giovedì 2 maggio 2024

La Parola del mese - Maggio 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MAGGIO 2024

Non si tratta certo di un termine sconosciuto, d’altronde indica un tratto della natura umana da sempre presente e molto diffuso. Ma ci è sembrato interessante recuperarlo per proporlo come ”Parola del mese” perché a ben vedere ignoriamo molti suoi aspetti: il suo significato ultimo, le sue declinazioni, le sue ricadute che investono tutti gli aspetti del nostro vivere. Ebbene sì: al di là delle apparenze è decisamente grande la nostra ignoranza dell’

IGNORANZA

La sua scelta è stata inoltre suggerita dalla lettura di un saggio, tanto corposo e articolato quanto scorrevole ed intrigante

opera di Peter Burke

(storico inglese, professore di Storia Moderna presso l’Università di Cambridge, propugnatore della dimensione culturale della storia) Un curriculum che suona come esatto opposto di questa Parola, eppure è lo stesso Burke a mettere in evidenza come l’ignoranza presenti così tante articolazioni da coinvolgere, seppure con gradazione diversa, tutti quanti. Così sollecitati abbiamo recuperato, molto sinteticamente, alcune delle tante suggestioni che questo saggio offre per colmare almeno un po’ della nostra ignoranza dell’ignoranza

Questo testo analizza le accezioni di ignoranza ritenute le più significative sulla base di una nutrita raccolta di avvenimenti storici. Impossibile citarli in questo spazio che si limita a riportare, molto sinteticamente, i giudizi di fondo di Burke più utili allo scopo illustrativo di questa “Parola del mese”

Cos’è davvero l’ignoranza? = Il termine deriva dal latino ignorantiala cui traduzione letterale “mancanza di conoscenza”, completata da Burke come “assenza o privazione di conoscenza”, sembra a suo stesso giudizio troppo ampia e generica. Dedica quindi numerose pagine a declinare, con aggettivi che la specificano, alcune delle sue interpretazioni (raggruppandole, in coda al saggio, in una sorta di glossario che ne contiene ben cinquantanove!)  Ne abbiamo scelte solo alcune, quelle che di più ci sembra aiutino a capire come l’ignoranza non sia quasi mai un puro dato di fatto, ma sempre il risultato, la conseguenza, di scelte, più o meno consapevoli, di condizioni ed interessi esterni, del contesto storico, sociale e culturale. L’ignoranza, iniziando da quella individuale, può quindi essere:

*   genuina = la semplice assenza di conoscenza, già citata

*   attiva = genericamente il non voler sapere, che può evolvere in volontaria,  quando deliberata e intenzionale, fino a divenire, se ostinata, deliberata

*   passiva = il non sapere accettato supinamente

*   cosciente = sapere (e quindi già una forma di conoscenza) di non sapere. Esprime un sapere parziale che si arresta ad un limite percepito come non superabile

*   inconscia = non sapere di non sapere e quindi anche inavvertita. Se vista dalla parte della conoscenza diventa conoscenza tacita

*   colpevole = il rifiuto, più o meno consapevole, della conoscenza

*   inattesa = la scoperta di non sapere

*   incolpevole = non poter sapere

*   inevitabile = quella incolpevole ed anche insuperabile

*   pratica = il non saper fare

*   razionale = l’astenersi, per scelta deliberata, dal sapere, fino a divenire risoluta

*   selettiva = scegliere di ignorare ovvero scegliere cosa ignorare, diventa specifica quando si ignora, magari in buona fede, ciò che si ritiene irrilevante

*   intenzionale = quando deliberata e volontaria

*   utile = spesso inconscia, aiuta a non misurarsi con un sapere problematico

*   condivisa = tutte le precedenti forme di ignoranza quando sono comuni con altre persone

Quest’ultima chiama in causa l’ignoranza collettiva che, oltre ad esprimersi nelle stesse forme di quella individuale, può in aggiunta assumerne altre specifiche:

*   di classe = il non conoscere, per superficialità ma anche deliberatamente ed in modi stereotipati, la vera vita di altri ceti sociali

*   di razza = come quella di classe, ma rivolta verso altri popoli, altre etnie, altre culture

*   femminile = da intendere in un duplice modo: l’accusa di ignoranza degli uomini alle donne, storicamente maturata per la maschile incapacità e indisponibilità a misurarsi con un diverso modo di intendere la vita, e quella oggettiva del mondo femminile a lungo escluso dai saperi

*   maschile = quella precedente capovolta dal punto di vista femminile: l’accusa agli uomini di ignorare, deliberatamente e strumentalmente, il sapere delle donne

*   organizzativa = la mancanza di conoscenza presente in una data organizzazione (sociale, politica, economica, istituzionale, culturale, religiosa) che investe le relazioni tra i suoi diversi membri e livelli, per oggettiva mancanza  di adeguate comunicazioni, coinvolgimenti, per eccessi di burocrazia e formalismi

Tutte queste forme, individuali e collettive (sono quelle prevalentemente utilizzate da Burke per definire le specifiche ignoranze esaminate nel saggio) condividono un terreno comune, che le rende possibili, in buona misura costituito da atteggiamenti e comportamenti quali: ostacoli (fisici e culturali), dimenticanze, segretezze, negazioni, incertezze, pregiudizi, fraintendimenti e credulità. Burke dedica buona parte del suo saggio a far emergere questo retroterra al fine di evidenziare come l’ignoranza spesso non sia un dato di partenza, un gap superabile con il crescere delle conoscenze, ma piuttosto una condizione di arrivo che si è venuta a creare per ragioni tutt’altro che casuali e quindi più difficilmente risolvibili. A questa considerazione affianca una seconda constatazione: l’errata convinzione che il livello di ignoranza sia direttamente proporzionale alla scarsa disponibilità di dati, di informazioni, di conoscenze, (di norma quello che ogni epoca storica attribuisce a quelle precedenti). Lo attesta, a suo avviso, proprio l’epoca attuale giustamente ritenuta quella con la maggiore disponibilità di conoscenze, ma nella quale si constata che al contrario il livello di ignoranza è sempre più determinato non dal poco sapere, ma al contrario dal tanto sapere: via via che si accumulano montagne di conoscenza ci sono sempre più cose che ciascuno di noi non sa. Ciò premesso Burke è consapevole dell’impossibilità di una vera e propria storia dell’ignoranza, una disciplina che per essere minimamente credibile richiederebbe una ricostruzione completa dell’intera storia umana. E’ però possibile estrarre dal lungo percorso dell’umanità alcuni passaggi che di più aiutano a individuare le ragioni specifiche che l’hanno determinata e le conseguenze che da essa sono derivate, guidati dalla consapevolezza che l’ignoranza, così come la conoscenza, hanno una imprescindibile connotazione sociale, per la semplice ragione che il possesso, o la mancanza, di saperi non incide solo su specifiche abilità, ma determina l’intera qualità del rapporti sociali. La domanda di fondo per esplorarla diventa allora “chi ignora cosa, quando, dove e con quali conseguenze”, ed una prima risposta consiste nell’evidenza che ignoranza e conoscenza devono essere declinati al plurale, definirle al singolare rischia di essere troppo generico, riduttivo, preconcetto. Burke inizia, con questo spirito, il suo viaggio prendendo in esame tre fondamentali saperi ed esplorando quanto l’ignoranza abbia storicamente inciso su di essi. Il primo sapere preso in esame è la religione, intesa come costruzione culturale di una fede (non viene quindi preso in esame il puro coinvolgimento in una fede), come elaborata risposta all’ignoranza umana attorno al mistero del creato, della vita e della morte. Si impone una prima distinzione: un conto è l’ignoranza dei comuni fedeli, altro è quella dei depositari del credo religioso. Guardando ai primi dalla ricostruzione storica emerge con evidenza che in generale è molto profondo il solco fra sentimento della fede e conoscenza della dottrina, al sincero e sentito coinvolgimento quasi mai corrisponde una buona conoscenza del sapere dottrinale. Una forma di ignoranza che per quanto concerne in particolare la fede cristiana (la maggior parte delle testimonianze citate consistono in documenti ecclesiastici che amaramente denunciano, dall’interno, la disarmante ignoranza dei fedeli) ha attraversato l’intero scorso millennio per giungere, ben poco mutata, fino ai nostri giorni.

Basti pensare che ancora nel 2010 il sondaggio Pew Forum svolto fra i fedeli cattolici americani, che già evitava domande complesse, ad es. sulla Trinità o sulla Transustanziazione, ha rilevato che meno del 5% del campione era in grado di citare con esattezza anche solo tutti i dieci Comandamenti

Quel che potrebbe di più sorprendere è il fatto, evidenziato da altri dati storici, che non molto diverso è stato a lungo il livello medio di conoscenza dello stesso clero soprattutto ai suoi livelli più bassi. Per molti secoli alla raffinatezza delle riflessioni dei Padri della Chiesa ha corrisposto un sapere, scarso e stereotipato, di gran parte dei sacerdoti.  Non deve allora stupire che alla già scarsa conoscenza della propria abbia sempre corrisposto una del tutto inadeguata conoscenza delle altre religioni, conseguentemente non poco venata da chiusure, preconcetti e discriminazioni (basti pensare al difficile rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, alle secolari guerre fra cristianità e Islam, o al lacerante attuale conflitto indiano  fra Indù e Mussulmani) L’ignoranza nel campo delle religioni non ha quindi soltanto condizionato una migliore pratica della specifica religione di appartenenza, rivelando una sconcertante distanza tra fede e dottrina, ma ha anche contribuito, per la sua chiusura preconcetta verso le altre religioni, a rafforzare visioni suprematiste e razziste. Se in buona misura ci troviamo di fronte ad una ignoranza organizzativa, l’ampia gamma delle ragioni che intervengono per spiegarla la colloca in un ampio ventaglio delle forme di ignoranza in precedenza elencate.  Un secondo sapere, che da sempre vive un rapporto problematico con l’ignoranza, è sicuramente quello scientifico. La storia dell’ignoranza è infatti strettamente connessa a quella della conoscenza che, a sua volta, è emersa dalla storia della scienza. Burke riflette sul rapporto ignoranza-scienza partendo da quello, tutt’altro che paradossale, tra scienziati e ignoranza. Il filosofo della scienza Jerome Ravetz (1929, epistemologo statunitense) ha definito il tratto fondativo della scienza “ignoranza dell’ignoranza” per evidenziare che è proprio la consapevolezza dei limiti della conoscenza la molla per ogni progresso scientifico (lo storico israeliano Yuval Noah Harari nel suo famoso libro “Sapiens, da animali a dei” descrive la scienza come “scoperta dell’ignoranza” e come “disponibilità ad ammettere l’ignoranza”). Si è allora di fronte ad un illuminante esempio di “ignoranza selettiva e specifica” capace però di trasformarsi in “intenzionale” ossia nel rifiuto di rassegnarsi ai propri limiti ed errori a fronte di nuove evidenze. Va tuttavia detto che non sempre questo è valso in ambito scientifico.

la storia della scienza è purtroppo ricca di situazioni opposte, basti pensare alla cieca opposizione da parte delle élite accademiche al tempo delle nuove scoperte di Galileo e Copernico, di Darwin, alle resistenze di Einstein verso la meccanica quantistica  e, peggio ancora, al rifiuto a confrontarsi con le evidenze del riscaldamento climatico, piuttosto che ai danni da fumo passivo, di alcuni scienziati anche di notevole fama, peraltro ben finanziati dai gruppi di interesse di turno

Detto del ruolo positivo e negativo, degli scienziati il buco nero del rapporto ignoranza/scienza storicamente è sempre consistito nell’impossibilità della gente comune di fare davvero proprie scoperte e rivelazioni specie se in contrasto con il senso comune e con credenze consolidate. La rilevanza di questo distacco, guardando alla cultura occidentale, a lungo non è sembrata così rilevante semplicemente perché, per quanto scarsa se non inesistente fosse l’istruzione diffusa, altrettanto irrilevante era il grado di conoscenza scientifica. Peraltro i pochi scienziati dei primi secoli del secondo millennio ben poco se ne preoccupavano se scrivevano i loro studi esclusivamente in latino (una norma interrotta, con gran scandalo del mondo accademico di allora, solo nel 1500 prima dal medico e alchimista Paracelso e poi, pochi decenni dopo, da Galileo). Il quadro è mutato radicalmente con la rivoluzione delle conoscenze avviata dall’adozione del metodo scientifico (con ancora protagonista Galileo), per diversi secoli però conoscenze scientifiche e sapere diffuso sono stati due mondi del tutto separati. Neppure la progressiva introduzione dell’istruzione di massa, ispirata da ben altre priorità, è riuscita a colmare questo gap, anche perché nel momento in cui (mediamente nel secolo scorso)  il livello medio di conoscenza scientifica è risalito di alcuni scalini, il progresso scientifico è letteralmente esploso ricreando un distacco che ai nostri giorni appare ormai incolmabile (basti pensare che l’iper-specializzazione in campo scientifico non solo ha definitivamente cancellato la figura dello studioso a tutto campo, ma ha reso ormai inevitabile l’ignoranza degli stessi scienziati nei campi e  sotto campi che non seguono direttamente). Un contributo al contenimento di questa forma di ignoranza diffusa e per molti versi incolpevole viene dalla diffusione di riviste scientifiche e dalle figure, spesso di grande successo mediatico, dei divulgatori, mentre, anche in questo caso, appare molto più aleatorio, ed in molti casi persino dannoso e fuorviante, l’accesso via Internet alla giungla di dati ed informazioni presenti in Rete. Non a caso il neuroscienziato Stuart Firestein ha recentemente dichiarato che “oggi la scienza è così inaccessibile per il pubblico da sembrare (di nuovo) scritta in latino”. Il terzo sapere preso in considerazione da Burke è rappresentato dalla conoscenza dei luoghi della Terra, dalla geografia. Non stupisce il fatto che per millenni l’umanità intera sia stata del tutto all’oscuro delle parti della Terra diverse da quella abitata e persino di quelle confinanti. I luoghi appena più lontani, per non dire di quelli di cui a malapena si conosceva l’esistenza, molto a lungo sono rimasti avvolti nel mistero, nel mito, non di poco accentuati dai racconti (quasi sempre una raccolta di impressioni fugaci se non di autentiche invenzioni) dei rari temerari viaggiatori. Una conoscenza più approfondita è stata possibile solo per la parti che hanno composto vasti imperi come quello romano e quello cinese, i cui confini esterni hanno però segnato una sorta di invalicabile finis terrae, tutt’al più violata da improvvise incursioni di misteriosi popoli guerrieri provenienti da chissà dove. Per non dire poi dei continenti per millenni irraggiungibili perché oltre oceani insuperabili e dei quali neppure si immaginava l’esistenza. La non conoscenza geografica è stata quindi una forma di ignoranza genuina e collettiva che, durata fino alla svolta attuata dalla modernità occidentale, non poco ha contribuito al formarsi della diffusa “paura dello straniero” (tutt’altro che svanita ancora ai giorni nostri). Questo quadro inizia a mutare con quella che è stata definita l’era delle vele, dei grandi viaggi transoceanici che, a partire dal 1400/1500, hanno segnato una autentica rivoluzione geografica con protagoniste le grandi potenze marittime europee, però fin da subito segnata da evidenti finalità di espansione e di ritorno economico. In pochi secoli le varie parti del mondo si sono rispettivamente conosciute seppure aggiungendo alla congenita diffidenza iniziale una presunzione di superiorità dei paesi colonialisti e di una comprensibile opposizione di quelli ridotti a colonia. Già nella prima parte del Novecento la cartografia era comunque in grado di tracciare con buona precisione mappe di ogni terra emersa, recuperando quell’ignoranza genuina durata per millenni. Va però rilevato che questa disponibilità di conoscenze non ha cancellato del tutto l’ignoranza geografica che resta molto diffusa soprattutto nella sua versione di “geografia politica(Negli USA la National Geographic Society mantiene come scopo principale la lotta contro l’analfabetismo geografico a fronte di evidenze davvero poco confortanti, ad esempio nel 2006, in occasione dell’invasione della coalizione guidata dagli Stati Uniti, un sondaggio ha accertato che due terzi degli americani tra i 18 e i 24 anni non sapevano collocare l’Iraq sulla cartina). Per quanto concerne quindi quella geografica l’iniziale forma di ignoranza genuina sembra essersi evoluta in una passiva e selettiva. I tre saperi presi in esame da Burke testimoniano il persistere della diffusione, della profondità, della gravità dell’ignoranza confermando così che l’innegabile e considerevole procedere della conoscenza solo in parte è sin qui riuscito a scalfirne la presenza nella scena attuale. Lo sintetizza un dato di fatto: se collettivamente l’ignoranza è di molto arretrata, molto meno ciò vale a livello individuale, ed è un dato che, come si è già evidenziato, inevitabilmente cresce con il procedere stesso della conoscenza. Su queste basi Burke passa poi in rassegna alcune specifiche ignoranze, quelle che a suo avviso di più incidono sul percorso dell’umanità. Si parte dal ruolo dell’ignoranza nella guerra. Le pagine dedicate a questo tema non entrano nel merito di un giudizio etico, si limitano - evidenziando come tutte le operazioni militari siano in ultima istanza una battaglia fra ignoranza e conoscenza, fra il mantenere il nemico ignorante dei propri piani e lo scoprire quelli suoi – a rilevare le modalità con cui essa si manifesta. Emerge innanzitutto il tragico peso di una preventiva forma di ignoranza volontaria: quella di non voler conoscere e quindi perseguire le possibili alternative allo scoppio del conflitto, rendendo così impercorribile una possibile pace. A guerra avviata compare poi, testimoniata dai tanti esempi citati da Burke, una distinzione fondamentale fra l’ignoranza incolpevole delle truppe e quella colpevole dei comandanti, una forma di ignoranza organizzativa superata solamente nei rari casi di un reale coinvolgimento motivazionale delle prime. Limitando l’analisi all’aspetto della gestione tattico-militare (Burke lo fa citando numerose storiche battaglie sia antiche sia moderne, a partire da quella di Canne per finire con quelle del Vietnam e dell’Afghanistan), dando sempre per scontato il ruolo determinante del caso (vedi Waterloo) sempre emergono ignoranze tecniche (dotazioni del nemico) geografiche (conoscenza del territorio) culturali e storiche (del nemico) e motivazionali (del nemico ma anche delle proprie truppe). Le guerre si perdono o si vincono per un cumulo di fattori, ma spesso la potenza tecnologica degli armamenti, per quanto componente fondamentale, non è bastata, se per l’appunto resa spuntata da queste forme di ignoranza. Non diversamente dalla guerra anche il mondo degli affari, più in generale la sfera dell’economia, ruota attorno all’eterno scontro tra ignoranza e conoscenza. Anche in questo caso Burke non valuta il mercato da un punto di vista socio-economico e politico, ma concentra la sua attenzione sulla ricaduta che la mancanza di adeguate specifiche competenze ha sugli interessi e le finalità degli operatori e degli stessi consumatori. Il mondo dell’agricoltura è un chiaro esempio in questo senso: a lungo la storia dello sviluppo agricolo è infatti consistita nel progressivo superamento di ignoranze genuine (la resa delle coltivazioni è il risultato della combinazione di numerosi fattori -quali ad es. tempo meteorologico, impollinazioni, parassiti, varietà e qualità delle sementi – la cui conoscenza è quindi determinante). Nell’era della agricoltura industrializzata e informatizzata molti di questi fattori sembrano ormai essere in buona misura adeguatamente conosciuti, ma al tempo stesso si sono innescate nuove ignoranze, persino più critiche perché investono l’intera sfera ambientale, innescate proprio dalle soluzioni industriali delle coltivazioni intensive. Si è cioè di fronte ad una forma di ignoranza, per certi versi volontaria, se non persino colpevole, delle conseguenze sulla salute del suolo causate dall’uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti, non a caso molti esperti del settore stanno da tempo lanciando preoccupati allarmi sull’impoverimento dei suoli e quindi sulla stessa potenzialità produttiva agricola. Passando ai settori dell’industria, della finanza, del consumo, Burke evidenzia innanzitutto il ruolo determinante del possesso di informazioni, da sempre presente ma divenuto quanto mai decisivo in questa epoca globalizzata e informatizzata. In una economia di mercato basata sulla concorrenza fra operatori, e sul gioco di interessi contrapposti fra produttori e consumatori, è fuor di dubbio che un fattore vincente consiste infatti nel possedere adeguate conoscenze sui potenziali sviluppi tecnologi, sulle dinamiche di mercato, sugli scenari geopolitici, la loro ignoranza, per quanto genuina e passiva, inevitabilmente diventa un grave handicap di partenza. Per quanto concerne poi il settore della produzione industriale la costante crescita delle dimensioni aziendali, frutto delle inaggirabili logiche di mercato, ha da tempo visto il collegato, controproducente, affermarsi di una specifica forma di ignoranza organizzativa, sintetizzata nella metafora dell’iceberg dell’ignoranza: più alto è il livello gerarchico, più si sa di grandi strategie, ma al contempo molto meno si sa delle pur essenziali competenze produttive dei livelli bassi. Con una ulteriore ricaduta negativa: questa ignoranza organizzativa ha infatti innescato la crescita esponenziale di un'altra, collegata, forma di ignoranza: quella inconscia dei lavoratori che, vista la trascuratezza delle loro competenze sul campo e ridotti a meri esecutori, sono ormai stabilmente indotti, più o meno consapevolmente, al non sapere di sapere. E’ al contrario un’ignoranza di certo collettiva ed in buona misura incolpevole quella dei consumatori nel loro muoversi, in condizioni di costante incertezza e mancanza di specifiche informazioni, in un mercato fatto di prodotti di cui troppo poco si sa (quelli alimentari), spesso oggettivamente complessi (quelli tecnologici) ed a cui ci si accede troppo influenzati da scientifiche, ma fuorvianti, strategie pubblicitarie. Un’ignoranza subita che raggiunge la sua massima espressione nell’indecifrabile mondo dei prodotti finanziari. Non a caso nei testi di economia finanziaria è da tempo comparso il termine di analfabetismo finanziario, quello degli acquirenti, o utilizzatori forzati (nel caso di mutui e finanziamenti), ma anche degli stessi operatori sempre più ridotti a meri attuatori (quando non del tutto scavalcati) dalle meccaniche competenze affidate ad algoritmi (con sempre sullo sfondo gli immancabili manipolatori e truffatori professionali). Burke passa infine, con medesimo approccio, ad esaminare l’ignoranza in politica, la quale di norma si articola su tre distinti, ma comunque intrecciati, livelli: quella del popolo, di chi è governato, quella dei governanti, ed infine quella organizzativa del sistema politico in quanto tale. La prima, (da alcuni interpretata anche come una istintiva forma di difesa dalla complessità di conoscere, capire e scegliere) è al tempo stesso una risorsa per i regimi autoritari ed un fattore di forte preoccupazione per le democrazie. Non a caso tutte le dittature e le autocrazie dedicano molta cura a coltivare l’ignoranza del popolo, dei sudditi, e non meno a caso la loro caduta è quasi sempre determinata da squarci aperti nella cappa imposta. Il discorso si rovescia (per quanto anche qui non manchino congiure del silenzio e censure) nei sistemi democratici, per i quali l’ignoranza politica del popolo rappresenta, oggettivamente, un serio problema per il loro pieno e corretto funzionamento. Burke si limita, in coerenza con lo scopo del saggio, ad evidenziare che essa (certificata in tutte le democrazie avanzate da specifici sondaggi sulla diffusa deficitaria conoscenza dei dati essenziali della realtà politica e istituzionale, che va dal conoscere competenze e meccanismi della struttura e del funzionamento delle istituzioni ad ignorare persino  nomi e ruoli dei protagonisti più importanti)  può essere in ultima istanza distinta in due forme: quella attiva, più o meno volontaria, di chi ritiene che partecipare al democratico confronto di idee politiche sia uno sforzo troppo impegnativo piuttosto che inutile, e quella passiva ingenerata dalla oggettiva crescente difficoltà alla formazione di opinioni ragionate in società chiamate ad esprimersi su questioni sempre più complesse (alcuni studiosi ritengono che si tratti di una tendenza destinata ad accentuarsi pericolosamente tanto da aver paventato il rischio di una “tirannia dell’ignoranza”) ulteriormente accentuata dall’inondazione di materiale superfluo, se non deliberatamente manipolato (fake news), che circola nella Rete e nel mondo dei media. Altrettanto innegabile e sconfortante è però l’ignoranza dei governanti, esemplare è stata per secoli quella, attiva e selettiva, di sovrani e nobili rinchiusi in un mondo a sé del tutto impermeabile a quello della conoscenza. Una situazione che è sembrata migliorare, almeno in parte, con l’avvento della democrazia e la salita alle posizioni di vertice di membri provenienti dalle élite culturali, per poi tornare a evidenziare limiti e contraddizioni via via accentuati dalla progressiva crisi del sistema dei partiti e dei modi di selezione e formazione del ceto politico (Burke cita al riguardo numerosi casi di leader politici incappati in clamorose gaffe, anche nelle materie più strettamente politiche ed istituzionali, veri e preoccupanti esempi di ignoranza genuina). Nelle attuali società complesse, un buon governante è tale se è consapevole delle proprie inevitabili lacune (ignoranza cosciente) così da concentrarsi sulle strategie politiche sfruttando al meglio le competenze degli ormai indispensabili staff di supporto (possibilmente scelti non solo in base a meriti di parte). La limitata circolazione di informazioni fra l’alto ed il basso, fra l’ignoranza dei governati e quella dei governanti, si collega strettamente con quella propria degli apparati istituzionali e politici: l’ignoranza organizzativa. Un deficit di conoscenza, anch’esso progressivamente accentuatosi con il crescere della generale complessità, che ha prodotto la nascita di specifiche strutture statali preposte proprio alla gestione della conoscenza delle materie di governo. E’ un processo che si è via via consolidato nel corso degli ultimi secoli passando in particolare attraverso due svolte rivoluzionarie: la prima avvenuta in Inghilterra a metà del 1500, durante il regno di Enrico VIII, con la nascita di quello che è passato alla storia come il primo “Governo” inteso nella sua moderna accezione (un Consiglio di Ministri, ognuno dei quali preposto ad una materia ritenuta importante per le sorti dello Stato, diretto da un Primo Ministro che, sulla base di precise regole, risponde del suo operato alla figura simbolo del potere) che ha istituzionalizzato la separazione fra chi detiene il potere e chi lo esercita sulla base di precise competenze fino a divenire il simbolo della prima “burocratizzazione” del potere statale. Su questa scia, circa tre secoli dopo, nasce in Germania il primo corso universitario specificamente destinato alla formazione di alti funzionari di Stato al fine di creare una struttura (resa stabile perché disgiunta dalla mutevole compagine di governo e adottata, con forme diverse, in diversi paesi) preposta alla gestione delle conoscenze, sempre più ampie e articolate, utili all’azione governativa.  E’ una ulteriore separazione nella catena delle conoscenze in capo al governo pubblico finalizzata a compensare la “genuina ignoranza” dei governanti di turno. Ottima intenzione, ma da sola (i molti esempi riportati da Burke lo evidenziano) non sufficiente ad evitare scelte governative errate perché basate su conoscenze inadeguate. Lo attestano in particolare le politiche che, in tutti i paesi per tutti i secoli della modernità fino ai giorni nostri, si sono dimostrate incapaci di fronteggiare fenomeni - quali eventi estremi, carestie, epidemie, crisi economiche, fenomeni naturali – che presuppongono il miglior utilizzo possibile di competenze, informazioni e conoscenze specifiche (quelle fornibili dalle citate strutture statali preposte e, sempre più, direttamente dal mondo scientifico con i suoi specifici istituti e, in particolare ai giorni nostri, da organismi internazionali quali ad esempio ONU, OCSE, FMI) a partire dalle previsioni sugli scenari futuri (emblematiche sono quelle regolarmente fornite dall’IPCC sull’evoluzione del riscaldamento climatico) e dal buon utilizzo degli insegnamenti che il passato offre (a partire a quelli relativi all’inutilità delle guerre e alla follia dei genocidi).

Conclusioni

Burke conclude questo saggio recuperando dalla consistente mole degli esempi raccolti per evidenziare quanto e come l’ignoranza abbia inciso, e tuttora incida sulla storia dell’umanità, alcune indicazioni di sintesi. La prima consiste nella constatazione dell’illusorietà di una idea di storia declinata in termini di costante progresso grazie alla sconfitta dell’ignoranza da parte del progredire delle conoscenza. Se è vero che le nuove conoscenze hanno consentito molti e notevoli passi in avanti in quasi tutti i campi del vivere umano è non meno vero che l’ignoranza cosciente dimostra che quanto più si conosce tanto più si manifesta ciò che ancora non conosciamo. La seconda guarda alla distinzione fra conoscenza pubblica e individuale: se collettivamente è vero che l’umanità sa più di quanto abbia mai saputo prima, un disincantato sguardo ad ampio raggio dice che individualmente non si hanno così tante conoscenze in più dei nostri predecessori. Una terza, a quest’ultima collegata, evidenzia che i nuovi saperi spesso hanno sostituito molti di quelli vecchi ma non sempre ciò ha rappresentato un reale superamento dell’ignoranza individuale e collettiva (non fosse altro che per l’impossibilità di utilizzare, per questa comparazione, parametri oggettivi e onnicomprensivi). Una quarta constatazione è quella relativa alla evidente impossibilità di far divenire conoscenza collettiva le scoperte sempre più specialistiche e analitiche che costantemente si stanno accumulando. Un aspetto che porta all’ultima considerazione: oggi più che mai non ha senso ragionare sull’ignoranza vista come caratteristica individuale, è ormai doveroso ragionare di conoscenze collettive, e non più di conoscenza, e conseguentemente di ignoranze, e non più di ignoranza, altrettanto collettive. Per dirla con Mark Twain (1835/1910, scrittore americano)siamo tutti ignoranti, solo di cose differenti

………… il guaio è che coloro che detengono il potere spesso mancano delle conoscenze di cui avrebbero bisogno, mentre coloro che le possiedono non hanno il potere ………..

 


mercoledì 24 aprile 2024

Per il 25 Aprile - Festa della Liberazione

                                                           “Oltre il ponte”

O ragazza dalle guance di pesca
o ragazza dalle guance d’aurora
io spero che a narrarti riesca
la mia vita all’età che tu hai ora

Coprifuoco: la truppa tedesca

la città dominava. Siamo pronti.

Chi non vuole chinare la testa

con noi prenda la strada dei monti


Avevamo vent’anni e oltre il ponte
oltre il ponte che è in mano nemica
vedevam l’altra riva, la vita
tutto il bene del mondo oltre il ponte

Tutto il male avevamo di fronte

tutto il bene avevamo nel cuore

a vent’anni la vita è oltre il ponte

oltre il fuoco comincia l’amore


Silenziosa sugli aghi di pino
su spinosi ricci di castagna
una squadra nel buio mattino
discendeva l’oscura montagna

La speranza era nostra compagna

a assaltar caposaldi nemici

conquistandoci l’arma in battaglia

scalzi e laceri eppure felici


Non è detto che fossimo santi
l’eroismo non è sovrumano
corri, abbassati, dai, corri avanti
ogni passo che fai non è vano

Vedevamo a portata di mano

oltre il tronco il cespuglio il canneto

l’avvenire di un giorno più umano

e più giusto, più libero e lieto


Ormai tutti han famiglia, hanno figli
che non sanno la storia di ieri
io son solo e passeggio tra i tigli
con te cara che allora non c’eri

E vorrei che quei nostri pensieri

quelle nostre speranze di allora

rivivessero in quel che tu speri

o ragazza color dell’aurora

                                                                             

1959, poesia di Italo Calvino musicata da Sergio Liberovici

 




lunedì 15 aprile 2024

Il "Saggio" del mese - Aprile 2024

 

Il “Saggio” del mese

 APRILE 2024

Il tema della “Libertà”, delle sue declinazioni nell’attuale fase storica, è stato il filo conduttore delle iniziative del nostro programma 2023/2024, iniziato riflettendo su di essa dal punto di vista filosofico. Il saggio di questo mese offre anch’esso una riflessione filosofica sul tema della libertà svolta, con la sua abituale verve poliedrica ed istrionica, da uno dei pensatori più seguiti nell’attuale dibattito filosofico e mediatico

E’ la preoccupazione per lo stato di salute della libertà nell’attuale fase storica che ha mosso Zizek a questa sua riflessione. La libertà, intesa nel suo più ampio significato, è da sempre “oggetto a contendere”, ma oggi il pericolo più grande che sta correndo sembra proprio consistere nella scarsa attenzione e cura che ad essa dedica gran parte di una umanità ad essa così assuefatta da darla per scontata, per acquisita ….. l’illibertà più pericolosa è quella che sperimentiamo in forma di libertà ….. Non è così, la libertà è un concetto, un valore universale ed eterno, che va ben oltre l’essere il predicato di un soggetto, rappresenta una dimensione irrinunciabile dell’animale uomo, mosso da passioni e non da soli istinti, che storicamente si è sempre confrontata con limiti e restrizioni. Per meglio capire se questo rischio vale anche ai giorni nostri è necessario riflettere su di essa risalendo il più possibile alla sua ultima essenza e valutandola nelle sue due fondamentali accezioni: la libertà in generale, quella che si esprime come soggetto a sè, e la libertà umana, ossia la declinazione della prima nella vita sociale.

….. nella libertà non ci sentiamo mai a nostro agio, più siamo liberi più dimoriamo nell’ansia, è una di quelle nozioni ingannevoli che appaiono evidenti, ma nel momento in cui cerchiamo di analizzarle ci troviamo impelagati in ambiguità e contraddizioni ……


lo stile espositivo di Zizek è straordinariamente arricchito da esempi, aneddoti, critiche e appunti vari, che impongono al lettore una costante, e per questo magari anche stancante, attenzione. Va inoltre detto che in questo saggio, già del suo di non trascurabili dimensioni, il tema centrale della libertà, che Zizek affronta risalendo alle origini del moderno pensiero filosofico e psicanalitico occidentale, diventa l’occasione per riflessioni ad ampio raggio su complesse tematiche (rapporto uomo-natura, forme della conoscenza, realtà e sue rappresentazioni, tanto per citarne alcune) non così immediatamente collegabili al tema in sé della libertà. Un esempio fra i tanti è quello della costante citazione dei concetti di “Altro – il grande Altro”  presenti nella teoria psicanalitica di Jacques Lacan (1901-1981, psicanalista e psichiatra francese) per indicare l’insieme di oggetti/soggetti, individuali e collettivi, che intervengono nel percorso di definizione delle nostre individualità, qui non ripresi proprio per l’eccessiva complessità  del tema Si è così dimostrato del tutto impossibile offrire, nell’abituale spazio dei nostri post, una seppure sinteticissima panoramica di un complesso di idee così vasto ed approfondito.  E’ stato quindi inevitabile limitarci ad estrapolare da tale ricchezza espositiva i passaggi più immediatamente collegabili al tema della libertà

PARTE PRIMA – La libertà in generale

Capitolo primo – Il disagio della libertà = E’ davvero possibile una definizione universalistica di libertà ossia del valore che, essendo oggetto di un di più di investimento affettivo, di fatto viene interpretato in modi diversi, non di rado tra di loro persino conflittuali? E d’altronde se una piena libertà implica anche quella di poterla declinare in sensi molteplici, inevitabilmente s’ha da fare i conti con questa sua poliedricità, ma allora come uscire fuori da questo rebus? In inglese questa tensione che attraversa la nozione di libertà è indicata da due termini diversi: freedom e liberty, con la prima, più astratta, a indicare la potenzialità di fare ciò che si desidera e la seconda, più concreta, quella di esercitare la propria freedom entro i confini fissati dalla legalità di turno. A suo tempo già Hegel (1770-1831) uno dei padri del moderno concetto di libertà si era premurato di precisare che, a scanso di equivoci, un conto è parlare di “libertà astratta” e un altro di “libertà concreta”, anche se questa distinzione, a ben vedere, implica che la prima, nel tramutarsi nella seconda, inevitabilmente si auto-restringa. Non deve allora stupire se nel campo larghissimo che separa questi due concetti si è storicamente realizzato un infinito corollario di varianti, alla cui comprensione e valutazione poco aiutano alcune delle formule via via coniate (la mia libertà finisce là dove inizia quella di un altro, la libertà è vuota se disgiunta dalla giustizia sociale, libertà pubbliche e libertà private, e via discorrendo) e d’altronde sono altrettanto varie, e continuamente mutevoli, le consuetudini sociali che definiscono i confini della libertà concreta. E’ questa una situazione, diffusa e consolidata, nella quale il perseguimento, l’esercizio e la difesa della libertà, comunque intesa, richiedono costante attenzione e continue scelte, non fosse altro che per non incorrere nel paradosso dell’illibertà, di cui si è detto in precedenza, per il quale libertà potrebbe persino significare rinunciare ad essere liberi. Per farlo occorre partire da un primo fondamentale aspetto: la libertà sempre si manifesta come una esigenza che emerge in risposta al manifestarsi di una necessità. E’ ancora Hegel a portare alla sua estrema conseguenza questa constatazione: per lui la vera libertà è in effetti il superamento di una necessità, un superamento che per essere realizzato richiede però la conoscenza, ovvero la consapevolezza, delle ragioni che hanno prodotto tale necessità: la libertà altro non è che la piena rimozione di tali ragioni. Questa conoscenza, questa consapevolezza, presuppongono a loro volta un soggetto dotato di una fondamentale dote preliminare: il libero arbitrio, e cioè il potere, insito in sé stesso, di decidere autonomamente il proprio pensare ed il proprio agire. Questa forma pura di libertà è però una dote davvero posseduta dall’uomo?  è una illusoria percezione di sé? o è solo il frutto di un processo evoluzionistico?

Capitolo secondo – Esiste davvero un “libero arbitrio”? = Il secolare dibattito, filosofico e teologico, attorno al libero arbitrio, vale a dire su come la libertà umana possa essere inserita nell’ordine generale della natura, è stato sconvolto dall'irruzione della scoperta neuroscientifica secondo la quale in natura tutto avviene secondo i rigidi canoni del naturalismo deterministico.  A dispetto della sua vantata diversità esistenziale non ne è esente neppure l’uomo, è ormai dato accertato che le sue risposte agli stimoli esterni partono “in automatico(governate in modo inconsapevole dall’ancestrale cervello rettiliano) anticipando la loro gestione volontaria, non solo: questa predisposizione, eredità di una lunghissima evoluzione, interviene, in forma di “predisposizione”, anche nel caso di scelte più complesse, più articolate. Si può quindi affermare che: io faccio quel che voglio, ma quel che voglio è in gran misura determinato. Anche la stessa coscienza (l’idea di sé che muove a capacità di interrompere e indirizzare diversamente un processo già in atto) è in una certa misura condizionata da attività neurali “cieche(è l’opinione di neuroscienziati come Antonio Damasio il cui saggio “Sentire e conoscere” è alla base della Parola del mese di Giugno 2022 “coscienza”). Se resta sempre vero che l’esercizio del libero arbitrio, in qualunque modo si attivi, è soprattutto l’individuale esercizio di retaggi sociali e culturali (oltre che caratteriali), è però certo che in questo nuovo quadro si impone una qualche ridefinizione delle stesse nozioni di libertà, autonomia e responsabilità etica. L’esercizio del libero arbitrio guarda al presente ed al futuro, ma è certamente determinato dal passato, sia quello generale evoluzionistico sia quello specifico socio-culturale, ed è quindi su questo terreno che si dà il calcio d’inizio della partita della libertà, che si apre ad ogni possibile risultato per la semplice ragione che ambedue questi passati non ci consegnano un esito  scontato, la loro eredità è comunque composta da catene causali imperfette che lasciano sempre spazio  alla possibilità di scegliere il nesso che le collega e le determina. Il passato sul quale germoglia il seme della libertà, attraverso il libero arbitrio, non è mai solamente il sedimentato comporsi di concreti “fatti”, ma nel nostro ri-viverlo sempre si evolve in un ordine simbolico di interpretazioni, di rappresentazioni, sempre ri-vedibili, sempre ri-adattabili. In questo senso il libero arbitrio non si manifesta solo come occasionale opportunità, ma è, nell'intricato rapporto con il passato, “l’a priori” di ogni conoscenza per quanto deterministico sia il meccanismo che lo attiva. La stessa negazione della sua attiva funzione è in effetti priva di senso proprio perchè esso sempre resta la pre-condizione di ogni conoscenza … se non si ha il libero arbitrio non si ha neppure la giustificazione per credere di non averlo …. Da ciò discende una conseguenza di non poco conto: se il passato è un aspetto del mondo in qualche modo definitivamente compiuto, esso “comprende avendolo formato” anche il soggetto che lo esamina, vale a dire che una sua osservazione, per quanto ritenuta oggettiva, non sarà mai slegata dall’esercizio del libero arbitrio comunque questo si manifesti. Si può allora ritenere che  intervenire sul presente per indirizzarlo verso un voluto futuro è una operazione resa possibile solamente dall'esercizio del libero arbitrio inteso come reinterpretazione del passato.  La libertà astratta poggia su questa precondizione che va oltre ad ogni meccanismo deterministico….. se anche sappiamo che quel che faremo è in una qualche misura predestinato, dobbiamo prenderci il rischio, soggettivamente, di scegliere tra le possibili predestinazioni quella che ci appare a noi più consona…... Per questa ragione la libertà è, in fin dei conti, una scommessa, un arrischiato salto in avanti inesorabilmente compiuto proprio esercitando il libero arbitrio

Capitolo terzo – Il resto indivisibile e la morte della morte = Comunque possa essersi delineata l’idea, la libertà è per sua natura destinata ad uscire dal mondo delle idee per misurarsi con il mondo reale, a completarsi divenendo concreta prassi ….. è questa la determinazione minima della libertà: sono libero se, nei limiti del mio possibile, decido della mia interazione con l’ambiente che mi circonda ….. E’ quindi la vita reale, non quella pensata, la forma fondamentale della libertà: come organismo vivente interagisco con l’ambiente ed al tempo stesso così facendo, essendo parte di quell’ambiente, di fatto interagisco anche con me stesso sulla base delle risposte di ritorno che da esso ricevo. L’idea di libertà che per completarsi deve tradurre la sua essenza ideale in prassi concreta è quindi costantemente portata a ridefinire sé stessa proprio in relazione alle risposte che l’agire (individuale e collettivo) per conseguirla raccoglie. Questo continuo processo di oggettivazione/ridefinizione della libertà da una parte richiama costantemente in causa il libero arbitrio nei termini di cui si è detto, ma dall'altra rende però  problematica una reale oggettivazione dell'idea di libertà essendo questa sempre filtrata dalla soggettività protagonista del processo. Dal punto di vista filosofico si inciampa così in una insidiosa complicazione che Kant (1724-1804) individuava, e superava, con queste parole: non siamo liberi quando facciamo quel che vogliamo, ma solo quando seguiamo la Legge morale contro le nostre tendenze spontanee che ci rendono schiavi. Emerge cioè a suo avviso la necessità che la libertà superi la dimensione istintiva del soddisfacimento delle nostre esigenze e dei nostri desideri, in sostanza la nostra “natura”, per fondarsi su un corpo condiviso di idee, filosoficamente definite, capaci di darle un orientamento morale. Al contrario di Kant, Schelling (1775-1854) ha negato tale contrapposizione ritenendo invece che spirito (io) e natura (non-io) potessero coincidere in una unità ideale (il “resto indivisibile”, così titola un saggio di Zizek sull’opera di Schelling), la libertà in questa sua idea emerge proprio dal suo fondarsi ed esprimersi in relazione ad una idea di “assoluto” che già del suo va oltre la soggettività. L’idea di assoluto permea anche la concezione di libertà di Hegel che però, in coerenza con il suo procedere dialettico, la fa emergere emerge attraverso un tortuoso percorso: essa è infatti la vera essenza dello spirito, perché nella natura non esiste libertà, ma solo necessità e accidentalità. Ma questa assoluta coincidenza con lo spirito la rende pura astrazione, un nulla che in-sé è un assoluto negativo, ossia un’assenza di vera determinazione. L’unica via di uscita da questa negatività consiste nell’opporsi ad essa dialetticamente proponendo il suo esatto opposto, vale a dire la negazione della negazione (che nella sua forma più pura è definibile come morte della morte) rappresentata dalla coincidenza fra spirito e libertà. Solo da questo incontro/scontro può a suo avviso emergere un divenire che è una nuova unità: quella di spirito e necessità (poggia anche su questa diversa unità l'intera “filosofia dello spirito” hegeliana) che diviene, come sintesi finale, la vera idea di libertà, un’idea che non è solo pensiero logico (la libertà astratta), ma dimensione concreta del vivere nella forma della comunità che assorbe tutte le singolarità, ovvero lo “Stato(la libertà concreta), che è quindi la vera realizzazione della libertà. Un’idea che trova la contemporanea opposizione di Kierkegaard (1813-1855) per il quale, se è vero che la comunità serve per la vera libertà, essa da sola non rende veramente liberi, sempre compete al libero arbitrio individuale il modo di sciogliere questa limitazione.

A conferma dell’originalità del suo stile espositivo Zizek affianca ai “normali” Capitoli di trattazione del tema due “Appendici” che aggiungono considerazioni a margine che spaziano in svariate direzioni

Appendice I

*   La meccanica quantistica, con le sue teorie sul comportamento delle particelle elementari, è un ottimo esempio per meglio mettere a fuoco la difficoltà di definire con esattezza il concetto di libertà. Infatti non diversamente la libertà sfugge ad una sua definizione/individuazione per comparire unicamente quando un osservatore/protagonista è chiamato, da impellenze e necessità, a capire in cosa essa davvero consista e dove può essere così collocata sulla scena di una storia idealizzata

*   il modo in cui Hegel introduce il concetto di libertà in numerosi passaggi della sua elaborazione filosofica richiama una prassi molto diffusa in vari ambiti culturali: la dislocazione, ossia il trasferire un “pacchetto culturale” da un contesto ad un altro. Succede ad esempio in musica con un accordo o una linea melodica e, passando a tutt’altro campo, con l’idea di uguaglianza o di rivoluzione diversamente declinata a seconda del paese in cui si afferma. La dislocazione però non è solo un trasferimento, perché implica sempre una diversità, quelle note evolvono in una differente composizione, e le idee una diversa concretizzazione (l’idea marxista di rivoluzione, intesa come superamento del capitalismo giunto al suo pieno compimento, è stata per certi versi paradossalmente adottata sia in Russia che in Cina in un contesto di arretratezza economica). Allo stesso modo occorre quindi prestare attenzione ai molteplici  significati che il concetto di  “libertà” assume in Hegel

*   Viviamo tempi molto permissivi sotto molti punti di vista. La permissività però non è automaticamente sinonimo di libertà, spesso questa emerge, sapendola individuare, in modi anomali. Uno di questi è raccontato dalla miniserie Netflix “Inventing Anna (inventare Anna)” che racconta la storia vera di Anna una giovane e povera truffatrice che fingendo, nel jet set di New York, di essere una ricca ereditiera è riuscita per anni a vivere di generosi “aiuti” utilizzati per coprire via via quelli già ottenuti. Anna non ha però una vera attitudine criminale, in un certo senso si è così immedesimata con questa immagine di sé da credere di ottenere prestiti da una sé stessa proiettata nel futuro. Rispetta letteralmente la formula lacaniana (Lacan, 1901-1981, psicanalista francese) del “non compromettere il tuo desiderio”. In fondo anche in questo caso, inimmaginabile in tempi “normali”, si può intuire che la libertà più profonda è sperimentata come necessità interna

*   L’arte moderna del Novecento si è caratterizzata con canoni innovativi capaci di raccontare, spesso anticipandoli, le tensioni, le paure, le angosce di tempi troppo veloci e crudeli. E’ stata a lungo osteggiata, prima di venire fagocitata dal mercato come puro business, anche per questo motivo, oltre per le sue provocazioni. Eppure anche il solo fatto di esprimere angoscia e dissonanza è in effetti un atto di liberazione dall’ordine esistente. Neppure tanto incomprensibilmente molta filosofia non l’ha ritenuta tale.

PARTE SECONDA – La libertà umana

Capitolo quarto – Marx non ha inventato solo il sintomo, ma anche la pulsione = La libertà astratta, ovvero il concetto di libertà come dimensione fondante della vita, per divenire, per l’uomo sociale, autentica libertà concreta segue due distinti percorsi: quello delle idee e quello delle condizioni materiali di esistenza. Due filosofi, non a caso fra di loro strettamente connessi, sono assurti a teorici della prima, Hegel, e della seconda, Marx. Non si tratta comunque di una distinzione netta: il concetto hegeliano di Storia, visto come il progressivo realizzarsi dell’Idealismo, è pur sempre anche un’idea di costante progresso materiale, di graduale concreta realizzazione del concetto di libertà, ed al tempo stesso in Marx, nella sua concezione materialistica della Storia, il mondo delle idee è tutt’altro che sottovalutato, sono esplicite in questo senso le sue parole: … pensare è pur sempre un’attività reale, eseguita da individui che vivono, interagiscono e producono in una realtà sociale materiale, pensare è un aspetto della pratica sociale umana. Ciò detto, resta pur vero che è con il corpo dottrinale di Marx che l’idea di libertà viene definitivamente e intimamente calata nel mondo reale, nella sfera delle relazioni economiche e sociali. L’anelito verso di essa nato con l’avvio della Modernità come liberazione dalle catene del potere nobiliare acquista una sua nuova e più definita dimensione nella sua declinazione di lotta di classe. E’ infatti nell’analisi marxiana delle logiche capitalistiche che, anche in questo caso contraddicendo consolidati luoghi comuni, l’anelito verso la libertà, anche individuale oltre che collettiva, trova una sua nuova e specifica definizione: l’essere l’opposto contradditorio della pulsione capitalistica verso l’accumulazione infinita (quando i lavoratori comprendono di essere ridotti a merce, cessano di essere merce, di essere oggetto, per divenire soggetto).  Alcuni teorici marxisti (Lukacs, 1885-1971, filosofo ungherese) hanno completato questa idea di pulsione di libertà di Marx (che in più passaggi ha evidenziato che, proprio per questa ragione, il capitalismo è in sé già liberatorio) elevandola ad una dimensione trascendentale assoluta capace cioè di delineare non solo una diversa struttura economica e sociale, ma anche di dare nuovo e diverso senso alla sfera politica, all’influsso dell’ideologia, alla stessa scienza. L’invenzione marxista della pulsione verso la libertà, vista al tempo stesso come opposizione dialettica alla pulsione capitalistica e come suo completamento storico, ha permeato tutti i conflitti, ottocenteschi e novecenteschi, per l’appropriazione e l’estensione delle libertà collettive, affiancando la visione liberale di libertà che, pur non meno storicamente rilevante come eredità di lungo periodo del preliminare affrancamento dal potere nobiliare, ha puntato innanzitutto alla sfera individuale fino ad essere la base ideale dello stesso spirito capitalistico.

Capitolo quinto – In cammino verso l’anarco-feudalesimo = Il periodo a cavallo del cambio di secolo sta però rappresentando un momento di radicale svolta per questo consolidato rapporto di connessione tra mondo delle idee e condizioni materiali di esistenza. La vita umana e lo stesso concetto di libertà devono infatti misurarsi con l’irruzione di una nuova dimensione: lo spazio virtuale creato dalle nuove tecnologie informatiche, di cui il metaverso (uno spazio virtuale a cui accedere tramite piattaforme digitali in cui si assottigliano fino ad essere quasi impercettibili le differenze con la realtà) rappresenta il più completo paradigma. Si tratta della più ardita ambizione (Meta, ossia oltre, è dal 2021 il nuovo nome di Facebook) di utilizzo delle tecnologie di comunicazione e 3D finalizzate alla creazione di una realtà parallela, che spogliata della sua indubbia fascinazione tecnologica e vista nella sua vera essenza, si rivela una dimensione umana comune posseduta, filtrata e gestita, da privati ….. dei nuovi signori feudali che in questo modo potranno sorvegliare e regolare le nostre interazioni con il mondo ….. In apparenza sembra che si siano riaffacciate, dopo essere incredibilmente evolute dal punto di vista tecnologico, le speranze utopiche che avevano accompagnato la nascita del primo Internet visto come una nuova dimensione capace di aggirare i limiti, fisici e ideologici, imposti dal mondo reale fino a prefigurare una nuova idea di anarchia libertaria (una illusione che ha avuto ben altro esito). Insomma ancora una volta un inno alle mirabilie tecnologiche capaci di creare infiniti spazi di libertà. La domanda resta però sempre la stessa: come si concilia la proprietà privata di questi strumenti con il presunto allargamento di spazi di libertà e democrazia con un mondo nel quale questo effettivo neofeudalesimo si presenta come protettore delle libertà? A questi fondamentali dubbi di ordine politico se ne affiancano poi altri inerenti il potere salvifico della tecnologia, l’idea cioè che tutti i limiti ed i problemi dell’agire umano possano essere risolti affidandoci alle potenzialità delle macchine digitali. Si tratta non solo di un azzardo in sé, di una scappatoia per non affrontare l’essenza delle tante questioni che segnano questi tempi, ma di una autentica mistificazione: ancora una volta occorre tornare al fondamento delle logiche di mercato, siamo infatti semplicemente di fronte ad una trasformazione (l’ultima?) del capitalismo (a sua volta in evoluzione verso una concentrazione neofeudale) che mira a ricorrere sempre meno all’utilizzo del capitale umano. Al di là delle fantasie anarco-edonistiche, con l’ulteriore salto tecnologico (Intelligenze Artificiali e comunicazione diretta tra macchine) diventa possibile immaginare una gestione dell’economia, e quindi della società, sempre più affidata alle macchine con gli umani risarciti, certo non gratuitamente, con scampoli di compensatorio mondo virtuale. Non deve stupire allora che già oggi il mondo delle merci fisiche, che a lungo hanno rappresentato la base della produzione capitalistica (e della sfera dei desideri di massa), siano sempre più sostituite dalle esperienze (in progressivo passaggio al virtuale), ossia da momenti idealizzati di vita, da esse rappresentate (questa nuova fase della mercificazione viene definita “capitalismo culturale” in cui non è più l’immagine a promuovere il prodotto, ma è il prodotto che viene ridotto a veicolo per accedere all’immagine). Inevitabile che in contesto simile la pulsione verso la libertà acquisti nuove forme e si misuri con nuovi limiti e restrizioni.

Zizek dedica la parte finale di questo Capitolo alla accurata analisi dei fenomeni delle “criptovalute” e degli NFT (Non Fungible Token, gettoni di possesso di creazioni virtuali spendibili in un apposito mercato telematico) a suo avviso emblematici di questa svolta tecno-capitalistica

Capitolo sesto – Stato e controrivoluzione = Appare infatti evidente che la svolta tecnologica, esaltata come occasione di nuovi orizzonti di libertà, la sta al contrario riducendo con la sua invasiva capacità di incidere sulla sfera delle pulsioni, dei desideri, decidendo in anticipo per noi che cosa desiderare. Al tempo stesso è divenuta un formidabile strumento di controllo nella veste del capitalismo della sorveglianza, reso possibile dai big data. In questo quadro di una libertà pilotata e limitata è tornato centrale il ruolo del grande assente negli anni del neoliberismo galoppante: lo Stato, messo in sordina dall’ideologia liberista dell’ordine spontaneo della società, mirabilmente creato dal libero gioco del mercato. Il dibattito attorno al rapporto tra Stato e libertà attraversa la scena culturale, politica e filosofica in particolare, fin dal nascere della Modernità, ma risale ben più a monte chiamando in causa la propensione naturale dell’uomo ad accettare una contrazione dei suoi spazi individuali per rafforzare la coesione comunitaria e sociale [è questo il presupposto sul quale poggia l’dea del moderno Stato, il Leviatano, elaborata da Locke (1632-1704)]. Ancora di recente nel suo magnifico saggio “L’alba di tutto” l’antropologo David Graeber (1961-2020, questo saggio è stato presentato in un nostro post del Novembre 2022) ha rilanciato la contrapposizione tra i presunti maggiori spazi di libertà, di impronta anarchica, delle culture e delle società pre-moderne e le restrizioni imposte dagli attuali Stati. Ma è un confronto squilibrato e non sostenibile: non esisteva in tali precedenti esperienze il senso moderno della libertà individuale, il cui spazio, paradossalmente, sembra essere oggi garantito proprio dall’esistenza di una autorità statale che si eleva al di sopra della società civile, nella quale l’esercizio oggettivo della libertà è definito, formalmente e concretamente, dagli spazi concessi da tale autorità, ma non dalla sua assenza. Così come non sembrano condivisibili altre contemporanee concezioni dello Stato ridotto esclusivamente alla funzione di invasivo controllo bio-politico delle nostre esistenze (Zizek si riferisce espressamente alle posizioni assunte dal filosofo Giorgio Agamben sulle politiche di controllo di massa messe in atto durante la pandemia da Covid 19, che liquida come inutile chiacchiericcio). Se è indiscutibile la constatazione che il rapporto tra Stato e cittadini è sempre stato, e tuttora certamente lo è, condizionato da visioni ed interessi specifici, a partire da quelli dei rapporti economici di classe, resta comunque vero, ed i tempi di forte crisi come quello pandemico lo attestano, che lo Stato in quanto tale non può esimersi da quello che resta il suo scopo principale: l’interesse generale dei cittadini per quanto diversamente interpretato e declinato. Non a caso la difesa e l’allargamento di spazi di libertà appaiono ormai inseparabili da una gestione dello Stato che si muova in tal senso. Questa considerazione nulla toglie, anzi, all’inderogabile opposizione al crescente anarco-feudalesimo tecnologico (nella sua versione tecno-populista), ma ribadisce che perché questa sia efficace è allo Stato, al suo ruolo e alla sua corretta declinazione, che occorre guardare.

Analogamente a quanto sopra non inseriamo l’ultima parte di questo Capitolo, quella della “controrivoluzione” dedicata ad una riflessione su un diverso modo di intendere il concetto di “Patria” e ad una rivisitazione dell’ideale comunista perchè, per quanto ricca di interessanti riflessioni, non ci è sembrata immediatamente riconducibile al tema della libertà. La stessa considerazione è valsa per i quattro Capitoli della seconda Appendice che contengono affascinanti ed eccentriche riflessioni su alcuni temi, a nostro avviso così distanti dal cuore del saggio da imporre, nostro malgrado e differentemente da quelli della prima Appendice, di essere semplicemente citati

Appendice II

Temi affrontati:

*   la forclusione (nella teoria psicoanalitica lacaniana indica l'assenza della funzione del Terzo nel rapporto tra soggetto e Altro) del concetto lacaniano di “grande Altro(vedi sopra) troppo frequentemente presente nel dibattito culturale inerente ai rapporti fra soggetti

*   il differente ruolo della vergogna e dello svergognamento nell’attuale comunicazione politica e nella cancel culture  (la pratica, diffusa soprattutto negli USA, di cancellare dalla memoria storica personaggi che hanno, tempi addietro, sostenuto idee o avuto comportamenti che, oggi, non sono più condivisibili)

*   la prevenzione, diffusa soprattutto nei paesi non democratici, verso le forme d’arte definibili, spesso troppo genericamente, come postmoderno (termine usato a partire dagli anni ’60 del Novecento, inizialmente negli Stati Uniti e poi in Europa, per definire le varie tendenze in architettura, in letteratura, in movimenti culturali e nelle arti in genere caratterizzate dal rifiuto dell’ideale di progresso proprio del razionalismo novecentesco)

*   l’uso strumentale, e storicamente non sostenibile, del termine de-nazificare (epurare da concetti e ideologie naziste) abitualmente ed insistentemente fatto dalla propaganda putiniana

FINALE = I quattro cavalieri dell’Apocalisse

Il concetto di libertà, già del suo così complesso e fragile, si misura quindi costantemente con le ragioni di fondo del suo manifestarsi (libertà astratta) e nondimeno con vari contesti storici nei quali è chiamato ad esprimersi (libertà concreta). Ed è indubbio che guardando ai tempi attuali la scontata, e perciò trascurata, libertà di cui gran parte del mondo sembra disporre è chiamata a misurarsi con rilevanti minacce e pericoli che, ancora indossando le vesti dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, sono rappresentati dalle eterne crisi che da sempre attanagliano l’umanità. Ma sarebbe un errore vederle semplicemente come le classiche manifestazioni del male, è alle loro attuali forme che dobbiamo guardare per meglio comprendere le minacce che rappresentano per la libertà: la guerra, con la minaccia atomica all’orizzonte, la fame e le carestie, con la crescente penuria di acqua e cibo, la malattia, con l’irruzione di nuove pandemie, la morte, oggi non più solo quella provocata dai tre precedenti cavalieri, ma ormai anche quella del concetto stesso di uomo minacciato dal controllo digitale di cui si è detto. La loro diversa intensità e modulazione, fino a tempi recenti tenute sotto controllo da scienza, tecnologia, medicina, sembrano aver acquistato maggiore intensità per l’irruzione sulla scena di un quinto spietato cavaliere: l’umanità stessa colpevole di aver drammaticamente alterato l’equilibrio ambientale, già del suo sempre fragile e provvisorio (l’intera storia dell’uomo è potuta avvenire nelle forme che conosciamo grazie ad una “parentesi” di circa ventimila anni, già breve del suo se misurata sui tempi geologici, di favorevole clima equilibrato).  La minaccia del quinto cavaliere non consiste solo nell’aver aggravato quella dei quattro classici cavalieri, ma anche nell’innescare il contesto più pernicioso per la libertà: il caos costante (il crescente squilibrio ambientale e climatico non procede per costanti linee progressive ma con passaggi da una crisi all’altra con diverso grado d’intensità), quello cioè che pregiudica la possibilità di ragionate e stabili politiche e scelte (il riscaldamento globale ci sta insegnando che gli uomini possono essere liberi solo se restano stabili i parametri di temperatura, composizione dell’aria e delle acque, di energia a sufficienza). Vale a dire che i limiti della nostra libertà sono conseguentemente fissati dal suo stesso sviluppo: più ci sentiamo liberi, e capaci di cambiare la natura, più creiamo condizioni naturali che possono cancellare spazi di libertà.  Non solo più ci sentiamo liberi, e capaci, di intervenire sulla stessa natura umana (manipolazione genetica, biotecnologie), più creiamo un uomo nuovo e nuove idee di libertà. In un contesto simile i limiti di funzionamento ed efficacia della democrazia sono inesorabilmente destinate ad esplodere, i vari populismi e sovranismi ne sono un evidente sintomo. Non è individuabile all’orizzonte una mobilitazione, di coscienze ed azioni concrete, all’altezza della posta in gioco, l’intero campo della politica si muove tra egoismi di parte e montante apatia. L’umanità si trova drammaticamente sprovvista di valori e idee adeguati e al tempo stesso di soggetti collettivi capaci di essere i potenziali protagonisti di una svolta: la fine del novecentesco ruolo salvifico della classe operaia ha lasciato un vuoto al momento non colmato. Nulla di cui stupirsi: nell’emergenza ambientale e climatica non esiste una individuabile classe liberatrice, siamo tutti indistintamente chiamati a rispondere a questa sfida in cui sono in gioco al tempo stesso libertà e sopravvivenza. L’umanità non è più chiamata solo a rompere le catene delle classiche schiavitù, oggi il rischio reale è quello di una umanità, tutta asservita a logiche di profitto nella loro versione ipertecnologica, composta da “servi che comandano servi”. Zizek in chiusura richiama una considerazione di Ghandi: il destino del servo è peggiore del destino dello schiavo, perché questi ha solo perso la sua libertà, mentre il servo della libertà è divenuto indegno. Nelle ultimissime pagine del saggio Zizek non smentisce sé stesso e la sua provocatoria abilità espositiva là dove, confermando che il tratto vero del Potere attuale è quello di un autentico “anarco-capitalismo”, la logica di profitto che si muove senza vincolo alcuno, al quale nulla e nessuno sembra opporsi con un minimo di efficacia, suggerisce, come provocatoria iperbole, di recuperare la lacaniana figura del “Grande Altro(quella colpita dalla forclusione di cui sopra) trasformata nelle vesti di un illuminato “Padre-Capo-Padrone” capace, come il barone di Munchausen, di tirare fuori dalla palude l’umanità ormai troppo passiva.