura e ad attribuire al valore della sostenibilità la responsabilità dei costi del cibo. In base a quanto fin qui evidenziato non deve certo stupire che questa politica al servizio delle lobby strizzi l’occhio al consumatore, alle sue comprensibili esigenze di bilancio ed alle sue molto meno condivisibili abitudini alimentari, per averlo alleato contro l’opposta politica che, seppure ancora troppo timidamente, guarda finalmente ad un cibo ambientalmente e socialmente sostenibile.