venerdì 20 luglio 2018

Il cervello raccontato - Articolo di Paolo Pecere


Il cervello raccontato
Tra neuroscienze, psicologia e letteratura,
 la nascita di un’epica moderna.



Articolo di Paolo Pecere (si occupa di filosofia e letteratura. Tra i suoi saggi "La filosofia della natura in Kant" (2009) e "Dalla parte di Alice. La coscienza e l'immaginario" (2015). Suoi racconti sono comparsi su "Nazione indiana" e "Nuovi argomenti". Nel 2018 ha pubblicato il romanzo "La vita lontana") apparso sulla rivista on-line La Tascabile



Il rapporto tra l’attività cerebrale e l’identità di una persona è un tema attualissimo, che fin dalle sue prime formulazioni moderne ha messo in questione il ruolo della narrazione: come può collegarsi l’operare dei miliardi di neuroni che compongono il cervello, e che procedono in parallelo senza un centro di elaborazione unitaria, con la linea narrativa in cui l’individuo cerca di strutturare la propria vita, facente capo al pronome “io”? La sfida delle neuroscienze rispetto alla psicologia individuale e alla narrazione fu formulata dal grande biologo Francis Crick in termini singolarmente brutali: “Tu, le tue gioie e le tue tristezze, le tue memorie e le tue ambizioni, il tuo senso dell’identità personale e del libero arbitrio, di fatto non sei altro che il comportamento di un’ampia assemblea di cellule nervose”. L’immagine dell’anima o della mente come città o parlamento, divisa e potenzialmente lacerata da conflitti, comune in filosofia da Platone a Hume, è ormai comunemente trascritta in termini neurologici. Ma l’urgenza di ribadire il fondamento materiale della mente non elimina la questione di capire come si formi un senso di identità, la cui natura autobiografica non sembra immediatamente comprensibile in una prospettiva neurocentrica. Il filosofo Daniel Dennett, nel tentativo di articolare questo scarto, ha presentato il sé come una singolare “rete di parole e gesti”, prodotta in modo solo parzialmente consapevole, che costituisce una componente essenziale della vita dell’individuo pur essendo esterna al corpo di quest’ultimo, così come la ragnatela per un ragno. Ma posto che il sé sia prodotto mediante l’elaborazione cerebrale, per molti studiosi questa descrizione è ancora insufficiente a dar conto dell’esperienza soggettiva e del modo in cui in questa ha una relazione di passività ma anche di attività rispetto ai processi cerebrali che ne costituiscono la base inconscia. Su questo punto neuroscienze, psicologia e letteratura hanno trovato un luogo di incontro.

Una lotta continua

Tra i documenti più straordinari di questo incontro vi è il manoscritto autobiografico redatto da Lev Zaseczij e poi rielaborato dal grande psicologo sovietico Alexandr Lurija nel suo Un mondo perduto e ritrovato (1971). Zaseczij era un giovane tenente dell’armata rossa, ferito alla testa da un proiettile tedesco, che in seguito alle lesioni cerebrali perse gran parte della memoria a lungo e a breve termine, restò quasi del tutto incapace di parlare e finanche di orientarsi nello spazio, conservando tuttavia una coscienza di sé perfettamente integra e scoprendo che, sebbene riuscisse a leggere e a concentrarsi sulle parole solo con estrema fatica e lentezza, era ancora capace di scrivere fluentemente. Ne risultò un progetto di scrittura durato oltre vent’anni anni, intitolato Storia di una ferita terribile o Lotto ancora!, tremila pagine in cui Zaseczij racconta il suo drammatico impegno quotidiano per recuperare in parte le proprie capacità e ricostruire un senso della propria vita, partendo dal ricordo di quel ferimento che, come scriveva, lo aveva trasformato in un altro: “Ho ripetuto spesso a tutti che dopo essere stato ferito sono diventato un’altra persona, che sono stato ucciso nell’anno 1943, il 2 marzo”. Nelle pagine di Zaseczij si trovano lunghe descrizioni di un’esistenza anomala e carente, di un “mondo frammentato” in cui l’individuo assiste impotente allo scollamento tra parole e cose, e la stessa immagine del proprio corpo è continuamente a rischio di perdersi.

E quando chiudo gli occhi non so nemmeno dove si trova la mia gamba destra, chissà perché ho sempre l’impressione (e la sensazione) che si trovi da qualche parte al di sopra delle mie spalle e persino al di sopra della mia testa; non riconosco mai la mia gamba (dal piede fino al ginocchio), non ne ho coscienza […] Sono seduto su una sedia e all’improvviso… divento alto, mentre il mio tronco di accorcia, la testa ora è piccolissima, sembra quella di un pulcino, non è possibile immaginare una cosa così nemmeno volendo!

In questa storia di trasformazione del corpo e del mondo, che ricorda a tratti Alice nel paese delle meraviglie, Zaseczij era al tempo stesso il tragico eroe e il narratore. Il suo diario è anche la testimonianza di uno scrittore che consacra la vita alla propria opera e trova in essa un percorso di realizzazione altrimenti impraticabile. Scriveva di continuo per tornare a essere qualcuno emergendo da un’esistenza di “ombra”, poiché solo scrivendo riusciva a pensare e a comunicare:

Questo volevo ottenere scrivendo quasi ogni giorno il mio unico racconto sul ferimento alla testa subìto, sulla successiva malattia alla testa e su come volevo vincere questa malattia per mezzo del mio racconto, affinché tutti lo sapessero… È già il terzo anno che lavoro al racconto sulla mia disgrazia e su questa malattia. Si tratta di una specie di riflessione, di studio, di uno scrivere di sé e di un lavorare su se stesso. È un lavoro che tuttavia mi calma, perché comunque sia io lavoro; inoltre grazie a questo lavoro ripetuto (quante volte nel corso degli anni ho riscritto questo lavoro-racconto) il mio linguaggio migliora, parlo meglio ricordando le parole frantumate dalla ferita e dalla malattia e sparpagliate in disordine da qualche parte dentro la mia testa. L’importanza della testimonianza autobiografica per comprendere gli stati patologici non era nuova, anzi era un punto fermo fin dagli albori della neuropsicologia moderna nel Settecento. In uno dei primi manuali di psicologia sperimentale (intesa come la scienza fondata sull’osservazione, che non si occupa dell’anima in senso metafisico) Jakob Friedrich Abel scriveva che lo studio sperimentale della mente individuale richiede la stesura di un resoconto «individuale, lungo e complesso» e una rivista di psicologia intitolata “Conosci te stesso”, diretta da Karl Philipp Moritz, raccoglieva storie esemplari di stati anomali o patologici come il sonnambulismo e la cleptomania. Non a caso Moritz fu anche autore del “romanzo psicologico” Anton Reiser: il romanzo moderno attinse moltissimo a queste ricerche, e lo sviluppo della neurofisiologia – che nel corso dell’Ottocento cominciò a localizzare dettagliatamente le funzioni cognitive nella corteccia cerebrale – continuò a alimentare di curiosità e sgomento tra gli scrittori, portando sempre più alla luce le trasformazioni, le lacune, e finanche lo sdoppiamento che la personalità può subire a causa di avvenimenti cerebrali.

Biografie e letteratura

Tra i prodotti esemplari di questa interazione scientifico-letteraria si può includere senz’altro Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde di Stevenson (1886), che contiene un’ampia narrazione in prima persona di un individuo sdoppiato. L’autore era interessato in prima persona al tema e aveva personalmente inviato diversi resoconti autobiografici alla Society for Psychological Research. In Un viaggio in canoa nei fiumi della Francia (1878), Stevenson descriveva così la propria esperienza di smarrimento:

Ciò che i filosofi chiamano l’io e il non io, l’ego e il non ego, mi preoccupava, che lo volessi o meno. C’era meno io e più non-io di quanto ero abituato a aspettarmi. Osservavo qualcun altro, mentre stava remando; io ero consapevole delle estremità di quel qualcun altro poggiate contro il puntapiedi; il mio corpo sembrava non avere più intima relazione con me di quanto avessero la canoa, il fiume e le rive. Né ciò era tutto: qualcosa dentro la mia mente, una parte del mio cervello, una zona del mio essere si era liberata dalla leale sudditanza e aveva preteso di fare da sé, o forse di agire in favore di qualcun altro che continuava a remare. Mi ero rimpicciolito a minutissimo essere in un angolo di me stesso. Ero isolato nel mio stesso cranio. I pensieri si presentavano spontanei; ma non erano i miei pensieri, erano semplicemente i pensieri di un altro, e li consideravo come parte di un paesaggio.

Leggendo questa pagina vengono in mente i diagrammi neurologici con cui pochi anni dopo Sigmund Freud avrebbe illustrato la sua ipotesi sulla separazione tra l’io e le istanze inconsce della psiche: Freud assegnava all’io una specifica area nel sistema nervoso, separata dall’area dell’inconscio. Il conflitto tra le diverse componenti dell’anima diveniva così un dramma neurologico. Freud avrebbe poi abbandonato questa trascrizione della teoria psicanalitica, ritenendola prematura, ma avrebbe ribadito la tesi secondo cui l’Io non è padrone in casa propria. L’Io diveniva dunque un portavoce della coscienza continuamente attraversato, se non dominato, da pulsioni e condizionamenti inconsci di varia origine, sedimentati nella biologia della psiche. In questo modo la stessa idea di responsabilità morale veniva messa in dubbio, mentre prevaleva l’immagine di un soggetto permeabile e inaffidabile. L’enorme impatto che queste idee ebbero sulla letteratura dell’epoca è ben noto, da Arthur Schnitzler a Italo Svevo e oltre. Anche nel cinema questa situazione trovò numerose espressioni. Basti pensare alle parole di Hans Beckert, l’assassino seriale di bambine, che si difende davanti a una giuria di criminali che vogliono linciarlo nel finale di M. Il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang: “Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi? Chi può sapere come sono fatto dentro? Che cos’è che sento urlare dentro al mio cervello? E come uccido: non voglio! Devo! Non voglio! Devo!”. Freud mostrava come la narrazione non dovesse essere soltanto la forma di resoconti storico-clinici – un metodo corrente in medicina fin da Ippocrate – ma potesse far parte anche della terapia: l’analista doveva comprendere i racconti del paziente e proporne di nuovi, mirati a riportare alla coscienza parti rimosse del suo vissuto. Queste idee furono tra le fonti della «scienza romantica» teorizzata da Lurija in Unione Sovietica (dove la psicoanalisi sarebbe stata bandita), come necessario complemento dell’approccio «classico» fondato sulla scomposizione dei fattori neuropsicologici. L’obiettivo di fondo era dar conto della ricchezza del soggetto e della dimensione di «dramma» della vita psichica, che nessuna conoscenza anatomica e fisiologica poteva descrivere adeguatamente.

Lo sguardo di Sacks

Negli Stati Uniti fu Oliver Sacks a riprendere questo approccio, parlando di “neurologia dell’identità” o “dell’esperienza viva”, di approccio “esistenziale”, di “fisiologia personale o proustiana”. Nei casi clinici narrati in un classico come L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), Sacks mostra come lo sforzo di comprendere il mondo interiore di un paziente neurologico, ricostruendone la storia, portasse a risultati terapeutici straordinari. Come la scrittura per il paziente di Lurija, seguire un’azione, un filo drammaturgico, il tratto di un disegno, aiutava i pazienti “incurabili” di Sacks a trovare una realizzazione emotiva altrimenti negata. Così Jimmie, vittima di una irreversibile amnesia che lo costringe a vivere in un eterno presente del 1945, recupera attenzione e pace soltanto quando ascolta musica o partecipa a una liturgia.  Rebecca – che per le gravi mancanze cognitive e motorie era definita dalle cartelle cliniche “un fantoccio”, una “idiota motoria” – aveva recuperato una serenità partecipando a un laboratorio di teatro. Lei stessa aveva confessato a Sacks il suo bisogno di seguire una sceneggiatura per evadere dalla sua condizione di paralisi esistenziale: “Sono come un tappeto, un tappeto vivente. Ho bisogno di un motivo, di un disegno come questo sul suo tappeto. Se non c’è un disegno, vado in pezzi, mi disfo». Per Sacks, se il cervello è un “telaio incantato” come lo ha definito il grande neurologo Sherrington, è necessario dunque che il suo funzionamento tessa strutture narrative:

Ciascuno di noi è una biografia, una storia. Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi – attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni; e, non ultimo, il nostro discorso, i nostri racconti orali. Da un punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro; storicamente, come racconti, ognuno di noi è unico.

Allo sguardo di Sacks quelle che dal punto di vista medico non sono che patologie – come la discinesia e le stravaganze indotte dalla sindrome di Tourette o la reminiscenza incontrollata di musiche d’infanzia o di fantasie erotiche – apparivano come una componente essenziale a definire la personalità del paziente, che non poteva essere del tutto eliminata senza sconvolgerla.

Casi di studio

La narrazione neurologica, come stiamo vedendo, è stata soprattutto una narrazione elegiaca, di smarrimenti irreversibili e tentativi di recupero, di sdoppiamenti e trasformazioni, al cui centro c’è il rapporto della coscienza con la sua matrice oscura. Attraverso i tanti personaggi di questo canone letterario è possibile, come fa Sam Kean ne Il duello dei neurochirurghi (2017), illustrare la nascita delle conoscenze neurologiche. Un famoso esempio di trasformazione, ripreso anche da Kean, è quello di Phineas Gage. Gage era un operaio ferroviario che ebbe un gravissimo incidente sul lavoro: una sbarra di ferro gli attraversò la testa, distruggendo i lobi frontali della corteccia cerebrale. Sopravvissuto, cambiò profondamente personalità. Divenne incostante, sboccato, insolente, capriccioso. Perse il lavoro, finì a lavorare in un circo, morì a trentotto anni. Un commovente dagherrotipo lo ritrae in piedi, con l’orbita vuota che regge la sbarra del suo incidente, che aveva chiamato «il compagno costante per il resto della mia vita». L’incidente, la lacuna, lo avevano reso un’altra persona.

Mentre simili casi neuroscientifici non smettono di interessare i ricercatori, il loro evidente potenziale narrativo continua a ispirare gli scrittori. Un esempio recente è Richard Powers, che ne Il fabbricante di eco (2006) narra la vicenda di Mark, che una grave lesione cerebrale rende emotivamente incapace di riconoscere la sorella Karin, facendogli sospettare che lei sia un impostore. Karin chiede aiuto al dottor Weber, un noto neurologo (personaggio ispirato probabilmente a Gerald Edelman, pioniere degli studi su coscienza e cervello), che diagnostica in Mark una sindrome di Capgras. Partendo da queste premesse si compone un racconto inquietante sulla fragilità e la mutevolezza dell’identità personale, in cui Powers ha voluto “gettare uno sguardo sulla solida, continua, stabile e perfetta storia che tentiamo di costruirci sul mondo e su noi stessi, e al tempo stesso alzare il tappeto e scrutare la cosa amorfa, improvvisata, disordinata e piena di crepe e lacune che sta sotto tutta questa narrazione”. Mentre Mark infine recupera la verità sulla propria storia, è il dottor Weber a perdere gradualmente le proprie certezze, rimuginando insonne sulla sua scienza: il cervello si modifica continuamente con l’esperienza, mediante processi biochimici e vere e proprie trasformazioni strutturali; così facendo modifica i ricordi, mettendo continuamente in gioco l’identità che dovrebbe tenere insieme e distinguere l’individuo dagli altri. Infine questa identità appare come un equilibrio superficiale e transitorio: “L’io è un quadro dipinto su quella superficie liquida”.

Scienza e coscienza

Ma il progresso delle neuroscienze, oltre a ispirare visioni patologiche e perdita di certezze, ha anche promesso un sapere che fornisca nuova padronanza della coscienza. Questo itinerario è stato ben raffigurato dallo psichiatra Giulio Tononi in Phi. Un viaggio dal cervello all’anima (2012), un vero e proprio romanzo filosofico sulle neuroscienze presenti e future. Tononi narra un viaggio che attraversa l’Inferno e il Purgatorio delle mancanze e delle perdite, per giungere a un Paradiso del sapere capace di padroneggiare la coscienza mediante le sue basi fisiche. Il protagonista della narrazione di Tononi è Galileo Galilei, nei panni di un Dante della modernità scientifica chiamato a interrogarsi sulla straordinaria capacità per cui un frammento di materia può comprendere l’universo e – come si legge nei versi di Emily Dickinson – risulta “più grande del cielo”:

Ogni cervello non è che un’inezia nel vasto inventario dell’universo: una gelatina tremolante alloggiata in una tazza d’osso, una pagnotta coperta da un cappello, una misera spugna che un bicchiere di vino basta a ubriacare, e un pugno basta a farla a pezzi. Come può il cervello contenere il cielo?

Nella prima parte del viaggio, Galilei, accompagnato dal già citato Francis Crick, apprende come la coscienza appaia e scompaia, subisca lacune, si sdoppi. In seguito la sua guida diviene Alan Turing, pioniere dell’intelligenza artificiale, che lo introduce a una teoria della coscienza, intesa come capacità di integrare le informazioni propria di sistemi fisici e dotata di un grado misurabile. Istruito su questa scienza futura, che permetterà di comprendere, modificare e riprodurre gli stati coscienti, Galilei è guidato infine da Charles Darwin a esaminarne le implicazioni, ovvero la piena comprensione di quella «luce interiore» che si riflette nell’arte, nella letteratura, nelle esplorazioni e in altre imprese umane, irradiandosi dal nostro cervello. Questo paradiso delle neuroscienze è lo stesso territorio di cui parlano libri di futurologia in cui si immagina un perfetto controllo delle emozioni e un enorme potenziamento cognitivo, come fa per esempio Yuval Harari in Homo deus (2015). Come sempre, il passo dall’utopia alla distopia è brevissimo, e la prospettiva del controllo e della riproducibilità tecnica degli stati coscienti appare a molti come un sogno che prefigura una società fortemente inegualitaria, dove l’individuo umano sarebbe destinato a una crescente irrilevanza sociale e politica. Del resto lo stesso Tononi, quando in Phi raffigura la possibilità che si possano indurre nuovi artificiali stati di coscienza, lo fa inventando un episodio angosciante che richiama il Kafka di Nella colonia penale: uno scienziato che opera un macchinario capace di produrre un dolore innaturalmente intenso agendo sul cervello degli individui. ’influenza onnipresente della neuroscienza è capace di ispirare finanche l’immaginazione di condizioni che trascendono la condizione umana. I casi di agnosia osservati in individui umani perfettamente coscienti e intelligenti – come l’incapacità di riconoscere oggetti, parti del corpo o espressioni facciali – suggeriscono l’esistenza di forme di coscienza diverse e diversi modi di sentirsi identici, quali quelle che possono caratterizzare altre specie animali. Così la coscienza dei polpi, delle balene o dei pipistrelli diventano oggetto di speculazione, anche se il pensiero resta incapace di immedesimarsi in quell’alterità di mondi e esistenze, come a volte ha sognato di fare la letteratura. Ma il confronto tra noi e gli individui che mancano delle nostre capacità cognitive suggerisce, per analogia, l’immagine di stati mentali a cui non possiamo accedere a causa dei nostri limiti cerebrali, e che pertanto sono trascendenti ma nondimeno reali. Si tratta di un salto che è stato spesso teorizzato dai filosofi – per esempio nell’immaginazione degli angeli (Tommaso) o degli abitanti di altri pianeti (Kant), e che è stato recentemente ripreso, in forma narrativa, da Mircea Cartarescu in Abbacinante. L’ala sinistra (2000). Nel romanzo di Cartarescu è insistente l’indicazione del cervello come luogo della percezione e del pensiero, “organo interno che riflette la totalità come la perla riflette intorno a sé la polpa martoriata dell’ostrica”. Ma il cervello è al tempo stesso condizione e limite. Invocando la possibilità di una superiore condizione spirituale, ostacolata dalla gabbia materiale, Cartarescu insiste sulla piccolezza e fragilità del nostro organo:

Che cosa possiamo recuperare in noi stessi? L’anima? Il corpo stellare? La coscienza? Un banale tumore li annulla, un nodulo epilettico turba la memoria, l’immagine delle natiche di una donna ti blocca il pensiero, un’ingiustizia ti proietta in un puro delirio paranoico, un incubo ti raggela dalla nuca alla fronte… E tutto accade su un granello di sabbia di una spiaggia delle dimensioni dell’universo.

A questa limitatezza Cartarescu oppone la fede in una realtà metafisica che oltrepassa le capacità intellettive. È significativo che queste idee antiche trovino appoggio in metafore neurologiche, a testimonianza di quanto questo sapere fornisca oggi i termini per descrivere la condizione umana, anche quando lo si voglia depotenziare o distruggere in nome della fede:

Esiste nel nostro cervello una pompa a vuoto, un cuore neurale le cui lunghe tempeste di luce d’oro veicolano in tutte le regioni, in tutte le province e in tutti i distretti del nostro corpo graziosi messaggeri che nuotano nel siero della fede. Lo stesso Giudizio universale appare a Cartarescu come effettuato sui neuroni che identificano ogni individuo, e la comunità dei beati come «un cervello nuovo, fantastico, universale, abbacinante, grazie al quale, incoscienti e felici, saliremmo a un livello più alto nel frattale dell’Essere eterno». Il canone della narrazione neurologica, di cui abbiamo ripercorso alcuni esemplari, appare al tempo stesso come un patrimonio scientifico e un’epica moderna, capace di attraversare scienza e finzione, razionalità e sogno. Il tratto unificante di questa koinè culturale è il cervello come sede di memoria e condizionamenti, segreti imbarazzanti che l’io mal sopporta e potenzialità inesplorate che possono cambiare la vita. Già il maestro di Lurija, lo psicologo Lev Vygotskij, sviluppando un’immagine di Freud paragonava il neuropsicologo a uno storico, a un geologo e a un detective, poiché tutti questi ricercatori “ricostruiscono i fatti che non ci sono più mediante metodi indiretti”. In questo paradigma siamo oggi più che mai. La storia cerebrale è il sottotesto costante di ogni racconto su noi stessi.

domenica 15 luglio 2018

Il "saggio" del mese - Luglio 2018


Il “saggio” del mese
Luglio 2018


 

Il libro che presentiamo non è collegato direttamente agli argomenti che ultimamente sono stati proposti all’attenzione dei nostri lettori, pur attenendo in senso lato al tema della disuguaglianza che come associazione culturale sentiamo come particolarmente cogente. Si tratta infatti di un saggio (monumentale) su di uno dei principali snodi in cui essa si manifesta in questo nostro pianeta che trabocca di cibo, ma nel quale molte persone non hanno accesso ad una alimentazione decente, oltre a tutto ciò che una vita dignitosa richiederebbe. Lo ha scritto un giornalista e scrittore argentino, Martín Caparrós, che dopo gli anni dell’esilio in Spagna e in Francia, dove si è laureato in storia alla Sorbona, si è dedicato ad una intensa attività di giornalismo investigativo lavorando presso diverse testate giornalistiche, radiofoniche e televisive e scrivendo nel contempo molti saggi e romanzi.
Fra le opere tradotte in Italiano, segnaliamo:
IL LADRO DEL SORRISO (Ponte alle Grazie 2006)
NON E’ UN CAMBIO DI STAGIONE: UN IPERVIAGGIO NELL’APOCALISSE CLIMATICA  (Edizioni Ambiente 2011)
AMORE E ANARCHIA. LA VITA URGENTE DI SOLEDAD ROSAS (Einaudi 2018)
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Davanti a questo libro “monstre” (più di 700 pagine!) non possiamo fare a meno di chiederci che cosa abbia spinto questo giornalista-scrittore a compiere un così lungo e faticoso viaggio, che lo ha portato ad attraversare quasi tutti i continenti (dal Niger al Madagascar, dall’India al Bangladesh, dagli Stati Uniti all’Argentina) per parlare di qualcosa che è davvero molto complicato da raccontare.
Il tema della fame è infatti disseminato di trappole non facilmente evitabili, come lo stesso autore riconosce nel testo. Quella del sentimentalismo in primo luogo, altrettanto pernicioso a suo giudizio del luogo comune su cui in effetti è sempre facile scivolare, e ancora quella del sensazionalismo che certo può solleticare l’attenzione dei lettori, ma che non si addice ad una questione che di eccezionale non ha proprio nulla.
La fame non è infatti un evento fuori dal comune – nel testo non si parla di carestie, che del resto in qualche modo ultimamente sembrano arginabili – ma è piuttosto, secondo quanto emerge dal libro, uno stato costante che condiziona la vita di almeno un miliardo e mezzo di persone (una ogni sette, in un pianeta come il nostro che potrebbe nutrirne almeno dodici miliardi), portando con sé accompagnatori altrettanto funesti. La denutrizione, l’impossibilità di poter assumere degli alimenti in modo regolare e in quantità sufficiente  espongono infatti non solo a malattie che sarebbero altrimenti curabili (come vedremo seguendo l’autore in un percorso che lo ha portato, soprattutto negli ambulatori africani di Médecins sans frontieres, a condividere in molti casi l’impotenza dei soccorritori),  ma  obbliga chi cerca di sfuggire alla fame ad accettare lavori degradanti, a  non potersi difendere da coloro che detengono il potere di dare o negare cibo, lavoro, dignità, a reiterare fatalmente percorsi familiari di miseria e di degrado sociale e culturale senza  riuscire a compiere un percorso di emancipazione, superando anche gli ostacoli che possono venire dalla tradizione e dalle superstizioni che ad essa spesso si accompagnano e su cui Caparrós non fa certo sconti.
Altrettante trappole peraltro si nascondono, a suo giudizio, quando si affronta il problema delle cause, perché se è giusto riconoscerne la complessità – e in effetti non si può negare che esse siano composite e difficili da districare - può essere ad un certo punto fuorviante addentrarsi in un livello di spiegazione troppo sottile e complesso in cui tutto si tiene, perché c’è il rischio di rimanerci avvoltolati senza scorgerne il nucleo brutale: è cioè il fatto che al di là della rapina coloniale e della voracità di un capitalismo che sui nostri desideri sollecitati ed ampliati fonda i suoi profitti giganteschi, c’è una parte del mondo che per vivere meglio decide che   può o deve o le conviene tenere nella miseria un’altra parte, e fa sì che tutti quei meccanismi esistano, funzionino, diano i risultati che danno” .
Una parte del mondo in cui ci siamo anche noi che stiamo leggendo o che ci accingiamo a leggere questo libro, e in cui c’è l’autore stesso che non se ne tira fuori, anzi: solo sta cercando – pur nella consapevolezza della difficoltà del compito - di non comportarsi come quei convitati al banchetto di Nerone di cui riferisce Tacito, che nulla obiettarono al fatto che gli splendidi giardini fossero illuminati da torce umane (se vogliamo usare un riferimento sicuramente urticante che  Caparrós ci propone, riprendendolo a sua volta da Amarthya Sen).
Certo, dietro questo sforzo che ci chiama a rispondere e a non distogliere lo sguardo c’è un uomo che ha già dovuto misurarsi, negli anni giovanili, con esperienze potenzialmente devastanti (la dittatura, l’esilio) e alle cui spalle, come scopriamo leggendo il testo, c’è l’eco di una tragedia familiare  che ha lasciato il segno (come tutti gli  abitanti del ghetto di Varsavia, anche una sua bisnonna è stata sicuramente costretta a sperimentare, prima ancora di essere soppressa nelle camere a gas di Treblinka, l’atroce programma di annichilimento per fame messo in atto dai nazisti, di cui alcuni medici ebrei  hanno testimoniato con dovizia di particolari i drammatici effetti).
Esperienze e ricordi che hanno certamente influito sulla sensibilità di un giornalista che ha sempre dimostrato coraggio e passione investigativa, e che probabilmente è  stato spinto a scrivere questo saggio sulla geografia della fame anche dall’amara visione  del suo paese, in cui la fertilità della terra è stata messa al servizio  delle multinazionali che hanno imposto le coltivazioni della soia destinata in gran parte all’esportazione e all’alimentazione animale: il consumo di carne sta infatti crescendo in quei paesi che si affacciano ora al benessere – vedi la Cina, i cui maiali vanno nutriti… Di conseguenza è venuta a determinarsi l’urbanizzazione forzata di molti contadini, trasformati in sottoproletari poveri ridotti spesso a rovistare nella spazzatura in cerca di cibo (lo vedremo in una delle pagine più impressionanti del testo, che del resto molte altre ne offre).
Come molti commentatori hanno evidenziato, in questa descrizione di un mondo che in genere non vogliamo vedere (o verso il quale può spingerci un altrettanto inefficace coinvolgimento moralistico, che lascia  inalterate le strutture  politiche e sociali della disuguaglianza) e in cui veniamo invece  abilmente  condotti tra dialoghi e storie di vita, riferimenti storici e analisi sociale, l’autore si dimostra un degno esponente di quella scuola sudamericana detta cronica, che fonde reportage e letteratura. In effetti quello che viene chiamato nel testo “AltroMondo” ha ricordato, alla lettrice che presenta ora questo libro, l’allucinato “Paese delle Ultime Cose” nato dalla fantasia distopica dello scrittore statunitense Paul Auster, peraltro con una resa drammatica ancora maggiore dal momento che in Caparrós l’abilità narrativa è messa al servizio della realtà.
Quello che proponiamo è dunque un libro davvero coinvolgente per la passione che lo anima e per l’ampiezza dello sguardo, dunque meritevole di questo nostro invito alla lettura nonostante la mole e l’inquietudine che certo ne deriverà, comune del resto a molti dei testi che vengono presentati in questa sezione destinata alla riflessione.
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Per CircolarMente,
Enrica Gallo

domenica 8 luglio 2018

Emozione, ragione e sentimento - Intervista ad Antonio Damasio


Emozione, ragione e sentimento



Riprendiamo con questo articolo, non solo un precedente post pubblicato a Marzo 2018 di presentazione proprio del saggio di Antonio Damasio, ma in particolare alcuni temi, quali  Intelligenza Artificiale, Intenzionalità, Post-umano, che, in relazione a conferenze già tenute e ad altre previste nei futuri programmi di Circolarmente, riteniamo meritino la nostra attenzione e  riflessione



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Dai batteri all’uomo, intervista ad Antonio Damasio, neuroscienziato e autore di  Lo strano ordine delle cose” -  Adelphi 2018, di Matteo De Giuli ,  senior editor del Tascabile, collabora con Radio3 Rai, al microfono a Radio3 Scienza. Co-autore di una newsletter che si chiama MEDUSA publicata dalla rivista on-line La Tascabile



Lo vedo a tentoni”, mi dice Antonio Damasio, in italiano. È la citazione di Shakespeare con cui ha scelto di aprire Lo strano ordine delle cose: Re Lear, quarto atto, scena sei. A parlare è il vecchio Conte di Gloucester, cieco. Rende meglio in inglese, però, aggiunge Damasio: “I see it feelingly”, un’espressione che non evoca solo il tatto, come in tentoni, ma anche altri modi di conoscere il mondo: quelli che passano attraverso le sensazioni e, in senso più ampio, i sentimenti. Sentimenti ed emozioni sono l’oggetto del lavoro scientifico di Damasio ormai da tempo. Neuroscienziato statunitense, nato a Lisbona, direttore del Brain and Creativity Institute della University of Southern California, Damasio è autore di ricerche considerate fondamentali per le nostre conoscenze sul rapporto tra cervello e coscienza, studi sulla memoria, sull’Alzheimer e sul ruolo delle emozioni nel processo decisionale. Damasio è anche uno scrittore di successo e, come sottolinea Paolo Pecere nella recensione di Lo strano ordine delle cose, i suoi libri non sono soltanto saggi divulgativi. Partendo solitamente da qualche riflessione sullo stato dell’arte della ricerca neurobiologica, raccontano le radici dell’uomo in un contesto più ampio, che raccoglie nello stesso sguardo la ricerca scientifica, la storia culturale e quella del pensiero.

A proposito di Shakespeare, lei lo ha definito uno dei neuroscienziati che stima di più al mondo.

È così, Shakespeare aveva una capacità sbalorditiva di comprendere la mente e il comportamento umano, era in grado di descriverli con molta precisione. Per esempio, la frase “I see it feelingly”, l’idea che si possa vedere tramite le proprie sensazioni – un modo che non coinvolge solo il tatto perché il personaggio, in questo caso, è cieco – è proprio l’idea di scoprire l’umanità tramite i sentimenti, la stessa alla base della mia ricerca. Shakespeare è molto preciso. Nelle tragedie, in particolare, si trovano bellissime descrizioni di condizioni molto reali della mente umana.

Nei suoi di libri invece c’è molta filosofia, che lei cerca spesso di ricollegare alle ricerche scientifiche di frontiera.

Perché le neuroscienze sono al tempo stesso una cosa nuova e una cosa non poi così nuova. Abbiamo il dovere di collegarci al passato: è ovvio che il modo in cui studiamo il cervello oggi sia più avanzato, perché abbiamo strumenti scientifici migliori, ma le ricerche di oggi non costituiscono la storia completa. Allargare lo sguardo è quello che mi piace fare in relazione a Shakespeare e alla sua incredibile profondità di comprensione, lo stesso vale per Spinoza. Il modo in cui Spinoza mette sullo stesso piano mente e corpo, li fonde, è incredibilmente lungimirante. È come se avesse anticipato quello che la scienza, oggi, con i fatti, ha dimostrato essere vero. Dobbiamo riconoscere il debito che abbiamo nei suoi confronti. Anche se il mio lavoro non è ispirato da Spinoza, mi sono rivolto a lui perché ero curioso di quello che aveva fatto e perché era parte della storia di ciò che studiavo. Allo stesso modo, sarebbe bello se tra 50 anni qualcuno si guardasse indietro e dicesse: “Quel tipo, Damasio, ci aveva preso su qualcosa”. [ride]

Quando ha deciso di iniziare a studiare i sentimenti si è ritrovato in un campo di ricerca in quel momento praticamente inesistente.

È vero, e anche questo è interessante proprio da un punto di vista storico. Nel Diciannovesimo secolo esisteva un campo di ricerca vero e proprio. Pensi per esempio a William James, uno dei giganti della filosofia. Aveva una mente incredibilmente ricca, studiava qualsiasi cosa, dalla coscienza al linguaggio, le emozioni, i sentimenti, parlava di creatività e religione. Era un pensatore a tutto tondo. Quando parlava di emozioni, le persone lo rispettavano. All’incirca nello stesso periodo, c’era anche Freud, che era chiaramente molto interessato alle emozioni, ai sentimenti e a cercare di capire la mente umana. Nel corso del secolo, però, c’è stato uno sviluppo nelle tecniche in grado di scavare in profondità non solo nella mente, ma nel cervello. Così si è iniziato a prestare un’enorme attenzione a cose che non potevano essere studiate prima. Per esempio: la vista, l’udito, la memoria, le operazioni dell’intelligenza cognitiva, il linguaggio. Già nel 1950 ci si confrontava con l’eredità di Alan Turing nelle scienze computazionali, Chomsky per la linguistica, e un altro gruppo di persone che studiava la vista – ammiro molto David Hubel, che raggiunse un’enorme comprensione della materia – ricercatori che non volevano però lasciarsi distrarre dallo studio dei sentimenti, delle emozioni, che a quel punto erano considerati roba vecchia. All’inizio della mia carriera come neurobiologo ero determinato a studiare la mente umana. Un collega neurologo mi disse: “È stupido, non farlo, il futuro della neurologia è nelle malattie muscolari”. E poi, più avanti, tra il 1990 e il 1995, ho deciso di dedicare il mio intero laboratorio al lavoro sulle emozioni e i sentimenti. Mi ricordo una conferenza che ho tenuto alla Società di neuroscienze, c’era questo mio collega in prima fila – un esperto della memoria, come me all’epoca – che scuoteva la testa come a dire: “Questo poveretto si sta davvero rovinando la carriera”. Più avanti abbiamo creato il primo simposio sulle emozioni umane, e adesso tutti studiano le emozioni e i sentimenti.

Sulla sponda opposta, i sentimenti e in generale il comportamento umano sono considerati da umanisti e letterati come ambiti troppo ricchi, unici e complessi per essere spiegati dalla scienza, percepita come troppo fredda e analitica.

Sì, e infatti ho incontrato molto spesso anche quest’altro tipo di problemi. È la paura dello spettro del riduzionismo, che spinge le persone a dire: “C’è troppa dignità, troppa complessità nell’uomo, perché possa essere a portata della scienza”. È interessante, perché le stesse persone di solito non si preoccupano degli scienziati che studiano particelle sub-atomiche. Non vedono nulla di sbagliato nel sondare i bosoni, ma allo stesso tempo sono molto preoccupati se si vanno a esplorare le particelle del pensiero. Come se una cosa fosse più naturale o dignitosa dell’altra.

Questo ci porta a Lo strano ordine delle cose. Provo a riassumere il libro in una frase: è la storia di come possiamo trovare i semi delle culture e delle civiltà umane anche nel comportamento dei batteri e degli organismi unicellulari, perché c’è qualcosa di preumano che condividiamo con le altre specie, qualcosa che in noi si manifesta poi sotto forma di sentimenti ed emozioni, sentimenti ed emozioni che sono stati la forza motrice che ha portato alla costruzione delle culture e delle società umane.

[ride] Ha passato l’esame.

E non c’è un po’ di riduzionismo anche in questa sua visione?

No, perché non sto riducendo gli esseri umani, e i pensieri umani, ai batteri. Sto facendo l’opposto. Sto cercando di portare i batteri e altre creature semplici come gli insetti sociali, che sono stati a lungo dimenticati e poco studiati, a un livello più alto, perché hanno già delle caratteristiche simili alle nostre. Non sto riducendo, sto amplificando in entrambi i sensi e cercando di far vedere alle persone l’incredibile ricchezza e dignità della vita in generale. L’altro giorno, durante una conferenza, Carlo Rovelli mi ha fatto una domanda molto interessante, che riguardava la memoria, e mi ha portato a riflettere sul fatto che la ricchezza della memoria umana ci rende davvero unici: perché siamo in grado di ricordare un’enorme quantità di esperienze e, cosa ancora più speciale, siamo in grado di ricordarci i programmi che facciamo per il futuro, tutto quello che vogliamo ottenere nella vita, le persone che amiamo. Questa capacità di proiettarci nel futuro e di relazionarci al passato, di costruire questa mappa, è unica. Grazie a questo tutte le nostre gioie e sofferenze hanno un valore aggiunto, non hanno solo un valore momentaneo come per gli altri animali.

Il concetto fondamentale per capire meglio il suo libro è quello dell’omeostasi e dell’imperativo omeostatico.

L’omeostasi in fondo è ciò che dicevamo prima: è la capacità, comune a tutti gli organismi viventi, di conservare l’equilibrio biochimico necessario alla sopravvivenza. Ed è un imperativo perché è l’unica via che permette la vita. È l’imperativo della vita: una serie di regolazioni naturali che ci permettono di cercare risorse e trasformarci. Senza non avremmo modo di sentire il motore della vitalità.

Che differenza c’è tra noi e i batteri sotto questo punto di vista?

Lo spirito di un essere è la sua vitalità, è quello che lo fa muovere. È qualcosa che anche le creature più semplici hanno. Poi, nel corso dell’evoluzione, si è arrivati a quest’altra cosa meravigliosa che è il sistema nervoso. I batteri hanno l’impulso ad agire, ma non c’è niente che ci faccia credere che pensino a come agire. Non agiscono in modo cosciente, intenzionale, di fatto agiscono automaticamente per eseguire le proprie funzioni vitali. Una svolta cruciale è arrivata solo con lo sviluppo del sistema nervoso: il comportamento viene regolato attraverso una rete nervosa, e grazie a questa rete a un certo punto subentra la possibilità di creare una mappa, e quindi di creare immagini. Non sto parlando di immagini visive, ma immagini dell’interiorità, del suono, dell’olfatto. Che è proprio la ragione per cui l’espressione I see it feelingly è particolarmente importante, perché queste immagini sono il punto di ingresso per i sentimenti. I sentimenti sono immagini dello stato del corpo. Quello che tu immagini non è questa tazza, o la sua temperatura o consistenza, ma lo stato del tuo respiro, delle molecole che conducono il processo. È il cervello che guarda dentro al proprio corpo, quindi la connessione e l’interazione sono totali. Una delle cose su cui insisto nel mio libro è che l’interiorità è la cosa più semplice da immaginare.

E nel libro sottolinea più volte proprio il rapporto stretto tra cervello e corpo.

Tendiamo a pensare al nostro cervello e al sistema nervoso come a qualcosa di separato dal resto del corpo. La verità è, appunto, che c’è un dialogo costante. Le fondamenta stesse della nostra mente risiedono nella conversazione che il nostro cervello ha con il nostro corpo. Noi due siamo separati nello spazio e abbiamo bisogno di una convenzione esterna come il linguaggio per entrare in connessione. Mente e corpo sono nello stesso spazio. Sono nello stesso sacco [in italiano].

Anche qui, incontriamo di nuovo un pregiudizio (e di nuovo un “pacchetto di neuroni”.

Sì, è terribile ma succede ancora. È un bias enorme. Per alcuni di questi scienziati le cose che dico nel libro sono completamente folli. Credono che il cervello da solo possa creare stati di coscienza. Ma chi l’ha detto che è da solo? È assieme al corpo. Il cervello produce la mente solo perché è collegato a tutto il resto, al nostro corpo e alle nostre vite.

E questo è il motivo per cui lei non crede che sarà mai possibile costruire un’intelligenza artificiale senziente, capace di provare emozioni.

Esattamente: l’idea errata che il cervello sia l’unico a produrre la coscienza porta anche all’idea, destinata a fallire, che si possa ricreare un essere vivente attraverso l’intelligenza artificiale. Non è così. Si può creare qualcosa di simile, magari anche qualcosa di più ingegnoso di noi due, perché penso che l’intelligenza artificiale sia già a questo punto. Le AI possono avere accesso a tutta l’informazione che vogliono, possono manipolare i big data come se non ci fosse un domani, possono inventare nuovi modi di processare informazioni, mentre noi siamo limitati ai vecchi metodi di induzione e deduzione. Possono essere e sono già super super intelligenti. Ma possono sentire? Possono essere coscienti? No, perché non hanno un corpo. I sentimenti non possono essere inventati: si possono simulare, ma la simulazione non è creazione.

C’è un altro concetto chiave nel suo libro: la differenza tra sentimenti ed emozioni.

Le emozioni sono la varietà più semplice, primaria, nel senso che derivano da un’azione – il termine stesso implica un movimento – e non sono necessariamente legate a un’immagine interiore, la mente non è implicata. Quando abbiamo il sentimento di un’emozione, in pratica abbiamo l’esperienza di quello che è successo durante quell’emozione. Quindi ad esempio, se mi dice qualcosa che mi spaventa, ci saranno un sacco di cambiamenti nel mio cuore e nel mio respiro, verranno rilasciati certi ormoni, le mie viscere si contrarranno, tutte queste cose. Ho un’emozione, che è azione. Quando ho l’esperienza di queste azioni che avvengono in me, quello è il sentimento. È una differenza elementare, però sono termini che confondiamo continuamente.

Quando parla di emozioni e di sentimenti, intende qualcosa di puramente elementare – istintivo – o qualcosa che può essere insegnato e appreso e che può evolvere e cambiare con il passare del tempo?

È qualcosa che può essere educato. Quanto possiamo trasformare le nostre emozioni è una bella domanda. Credo che possiamo fino a un certo punto. Per esempio, persone molto paurose possono imparare a domare la loro paura. Persone molto eccitabili possono lavorarci su. Il profilo emotivo di ognuno di noi è parte del nostro temperamento. Ci sono cose che ereditiamo e che possiamo manipolare fino a un certo punto, ma sono radicate molto in profondità. Possiamo cambiarle, ma non radicalmente. Se una persona è paurosa, probabilmente lo sarà per tutta la vita, anche se in parte si può attenuare. Si può imparare in diversi modi. Per esempio, molti anni fa ero su un aereo che ha rischiato di schiantarsi. È stato terrificante. Per un po’, tutte le volte che prendevo un aereo e c’era turbolenza mi spaventavo moltissimo – non al punto da urlare, ma mi sentivo molto a disagio. Poi pian piano la paura è scomparsa. Non è successo da un giorno all’altro, ma era dovuto alla ripetizione dell’esperienza positiva.

Il fatto, però, che la vita sia costantemente guidata da un “imperativo interno di continuazione” non significa che noi esseri umani dobbiamo basare i nostri comportamenti solo su quello, che non abbiamo bisogno di morale o etica.

Al contrario, credo che abbiamo sviluppato l’etica proprio seguendo lo stesso imperativo, che non significa istinto e caos. Abbiamo sviluppato l’etica perché eravamo abbastanza intelligenti come esseri umani da renderci conto che l’uomo ha probabilità più alte di sopravvivere se sta facendo qualcosa di buono per la sua vita e per quella degli altri. Pensa ai 10 comandamenti, sono un bell’esempio di sistema morale. A cosa servivano? In sostanza sono un insieme di regole che permettono di fare e ricevere il minor danno possibile e di stabilire regole che non sono altro che l’emanazione del principio omeostatico. Per questo insisto sul punto che le culture, che pensiamo siano spuntate dal nulla, sono, sotto tutti i punti di vista, la proiezione omeostatica nello spazio della cultura, nello spazio umano. I sistemi morali sono un buon esempio, ma anche i governi, l’economia (che poi è parte dei governi), le arti, la tecnologia. La medicina è un altro buon esempio. Cos’è? È un insieme di tecnologie che ai giorni nostri provengono in gran parte dalla scienza. Ma è lì per continuare l’omeostasi.

E quindi un altro modo di raccontare l’imperativo omeostatico è dire che gli uomini hanno formato le società e le culture per evitare sofferenza e dolore. Eppure oggi abbiamo ancora guerre e violenza o emozioni come rabbia, diffidenza, risentimento verso altri gruppi di persone.

Non siamo perfetti, al contrario. Bisogna sottolineare che tutto questo è un lavoro in corso, e che è molto debole sotto molti punti di vista. Dal momento che l’omeostasi si è sviluppata biologicamente per un singolo individuo, continua a lavorare in gran parte a livello personale. Penso che nei secoli siamo riusciti con successo a estendere l’omeostasi alla famiglia, alle persone che amiamo. L’abbiamo anche allargata a livello di tribù, e questa “omeostasi tribale” esiste da tanti, tanti anni. Ma è qui che arrivano i problemi. Perché le tribù combattono per i territori, per le risorse necessarie per mantenere la propria, di omeostasi. Quindi gli scontri tribali fanno parte del processo, ma c’è una parte che vince e una parte che perde. La grande sfida, alla quale la cultura sta provando a dare una risposta sotto molti punti di vista, è contenere gli scontri tra gruppi. Ma dal momento che ogni gruppo ha i suoi interessi omeostatici, non è facile. Dobbiamo imparare a operare in grandi gruppi, ed è una cosa delicata e difficile da fare.

L’obiettivo ultimo, in questo senso, sarà allargare il nostro cerchio sempre di più, costruire una tribù che contenga l’intera umanità?

Non mi stupirebbe che fosse questa la direzione finale. Me lo auguro, ma è difficile dire come e quando potrà essere raggiunto l’obiettivo. Per esempio, dopo la seconda guerra mondiale, una delle più distruttive di sempre, abbiamo affrontato altre guerre e altri ostacoli, ma di base siamo stati in grado di salvaguardare l’omeostasi su larga scala: prendiamo la creazione delle Nazioni Unite, o un esperimento come la Comunità Europea. È una cosa facile da fare? No. Basta guardare proprio l’Europa, con gli interessi del nord, più ricco, che non combaciano necessariamente con quelli del sud più povero. O considerare problemi enormi e complessi come le migrazioni. Come abbiamo intenzione di affrontarle? Come rispondiamo? Apriamo o chiudiamo le porte? Queste sono le scelte da fare.

Il libro si conclude con una riflessione sui tempi che stiamo vivendo, che lei definisce di crisi culturale.

Da quando ho finito il libro le cose non hanno fatto che peggiorare. La cultura occidentale sta attraversando una fase di trionfalismo, e per molti di noi le cose vanno piuttosto bene. Ma allargando lo sguardo, direi che non viviamo tempi felici. Non ho una ricetta per uscirne, ma penso che la soluzione passi per un’educazione massiccia, un grande sforzo di civilizzazione. Più sappiamo come noi stessi funzioniamo e maggiori sono le possibilità di fare progressi e di ridurre gli errori. In questo senso, bisogna rendere le persone più consapevoli di quello che sono, non solo dal punto di vista cognitivo ma anche dei sentimenti e delle emozioni, del significato del dolore e della sofferenza. Questo è il fattore determinante del rispetto nei confronti degli altri. Essere consapevoli delle nostre debolezze ci rende più rispettosi di quelle degli altri

domenica 1 luglio 2018

La parola del mese - Luglio 2018


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

Luglio 2018


Galeotta per la scelta di questa  “parola del mese” è stata una coinvolgente discussione avvenuta in una parte della tavolata della nostra cena di fine anno. Sollecitata da alcuni commenti al recente “Il saggio del mese” (“Vita 3.0” di Max Tegmark) ben presto, seppure, com’era giusto, in un contesto di rilassata chiacchierata conviviale, questa parola è diventata il parametro fondamentale per valutare le prospettive, e la sostenibilità etica, della I.A., della Intelligenza Artificiale. L’idea di proporla alla nostra attenzione come “parola del mese” va comunque oltre questa sua particolare applicazione, poiché essa, nella sua accezione filosofica completa, investe la struttura mentale e culturale umana nel suo complesso.


Intenzionalità

sostantivo femminile
Carattere risultante dalla partecipazione attiva e consapevole della volontà a un dato fatto.  

La definizione da dizionario, quanto mai sintetica e stringata, non deve trarre in inganno; le riflessioni che “intenzionalità” può sollecitare sono diverse e profonde; impossibile in questo spazio recuperarle in modo esaustivo; ci affidiamo ad una sua presentazione nella “Enciclopedia filosofica on-line Treccani” che ci è parsa una buona sintesi (per quanto non brevissima e “leggera”) del suo utilizzo esteso. Nel farlo chiediamo ai nostri lettori un poco di indulgenza per aver proposto un testo decisamente impegnativo in questi caldi tempi estivi, ma forse, a ben pensarci, la nostra “intenzionalità” era proprio quella di ribellarci all’assioma che vuole, nei mesi di gran caldo, mandare in vacanza non solo i nostri corpi ma anche le nostre menti


…………………….Il concetto di intenzionalità può essere compreso secondo molteplici percorsi, accomunati, però, da uno spostamento di senso che va dal concreto all'astratto e dal particolare al generale. L'intenzionalità è la qualità dell'essere intenzionale, e in quanto tale valorizza il 'fatto' che la maggior parte delle condotte animali appare direzionata, orientata a uno scopo. Nel caso dell'uomo queste condotte vengono descritte come incardinate su un''intenzione'. In effetti, il mondo fisico e sociale in cui l'organismo umano conduce la sua esistenza si pone come matrice di attività orientate. Ogniqualvolta l'organismo umano si rivela in relazione con il mondo attiva proprio questa modalità generale di funzionamento della mente: l'intenzionalità. Tale capacità psicologica è evidenziabile sia come proprietà della coscienza, sia come schema della rappresentazione segnica con cui opera la mente. Inoltre, se viene intesa riflessivamente, cioè come proprietà inerente all'essere soggetto nel mondo, l'intenzionalità emerge come tratto che specifica il racconto di sé con cui ogni agente umano - individuale e sociale - si assegna la sua mobile identità. Grazie all'intenzionalità, l'uomo si sperimenta come un essere capace di costruire oggetti verso cui indirizzare il suo impegno conoscitivo (oltre che produttivo). Definire la relazione uomo-mondo in termini di intenzionalità è il modo più ricorrente di sottolineare il carattere aperto e creativo della presenza umana nel mondo.

Contesti operativi dell'intenzionalità

Nel linguaggio ordinario il termine intenzionalità ricorre con maggiore frequenza e pregnanza di senso nei contesti giuridici, allorché si tratta di stabilire la natura premeditata degli atti imputati ai soggetti. Infatti, almeno nel sistema delle società occidentali, l'intenzionalità è anzitutto la qualità che assegna un preciso valore morale alle azioni. Di conseguenza, le persone possono e/o debbono (e di solito vogliono) essere ritenute capaci di portare il peso delle conseguenze connesse solo alle loro azioni intenzionali, perché in esse impegnano la loro pretesa di libero arbitrio. Se un poliziotto uccide un passante capitato per caso sulla traiettoria di un proiettile destinato a un pericoloso criminale, verrà punito molto meno severamente del criminale che orienta il suo proiettile su un passante per costringere il poliziotto a occuparsene, così da sfuggirgli. L'azione di premere il grilletto è la stessa, il fine perseguito è diverso. L'esperienza della morte fatta dal passante non discrimina tra proiettile 'intenzionale' e 'preterintenzionale', perché tale evento è l'effetto di processi che si svolgono sul piano fisico. La ricostruzione del fatto operata dagli organi inquirenti - attraverso criteri socialmente pattuiti, come i resoconti di testimoni, le dichiarazioni giurate, le confessioni, le prove balistiche, le videoregistrazioni ecc. - è interessata invece proprio alle differenze che, sul piano psicologico, sono riconducibili al tracciato di intenzionalità operante in quell'azione. Per interpretare che cosa intendono fare il poliziotto e il criminale mentre premono il grilletto, dobbiamo far ricorso a canoni intersoggettivamente validi, capaci di sondare le ragioni che innescano l'azione, per cui siamo in grado di stabilire una diversa configurazione per lo stesso stato intenzionale: mentre il poliziotto crede di star seguendo la regola che sottende la sua funzione di difesa sociale e personale, il criminale crede di essere costretto a violare qualsiasi regola nell'intento di procurarsi una via di fuga.

L'esempio chiarisce la portata pratica e il radicamento psicologico dell'intenzionalità: noi siamo interessati a riconoscere quali intenzioni hanno gli altri in ciò che fanno, e a rendere per loro comprensibili (e accettabili) le nostre in ciò che facciamo. Un primo livello di problematicità risiede dunque nel carattere finalizzato del funzionamento psicologico, radicato com'è nel fatto che le attività pratiche degli esseri dotati di mente, essendo orientate a obiettivi e mete, sono organizzate da 'piani'.

L'intenzionalità come perno della psicologia filosofica: Franz Brentano

La dimensione intenzionale dell'attività rende trasparente alla superficie dei vari tipi di condotta umana il tratto di intenzionalità che marca la struttura profonda della mente. Ecco perché il tema dell'intenzionalità ritorna in tutte le questioni intricate che vertono sull'autocomprensione che l'uomo propone di se stesso: qual è la natura della conoscenza? In che modo la mente si rapporta al mondo? Che tipo di relazione la mente stabilisce con il cervello quale suo sostrato biologico? Che nesso si dà tra la caratteristica intenzionale della mente e la sfera (sociale) del significare? Sono legittime le implicazioni che dall'intenzioalità si traggono per attribuire responsabilità agli agenti sociali? Questo genere di interrogativi alimenta una vasta area di ricerche e di riflessioni afferenti alla 'psicologia filosofica', recentemente divenuta di moda con l'etichetta di philosophy of mind, per cui l'intenzionalità indica il punto di articolazione tra filosofia e scienza cognitiva nella moderna riflessione sull'uomo. Il primo momento di massima esplicitazione di tale nesso è ravvisabile nella proposta di Brentano di porre nella nozione di intenzionalità la matrice teorica capace di generare la "psicologia da un punto di vista empirico" (Brentano 1874). Ecco come l'ex sacerdote cattolico e insigne filosofo viennese riassume la sua proposta: "Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioevali chiamarono l'in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto, e che noi, anche se con espressioni non del tutto prive di ambiguità, vorremmo definire il riferimento a un contenuto, la direzione verso un obietto (che non va inteso come una realtà), ovvero l'oggettività immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, anche se non ciascuno nello stesso modo. Nella presentazione qualcosa è presentato, nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell'amore qualcosa viene amato, nell'odio odiato, nel desiderio desiderato, ecc." . Questa famosa affermazione di Brentano è estremamente densa, perché, oltre a recuperare le origini storiche del termine, esibisce avviluppate insieme le due basilari problematiche relative all'intenzionalità., la cui messa a fuoco scandirà i successivi posizionamenti di E. Husserl rispetto a Brentano e di M. Heidegger rispetto a Husserl. Nell'intenzionalità sembrano trovare risposta sia la questione psicologica (che cosa differenzia i fenomeni psichici da altri tipi di fenomeni?), sia la questione ontologica (che tipo di realtà istanziano i fenomeni psichici?).

Il tema dell'intenzionalità era stato ampiamente discusso nella Scolastica dei secoli 13° e 14°, con particolare attenzione al valore intenzionale delle rappresentazioni mentali attraverso le quali il soggetto 'tende' all'oggetto rappresentato. Brentano trasferisce sul piano psicologico le indagini sull'intenzionalità: un'indagine sulle forme di costituzione del soggetto diventa possibile in base all'analisi delle "strutture dell'intenzionalità", da cui risulta che le funzioni psichiche operano nella necessità di avere ognuna un oggetto in modo proprio. Il carattere intenzionale dei fenomeni psichici autorizza una scienza psicologica in quanto indagine sull'esperienza che l'uomo fa di sé come produttore di atti (oltre che di azioni). Per far fronte alla natura attuale dell'esperienza umana del mondo e di sé, occorre una psicologia descrittiva, a priori e pura, comunque sottratta ai riduzionismi incombenti sulla nascente (e vincente) psicologia fisiologica e sperimentale.

L'intenzionalità come vettore della coscienza

Risalire a Brentano, rievocandone la dottrina dell'intenzionalità, è un gesto teorico ricorrente nel pensiero filosofico e psicologico del Novecento. Il suo valore argomentativo consiste nell'indicare un orizzonte di senso tale da respingere il monismo materialista e il riduzionismo del vocabolario della psicologia all'unico linguaggio estensionale delle proposizioni della scienza fisica. La riscoperta dell'ntenzionalità annoda problematiche di natura epistemologica e metodologica sulla consistenza della psicologia come sapere scientifico sull'uomo, che necessariamente si articola con altri universi di discorso rilevanti per l'esperienza umana del mondo (l'etica, il diritto, la politica). Il nocciolo della questione può essere visto nell'alternativa radicale che si pone tra causalità (fisica) e intenzionalità (psicologica). L'opposizione così istituita segnala come possa mutare il contesto argomentativo in cui ci si interroga sul valore delle teorie e sul senso delle operazioni scientifiche che si compiono, giacché sono soggette a logiche deontiche differenti (necessità versus possibilità). Ipotizzare che tra due fenomeni vi sia un legame di causa-effetto significa ammettere che l'uno contenga le condizioni di determinazione (necessaria) dell'altro. Per contro, ipotizzare che tra due fenomeni vi sia un nesso di intenzione-risultato significa riconoscere che l'uno esibisce le condizioni di interpretazione (possibile) dell'altro.

Il primo a 'tornare a Brentano' è, naturalmente, il suo allievo più importante, Husserl, il cui progetto di fenomenologia mira a sottrarre il "mondo della vita" umana ai vincoli troppo restrittivi posti dal positivismo. Husserl dà alla caratteristica intenzionale dei fenomeni psichici proposta da Brentano uno spessore metodologico radicale, così da illuminare tutta la complessa trama dell'esperienza di sé accessibile all'uomo. Husserl indaga l'intenzionalità come proprietà costitutiva della coscienza. Egli osserva che, per essere coscienti, occorre che ci si diano degli oggetti: non può esserci coscienza senza che qualcosa la informi di sé. Gli atti, o i modi, in cui gli oggetti si offrono alla coscienza la definiscono come 'coscienza di', cioè le assegnano la sua natura intenzionale. Questa dinamica relazionale tra i modi della coscienza e i suoi oggetti è tale da conservare loro un'invalicabile distanza, per cui la coscienza non può essere mai oggettivata in una parte del mondo e tutto ciò che nel mondo può essere oggetto di coscienza le rimane trascendente. Gli oggetti della coscienza non si esauriscono nel 'senso' che essi ricevono dal nostro percepirli, concettualizzarli, appetirli, valorizzarli in un certo modo. L'essenza dell'intenzionalità consiste nel rendere possibili i fenomeni della coscienza quali processi di attribuzione di senso, senza però mai bloccarli in ruoli reificati. La corrente delle esperienze vissute che trascolora in coscienza del mondo ci proietta verso nuovi compiti: noi siamo sempre intenti verso qualcosa che ci sfugge.

Il carattere intenzionale della coscienza è anche il nesso basilare che aggancia la fenomenologia all'esistenzialismo, l'altra corrente della cultura filosofica sviluppatasi nei primi decenni del 20° sec. ad opera di Heidegger, uno dei più acuti allievi di Husserl. Una radice del disaccordo tra questi giganti del pensiero filosofico del Novecento è proprio nell'interpretazione dell'intenzionalità quale carattere originario o meno dell'essere umano. In ogni caso, nell'interpretazione filosofica dell'intenzionalità quale tratto definitorio della mente umana, il riferimento quasi esclusivo è alla dinamica tra coscienza e autocoscienza.

L'intenzionalità come tratto metalinguistico del mentale

Nell'apparato concettuale delineato dalla psicologia filosofica, l'intenzionalità è quella dimensione relazionale per cui il fenomeno psichico non è autoreferenziale, ma 'trascendente': ogni manifestazione del mentale mette in atto uno schema di riferimento ad altro da sé. L'intenzionalità mostra la mente come una procedura che co-struttura un soggetto e un oggetto in relazione. I processi mentali - come 'credere', 'aspettarsi', 'desiderare', 'immaginare' - attivano 'stati intenzionali' in quanto sono sempre intorno a qualcosa. Tutti i contenuti mentali sono intenzionali perché sono incardinati su una relazione (soggetto-oggetto), che si pone come schematismo fondamentale espresso dalla metafora dell'opposizione interno versus esterno. Infatti, la mente può occuparsi di oggetti non esistenti, non localizzabili esternamente, a cominciare dalle allucinazioni o anche solo dai sogni fino alla fiction letteraria e all'utopia politica. Che tipo di 'realtà' possiamo attribuire agli oggetti rappresentati nella mente? Una realtà di natura intensionale, cioè corrispondente al suo 'senso' che "denota il modo in cui quell'oggetto ci viene dato" e non coincide col suo significato referenziale o denotativo. Pertanto, l'intenzionalità caratterizza la mente sia come procedura che come esito: opera intenzionalmente e produce oggetti intensionali. Tra gli oggetti intensionali prodotti dalla mente spiccano gli schemi cognitivi (o concetti) attivati dai significanti linguistici. In tal modo l'intenzionalità della mente si intreccia alla 'intenzionalità' del linguaggio. Invero il nodo dell'intenzionalità sembra potersi sciogliere quando viene interpretato secondo i principi propri della filosofia analitica o, più in generale, della filosofia linguistica. Infatti, in questa nuova chiave di lettura, la questione viene posta in termini di alternativa radicale, come risulta da una celebre discussione che coinvolse alcuni ambienti filosofici statunitensi tra gli anni Cinquanta e Sessanta, allorché la critica al comportamentismo in psicologia (e al neopositivismo logico che lo giustificava sul piano epistemologico) favorì quel nuovo orientamento razionalistico che avrebbe poi imposto il paradigma cognitivista nelle scienze umane. Il primo a proporre delle coordinate linguistiche per l'intenzionalità è R. Chisholm, il quale sostiene che se - come sembra accertato - la semiotica non può fare a meno di ricorrere al 'mentalese', è perché ogni uso di segni presuppone qualche stato intenzionale. In tal modo si ritiene di poter salvaguardare l'autonomia del pensiero umano dalla morsa mortale del comportamentismo filosofico, anche a costo di autorizzare qualche versione aggiornata del dualismo cartesiano, già confutato in molti modi. La posizione di Chisholm viene discussa criticamente da W. Sellars, il quale tenta di proporre "una soluzione semantica del problema mente-corpo", sostenendo che l'intenzionalità del mentale è una traduzione interiorizzata (e quindi derivata) di una intenzionalità ascrivibile al metalinguaggio della socializzazione, grazie al quale l'organismo biologico diventa una persona umana. L'argomento di Sellars potrebbe riassumersi in un aforisma: siamo costretti a ricorrere al 'mentalese', cioè a inquadrare il significato come un fenomeno mentale, perché il fenomeno mentale è nel significare.

Anche negli ultimi decenni del Novecento la riscoperta dell'intenzionalità ha rappresentato la via maestra di ogni 'ritorno alla coscienza'. Negli anni Ottanta l'arma dell'intenzionalità viene brandita da quanti, nell'ambito della philosophy of mind, cercano una via d'uscita dalle pastoie della prevalente teoria dell'identità mente-cervello. L'ipotesi guida che sembra autorizzare tale paradigma, sostenuto principalmente dai filosofi australiani J.J. Smart e D.M. Armstrong, stabilisce che se gli stati mentali accadono 'nel cranio', non sono distinguibili dagli stati neurocerebrali. Per contrastare tale materialismo identista, si tende a far valere l'intenzionalità quale tratto che caratterizzerebbe gli eventi mentali all'interno di quelli fisici. L'apparato concettuale in cui viene affrontato il mind-body-problem si avvale delle ricerche di intelligenza artificiale e delle neuroscienze, e ne mutua il tentativo di mitigare lo sciovinismo antropologico che sembra connaturato alla psicologia filosofici. Le varie interpretazioni della metafora computerologica dipendono anche dalla diversa focalizzazione che riceve la riscoperta dell'intenzionalità, alla quale si richiamano esplicitamente, ma con esiti divergenti, sia l'approccio 'funzionalista' di D.C. Dennett che l'impostazione 'emergentista' di J.R. Searle.

Invero "l'ultima roccaforte del mistero, la mente umana" non può essere recintata dall'attribuzione di intenzionalità, perché questa è una proprietà sia degli organismi che dei sistemi fisici (per es., un computer provvisto di un software per giocare a scacchi). Dennett attribuisce un 'atteggiamento intenzionale' a qualsiasi sistema, organico o meno, il cui comportamento sia spiegabile e/o prevedibile in base a credenze, desideri, intenzioni. Le menti degli animali (e delle persone) e i software dei computer funzionano come sistemi intenzionali. L'analogia mente-computer si regge sull'ipotesi che questa nuova tecnologia della conoscenza e della comunicazione umana, fornendoci un modello di come funzionano tutti i sistemi intenzionali, ci consenta di "spiegare la coscienza".

Il computer è sì un manipolatore di rappresentazioni evidentemente privo di mente, ma è capace di simulare quest'ultima. Infatti, le strutture di dati operanti nei software sono "rappresentazioni autocomprendentisi", per cui possiamo bloccare il regresso all'infinito implicito nella tradizionale teoria degli 'omuncoli' quali entità interne cui attribuire l'uso delle rappresentazioni. La posizione di Dennett comporta almeno due sviluppi per la teoria dell'intenzionalità, giacché la mente viene sganciata dalla biologia e dotata di una 'prospettiva in terza persona'. Infatti, se l'intelligenza umana e tutti gli stati mentali sono come dei programmi di computer, con caratteristiche non dipendenti dal supporto biologico, allora la mente può essere implementata sia nel cervello che in qualsiasi altro hardware compatibile con l'intenzionalità di quella. Inoltre, se la mente opera come un computer, l'uomo può abbandonare la pretesa di essere un 'Io', per descriversi solo come un 'Ciò', in quanto - per dirlo con Eco - il suo 'dentro' è fatto dello stesso materiale del suo 'fuori': simboli, o per meglio dire, 'espressioni'. L'errore filosofico denunciato da Searle (1991) in quest'interpretazione forte dell'analogia cervello/computer risiede proprio nell'attribuzione metaforica dell'intenzionalità a mezzi meccanici. Il fascino del metodo eterofenomenologico proposto da Dennett scaturisce dalla sua volontà dichiarata di sostituire le metafore tradizionali con un nuovo schieramento di analogie: la coscienza non risiede più in un 'grande concettualizzatore', ma in una serie di 'bozze multiple' che vengono continuamente riviste.

Senza dubbio va riconosciuto a Searle il merito di aver fornito il contributo più ampio e sistematico all'approfondimento dell'intenzionalità all'interno della recente philosophy of mind. Se si adotta "un approccio non ontologico" all'intenzionalità allora la forma umana di intenzionalità non fa che specificare una "più biologicamente fondamentale capacità della mente (o del cervello) di porre in relazione l'organismo con il mondo". Quando l'organismo vivente si rapporta al mondo, il suo cervello/mente si dispone necessariamente in certi stati intenzionali, etichettabili come 'azione', 'credenza', 'desiderio', 'aspettativa' ecc. Per spiegare la natura generale di tali stati intenzionali, Searle sviluppa il suo argomento su due versanti: quello euristico-pedagogico e quello logico. Se vogliamo illustrare che cos'è l'intenzionalità, ci torna utile vederla all'opera soprattutto nel linguaggio. Da un punto di vista logico, però, il linguaggio funziona (cioè ci consente di agire da uomini) perché ha una base intenzionale. Il contributo di Searle può apparire circolare in quanto mira a "spiegare l'intenzionalità in termini di linguaggio" e a "spiegare il linguaggio in termini di intenzionalità", ma tale impressione è dovuta all'ambivalenza del termine spiegare che, nel primo caso, significa illustrare, chiarire (versante pedagogico), nel secondo, invece, significa risolvere, ricondurre (versante logico). L'intenzionalità del mentale si esprime al meglio nel linguaggio, ma non può partire dal linguaggio, perché altrimenti saremmo costretti a escludere ogni vita mentale nei soggetti prelinguistici (animali, bambini).

Searle usa la sua teoria degli "atti linguistici" come modello esplicativo degli stati intenzionali. Si possono, infatti, registrare le seguenti affinità. 1) Come negli atti linguistici distinguiamo tra forza illocutoria (prometto, giuro, ordino, consiglio, suggerisco) e contenuto proposizionale (che tu venga qui), così negli stati intenzionali possiamo distinguere tra modo psicologico (credenza, desiderio) e contenuti rappresentativi. 2) Sia gli atti linguistici che gli stati intenzionali possono avere due diverse direzioni di adattamento: quando io affermo qualcosa, è la mia parola che si adatta al mondo e i valori di verità/falsità esprimono tale corrispondenza; quando invece prometto qualcosa, mi impegno affinché il mondo convalidi la mia promessa. Analogamente, nella mia credenza la relazione di intenzionalità va dalla mente al mondo (tant'è vero che se la credenza è inadatta, la cambio), mentre, nel mio desiderio la relazione di intenzionalità va dal mondo alla mente: io cerco di far sì che la realtà si adatti al contenuto del mio desiderio. 3) Sia agli atti linguistici che agli stati intenzionali si applicano le nozioni di "condizione di sincerità" e "condizioni di soddisfazione".

Per spiegare questa radicale affinità tra atto linguistico e stato mentale, bisogna far ricorso alla nozione "sufficientemente vaga" di rappresentazione. Atti linguistici e stati intenzionali rappresentano oggetti e stati di cose, in quanto entrambi hanno contenuti proposizionali che determinano le condizioni di soddisfazione e la direzione di adattamento. Proprio la relazione di "causazione intenzionale" consente di risolvere il problema mente-corpo in una pluralità di livelli, per cui "gli stati mentali sono sia causati dalle operazioni del cervello che realizzati nelle strutture del cervello".

Per poter svolgere la sua "funzione principale, che è quella di rappresentare", la mente deve configurarsi nel formato dell'intenzionalità, che però presuppone uno sfondo mentale pre-rappresentazionale: "Come precondizione dell'intenzionalità, lo Sfondo è tanto invisibile all'intenzionalità quanto l'occhio che vede è invisibile a se stesso" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 160). È significativo che gli argomenti a favore dell'ipotesi dello sfondo siano tratti dall'analisi della comprensione del significato letterale e metaforico, oltre che dalla distinzione ben chiarita dalla psicologia cognitivista tra processi automatici e processi controllati nell'esecuzione di abilità fisiche.

La teoria naturalistica di Searle pretende di giustificare il rapporto di derivazione logica che va dall'intenzionalità del mentale all'intenzionalità del linguistico. Per Searle, la mente ha una forma di intenzionalità intrinseca, il significato (linguistico) ha una forma di intenzionalità derivata. La storia biologico-evolutiva non solo comporta "un ordine di priorità nello sviluppo dei fenomeni intenzionali", per cui le specie viventi si differenziano per il grado di complessità delle loro operazioni mentali - dalla percezione sensoriale alla consapevolezza di avere un linguaggio -, ma autorizza una spiegazione logica, in base alla quale si dà che "certe nozioni semantiche fondamentali, come il significato, siano analizzabili in termini di nozioni psicologiche ancora più fondamentali, come credenza, desiderio e intenzione" .

La distinzione tra significato naturale dell'enunciato e significato non naturale dell'enunciatore chiarisce che il significato linguistico è costruito su una duplice traccia di intenzionalità, giacché rappresenta (rinvia a, contiene) uno stato intenzionale e nello stesso tempo intende essere riconosciuto come tale dall'altro (se, nella comunicazione, lo comprende).

L'introduzione dell'intenzionalità comunicativa arricchisce ulteriormente il quadro, perché immette come necessari i riferimenti a procedure di convenzionalizzazione del senso. Dovendo essere comunicabile, il tipo di intenzionalità inerente al significato linguistico finisce per non essere del tutto localizzabile 'nella testa', ma fa intravedere uno spazio di costituzione 'tra le teste'. È lo stesso Searle ad affrontare la questione nei termini di "intenzionalità collettiva" (we-intentions): una forma elementare di intenzionalità che non si esaurisce in una somma dei comportamenti intensionali individuali, ma organizza il rapporto tra l'intenzione-in-azione individuale e l'intenzione-in-azione collettiva secondo lo schema mezzo-scopo e sulla base di un senso pre-intenzionale dell'altro: occorre che Jones versi la salsa e Smith la mescoli perché entrambi preparino il sugo.

L'intenzionalità come trama culturale dell'interpretante

Per Searle, l'intenzionalità è la porta attraverso cui il biologico accede allo psicologico, ma è pur sempre "un fenomeno biologico ed è parte del mondo naturale". Il doppio versante del suo argomento consente a Searle di chiarire la mente intenzionale in base al suo modo di funzionare nell'interazione verbale e, nel contempo, di derivare il significato sociale della lingua dall'organizzazione biologica individuale. Ma l'intenzionalità può essere vista anche come la porta attraverso cui il culturale si apre sullo psicologico. L'"enigma della mente" può trovare una soluzione non mentalistica, tale però da potersi ancora avvalere del valore euristico dell'intenzionalità, se questa pararelazione viene intesa come schema di riferimento della persona umana alla cultura che la fa essere tale.

Il legame misterioso tra mente e linguaggio, sondato da secoli di riflessioni, si dà a vedere nel comune tratto dell'intenzionalità. Se affrontiamo pragmaticamente l'analisi di quel nesso, siamo costretti a riconoscere che la mente-in-azione-in-contesto diventa 'persona' e il linguaggio-in-azione-in-contesto diventa 'discorso”.