lunedì 15 settembre 2025

Il "Saggio" del mese - Settembre 2025

 

Il “Saggio” del mese

 SETTEMBRE 2025

In molti nostri post si è data una giusta rilevanza alle tante specifiche problematiche determinate dall’impetuosa crescita del ruolo della tecnologia in tutti gli ambiti delle attuali società. Un argomento sempre più difficoltoso da seguire perché la velocità dei cambiamenti tecnologici è ormai tale da rendere comunque provvisoria ogni loro valutazione. Lo stesso concetto di progresso che, con non poche contraddizioni e zone oscure, ha sin qui ispirato l’agire umano sembra ormai totalmente coincidere unicamente con quello tecnologico considerato, di conseguenza, sempre e comunque intrinsecamente positivo. Ma è davvero così?  In luogo di una rincorsa, sempre affannosa e perdente, alle continue mirabolanti novità non è forse il caso di meglio capire se questo umano affidarsi in toto alla tecnologia sia davvero così giusto e necessario? Di chiederci cioè quale sia un suo equilibrato ruolo nell’agire umano? Il Saggio di questo mese si muove in questa direzione

Lo abbiamo scelto perché, ristampato di recente a ben quarant’anni dalla sua prima pubblicazione nel 1984 agli albori di quella che è stata poi definita “rivoluzione tecnologica”, già si poneva queste domande di fondo. E poi per rendere un giusto omaggio, a dieci anni dalla sua scomparsa, al suo autore sempre capace di indagare, lucidamente e senza fare sconti, le tante problematiche, questa compresa, che segnano questa fase della storia umana: Luciano Gallino (1927/2015, torinese, a lungo docente di sociologia, autore di numerosi saggi in cui ha analizzato a fondo il mondo del lavoro, della finanza, del capitalismo)


Gallino lo ha quindi scritto nel 1984, un’era geologica fa rispetto alle incredibili innovazioni tecnologiche che sono seguite, ma il suo sguardo attento alle trasformazioni della società non poteva non proporsi di fissare criteri di giudizio critico utili per valutare un fenomeno che già allora stava profondamente modificando modi di produrre, relazioni sociali, processi culturali, stili di vita. La ristampa di questo suo breve saggio ha comunque tenuto conto di questo gap temporale e lo ha integrato con una interessante prefazione, attenta alle situazioni in cui si sono fatte più rilevanti le novità nel frattempo intervenute, affidandola ad un esperto del settore non meno privo di sensibilità critiche: Juan Carlos De Martin (professore ordinario di informatica presso il Politecnico di Torino, professore associato presso le Università di Harvard e Tokio, ideatore e curatore della Biennale Tecnologia organizzata dal Politecnico di Torino, saggista. Il suo testo “Contro lo smartphone” ha ispirato la nostra parola del mese di Aprile 2024)


Questa nostra breve sintesi punta a recuperare innanzitutto le osservazioni di Gallino che hanno carattere molto dettagliato, tutt’altro che divulgativo, di analisi tecnica spaziando dal punto di vista sociologico a quello antropologico evolutivo. In quanto tali non guardano più di tanto agli aspetti dell’attualità contemporanea, ma indicano concetti e parametri utili per comprendere le logiche di fondo che, da sempre, ispirano il rapporto tecnologia/individuo e a salire tecnologia/ società. Le alterneremo con altre, desunte dalla prefazione di De Martin, più attente alla situazione attuale di tali rapporti e di più immediata comprensione

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Una riflessione sul rapporto fra tecnologia e società richiede, per essere condivisa nei suoi elementi di base, una adeguata esattezza della loro definizione, quella che Gallino ritiene debba essere applicata al concetto di tecnologia è la seguente:

….. popolazione di sistemi materiali (tipo un calcolatore) e non materiali (tipo i programmi usati da quel calcolatore), derivanti dall’impiego razionale delle conoscenze scientifiche presenti in una data epoca al fine di risolvere, con la maggiore efficienza relativa, problemi di produzione, di trasporto, di comunicazione, di cura della persona, di deposito di risorse, di attacco e di difesa, di protezione dall’ambiente e dell’ambiente …….

Questa accurata definizione si oppone ad alcune sue estremizzazioni non condivisibili, ad esempio non è vera tecnologia la versione che di essa viene data nel campo della etnologia per comprendere l’insieme delle tecniche materiali usate in una data società per cacciare, cucinare, coltivare, edificare abitazioni e fabbricare utensili, allo stesso modo non lo è, venendo ai nostri giorni, la sua estensione ad includere strutture sociali e culturali che una tecnologia, così come definita sopra, rende possibili e sostiene (quest’ultimo aspetto, ritenuto dirimente, verrà in seguito ripreso ed approfondito da Gallino).

Coerentemente con quanto precisato in apertura De Martin inizia la sua prefazione evidenziando come l’attuale pervasività della tecnologia, entrata ormai in pianta stabile in tutti gli aspetti del vivere umano, renda difficile riflettere su di essa con il distacco e l’oggettività necessari. Inoltre, proprio a causa di questa pervasività, attorno alla tecnologia si sono diffusi luoghi comuni, al limite del mito, quasi mai giustificati, ma comunque tali da complicare ulteriormente tale riflessione.

Il mito più ricorrente è quello di aver consegnato alla tecnologia il ruolo di fattore, unico e determinante, dell’intera idea di progresso umano fino a sovraccaricarla di una sorta di carattere fideistico, la tecnologia come religione. Mettere in discussione questa sorta di aureola crea, come inevitabile conseguenza, reazioni di rifiuto preconcetto verso ogni possibile critica e perplessità.

Un atteggiamento che si lega strettamente ad una seconda credenza, non meno radicata e diffusa, quella che la tecnologia in quanto tale non è né buona né cattiva, eventuali giudizi etici riguardano tutt’al più gli usi che di essa possono essere fatti, ma non mettono mai in discussione il suo crescere e perfezionarsi in quanto tale. Vale a dire che la tecnologia, considerata come data proprio perché sinonimo di progresso, non può essere messa in alcun modo in discussione, farlo sarebbe come negare la propensione innata umana al continuo miglioramento.

Non sarà né buona né cattiva, ma di certo non si può affermare che la tecnologia sia neutra, da tempo ormai, stanti i così alti livelli raggiunti, essa è il prodotto di complessi processi organizzativi, scientifici, economici e politici (che partono dall’incubazione di una invenzione, alla sua messa a punto, alla sua ingegnerizzazione, alla sua trasformazione in un prodotto accessibile sul mercato, ed infine alla sua produzione) ognuno dei quali chiama in causa protagonisti di vario genere comunque chiaramente identificabili (su questo specifico e determinante aspetto si aprirà, come si avrà modo di vedere, una diversità di opinione fra Gallino e De Martin).

Il valore del saggio di Gallino consiste allora secondo De Martin proprio nel ristabilire la giusta collocazione del giudizio sulla tecnologia e sul suo rapporto con individuo e società in un contesto più di fondo e di più lungo arco temporale.

L’adozione di tale definizione porta con sè alcune conseguenti caratteristiche che non di meno richiedono una lora preliminare condivisione, la prima delle quali consiste nell’essere un “concetto esplicitamente neodarwiniano”, vale a dire un concetto che fa sua la moderna versione di “evoluzione”, vista come la combinazione di “gradualità” e di “discontinuità”. Un sistema tecnologico è infatti al tempo stesso un complesso di strumenti, organi, tratti, proprietà e caratteristiche che, trasmesso nel corso del tempo da una generazione all’altra, da una popolazione all’altra, conosce sia una graduale modificazione, limitata nella sua essenza e nelle sue ricadute (microevoluzione), sia improvvise accelerazioni, non necessariamente connesse alla microevoluzione, tali da implicare comunque una radicale modifica della precedente tecnologia piuttosto che la creazione di una del tutto nuova (macroevoluzione).

La relazione qui indicata tra tecnologia ed evoluzione è rafforzata dall’evidenza del profondo influsso che la prima ha da sempre avuto sull’evoluzione umana sotto il profilo sociale e culturale, e non di meno, come la storia dell’evoluzione umana attesta, persino su quello più strettamente biologico. Tale innegabile e profondo influsso richiede, per la parte sociale e culturale, uno specifico approfondimento altrettanto propedeutico.

Nel campo degli studi sociali di tutto il Novecento sono state davvero molte le attenzioni rivolte agli “effetti o conseguenze sociali” della tecnologia, di solito quasi tutte caratterizzate da preoccupazioni e allarmismi. Ma tutte, positive o negative che siano, scontano un preoccupante errore di base: quello di considerare la tecnologia come un’entità autonoma che prende forma da processi scientifici e tecnici, molto spesso percepiti come slegati dal generale contesto socio-culturale, i cui effetti sociali, in precedenza considerati  imprevedibili ed imprevisti, vengono percepiti solo allorquando essa venga concretamente adottata per finalità economiche, sociali o politiche, quindi cioè solo  al termine di un percorso che sembra essersi snodato autonomamente dal suo realizzarsi.

Si tratta di una catena logica che in alcuni casi può in effetti avere una sua validità (si pensi ad esempio alla indubbia relazione tra sviluppo della tecnologia aeronautica e crescita del turismo di massa, un fenomeno certo non prevedibile al momento della sua nascita), ma che non regge se fatta valere per l’insieme sistemico delle relazioni causa ed effetto fra tecnologia, economia e società. Non a caso gli studi sociali hanno via via messo a punto altre idee, fra le altre Gallino ritiene che meriti attenzione soprattutto quella che tecnicamente viene definita “variabile cinetica”.

Si definisce tale, in un insieme di elementi e fattori socioeconomici, una variabile che riesce a provocare, per le proprie caratteristiche, variazioni in tutte le altre componenti di tale insieme che, pur essendo tra di loro indipendenti, convergono verso un obiettivo comune. L’intero percorso della modernità scientifica, economica e sociale, occidentale attesta, senza dubbio alcuno, che l’economia di mercato capitalistico abbia rappresentato la variabile cinetica dell’intero percorso umano essendo concretamente riuscita, seguendo le proprie logiche di calcolabilità costi/benefici e di razionalità rispetto al fine, ad influenzare al tempo stesso lo sviluppo della stessa tecnologia ed il conseguente procedere dell’insieme dei fenomeni sociali e politici (Gallino indica nell’organizzazione del lavoro l’esempio più calzante in questo senso).

L’idea di variabile cinetica, proprio sulla base delle sue caratteristiche, si completa con quella della retroazione amplificatrice, vale a dire il fenomeno in base al quale tutti gli elementi messi fra di loro in connessione dall’influsso della variabile cinetica possono a loro volta sviluppare un circuito di retroazione, ossia di ricadute e sollecitazioni reciproche, capace amplificare, di aumentare, i rispettivi domini d’azione.

Ed è esattamente questo che da due secoli sta succedendo: il capitalismo, che domina i rapporti sociali rendendoli a sé congruenti, potenzia sulla base di calcoli razionali di costi/benefici, la tecnologia che, a sua volta, allorquando dispiegata sa rafforzare e diffondere i rapporti capitalistici di produzione.

Nel quadro di concetti di base che Gallino sta delineando per mettere in luce i meccanismi di fondo che definiscono il rapporto tra tecnologia e l’insieme delle attività umane, si aggiunge un’altra considerazione: quanto fin qui evidenziato ha una evidente valenza macro-strutturale, che investe le categorie ampie delle società umane, ma la capacità della tecnologia di incidere, all’interno di tale quadro, sull’insieme generale delle relazioni economiche, sociali e culturali, poggia sulla sua pervasiva capacità di incidere sulla vita di ogni singolo soggetto sociale, intervenendo sulla sfera delle ordinarie scelte esistenziali  quasi mai compiute avendo consapevolezza della sua valenza a formare un livello micro-decisionale di fondamentale importanza.

Questo indissolubile intreccio tra l’aspetto macro e quello micro è fondamentale per comprendere il rapporto tra tecnologia e società, per meglio svilupparne l’approfondimento Gallino chiama in causa un altro determinante concetto base: l’idea di “coevoluzione”.

Anche in questo caso non è infatti casuale il richiamo al concetto di evoluzione: non diversamente da quanto succede per quella biologica (che pur conoscendo, come si detto in precedenza,  decisivi salti improvvisi ed imprevedibili mantiene sempre e comunque una costante relazione con i processi evolutivi precedenti e, a maggior ragione, a ricaduta con quelli che seguiranno) che si è realizzata proprio con una strettissima relazione le modificazioni che hanno riguardato il singolo individuo e quelle che, conseguentemente. hanno investito l’insieme della popolazione, anche quella dei sistemi tecnologici e socio-culturali procede, con un analogo intreccio, essendo condizionata dalle situazioni precedenti e condizionando, a sua volta, quelle successive.

Tutte queste forme di evoluzione trovano quindi completamento allorquando i fattori, biologici piuttosto che tecnologici o socio-culturali, si rivelano quelli vincenti date le condizioni ambientali in cui si verificano (nel nostro “Saggio del mese” dello scorso Agosto il biologo evoluzionistico Edward Wilson ha coniato un efficace slogan per sintetizzare questo snodo: “la mutazione propone l’ambiente dispone”). L’idea di coevoluzione, in particolare nello specifico della relazione fra tecnologia, individuo e società, sintetizza esattamente l’interazione di questi processi ed il loro procedere con reciproche influenze non sempre coordinate e quasi mai immediatamente percepite nella loro piena valenza

De Martin condivide convintamente il tipo di approccio proposto da Gallino, in particolare la sua idea di una tecnologia che evolve in modo analogo a quello dei sistemi viventi per selezione naturale combinando gradualità e discontinuità, la sottolineatura della sua errata valutazione come entità a sé stante misurabile solo in relazione agli effetti sociali che il suo affermarsi ha comportato, la costante sottovalutazione del suo rapporto, co-evolutivo, con l’economia di mercato capitalistico

Sulla base di queste chiavi di lettura, tenendo ferma soprattutto quella della visione evoluzionistica di lungo periodo, Gallino passa ad approfondire innanzitutto la relazione tra tecnologia ed individuo così come si è consolidata a partire dalle primordiali ragioni che hanno consentito all’uomo, unico animale (finora) in grado di farlo in modo sistematico, di adottarla.

Una domanda, relativa proprio a questo aspetto, aiuta ad entrare nel merito di questa lunga storia: come è stato possibile che l’animale uomo, del suo privo di particolari doti fisiche ed abilità sensoriali, si sia affermato come specie vincente su tutte le altre fino a dominare l’intero pianeta? Una domanda legittima considerato che l’evoluzione biologica dell’uomo lo ha dotato di un notevole volume cerebrale, e quindi di straordinarie capacità intellettive, ma di certo non di particolari doti fisiche tutte decisamente inferiori per molti aspetti a quelle di molte altre specie.

Per ovviare a questo deficit nell’incessante lotta per la sopravvivenza, la riproduzione, la creazione di legami relazionali con i proprio simili, l’uomo, a differenza di tutti gli altri animali che si muovono per tali scopi usando il loro bagaglio istintuale (memoria endosomatica, memoria incorporata nel corpo), ha sviluppato, mettendo a frutto queste sue capacità intellettive, una sorta di memoria esterna (esomatica) capace di raccogliere ed assemblare in modo sempre più raffinato le informazioni relative al suo muoversi, per tali scopi, nei vari contesti ambientali: la cultura. In questo decisivo supplemento di dotazioni utilizzabili nella lotta per la sopravvivenza della specie va collocato il concreto atto di nascita della tecnologia:

i sistemi tecnologici rappresentano, fin dal loro primordiale apparire, la concretizzazione materiale e pratica di sistemi culturali.

La strettissima relazione fra questi due ordini di sistemi, quelli tecnologici e quelli culturali in senso lato, conosce una sottile ma determinante differenza: nei secondi prevale una componente simbolica, ossia la capacità di racchiudere in una ampia successione di segni (prima solo vocali e poi anche scritti) l’intera formidabile varietà umana di significati, concetti, idee, rappresentazioni emotive, i primi invece, per essere efficaci, utilizzano una componente segnale, vale a dire una calcolata univocità di messaggio che impone al suo veicolo materiale specifici comportamenti ed utilizzi (la tecnologia dell’Intelligenza Artificiale potrebbe/dovrebbe rappresentare da questo punto di vista una svolta rivoluzionaria proprio perché sembrerebbe essere sviluppabile fino al punto di essere in grado di fare sua anche la componente simbolica finora in capo al solo uomo).

Ciò significa che la tecnologia, nata come applicazione della dote intellettuale umana, conosce per definizioni limiti intrinseci imposti dalla sua limitatezza “epistemologica (i suoi margini di conoscenza propria) che la confinano, strutturalmente, ad essere “strumento” al servizio (con le forme e le modalità esaminate) dei sistemi simbolici propri della cultura umana.

L’incredibile varietà di sistemi tecnologici, per quanto sempre più specializzati ed efficienti, altro non sono quindi, nella loro ultima essenza, che il prodotto evolutivo di tale intreccio nascendo in origine in funzione del singolo individuo per divenire, solo successivamente grazie allo sviluppo di funzioni e valenze, una componente fondamentale per la sopravvivenza degli interi sistemi sociali.

Il rapporto tra tecnologia, così intesa, e individuo merita quindi, secondo Gallino, uno specifico ulteriore approfondimento per mettere meglio a fuoco quali aspetti biologici, esistenziali e culturali ne abbiano progressivamente determinato la successiva evoluzione a fattore con valenza sociale.

E’ utile anticipare prima di entrare nel merito delle considerazioni di questi aspetti, tutte ritenute da De Martin di grande acume e valore, alcune sue perplessità, in particolare su tre aspetti tra di loro collegati, di fatto spiegabili con la straordinaria accelerazione messa in atto dallo sviluppo tecnologico nei decenni successivi alla stesura di questo saggio avvenuta come già precisato nel 1984.

La prima concerne proprio l’idea di Gallino che la crescita dell’incidenza della tecnologia sia determinata dall’insieme dei comportamenti individuali ritenuti il fattore dirimente in tal senso. Quanto è successo nei quattro decenni che ci separano dalla prima pubblicazione del testo di Gallino mette radicalmente in crisi la sua convinzione, al tempo ancora plausibile, che non esistano poteri in grado di influenzare, avendo precisi orizzonti collettivi, la direzione dello sviluppo dei sistemi tecnologici. Quanto si è clamorosamente manifestato in questi quattro decenni, con la computerizzazione del mondo, l’esplosione della sfera della Rete, la pervasività di scelte deliberatamente messe in atto da forze economiche e politiche nel campo della comunicazione di massa, non è più spiegabile come semplice conseguenza dell’insieme di scelte individuali

Per quanto sia spesso una scelta non del tutto razionale e consapevole è comunque il singolo individuo che distingue, tra la crescente massa di sistemi tecnologici che il mercato capitalistico ha esponenzialmente messo a sua disposizione, quelli che percepisce come davvero in grado di migliorare le proprie condizioni di vita. Allo stesso modo è innegabile che l’insieme di tali scelte e propensioni si sia rivelata efficace e vincente, basta pensare all’allungamento della vita media e al collegato miglioramento delle condizioni materiali di esistenza di gran parte dell’umanità (quantomeno di quella che ha pieno accesso a tali sistemi tecnologici). Un dato di fatto al momento così innegabile ed impattante da spostare verso il futuro l’ipotesi che tali scelte possano non rivelarsi così efficaci sul lungo periodo generando ricadute mal-adattative, una possibilità da tenere sempre in debito conto quando si riflette su trasformazioni evolutive di rilevante importanza i cui effetti possono essere valutati nella loro interezza solo sul lungo periodo

Si situa in questo passaggio, al quale Gallino non concede in effetti particolare rilevanza, la seconda perplessità/critica avanzata da De Martin. Per quanto sia anch’essa in buona misura spiegabile con la mancanza, nel 1984, di evidenze come quelle emerse, drammaticamente, nei decenni successivi, a suo avviso Gallino non ha adeguatamente tenuto conto che la potenza dell’impatto delle attività umane consentita dallo straordinario potenziale tecnologico sugli equilibri ambientali e climatici fosse ormai in grado di generare ricadute mal-adattative per la stessa specie umana

Al momento comunque l’esito congiunto degli effetti dei sistemi tecnologici entrati in uso in tutte le attività umane (da quelle agricole, a quelle della velocità di trasporto e conservazione, dal miglioramento delle condizioni di lavoro all’assistenza medica, dagli standard igienici all’approvvigionamento idrico, tanto per citarne alcuni) ha consentito non solo l’allungamento della vita media umana, ma ha modificato in profondità ed in modo diffuso stili di vita, propensione alla procreazione (le società tecnologizzate fanno meno figli), struttura dei nuclei famigliari (l’età media di un individuo che ha ancora ambedue i genitori viventi è salita dai circa 20 anni di inizio secolo a quasi 50 anni), rapporto diretto con ambiente e natura (senza la mediazione di sistemi tecnologici la stragrande maggioranza degli individui non è più in grado di procurarsi le risorse naturali più semplici come acqua e cibi grezzi).

Restando nella sfera individuale l’attuale crescita esponenziale di sistemi tecnologici sta inoltre avendo effetti rilevanti sulla stessa identità personale e sulla sua auto-percezione. La consapevolezza di sé, vissuta come certezza della propria unicità biologica e fisiologica sulla quale poggia quella sociale e culturale, acquista una sua concretezza solo nel rapporto con altri individui (definiti da Gallino “affini biologici”, quelli parentali, e “affini culturali”, quelli delle varie comunità di appartenenza) che percepiti e vissuti nella loro diversità diventano l’indispensabile sfondo su cui inserire la propria identità in tutte le sue sfaccettature. L’immersione costante in contesti senza limiti che i sistemi tecnologici consentono sta diluendo questo rapporto, che fisiologicamente è invece circoscritto a contesti limitati, fino a divenire una fonte, tanto transitoria quanto sempre in grado di rinnovarsi, di forme di identità. Si è di fronte ad un fenomeno, ancora tutto da esplorare, che sta comunque avendo una evidente influenza sulle modalità di sviluppo delle relazioni sociali diffuse.

A questo preoccupante fenomeno si associa un ulteriore rischio: che la perdita della consapevolezza della propria identità apra di fatto la strada ad una sorta di omogeneizzazione, funzionale a specifici interessi, creata ad arte grazie al continuo connesso trasferimento di dati dall’uomo alla macchina. Questa particolare forma di tecnologia sembra potenzialmente comportarsi come una gigantesca pompa che trasferisce informazioni ad una parte minoritaria della popolazione sottraendola, non di rado in modo sotterraneo, alla restante parte maggioritaria.

De Martin fa sua la preoccupazione di Gallino, ed anzi l’accentua evidenziando come nei decenni successivi al suo saggio quelle che al tempo si presentavano come minacciose tendenze si siano concretizzate grazie agli enormi sviluppi delle tecnologie informatiche che hanno reso possibile la conoscenza capillare di aggregati umani ad ogni livello, fino alla creazione dei cosiddetti “gemelli digitali” di straordinario potere conoscitivo, e quindi di pericolosissimo controllo di massa

Ciò che è avvenuto nella sfera individuale, così come si è fatto evidente in queste ultime considerazioni, ha inevitabilmente avuto delle profonde ripercussioni sul più generale rapporto tra tecnologia e società. Non esiste infatti ambito sociale che non sia stato modificato dalla progressiva affermazione di sistemi tecnologici, l’attenzione di Gallino si concentra in particolare sulla sfera del lavoro e su quella dei meccanismi decisionali e delle istituzioni, considerate quelle più importanti per l’insieme degli assetti sociali.

L’introduzione di sistemi tecnologici nella produzione di beni e servizi necessari all’uomo è in quanto tale finalizzata (anche se non da sempre in modo pienamente consapevole) ad ottimizzare, riducendola ovvero impiegandola al meglio, la quantità di energia, a partire da quella umana, immessa in essa. Lo stesso sfruttamento del lavoro salariato è in effetti, se tradotto in termini di bilancio energetico, la cessione di una parte della propria energia che il salariato fa a favore di terzi in cambio di altra energia sotto forma di salario.

La crescente sostituzione nell’ambito della produzione (fisica ed intellettuale) dell’energia ricavata dal lavoro umano con quella ottenuta da sistemi tecnologici dovrebbe consentire a chi è coinvolto a vario titolo in essa di risparmiare energia destinandola così ad altri usi ed al tempo stesso a chi detiene i mezzi di produzione di modificare la composizione dell’energia/lavoro utilizzata a vantaggio della componente “capitale fisso(macchinari e sistemi automatizzati).

Ovviamente intervengono, a determinare le conseguenze della tecnologizzazione del lavoro, molte altre variabili in costante cambiamento, ed è quindi questione costantemente irrisolta una sua completa valutazione. Appare però certa nel rapporto tecnologia e lavoro la persistenza delle logiche di sistema capitalistiche della ricerca del massimo profitto, d’altronde, come evidenziato in precedenza, quelle stesse che hanno ispirato la crescente introduzione di sistemi tecnologici nella sfera della produzione e dell’economia in generale.

Allo stesso modo al momento è puro esercizio teorico immaginare scenari di totale sostituzione del lavoro umano, una prospettiva che comunque, per essere pienamente realizzata, implicherebbe l’adozione di sistemi tecnologici in grado di far creare in modo autonomo macchine da macchine, un’ipotesi tanto fantascientifica quanto foriera di legittime preoccupazioni sul residuo ruolo dell’uomo sulla Terra.

Buona parte del dibattito sul tema si articola in definitiva attorno alla discriminante “tempo di vita”, la possibilità di una significativa riduzione delle ore di vita destinate al lavoro apre spazi per prospettive che per essere definite imporrebbero un ripensamento totale dei modi di vivere e di gestione dell’economia e dell’intera società.

Per entrare nel merito della relazione fra tecnologia e cultura, e da qui a ricaduta con democrazia e istituzioni, è utile precisare preliminarmente che con il termine cultura Gallino intende in questo contesto l’insieme di sistemi culturali che, in costante trasformazione, sono evoluzionisticamente serviti all’uomo a creare e consolidare i legami che lo legano ai suoi affini culturali ed al tempo stesso a marcare le differenze con chi è estraneo a tali sistemi. Questi sistemi culturali sostengono cioè i tanti “noi” che si sono stratificati nello sviluppo delle organizzazioni sociali – noi paese, città, nazione, noi classe sociale, noi religione, noi ideologia, noi modi di vivere – nel loro contrapporsi agli “altri”, ossia a tutti coloro che sono diversi rispetto ai tanti noi.

I sistemi tecnologici si collocano esattamente all’interno di questa relazione fra popolazioni e sistemi culturali per la loro capacità di amplificare, di potenziare i canali di comunicazione e di condivisione utilizzati per diffondere i contenuti culturali propri di tali sistemi.

La nascita e lo sviluppo di tutte le culture sono sempre stati connessi alle modalità di diffusione e di circolazione di idee, elementi di conoscenza, scoperte scientifiche e di altri elementi culturali, per il cui successo la progressiva introduzione di sistemi tecnologici adatti a tale scopo si è rivelata determinante.

Ciò è valso anche nella sfera della politica, ossia là dove, all’interno di una popolazione/comunità più o meno omogenea, si elaborano, si adottano, si combattono tra di loro sistemi socio-culturali intesi a strutturare, controllare e regolare il complesso della sua organizzazione sociale, del suo sistema di potere. La stessa nascita e diffusione della democrazia rappresentativa è stata frutto di fermenti culturali che, nella modernità occidentale, hanno potuto conoscere una loro diffusione sempre più rapida e capillare, grazie ad una tecnologia (in particolare dei trasporti e della comunicazione) che ha raggiunto nell’attuale contemporaneità livelli formidabili.

Questo indiscutibile ruolo positivo dei sistemi tecnologici non è però privo di aspetti negativi e contraddittori che si sono manifestati in tutta la loro valenza proprio nell’attuale contesto iper-tecnologizzato, a partire in primis proprio dalla sfera della politica. Le potenzialità offerte dai sistemi tecnologici hanno infatti condizionato la definizione di proposte politiche e la loro diffusione, le modalità, l’intensità e la capacità attrattiva della comunicazione stanno ormai prevalendo sulla solidità dei contenuti e sulle modalità della loro condivisione. In un contesto simile l’appartenenza politica, ma non di meno la valutazione di contenuti culturali e scientifici in senso lato, si sono fatti labili e provvisori proprio perché troppo condizionati dalle loro modalità di “confezionamento”.

Non a caso, restando in campo politico, per supplire a questa evidente fragilità dei consensi da tempo si stia registrando una regressione verso strati simbolici più profondi, verso valori ed idee ritenuti più saldi, quali famiglia, patria, religione, generica solidarietà di classe, in quanto ritenuti al riparo dalla pressione tecnologica anche se di fatto incapaci da soli di offrire efficaci prospettive di soluzione delle tante, sempre più complesse, problematiche non di rado create dallo stesso dominio dei sistemi tecnologici.

E tuttavia è pur vero che questi tendono ad agire così prepotentemente ed invasivamente come fattori di omogeneizzazione, di livellamento di linguaggio, di forme di espressione, e quindi di formazione dello stesso mondo delle idee, da indurre, come reazione compensatrice, un ritorno rassicurante ai “noi” consolidati, non di rado ricorrendo ad una strumentale accentuazione delle linee di separazione, di differenza, da tutti gli altri stereotipicamente individuati come “inaccettabili diversi”.

L’onda lunga di questa istintiva reazione colpisce anche la sfera dei rapporti tra Stati nella quale però, altro aspetto paradossale, le strategie di reazione all’influenza omogeneizzatrice dei sistemi tecnologici viene affidata allo sviluppo e alla diffusione della tecnologia militare. Fino a (ri)considerare plausibile, o quanto meno rientrante nel novero delle opzioni normalmente praticabili, l’utilizzo di armi di distruzione di massa. Resta pur vero però che se in apparenza è la tecnologia della guerra a generare simili aberrazioni della razionalità, è la razionalità umana che ha scelta di far evolvere tale tecnologia.

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Nell’ultima parte di questo suo saggio Gallino segnala come quanto sin qui evidenziato sul ruolo della tecnologia nelle vicende umane stia conoscendo, verso la fine del secondo millennio (è bene sempre ricordare che questo testo è del 1984), un’accelerazione tale da sconvolgere i presupposti su cui si era sin qui basato il suo sviluppo. Un cambiamento radicale sintetizzato nel titolo dell’ultimo capitolo come “L’evoluzione della tecnologia da mezzo a sistema autotelico” (dal greco “autos = sé” e “telos = fine, scopo”, indica un qualcosa che possiede in sé stesso la finalità ultima del proprio essere).

Tutte le considerazioni svolte mantengono la loro validità di fondo, ma la dipendenza dell’umanità dalla tecnologia è divenuta, a causa dell’impressionante sviluppo recentemente avvenuto, tale da far ritenere una priorità assoluta il mantenimento degli standard tecnologici raggiunti. In questo contesto a rendere autenticamente autotelica la tecnologia concorre una sorta di corto circuito in base al quale la sola possibilità per mantenere i livelli tecnologici raggiunti viene individuata nel loro ulteriore, sempre più invasivo e perfezionato, implemento. Nuove popolazioni di sistemi tecnologici vengono continuamente messe a punto generando una rincorsa senza fine in cui sono di fatto smarrite le logiche di fondo che hanno da sempre ispirato il rapporto tra tecnologia e società.

Si tratta tuttavia di un processo che contiene in sé un limite che dovrebbe essere razionalmente individuato come invalicabile, così definito da Gallino ….. la tecnologia diventa fine a sé stessa, sino a sopravvivere e riprodursi indipendentemente dal servizio che può rendere alle popolazioni umane, allorquando ogni suo viluppo inteso a facilitare e perfezionare i livelli tecnologici già raggiunti non aggiunge più nulla all’idoneità biologica e culturale da essi già assicurata ed anzi tende a ridurle ….

Il rischio che a Gallino appare ormai evidente è che ciò stia ormai già avvenendo e che ….

De Martin riprende testualmente queste ultime frasi del saggio di Gallino ritenendole “magistrali” e da condividere convintamente


……. la coevoluzione di biologia e cultura - le cui limitate oscillazioni in direzione della massima ideoneità biologica o della massima idoneità culturale hanno finora strutturato la morfologia e le dinamiche delle società umane con i sistemi tecnologici che operavano prevalentemente come mezzi asservibili all’uno o all’altro fine e con maggiore frequenza a una loro combinazione – viene d’ora innanzi resa più complicata e incerta dall’emancipazione di nuovi sistemi tecnologici. Limitarsi ad etichettarli come un mero artefatto che uomini hanno generato e altri uomini possono disfare non basterà per renderle di nuovo servilmente neutrali ….. 


martedì 2 settembre 2025

La Parola del mese - Settembre 2025

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

SETTEMBRE 2025

A proposito di “parole”: quale parola potrebbe meglio sintetizzare le finalità che hanno sempre animato la nostra quindicennale attività? quale termine, meglio se di poche lettere, può riassumerne lo scopo che, richiamato nel nostro statuto, consiste nel “promuovere attraverso il dibattito una cittadinanza attiva fornendo elementi di conoscenza e riflessione per leggere il nostro tempo in costante e rapida trasformazione”? Di certo se ne potrebbero individuare più di una, ma recentemente ci siamo imbattuti in un articolo che nel titolo ne citava una che, con una piccolissima forzatura, ci è sembrata adatta allo scopo. Forse non è molto conosciuta, ma a ben vedere anche questa caratteristica di originalità è stata un tratto che ha ispirato molte delle nostre “Parole del mese”. Quella di questo Settembre 2025 è …….

PAIDEIA

Paideia = voce dotta recuperata dal greco pai-dè-ia che, derivata di pais = bambino/ragazzo, significava ‘educazione dei ragazzi”, è poi progressivamente passata ad indicare in senso più lato “educazione, formazione, specie adottata con riferimento ad un contesto specifico, ad una determinata fase storica”.

Al di là del suo significato originario di educazione del ragazzo paideia è però poi semanticamente evoluta nel suffisso “-pedia” presente in molte parole composte per indicare letteralmente, “formazione, istruzione, informazione”, ma non più riferita al solo contesto educativo in senso scolastico, ma ad un più generale contesto di conoscenza (si pensi ad esempio al significato di enciclopedia, termine formato oltre che dal suffisso pedia dal prefisso enciclo anch’esso derivato dal greco “en kyklos ossia in circolo” per indicare tutte le informazioni comprese nel cerchio della conoscenza).

La piccola forzatura di cui si è detto, che meglio si chiarirà strada facendo, trova peraltro una sua ragione d’essere nello stesso modo con cui la cultura greca del V secolo ha esteso il significato di paideia portandolo oltre i confini di una ristretta educazione scolastica.

La paideia dei Greci già nella sua declinazione originaria pensava ad uno sviluppo etico e spirituale dei ragazzi mirato a renderli cittadini completi grazie al loro pieno ed armonico inserimento nella società. Era cioè una formazione che non si esauriva nella dimensione della scuola, ma che si completava, valendo per ogni percorso di formazione e conoscenza, solo aprendosi a tutta la polis, alla città essendo basata sulla convinzione che l’individuo può realizzarsi solo con un pieno inserimento nella comunità.

Per meglio comprendere il bagaglio di concetti e valori che di conseguenza si sono associati nel concetto di paideia, in questa sua accezione ampia, può essere utile ripercorrere, a volo d’aquila, il suo utilizzo in ambito culturale, soprattutto filosofico, partendo quindi dalla Grecia del V secolo per fermarci alle soglie della Modernità europea, Lo facciamo, per l’originaria parte greca, seguendo la traccia di un volume curato da Giuseppe Cambiano (1941, è stato a lungo professore ordinario di Storia della Filosofia Antica presso l’Università di Torino, sua città natale, e successivamente professore emerito della stessa disciplina presso la Scuola Normale Superiore di Pisa) pubblicato nell’ambito della imponente collana “Storia della civiltà europea” a suo tempo coordinata da Umberto Eco


Se infatti nella Grecia omerica l’educazione tradizionale puntava, attraverso i modelli degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea, a formare cittadini capaci sia di combattere che di saper parlare in pubblico, è per l’appunto nella Grecia del V secolo che si precisa in modo organico cosa si debba intendere per paideia, trasformandola in un termine dotato di contenuti intellettuali più complessi.

Come quelli rintracciabili nelle scuole dei sofisti che l’arricchiscono con l’importanza di conoscenze del mondo e della realtà naturale includendo quindi quelle matematiche ed astronomiche. Non meno importante era la conoscenza di informazioni storiche sulle antiche tradizioni delle città. Ma soprattutto il nucleo dell’insegnamento sofistico consisteva nel perfezionamento delle proprietà di linguaggio per usarle al meglio nel dibattito pubblico tenendo sempre in debito conto le circostanze in cui i discorsi vengono pronunciati e delle caratteristiche emotive e intellettuali di ciascun tipo di pubblico a cui i discorsi sono indirizzati.

Ma è con la filosofia socratico/platonica che la padeia si allarga definitivamente (pur mantenendo una sua specifica rilevanza nel campo specifico dell’educazione) a comprendere i modi di formazione della cultura della polis. Per farlo, così emerge dai dialoghi socratici riportati da Platone, essa riteneva essenziale liberare le menti dalle false credenze e dagli errori dovuti a superficialità ed ignoranza mediante un confronto sincero ed approfondito, la “socratica confutazione”, fino a considerarlo la vera condizione per realizzare una vera paideia dell’intera polis.

Lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituivano infatti un elemento fondamentale alla base dell'ordinamento politico-giuridico delle città greche. L'identità dell'individuo era intessuta con l'insieme di norme e valori che costituivano quella del popolo intero. In questo contesto la paideia oltre che un processo educativo e di socializzazione si elevava ad una acquisizione di un vero e compiuto “ethos politico”.

All’idee socratiche Platone, meno fiducioso della solidità delle istituzioni democratiche ateniesi  vista la tragica condanna a morte di Socrate e per questo più concentrato sui valori etici, aggiunge poi la prospettiva di una paideia filosofica (che concretamente ispirerà la sua Academia) considerata come il culmine della formazione, in una versione comunque non priva di accenti elitari, delle figure adatte al governo della polis perché ispirate non dalla sete di potere, ma dal sapere e dalla ricerca della verità.

Può far sorridere, pensando ai contemporanei attacchi populisti al ruolo delle cosiddette élite, che già allora altri filosofi come Isocrate e Senofonte abbiano, riflettendo in modo critico sull’utilità della platonica paideia filosofica (e quindi con ben altre argomentazioni rispetto a quelle populiste) espresso perplessità sull’eccesso di importanza attribuita da Platone al ruolo sociale e politico degli “uomini colti”, dei maestri”, (termine questo che verrà successivamente ripreso).

Anche Aristotele riprenderà questa distinzione per porre, sempre riflettendo sull’eredità platonica, una questione ancora oggi dirimente: chi e come può concretamente disporre del sapere degli uomini colti?  soltanto altri uomini altrettanto colti o anche i profani? vale a dire: quale forma di paideia può essere offerta a questi ultimi affinchè possano formare un proprio giudizio su discipline e questioni dotate di un alto grado di complessità?

Aristotele risponde esprimendo la convinzione che in ogni ambito del sapere esistano due competenze …… ad una conviene il nome di scienza dell’oggetto, all’altra quello di una certa paideia …… (da un suo scritto intitolato “sulle parti degli animali”) ossia una formazione, di tutti i cittadini, che sappia preparare dei pepaideumenos (colui che è stato formato) fornendo loro elementi di conoscenza sufficienti per esprimere una minimante adeguata “krinein  (capacità critica)” nel giudicare e discriminare quanto è detto e fatto (va detto, per completezza, che anche in Aristotele è presente un certo elitarismo, egli resta convinto che il culmine della paideia sia il vivere filosofico, a suo avviso diventare uomini nel senso pieno della parola non significa soltanto diventare buoni cittadini).

E’ bene ricordare che il valore eterno della cultura greca va comunque rapportato, con una giusta contestualizzazione, ad una società tutt’altro che priva di profonde ingiuste divisioni, la paideia infatti riguardava solo i maschi, le donne ne erano totalmente escluse, e i cittadini pepaideumenos erano solo quelli liberi, ossia coloro che avevano titolo al diritto di proprietà, una parte ristretta di una popolazione in gran misura composta da schiavi

E’ stato opportuno soffermarsi sullo sviluppo del concetto greco di paideia perché tali concezioni, seppure con diverse accentuazioni e modulazioni determinate dal mutare dei nuovi contesti storici, hanno successivamente attraversato tutta la cultura europea fino ai giorni nostri. Così è avvenuto durante tutta l’epoca romana che ha mantenuto le idee platoniche e aristoteliche fino ad un loro esito compiuto nel concetto latino di humanitas, messo a punto da Cicerone e posto al centro di una formazione culturale che mirava a portare a perfezione le proprietà distintive dell’uomo, sia intellettuali che morali (non di meno di quella greca anche la società romana è sempre stata segnata da nette divisioni sociali, l’humanitas ciceroniana  era di fatto preclusa alla grande maggioranza del popolo).

La paideia filosofica romana, che si consoliderà accentuando la sua valenza etica come reazione al progressivo decadimento della civiltà imperiale, già assume del suo una crescente connotazione spirituale che troverà uno sbocco quasi naturale nell’affermazione della religione cristiana. Il cui messaggio universale, che per la prima volta guarda in particolare agli umili ed agli emarginati, implica l’estensione di una nuova idea di paideia che, non più esclusivamente rivolta ad élite ristrette, indica un modello di formazione religiosa, ma con evidenti ricadute sociali e civiche, basato sul modello di vita indicato da Cristo, la paideia Christi, propedeutica, come una sorta di propaideia, alla completa adesione alla dottrina cristiana come mostrano, in diverse maniere ma con unica finalità, nel Medio Oriente greco Origene e nell’Occidente latino Agostino.

Questa idea universalistica di paideia, per quanto più religiosa che filosofica e civica, attraverserà tutto il Medioevo tenendo vivo l'ideale di formare integralmente una persona completa, retta, che nella fede trova la via per bene inserirsi nella società.

La sostanziale coincidenza fra fede e formazione, pedagogica e civile, che attraversa i secoli del Medioevo trova nel successivo Rinascimento una svolta significativa: nel generale ritorno ideale alla Grecia classica “rinasce” anche un’idea di paideia che accetta la sfida del muoversi in un mondo non più così unicamente determinato dalle certezze della fede. Si riaprono spazi per domande scientifiche, si accetta consapevolmente l’imperfezione della conoscenza, l’influenza della cultura umanistica è riconsegnata alle “humanae litterae” in filo diretto con la cultura classica greca e romana, legando insieme la paideia greca e la virtus latina.

Il soggetto dell’educazione e della formazione non è più il cristiano in quanto tale, ma, in una idea di cultura che comunque mantiene al centro quella delle fede, torna ad essere il cittadino. Anche le intenzioni utopistiche rinascimentali mantengono però un tratto fortemente elitario, nel concreto agire sociale il titolo di cittadino vale ancora solo per gli strati privilegiati e nobiliari. La paideia resta una prerogativa davvero di pochi.

E saranno proprio sommovimenti in ambito sociale che, prendendo culturalmente le mosse dalla scuola Illuministica e nella concreta vicenda storica dalla Rivoluzione Francese del 1789, sconvolgeranno da lì a poco l’intera l’Europa fino ad imporre una svolta radicale nel concetto di paideia, nella sua accezione più strettamente pedagogica e in quella più ampiamente sociale.

A questa svolta si accompagna, sostanzialmente nello stesso periodo di fine Settecento, una analoga esperienza, giocata però su un terreno quasi esclusivamente culturale,  avvenuta nel contesto tedesco dal primo Settecento, della paideia tradotta nel termine bildung che ha identico significato di “educazione, formazione”. Il termine/concetto di bildung (che, prendendo le mosse dal recupero del pensiero di Kant e poi evolvendo, lungo una traiettoria di costante approfondimento segnata dalle attenzioni di Fitche, Hegel, Schiller, Schelling, Max Weber, Thomas Mann, fino ai giorni nostri alla scuola di Francoforte e ad Hans Gadamer) tenta di conciliare due entità fondamentali della modernità tedesca: individuo e società. La formazione del cittadino, per la cui realizzazione il sistema educativo è fondamentale, deve investire, guardando alla sua globalità, ogni individuo ponendolo nella condizione di disporre, assorbendola, della “grande massa di materiale che gli viene offerta dal mondo che lo circonda”. Questo investimento trova la sua ragione d’essere nel ritorno che ogni individuo, in tal modo realizzato, deve assicurare alla società, alla nazione.

Come anticipato, su un versante che coniuga, rispetto a quello tedesco, più strettamente teoria e prassi, l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese del 1789 danno l’avvio a sommovimenti sociali così profondi da innescare una rivoluzione copernicana anche per quanto riguarda i processi di formazione del cittadino all’interno della quale il classico concetto di paideia non sembra però più ricevere le stesse attenzioni. Ciò avviene perché il rapporto tra individuo cultura/sapere e potere, viene interamente giocato sul piano dei mutati rapporti di forza tra strati, e poi “classi”, sociali. Ciò che infatti diventa determinante, prima ancora del “cosa” e del “come” deve costituire oggetto di formazione, fin qui al centro di tutte le idee di paideia presa in esame, è il “per chi”, il “per cosa” e “per quale fine”, segnando così una netta e definitiva separazione fra educazione scolastica vera e propria e formazione generale del cittadino.

Da una parte con il progressivo affermarsi e consolidarsi del ruolo del laico Stato moderno, e con esso dell’educazione pubblica, avviata proprio dalla Rivoluzione Francese sull’onda delle idee illuministiche, l’aspetto più propriamente pedagogico della paideia trova infatti compimento organico nella nascita e nello sviluppo di articolati sistemi scolastici (nei nostri programmi di Circolarmente sono, fin dal suo inizio, molte le iniziative dedicate a queste problematiche perché ritenute fondamentali per lo stato di salute generale del paese)

Dall’altra l’idea della paideia costante del cittadino viene assunta in ambito propriamente politico, diventando obiettivo e compito di organizzazioni sindacali e partitiche e quindi conseguentemente condizionato dalle specifiche finalità politiche di parte.

Questa nostra carrellata dell’evoluzione storica del concetto di paideia si ferma qui alle soglie dell’avvento della Modernità europea. Da qui in poi inizia un’altra storia, quella che porta ai nostri giorni passando attraverso fasi storiche molte diverse per poi concludersi nell’attuale contesto iper tecnologizzato in cui tutte le relazioni sociali si sono fatte quanto mai complesse e la sfera della cultura e del sapere incredibilmente ampia ed al tempo stesso molto specialistica.

Una fase nella quale un nuovo consapevole concetto di paideia, di cui oggettivamente si è a lungo persa traccia, è inevitabilmente chiamato a confrontarsi con nuove, variegate ed impegnative, difficoltà per restare coerente allo spirito greco di fornire a tutti una adeguata conoscenza della realtà e delle sue complessità capace di meglio sostenere un loro auspicabile ruolo di cittadini attivi.

Consiste proprio in questa constatazione la piccola forzatura di cui si è detto in apertura e la scelta di paideia come Parola del mese dettata dalla speranza che il nostro modesto agire come associazione che si è sempre sforzata di fornire informazione, approfondimenti, spunti di riflessione, momenti di confronto su tante tematiche e questioni, sia riuscita in qualche misura a coprire l’oggettivo deficit della nuova e sempre più necessaria paideia.

Un certo conforto in questo senso ci viene fornito dal constatare che di essa, proprio  in questa sua nuova accezione, si torni recentemente a parlare in modo esplicito. Un primo interessante esempio è venuto dall’articolo, richiamato in apertura, comparso su La Stampa di Mercoledì 9 Luglio scorso a firma di Daniele Francesconi (docente in Storia del pensiero politico presso la Scuola Superiore di Pisa, autore di numerosi saggi su temi filosofici. Attualmente è Direttore del Festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo)

che qui riportiamo nella sua versione integrale:

“Ispiriamoci allapaideia” greca per riconciliare sapere e potere”

Quando Platone scrive La Repubblica dedica una parte consistente dell’opera alla paideia  ovvero il ciclo di educazione cognitiva e civile che serve per formare buoni cittadini e buoni governanti. La paideia era un insieme di pratiche pre-esistenti, fondato su profondi meccanismi rituali, ma Platone sente un’urgenza particolare per rifondarla. Vent’anni prima Atena ha messo a morte Socrate e per il suo allievo più importante è indispensabile pensare una forma di educazione che impedisca che in futuro i filosofi (termine con cui si riferisce ai sapienti di ogni genere) possano venire mandati a morte. Il conflitto tra sapere e potere (un dissidio che percorrerà la storia e che oggi torna a superare abbondantemente i livelli di guardia) può essere ricomposto solo attraverso l’educazione. ”Fast forward” (veloci avanti) e siamo alla fine del Settecento. La Rivoluzione industriale sta mostrando che la serializzazione del processo produttivo separa ciò che sappiamo dal prodotto del nostro fare, spersonalizza i risultati del lavoro e, in prospettiva, genera alienazione. Un’avanguardia di filosofi, scienziati e poeti (e anche alcune autrici) a Jena, in Germania, ridefinisce una parola chiave, la “Bildung”, ossia l’educazione, che alla lettera significa “mettere in forma”. Per superare la scissione determinata dalla modernità industriale occorre riconnettere filosofia e scienza, poesia e vita, lavoro e opera: occorre capire la dinamica delle contraddizioni e trovare una nuova composizione che renda gli umani nuovamente padroni di sé stessi. Anche per Goethe, Schiller, Schelling ed Hegel (per dire solo i principali protagonisti) l’unica risposta è l’educazione. E oggi? La rivoluzione tecnologica determina un’accelerazione che trasforma non solo i processi produttivi, ma le nostre stesse procedure cognitive. L’Intelligenza Artificiale Generativa sembra scindere il sapere in sé stesso, al punto che è esperienza comune chiedersi cosa sia generato (pensato?) dagli umani e cosa dalle macchine. E’ un problema? No, a condizione che anche in questo caso, come nei due precedenti che hanno segnato la storia della nostra cultura, lavoriamo nella prospettiva di una nuova idea di educazione che ricomponga la scissione. Per questa ragione di fondo il Festivalfilosofia 2025 dedica la sua 25° edizione al tema paideia, una parola antica per segnalare una questione attualissima e contemporanea. Parte dunque dalla constatazione che si è interrotta, o si sta interrompendo, una trasmissione. Diversamente da quanto accadeva in televisione nei tempi d’oro dell’analogico, questa trasmissione non “riprenderà il più presto possibile” a meno che non troviamo una soluzione più evoluta. Non bisogna essere terrorizzati, la storia è piena di discontinuità, e il programma del festival proverà a far vedere che la filosofia può ancora avere un ruolo nel situare le traiettorie storiche e formulare, se non risposte, almeno buone domande. L’interruzione è a più livelli. Riguarda le generazioni e le loro relazioni all’interno delle famiglie, dove abitualmente si è compiuta una educazione nel senso basilare del termine. Investe la scuola, cioè la più altamente codificata delle istituzioni di apprendimento. Si ripercuote sulla relazione tra ricerca scientifica e ricerca applicata, modificando drasticamente l’idea stessa che abbiamo finora avuto di “formazione”. E, non da ultimo, riguarda la cultura. Sono cambiati i media, è cambiata la funzione del sapere. La cultura, che in fondo è il più potente sistema di trasmissione di significati che l’umano abbia saputo escogitare, deve ripensarsi. Un vasto programma di lezioni cercherà di creare risonanze tra queste domande, tutte interconnesse e tutte senza risposta definitiva. Il che è un bene perché vuol dire che niente è perduto. Attingerà a forme e figure della funzione di insegnamento (da Socrate a Confucio, dai guru indu a Gesù) per capire cosa siano i maestri e come si possa mettere a frutto il loro influsso, meglio ancora emanciparsi. Farà il punto su alcuni nodi relativi alla funzione della scuola e alla sua presenza nel discorso pubblico: la persistenza della povertà educativa, la relazione tra merito e uguaglianza, il divario tra cultura scientifica e cultura umanistica. Allargherà lo sguardo alla sfera pubblica, dove, appunto, è urgente ridefinire la funzione della cultura senza nostalgia, ma anche senza abdicare alla sua autonomia

E dunque il Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo (fra i suoi tanti relatori spiccano i nomi di Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Nicola La Gioia, Michela Marzano, Stefano Massini, Massimo Recalcati, Marcello Veneziani) avrà proprio paideia come tema centrale che affronterà riflettendo sulla sua applicazione pedagogica e sulla sua valenza sociale e politica. Pur nella consapevolezza di come sia impensabile che solo da iniziative come queste possa innescarsi una vera svolta nel rapporto tra sapere e potere, conforta quindi che torni a farsi sentire la consapevolezza della necessità di una maggiore e migliore trasmissione di conoscenza a tutti i cittadini al fine di dare sostanza alle loro opinioni e orientamenti e di rafforzare e migliorare, su queste basi,  i meccanismi decisionali collettivi.

Sono, anche, questi gli obiettivi che CircolarMente ha cercato di raggiungere, perseguendo così, nel nostro contesto, una nostra paideia affidata ai tanti relatori che si sono succeduti nelle iniziative portate avanti in tutti questi anni.

Chiudiamo questa Parola del mese recuperando la definizione di paideia data da Jacques Delors (1925/2023, politico ed economista francese, Presidente della Commissione Europea, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea) nell’ambito di un congresso dell’UNESCO. A suo avviso essa poggia su quattro pilastri:

Ø imparare a conoscere

Ø imparare a fare

Ø imparare a vivere insieme

Ø imparare ad essere

Solo con il loro perseguimento, da mantenere per tutto il corso della vita di tutti, la Polis, da intendere in senso ampio, potrà sperare nella sua sopravvivenza.