martedì 21 novembre 2017

Sintesi della conferenza del Prof. Alessandro Barbero "Le migrazioni barbariche"


LE MIGRAZIONI BARBARICHE

Incontro con il prof. Alessandro Barbero



Dopo aver ringraziato il numeroso pubblico e naturalmente il relatore, che CircolarMente si onora di presentare dal momento che è da tutti apprezzato per la sua straordinaria capacità di unire la competenza di studioso alla passione espositiva del narratore, Massima Bercetti esplicita la proposta dell’associazione che attraverso il tema delle migrazioni barbariche – un’emergenza del passato – vuole mettere a fuoco alcune caratteristiche delle emergenze attuali, fidando nel potere chiarificatore ed evolutivo della memoria storica. Per molti dei presenti sicuramente questo tema richiama alla memoria una dicotomia, quella fra Romani e Barbari, visti come se ci fosse fra questi due termini un’antitesi insuperabile - ordine e caos, luce e ombra, civiltà e rozzezza: qualcosa insomma che non può mai sussistere insieme, tanto è vero che quando sono arrivati i barbari l’impero si è sfasciato. Tuttavia il prof. Barbero, che su questo tema ha pubblicato nel 2010 per Laterza il testo ”Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”, ci mostrerà una realtà più complessa e sfaccettata, facendoci vedere come fra questi due poli non ci sia stato sempre un rapporto di esclusione reciproca, bensì una relazione per molto tempo anche proficua. Sarà dunque importante per tutti noi cogliere i termini di questa relazione e analizzarne con il prof. Barbero le modalità, individuando in particolare gli errori e le inefficienze che hanno contribuito a determinarne la rottura.



1. Attualità del tema

e sue diverse interpretazioni nel tempo:



Nell’aprire la sua conversazione, il prof. Barbero osserva come il modo diverso con cui il capitolo delle migrazioni barbariche è stato analizzato e interpretato dagli storici sia quanto mai significativo per farci capire l’oggi. Pensiamo per esempio a come veniva letto e raccontato a inizio novecento, quando gli stati europei si preparavano ad affrontarsi sul campo di battaglia con la loro carica di esaltazione nazionalista. Nel caso dell’Italia, prevalendo allora l’idea della superiorità etica e spirituale della razza latina, era facile identificare il nemico germanico con quei rozzi barbari che avevano distrutto la grande civiltà romana, e pertanto quelle che oggi gli storici definiscono come “migrazioni” venivano viste come “invasioni”, eccitando gli animi alla necessità della resistenza verso un nemico portatore di ogni nequizia.

Diversa è la lettura che ne facciamo oggi, spiega il prof. Barbero, non già perché gli storici possano ignorare a loro piacere una certa realtà fattuale, ma perché nella congerie dei fatti esiste pur sempre la scelta che si opera a partire da dove siamo collocati, e che ci spinge ad illuminarne alcuni piuttosto che altri, approfondendo certe analisi, rivalutando aspetti prima ignorati. Ora, per quanto possano esserci   occasionali frizioni col mondo germanico, nessuno porrebbe più il tema di uno scontro di civiltà fra i nostri due popoli: il problema che dobbiamo fronteggiare come europei è piuttosto quello di un mondo che si è fatto globale e complesso, e in cui c’è una parte più ricca e più organizzata che si sente accerchiata da popoli minacciati dalla fame e dalla guerra, le cui condizioni di vita sono profondamente diverse dalle nostre.

La lettura degli storici tende dunque oggi a ragionare maggiormente sul fatto che prima della vera e propria invasione c’era stata una lunga fase migratoria in cui i barbari erano stati positivamente accolti e integrati, indagando pertanto sia sulle modalità di assorbimento controllato di cui l’impero aveva saputo dare prova, che sugli errori e sulle inefficienze che ad un certo punto hanno permesso l’apertura di una crepa irreparabile.



2. Romani e Barbari:

una dicotomia assoluta?



Giustamente, osserva il prof. Barbero, Massima Bercetti nella sua introduzione ha messo in rilievo quanto sia forte, ancora oggi, la percezione di una profonda dicotomia fra questi due termini, che poggia sulla nostra tendenza a dividere il mondo fra NOI e gli ALTRI dotando i primi di tutte le qualità positive (i più civili, i più giusti, in altre parole: i migliori). Nel definire come barbari quelli che a nostro giudizio non possiedono queste alte qualità – qualunque siano i termini con cui le decliniamo – siamo sicuramente eredi del mondo greco, che come tutti sappiamo è stato il primo a chiamare “barbari” coloro che non erano greci e la cui lingua suonava balbettante e scomposta alle loro orecchie (il termine ha evidenti origini onomatopeiche).

E’su questa differenza, del resto, che essi si definivano come portatori di valori unici, leggendo la propria storia come la storia epica di coloro che avevano lottato, come uomini “nati liberi”, contro un impero di sudditi e di schiavi. Un modo di autodefinirsi per opposizione che abbiamo fatto in parte nostro, nonostante avesse un corollario non troppo edificante, se persino un filosofo come Aristotele poteva considerare del tutto lecita la schiavitù per coloro che per natura fossero “nati schiavi”...

Poi, come sappiamo, questa civiltà raffinata che aveva inventato il concetto di “barbaro” e che aveva saputo opporsi ai barbari d’oriente, cade alla fine sotto il dominio dei Romani, a cui fu gioco forza sottomettersi anche se in cuor loro i greci consideravano altrettanto barbari questi rozzi vincitori – cosa che del resto i latini ben sapevano, accettando in generale, nonostante qualche fiera resistenza (vedi Catone) di farsi “civilizzare” da un popolo vinto. Cose note, certamente, anche se il prof. Barbero fa notare che non solo i greci riuscirono ad ottenere uno statuto di autonomia per le loro poleis, ma che la parola barbaro cambiò di segno, passando ad indicare chi non era né greco né romano (tanto è vero che alcuni storici non parlano di impero romano, ma di impero greco-romano). Restava dunque l’idea di un confine fra sé e l’altro, ma si spostava di segno.



3. Una politica pragmatica di inclusione ragionata:



Inizia in questo modo, continua il prof. Barbero, un movimento che proseguirà nel tempo via via modificandosi, anche perché una dicotomia statica strideva concettualmente con l’idea inclusiva che i romani avevano rispetto al loro progetto di conquista (per fare un esempio, dopo le sanguinose guerre di Giulio Cesare, i Galli vennero “incorporati”: restavano barbari, ma barbari-di-dentro, contrapposti ai barbari-di-fuori…).

Si veniva così a definire una situazione che può essere rappresentata secondo uno schema bipolare:

- da un lato, i cittadini romani, a cui spettava l’assoluta prevalenza (essi erano al di sopra di tutti gli altri, e venivano sottoposti solo alla giurisdizione dell’imperatore)

-  dall’altro, i barbari interni, sudditi dell’impero (potremmo definirli barbari “indigeni”) per cui viene pensata un’apposita categoria giuridica, quella dei “peregrini”

C’è naturalmente una differenza enorme fra le due categorie: il “peregrinus” è uno che non è padrone a casa sua, un forestiero che viene semplicemente tollerato.

Per esemplificare la forza di questa distinzione, il prof. Barbero ricorda un episodio significativo, quello della cattura di Paolo di Tarso al tempo della sua predicazione a Gerusalemme, citata da una fonte autorevole (Gli atti degli apostoli).

Racconta dunque il testo che Paolo, denunciato dai sacerdoti ebrei, viene arrestato e condotto nel palazzo del governatore romano per essere sottoposto a giudizio. Qui viene incatenato e legato al palo per essere fustigato, a mo’ di pena preliminare, ma la tortura non avrà mai luogo dal momento che Paolo si rivolge ai suoi aguzzini con una frase che diventerà celebre: “Cives romanus sum!”  Panico assoluto: si chiama in gran fretta il governatore che accorre, presumibilmente trafelato a sua volta. Il dialogo fra i due uomini, che sulle tracce del prof. Barbero riproduciamo in questo modo, risulta decisamente surreale:

“E’ vero quanto mi dicono? Sei davvero un cittadino romano?”

“Sì, lo sono, e di nascita!” (notiamo che Paolo era originario dell’Asia Minore…)

“Io invece la cittadinanza l’ho acquistata, e a caro prezzo!”

Capiamo bene infatti che si è venuta a creare una situazione alquanto confusa per l’asimmetria dei due personaggi: il prigioniero è cittadino per nascita, il suo giudice un cittadino acquisito. Al di là di questo, su cui torneremo, il possesso della cittadinanza cambia radicalmente la situazione: bisogna sospendere tutto, scrivere subito a Roma, perché un cittadino romano è soggetto solo alla giurisdizione imperiale. Può dunque cavarsela, Paolo, perlomeno in questa occasione, mentre così non è stato per Gesù, che nell’impero era solo un “peregrinus” …

Ora, prosegue il prof. Barbero, se lo esaminiamo con attenzione questo episodio evidenzia non solo la nettezza della distinzione fra cittadini e no, ma anche l’esistenza di una terza categoria che rende in un certo senso “tripolare” lo schema di cui sopra: quella cioè dei cittadini romani non per nascita, ma per acquisizione. La cittadinanza dunque era qualcosa che si poteva ottenere, se venivano riconosciuti particolari meriti. Veniva accordata per esempio a chi nelle province conquistate si era dimostrato disponibile alla collaborazione, in specie se apparteneva a famiglie influenti, o ancora a chi si fosse arruolato nei reparti ausiliari dell’esercito (le legioni erano destinate ai soli cittadini romani) e vi avesse trascorso onorevolmente il lungo servizio previsto (25 anni!).

Al congedo gli “indigeni” ricevevano infatti la cittadinanza romana, corredata da un diploma onorifico detto “missio emerita” (il prof. Barbero cita il caso di un veterano originario della Pannonia, che aveva dato ai suoi figli rispettivamente il nome di Emeritus ed Emerita, a indicare l’orgoglio per la posizione conquistata) e da nuovo nome romanizzato, con un premio in denaro che consentiva loro di trasformarsi in piccoli agricoltori, diventando pilastri dello stato.

Quella romana era insomma una politica pragmatica di inclusione ragionata che veniva applicata generalmente con successo, anche se suscitava in qualche caso delle resistenze da parte dei fautori della supposta purezza romana:

Il prof. Barbero cita il caso di una proposta di legge davvero molto inclusiva che l’imperatore Claudio sottopose al Senato (come sappiamo, pur essendo l’imperatore praticamente onnipotente era tenuto a dimostrare almeno un formale rispetto per questo organo) e che prevedeva la possibilità di accedere alla carica senatoriale anche per coloro che erano di origine barbara.

Sembrò davvero troppo, a molti senatori (“Dove si andrà a finire? Ci sono limiti che non possono essere varcati!”), ma secondo quanto racconta Tacito Claudio li rintuzzò con un discorso veemente, che Barbero ha rievocato per noi più o meno con queste parole:

“Voi che temete di inquinare il vostro sangue, non siete forse stati, prima che romani, etruschi o sabini, un tempo nemici di Roma? Noi non siamo greci! Siamo romani, e siamo forti proprio per questo, perché accogliamo fra noi i nemici sconfitti!”

N.B. = ricordiamo che nel mondo greco si era cittadini solo per diritto di sangue

Da segnalare inoltre il fatto che la concessione della cittadinanza non riguardava solo i singoli individui, ma poteva essere concessa a intere comunità e financo a popoli (regnando Traiano, che era di origini spagnole, fu concessa tout-court a tutti gli spagnoli: si trattava anche allora – commenta il prof. Barbero ricorrendo scherzosamente ad un’espressione contemporanea - di ottenere consenso, allargando la propria base elettorale…).

In questa politica di concessione della cittadinanza, che rispondeva ad un preciso calcolo politico, costituirà un evento particolarmente significativo un editto emanato nel 212 d.C. dall’imperatore Marco Aurelio Antonino Caracalla, con il quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti coloro che vivevano entro i confini dell’impero.

Possiamo ben immaginare quale sia stato allora l’impatto di questa decisione, che riguardava un numero altissimo di beneficiati:

(da qui, racconta il prof. Barbero, deriva il fatto che moltissimi dei nuovi cittadini portassero come primo nome quello stesso dell’imperatore, come richiesto dal beneficio ma anche in segno di autentico orgoglio e riconoscenza. Fra i vari documenti che lo attestano, abbiamo ad esempio un’iscrizione in cui un certo Marco Aurelio Zozimo cita se stesso come “colui che si chiamava solo Zozimo, prima del sacro nome”….

Sacro in primo luogo perché era di emanazione imperiale, e quindi assimilabile ad un dono della divinità, e in secondo luogo perché era effettivamente foriero di grazia, “così che appartenesse a tutti ciò che prima era di pochi”, come dice sant’Agostino, facendo di Roma “l’unica città dove nessuno è straniero”)



4. I Barbari esterni e la questione immigrazione:



Quello romano era dunque un mondo dove le diverse identità non venivano conculcate, ma in cui tutte erano per così dire assorbite in un’identità superiore e aggregante.

Ciò detto – prosegue il prof. Barbero – non possiamo non chiederci che cosa succedeva ai barbari veri, quelli che non stavano dentro i confini dell’impero ma fuori, ai margini. Sappiamo che spesso erano loro in prima persona a chiedere di entrare, mentre in altri casi venivano sollecitati a farlo per esigenze interne all’impero, che aveva bisogno di contadini per i vasti latifondi o di reclute per l’esercito (anche per riempire i vuoti lasciati dalle epidemie, che erano assai frequenti). Quando parliamo di sollecitazione, intendiamo dire che al bisogno i romani, che notoriamente non andavano troppo per il sottile, organizzavano spedizioni in quello che chiamavano il “barbaricum” per andare direttamente a prenderseli, o attraverso accordi pacifici con i capi, oppure bruciando un po’ di villaggi a scopo dimostrativo….

Nel passare ad esaminare la condizione giuridica degli immigrati, il prof. Barbero fa ancora alcune considerazioni sull’editto di Caracalla, su cui gli storici si sono interrogati per capire se in qualche modo l’imperatore, concedendo la cittadinanza a tutti coloro che erano dentro l’impero, si fosse già posto il problema del fuori, guardando in qualche modo al futuro. Purtroppo non ci sono risposte precise a riguardo, perché il papiro egiziano con testo in greco che lo riporta è lacunoso proprio in alcuni punti salienti. Sappiamo però da altre fonti che per i lavoratori immigrati non era prevista alcuna concessione di cittadinanza: essi venivano considerati semplicemente “dediticii”, con un termine che implicava il darsi all’imperatore, il mettersi nelle sue mani. Da notare però che essi non erano schiavi: se impiegati nei latifondi, erano contadini liberi, che affittavano le terre e pagavano le tasse; se era l’esercito a richiederli, compivano il servizio militare come previsto.

Naturalmente, per gestire l’afflusso continuo di immigrati, c’erano strutture governative e intere prefetture con uffici e funzionari che avevano il compito di accoglierli, registrarli, distribuirli nei distretti a seconda delle richieste del governo centrale a cui spettava ogni decisione politica. Esisteva dunque un’organizzazione capillare ed efficace, ma certo non mancavano episodi di corruzione:

(ad un certo punto, racconta infatti il prof. Barbero,  scoppiò un vero e proprio  scandalo, quando il governo centrale si rese conto che sotto la dicitura “acquisto delle reclute” e “compravendita degli immigrati” avvenivano cose strane: ad esempio, si facevano degli accordi sottobanco fra i centurioni che dovevano reclutare uomini per l’esercito e i latifondisti che preferivano pagare piuttosto che sacrificare la preziosa mano d’opera; dopo di che gli stessi centurioni acquistavano gli uomini necessari a minor prezzo dai capi barbari, trattenendo per sé la differenza. Una volta appurato il giochetto, il governo centrale cominciòovviamente a provvedere da sé a questi acquisti…)

In generale peraltro le cose procedevano con sufficiente beneficio per tutti e l’immigrazione fluiva senza scosse, con le istituzioni preposte che regolavano i flussi a seconda dei bisogni interni.  Si calcola che fra il 4° e il 5° secolo l’esercito romano fosse composto quasi interamente da barbari, figli di immigrati o addirittura nati all’esterno dell’impero (cosa che a inizio novecento, quando si ragionava senza pudore in termini razzisti, veniva interpretata come una delle cause del suo crollo…). Potevano esserci frizioni occasionali, ma nella maggior parte dei casi l’integrazione di tutti questi immigrati non comportava particolari problemi e il valore dei barbari del nord, del resto convertiti al cristianesimo - la chiesa naturalmente lavorava per l’assimilazione, avendo una prospettiva universalistica - veniva spesso riconosciuto (benché fossero prevalentemente alti e biondi: segno certo, per i latini, di una indubbia inferiorità genetica!).

L’immigrazione finiva così per diventare una sorta di ideologia dell’impero, di cui il prof. Barbero ha dato alcuni  divertenti assaggi citando un certo numero di scritti in elogio dell’imperatore di turno, in cui pur facendo la tara al tono adulatorio che era davvero poco evitabile in questo genere di produzioni, veniva espresso un autentico  orgoglio per  questa capacità di assimilazione rispetto ai popoli sconfitti, attraverso la quale si assicurava a tutti il diritto di poter godere della “felicità romana”.

Questo naturalmente non implicava, da parte degli autori, il porre romani e barbari sullo stesso piano, ma si riconosceva comunque il valore politico forte della loro integrazione:

(per fare un esempio, in uno di questi scritti, indirizzato all’imperatore Teodosio da un certo Temischio, un politicante greco di Costantinopoli, ben si sottolineava come i Germani e i Goti rappresentassero con la loro rozzezza l’antitesi dei civili e razionali Romani. Nondimeno l’autore mostrava di considerarli educabili alla civiltà, esaltando dunque la scelta imperiale di non eliminare il popolo dei nemici bensì di proteggerli, dopo averli sottomessi, facendoli diventare parte dell’impero. In fondo, aggiungeva curiosamente “non proteggiamo forse noi anche gli animali feroci, così che si conservi la specie, e non scompaiano gli elefanti dalla Libia e gli ippopotami dal Nilo? Questi poi sono uomini, e pertanto meritano ancora di più la nostra protezione!”)



5. L’inizio della fine: un racconto drammatico,

foriero di insegnamenti preziosi



Dopo di che, prosegue il prof. Barbero, è inevitabile chiedersi che cosa successe poi e come avvenne che dopo aver gestito con successo la questione immigrazione per più di due secoli essa cominciò a sfuggire di mano, per una serie di concause fra le quali è importante a suo giudizio indicare tutta una serie di inefficienze e di gravi errori che emergono con drammatica evidenza in un episodio specifico, avvenuto nel 376 D.C.

(N.B. = su di esso il prof. Barbero ha imbastito una narrazione tanto significativa quanto avvincente, che cercheremo qui di riportare il più possibile per esteso perché rientra perfettamente nel tema che CircolarMente ha voluto proporre per l’anno in corso)

-la pressione dei Goti sulla frontiera danubiana

 e il dilemma: farli o non farli entrare?

Siamo dunque nel 376 D.C.

Alla frontiera dell’impero romano d‘oriente, che costeggia il Danubio, preme un intero popolo barbaro che si sta spostando dalle sue sedi per l’incalzare di tribù nomadi ancora più barbare, quelle degli Unni, che con le loro scorrerie saccheggiano e terrorizzano mettendo i villaggi a ferro e a fuoco. I Goti non sono certo sconosciuti ai Romani: molti di quelli che abbiamo chiamato “barbari di dentro” sono originari di questo popolo, hanno dato contadini ai campi dei latifondisti e reclute all’esercito, spesso salendo i gradini del comando. Questi che arrivano, certo, sono ancora “barbari di fuori”, ma le loro intenzioni non sono ostili, anzi: chiedono riparo e protezione all’interno del forte e organizzato impero e sono del tutto disponibili a diventare a loro volta contadini e soldati, facendone pacificamente parte.

Pur tuttavia, sono davvero tanti e gli ufficiali di servizio sul confine non vogliono prendersi la responsabilità di farli entrare senza l’avvallo del governo centrale. Si dà il caso però che l’imperatore Valente, cristiano, si trovi a circa 2.000 chilometri di distanza, presso la frontiera con la Persia a cui si accinge a far guerra (vecchia ossessione occidentale, commenta Barbero…). Quando i messaggeri finalmente lo raggiungono, subito viene convocato il Concistoro – una specie di Consiglio dei Ministri – il cui parere è decisamente favorevole: i Goti sono ottimi guerrieri, gente preziosa in tali circostanze.

Succede però che quando i messi sono di ritorno con la risposta, la situazione al confine si sia fatta decisamente tesa: i Goti premono sempre di più, col terrore di sentirsi addosso gli zoccoli scalpitanti dei cavalli degli Unni; alcuni hanno tentato di varcare la frontiera senza permesso e c’è scappato un morto, o più di uno (può essere interessante, secondo il prof. Barbero, quanto racconta un cronista che scrive di questi avvenimenti alcuni anni più tardi, quando si sa già come è andata a finire, e che in più è pagano, non è quindi interessato a mettere  sotto una luce favorevole il cristiano Valente: e cioè che dopo l’arrivo dell’ordine gli ufficiali che avevano negato l’ingresso erano finiti sotto processo per abuso d’autorità).

-il drammatico passaggio del Danubio:

inefficienze, errori, rapacità

 Ora che l’ordine di farli entrare è giunto, bisogna comunque organizzare il passaggio, ma non è cosa semplice e le cose in effetti volgeranno subito al peggio. Il Danubio è in piena, e il vecchio ponte costruito da Costantino (guarda caso, proprio per muovere guerra ai Goti) è crollato da tempo e non è mai stato ricostruito. Per traghettare intere famiglie, con masserizie, bestiame e un nugolo di bambini, si devono utilizzare mezzi di fortuna. Possiamo solo immaginare il caos totale (e certo l’abilità narrativa del prof. Barbero ce lo rende facile): famiglie che si perdono, persone che affogano, bambini che rimangono senza protezione…

Una situazione confusa e drammatica che rende di fatto impossibile agli impiegati preposti il procedere alla registrazione ordinata di questi richiedenti asilo.

Poi, cominciano a succedere cose altamente rischiose: da un lato i capi Goti, a cui è stato richiesto come di consueto di consegnare le armi, riescono a corrompere le sentinelle evadendo l’ordine, mentre dall’altro lato molti ufficiali romani - ci sono testimonianze inoppugnabili a riguardo – non esitano a prendersi come schiavi, approfittando dell’abbondanza, bambini e ragazzi rimasti senza genitori. Senza contare che non appena si sparge la notizia che i Romani hanno aperto il confine, altri Goti arrivano e la marea sembra ormai inarrestabile.

A questo punto la situazione è davvero critica e i Romani decidono di chiudere nuovamente il confine procedendo alla ripartizione di coloro che sono riusciti ad entrare nei distretti dove è richiesta la forza lavoro, come si è sempre fatto in passato. Il problema è che c’è stato un grosso vuoto di responsabilità amministrativa e non c’è nessun piano di ripartizione pronto all’uso, per cui si crea gioco forza una sorta di campo profughi per trattenere provvisoriamente questa massa di gente che comunque va custodita e nutrita. Neanche questo sarebbe un problema insuperabile, in effetti, perché il governo ha stanziato i fondi necessari per l’acquisto di razioni militari sufficienti per sfamare queste persone: succede però che gli ufficiali, invece di distribuirle gratuitamente ai Goti, si facciano pagare, così questi poveracci sono costretti dopo un po’ a vendersi tutto, prima il bestiame e alla fine anche i figli (raccontano i cronisti dell’epoca che tutti i mercanti di schiavi dell’impero d’oriente affluivano lì, perché si potevano fare grossi affari).

Una situazione alla lunga insostenibile, anche perché si protrae per troppo tempo aizzando da un lato il risentimento dei Goti per le condizioni penose di vita e per la sensazione di stare subendo un’ingiustizia (non sono arrivati con intenzioni ostili: i loro capi hanno fatto accordi che sono stati disattesi) e dall’altro facendo allignare nell’animo dei Romani la paura. Si decide dunque di procedere scortando i Goti nell’interno del paese, ma mentre il lungo corteo si mette finalmente in marcia, con un dispiego impressionante di truppe da parte dei romani, dal lato del confine ormai sguarnito una massa altrettanto grande di nuovi arrivati comincia a passare, senza chiedere il permesso a nessuno…

-il disastroso epilogo

Ma torniamo al corteo che ora è nei pressi di una città dove sia i soldati che i Goti vorrebbero sostare, per riposarsi e rifocillarsi. L’ingresso tuttavia viene consentito ai soli ufficiali romani e ai capi dei Goti (le città godono infatti di piena autonomia, e i suoi abitanti non hanno certo voglia di trovarsi fra i piedi i soldati romani né tantomeno i Goti).

A questo punto, come racconta uno storico coevo, Ammiano Marcellino, i generali romani presero una decisione che dovette sembrare molto astuta, ma che si ritorse su di loro: quella di invitare i capi ad un banchetto, farli ubriacare e poi farli fuori –  presupponendo ovviamente che le armi fossero state consegnate a suo tempo – nella speranza che il popolo decapitato dei suoi capi diventasse più docile da maneggiare.

La trappola peraltro non scattò, intanto perché risultò molto meno facile del previsto far ubriacare i goti, e inoltre perché nel campo esterno, mentre il banchetto andava per le lunghe, scoppiò un tafferuglio  e la scorta fu sopraffatta. A questo punto i capi, avvertiti dal clamore, corsero fuori urlando al tradimento e disconoscendo all’istante tutti gli accordi. Poi, diedero mano libera ai saccheggi che devastarono il paese.

Quando l’imperatore giunse a Costantinopoli, rientrando precipitosamente al nord dalla sua guerra persiana, trovò una città in preda al panico e un contado devastato. Fu giocoforza per lui uscire con le truppe e affrontare questa massa immensa di Goti carichi di bottino, a cui peraltro era ancora estranea l’idea di “invasione” e che pertanto si dimostrarono disponibili ad un accordo, s’intende a condizioni molto più favorevoli di prima.

Il seguito è noto. Senza un motivo preciso, nel 378 D.C. il conflitto latente divenne palese e nella battaglia che ne derivò i Goti annientarono letteralmente l’esercito dell’impero romano d’oriente. Ci fu ancora spazio per la negoziazione, a cui il nuovo imperatore Teodosio (Valente era scomparso nella battaglia) si acconciò non avendo altra scelta, ma a questo punto le condizioni erano completamente diverse: i Goti non accettarono più di essere divisi, e rivendicarono il diritto, conquistato con la spada, di vivere all’interno dell’impero secondo le proprie leggi e usanze.

Finì così, con questa novità davvero inaudita, questa fase delle migrazioni barbariche, da cui il prof. Barbero (applauditissimo dal folto pubblico, dopo questa esposizione calorosa e coinvolgente) ritiene si possano trarre insegnamenti ancora utili per noi: cosa che a nostra volta, come “CircolarMente”, condividiamo pienamente.



Relazione a cura di

“CircolarMente”

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