domenica 8 luglio 2018

Emozione, ragione e sentimento - Intervista ad Antonio Damasio


Emozione, ragione e sentimento



Riprendiamo con questo articolo, non solo un precedente post pubblicato a Marzo 2018 di presentazione proprio del saggio di Antonio Damasio, ma in particolare alcuni temi, quali  Intelligenza Artificiale, Intenzionalità, Post-umano, che, in relazione a conferenze già tenute e ad altre previste nei futuri programmi di Circolarmente, riteniamo meritino la nostra attenzione e  riflessione



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Dai batteri all’uomo, intervista ad Antonio Damasio, neuroscienziato e autore di  Lo strano ordine delle cose” -  Adelphi 2018, di Matteo De Giuli ,  senior editor del Tascabile, collabora con Radio3 Rai, al microfono a Radio3 Scienza. Co-autore di una newsletter che si chiama MEDUSA publicata dalla rivista on-line La Tascabile



Lo vedo a tentoni”, mi dice Antonio Damasio, in italiano. È la citazione di Shakespeare con cui ha scelto di aprire Lo strano ordine delle cose: Re Lear, quarto atto, scena sei. A parlare è il vecchio Conte di Gloucester, cieco. Rende meglio in inglese, però, aggiunge Damasio: “I see it feelingly”, un’espressione che non evoca solo il tatto, come in tentoni, ma anche altri modi di conoscere il mondo: quelli che passano attraverso le sensazioni e, in senso più ampio, i sentimenti. Sentimenti ed emozioni sono l’oggetto del lavoro scientifico di Damasio ormai da tempo. Neuroscienziato statunitense, nato a Lisbona, direttore del Brain and Creativity Institute della University of Southern California, Damasio è autore di ricerche considerate fondamentali per le nostre conoscenze sul rapporto tra cervello e coscienza, studi sulla memoria, sull’Alzheimer e sul ruolo delle emozioni nel processo decisionale. Damasio è anche uno scrittore di successo e, come sottolinea Paolo Pecere nella recensione di Lo strano ordine delle cose, i suoi libri non sono soltanto saggi divulgativi. Partendo solitamente da qualche riflessione sullo stato dell’arte della ricerca neurobiologica, raccontano le radici dell’uomo in un contesto più ampio, che raccoglie nello stesso sguardo la ricerca scientifica, la storia culturale e quella del pensiero.

A proposito di Shakespeare, lei lo ha definito uno dei neuroscienziati che stima di più al mondo.

È così, Shakespeare aveva una capacità sbalorditiva di comprendere la mente e il comportamento umano, era in grado di descriverli con molta precisione. Per esempio, la frase “I see it feelingly”, l’idea che si possa vedere tramite le proprie sensazioni – un modo che non coinvolge solo il tatto perché il personaggio, in questo caso, è cieco – è proprio l’idea di scoprire l’umanità tramite i sentimenti, la stessa alla base della mia ricerca. Shakespeare è molto preciso. Nelle tragedie, in particolare, si trovano bellissime descrizioni di condizioni molto reali della mente umana.

Nei suoi di libri invece c’è molta filosofia, che lei cerca spesso di ricollegare alle ricerche scientifiche di frontiera.

Perché le neuroscienze sono al tempo stesso una cosa nuova e una cosa non poi così nuova. Abbiamo il dovere di collegarci al passato: è ovvio che il modo in cui studiamo il cervello oggi sia più avanzato, perché abbiamo strumenti scientifici migliori, ma le ricerche di oggi non costituiscono la storia completa. Allargare lo sguardo è quello che mi piace fare in relazione a Shakespeare e alla sua incredibile profondità di comprensione, lo stesso vale per Spinoza. Il modo in cui Spinoza mette sullo stesso piano mente e corpo, li fonde, è incredibilmente lungimirante. È come se avesse anticipato quello che la scienza, oggi, con i fatti, ha dimostrato essere vero. Dobbiamo riconoscere il debito che abbiamo nei suoi confronti. Anche se il mio lavoro non è ispirato da Spinoza, mi sono rivolto a lui perché ero curioso di quello che aveva fatto e perché era parte della storia di ciò che studiavo. Allo stesso modo, sarebbe bello se tra 50 anni qualcuno si guardasse indietro e dicesse: “Quel tipo, Damasio, ci aveva preso su qualcosa”. [ride]

Quando ha deciso di iniziare a studiare i sentimenti si è ritrovato in un campo di ricerca in quel momento praticamente inesistente.

È vero, e anche questo è interessante proprio da un punto di vista storico. Nel Diciannovesimo secolo esisteva un campo di ricerca vero e proprio. Pensi per esempio a William James, uno dei giganti della filosofia. Aveva una mente incredibilmente ricca, studiava qualsiasi cosa, dalla coscienza al linguaggio, le emozioni, i sentimenti, parlava di creatività e religione. Era un pensatore a tutto tondo. Quando parlava di emozioni, le persone lo rispettavano. All’incirca nello stesso periodo, c’era anche Freud, che era chiaramente molto interessato alle emozioni, ai sentimenti e a cercare di capire la mente umana. Nel corso del secolo, però, c’è stato uno sviluppo nelle tecniche in grado di scavare in profondità non solo nella mente, ma nel cervello. Così si è iniziato a prestare un’enorme attenzione a cose che non potevano essere studiate prima. Per esempio: la vista, l’udito, la memoria, le operazioni dell’intelligenza cognitiva, il linguaggio. Già nel 1950 ci si confrontava con l’eredità di Alan Turing nelle scienze computazionali, Chomsky per la linguistica, e un altro gruppo di persone che studiava la vista – ammiro molto David Hubel, che raggiunse un’enorme comprensione della materia – ricercatori che non volevano però lasciarsi distrarre dallo studio dei sentimenti, delle emozioni, che a quel punto erano considerati roba vecchia. All’inizio della mia carriera come neurobiologo ero determinato a studiare la mente umana. Un collega neurologo mi disse: “È stupido, non farlo, il futuro della neurologia è nelle malattie muscolari”. E poi, più avanti, tra il 1990 e il 1995, ho deciso di dedicare il mio intero laboratorio al lavoro sulle emozioni e i sentimenti. Mi ricordo una conferenza che ho tenuto alla Società di neuroscienze, c’era questo mio collega in prima fila – un esperto della memoria, come me all’epoca – che scuoteva la testa come a dire: “Questo poveretto si sta davvero rovinando la carriera”. Più avanti abbiamo creato il primo simposio sulle emozioni umane, e adesso tutti studiano le emozioni e i sentimenti.

Sulla sponda opposta, i sentimenti e in generale il comportamento umano sono considerati da umanisti e letterati come ambiti troppo ricchi, unici e complessi per essere spiegati dalla scienza, percepita come troppo fredda e analitica.

Sì, e infatti ho incontrato molto spesso anche quest’altro tipo di problemi. È la paura dello spettro del riduzionismo, che spinge le persone a dire: “C’è troppa dignità, troppa complessità nell’uomo, perché possa essere a portata della scienza”. È interessante, perché le stesse persone di solito non si preoccupano degli scienziati che studiano particelle sub-atomiche. Non vedono nulla di sbagliato nel sondare i bosoni, ma allo stesso tempo sono molto preoccupati se si vanno a esplorare le particelle del pensiero. Come se una cosa fosse più naturale o dignitosa dell’altra.

Questo ci porta a Lo strano ordine delle cose. Provo a riassumere il libro in una frase: è la storia di come possiamo trovare i semi delle culture e delle civiltà umane anche nel comportamento dei batteri e degli organismi unicellulari, perché c’è qualcosa di preumano che condividiamo con le altre specie, qualcosa che in noi si manifesta poi sotto forma di sentimenti ed emozioni, sentimenti ed emozioni che sono stati la forza motrice che ha portato alla costruzione delle culture e delle società umane.

[ride] Ha passato l’esame.

E non c’è un po’ di riduzionismo anche in questa sua visione?

No, perché non sto riducendo gli esseri umani, e i pensieri umani, ai batteri. Sto facendo l’opposto. Sto cercando di portare i batteri e altre creature semplici come gli insetti sociali, che sono stati a lungo dimenticati e poco studiati, a un livello più alto, perché hanno già delle caratteristiche simili alle nostre. Non sto riducendo, sto amplificando in entrambi i sensi e cercando di far vedere alle persone l’incredibile ricchezza e dignità della vita in generale. L’altro giorno, durante una conferenza, Carlo Rovelli mi ha fatto una domanda molto interessante, che riguardava la memoria, e mi ha portato a riflettere sul fatto che la ricchezza della memoria umana ci rende davvero unici: perché siamo in grado di ricordare un’enorme quantità di esperienze e, cosa ancora più speciale, siamo in grado di ricordarci i programmi che facciamo per il futuro, tutto quello che vogliamo ottenere nella vita, le persone che amiamo. Questa capacità di proiettarci nel futuro e di relazionarci al passato, di costruire questa mappa, è unica. Grazie a questo tutte le nostre gioie e sofferenze hanno un valore aggiunto, non hanno solo un valore momentaneo come per gli altri animali.

Il concetto fondamentale per capire meglio il suo libro è quello dell’omeostasi e dell’imperativo omeostatico.

L’omeostasi in fondo è ciò che dicevamo prima: è la capacità, comune a tutti gli organismi viventi, di conservare l’equilibrio biochimico necessario alla sopravvivenza. Ed è un imperativo perché è l’unica via che permette la vita. È l’imperativo della vita: una serie di regolazioni naturali che ci permettono di cercare risorse e trasformarci. Senza non avremmo modo di sentire il motore della vitalità.

Che differenza c’è tra noi e i batteri sotto questo punto di vista?

Lo spirito di un essere è la sua vitalità, è quello che lo fa muovere. È qualcosa che anche le creature più semplici hanno. Poi, nel corso dell’evoluzione, si è arrivati a quest’altra cosa meravigliosa che è il sistema nervoso. I batteri hanno l’impulso ad agire, ma non c’è niente che ci faccia credere che pensino a come agire. Non agiscono in modo cosciente, intenzionale, di fatto agiscono automaticamente per eseguire le proprie funzioni vitali. Una svolta cruciale è arrivata solo con lo sviluppo del sistema nervoso: il comportamento viene regolato attraverso una rete nervosa, e grazie a questa rete a un certo punto subentra la possibilità di creare una mappa, e quindi di creare immagini. Non sto parlando di immagini visive, ma immagini dell’interiorità, del suono, dell’olfatto. Che è proprio la ragione per cui l’espressione I see it feelingly è particolarmente importante, perché queste immagini sono il punto di ingresso per i sentimenti. I sentimenti sono immagini dello stato del corpo. Quello che tu immagini non è questa tazza, o la sua temperatura o consistenza, ma lo stato del tuo respiro, delle molecole che conducono il processo. È il cervello che guarda dentro al proprio corpo, quindi la connessione e l’interazione sono totali. Una delle cose su cui insisto nel mio libro è che l’interiorità è la cosa più semplice da immaginare.

E nel libro sottolinea più volte proprio il rapporto stretto tra cervello e corpo.

Tendiamo a pensare al nostro cervello e al sistema nervoso come a qualcosa di separato dal resto del corpo. La verità è, appunto, che c’è un dialogo costante. Le fondamenta stesse della nostra mente risiedono nella conversazione che il nostro cervello ha con il nostro corpo. Noi due siamo separati nello spazio e abbiamo bisogno di una convenzione esterna come il linguaggio per entrare in connessione. Mente e corpo sono nello stesso spazio. Sono nello stesso sacco [in italiano].

Anche qui, incontriamo di nuovo un pregiudizio (e di nuovo un “pacchetto di neuroni”.

Sì, è terribile ma succede ancora. È un bias enorme. Per alcuni di questi scienziati le cose che dico nel libro sono completamente folli. Credono che il cervello da solo possa creare stati di coscienza. Ma chi l’ha detto che è da solo? È assieme al corpo. Il cervello produce la mente solo perché è collegato a tutto il resto, al nostro corpo e alle nostre vite.

E questo è il motivo per cui lei non crede che sarà mai possibile costruire un’intelligenza artificiale senziente, capace di provare emozioni.

Esattamente: l’idea errata che il cervello sia l’unico a produrre la coscienza porta anche all’idea, destinata a fallire, che si possa ricreare un essere vivente attraverso l’intelligenza artificiale. Non è così. Si può creare qualcosa di simile, magari anche qualcosa di più ingegnoso di noi due, perché penso che l’intelligenza artificiale sia già a questo punto. Le AI possono avere accesso a tutta l’informazione che vogliono, possono manipolare i big data come se non ci fosse un domani, possono inventare nuovi modi di processare informazioni, mentre noi siamo limitati ai vecchi metodi di induzione e deduzione. Possono essere e sono già super super intelligenti. Ma possono sentire? Possono essere coscienti? No, perché non hanno un corpo. I sentimenti non possono essere inventati: si possono simulare, ma la simulazione non è creazione.

C’è un altro concetto chiave nel suo libro: la differenza tra sentimenti ed emozioni.

Le emozioni sono la varietà più semplice, primaria, nel senso che derivano da un’azione – il termine stesso implica un movimento – e non sono necessariamente legate a un’immagine interiore, la mente non è implicata. Quando abbiamo il sentimento di un’emozione, in pratica abbiamo l’esperienza di quello che è successo durante quell’emozione. Quindi ad esempio, se mi dice qualcosa che mi spaventa, ci saranno un sacco di cambiamenti nel mio cuore e nel mio respiro, verranno rilasciati certi ormoni, le mie viscere si contrarranno, tutte queste cose. Ho un’emozione, che è azione. Quando ho l’esperienza di queste azioni che avvengono in me, quello è il sentimento. È una differenza elementare, però sono termini che confondiamo continuamente.

Quando parla di emozioni e di sentimenti, intende qualcosa di puramente elementare – istintivo – o qualcosa che può essere insegnato e appreso e che può evolvere e cambiare con il passare del tempo?

È qualcosa che può essere educato. Quanto possiamo trasformare le nostre emozioni è una bella domanda. Credo che possiamo fino a un certo punto. Per esempio, persone molto paurose possono imparare a domare la loro paura. Persone molto eccitabili possono lavorarci su. Il profilo emotivo di ognuno di noi è parte del nostro temperamento. Ci sono cose che ereditiamo e che possiamo manipolare fino a un certo punto, ma sono radicate molto in profondità. Possiamo cambiarle, ma non radicalmente. Se una persona è paurosa, probabilmente lo sarà per tutta la vita, anche se in parte si può attenuare. Si può imparare in diversi modi. Per esempio, molti anni fa ero su un aereo che ha rischiato di schiantarsi. È stato terrificante. Per un po’, tutte le volte che prendevo un aereo e c’era turbolenza mi spaventavo moltissimo – non al punto da urlare, ma mi sentivo molto a disagio. Poi pian piano la paura è scomparsa. Non è successo da un giorno all’altro, ma era dovuto alla ripetizione dell’esperienza positiva.

Il fatto, però, che la vita sia costantemente guidata da un “imperativo interno di continuazione” non significa che noi esseri umani dobbiamo basare i nostri comportamenti solo su quello, che non abbiamo bisogno di morale o etica.

Al contrario, credo che abbiamo sviluppato l’etica proprio seguendo lo stesso imperativo, che non significa istinto e caos. Abbiamo sviluppato l’etica perché eravamo abbastanza intelligenti come esseri umani da renderci conto che l’uomo ha probabilità più alte di sopravvivere se sta facendo qualcosa di buono per la sua vita e per quella degli altri. Pensa ai 10 comandamenti, sono un bell’esempio di sistema morale. A cosa servivano? In sostanza sono un insieme di regole che permettono di fare e ricevere il minor danno possibile e di stabilire regole che non sono altro che l’emanazione del principio omeostatico. Per questo insisto sul punto che le culture, che pensiamo siano spuntate dal nulla, sono, sotto tutti i punti di vista, la proiezione omeostatica nello spazio della cultura, nello spazio umano. I sistemi morali sono un buon esempio, ma anche i governi, l’economia (che poi è parte dei governi), le arti, la tecnologia. La medicina è un altro buon esempio. Cos’è? È un insieme di tecnologie che ai giorni nostri provengono in gran parte dalla scienza. Ma è lì per continuare l’omeostasi.

E quindi un altro modo di raccontare l’imperativo omeostatico è dire che gli uomini hanno formato le società e le culture per evitare sofferenza e dolore. Eppure oggi abbiamo ancora guerre e violenza o emozioni come rabbia, diffidenza, risentimento verso altri gruppi di persone.

Non siamo perfetti, al contrario. Bisogna sottolineare che tutto questo è un lavoro in corso, e che è molto debole sotto molti punti di vista. Dal momento che l’omeostasi si è sviluppata biologicamente per un singolo individuo, continua a lavorare in gran parte a livello personale. Penso che nei secoli siamo riusciti con successo a estendere l’omeostasi alla famiglia, alle persone che amiamo. L’abbiamo anche allargata a livello di tribù, e questa “omeostasi tribale” esiste da tanti, tanti anni. Ma è qui che arrivano i problemi. Perché le tribù combattono per i territori, per le risorse necessarie per mantenere la propria, di omeostasi. Quindi gli scontri tribali fanno parte del processo, ma c’è una parte che vince e una parte che perde. La grande sfida, alla quale la cultura sta provando a dare una risposta sotto molti punti di vista, è contenere gli scontri tra gruppi. Ma dal momento che ogni gruppo ha i suoi interessi omeostatici, non è facile. Dobbiamo imparare a operare in grandi gruppi, ed è una cosa delicata e difficile da fare.

L’obiettivo ultimo, in questo senso, sarà allargare il nostro cerchio sempre di più, costruire una tribù che contenga l’intera umanità?

Non mi stupirebbe che fosse questa la direzione finale. Me lo auguro, ma è difficile dire come e quando potrà essere raggiunto l’obiettivo. Per esempio, dopo la seconda guerra mondiale, una delle più distruttive di sempre, abbiamo affrontato altre guerre e altri ostacoli, ma di base siamo stati in grado di salvaguardare l’omeostasi su larga scala: prendiamo la creazione delle Nazioni Unite, o un esperimento come la Comunità Europea. È una cosa facile da fare? No. Basta guardare proprio l’Europa, con gli interessi del nord, più ricco, che non combaciano necessariamente con quelli del sud più povero. O considerare problemi enormi e complessi come le migrazioni. Come abbiamo intenzione di affrontarle? Come rispondiamo? Apriamo o chiudiamo le porte? Queste sono le scelte da fare.

Il libro si conclude con una riflessione sui tempi che stiamo vivendo, che lei definisce di crisi culturale.

Da quando ho finito il libro le cose non hanno fatto che peggiorare. La cultura occidentale sta attraversando una fase di trionfalismo, e per molti di noi le cose vanno piuttosto bene. Ma allargando lo sguardo, direi che non viviamo tempi felici. Non ho una ricetta per uscirne, ma penso che la soluzione passi per un’educazione massiccia, un grande sforzo di civilizzazione. Più sappiamo come noi stessi funzioniamo e maggiori sono le possibilità di fare progressi e di ridurre gli errori. In questo senso, bisogna rendere le persone più consapevoli di quello che sono, non solo dal punto di vista cognitivo ma anche dei sentimenti e delle emozioni, del significato del dolore e della sofferenza. Questo è il fattore determinante del rispetto nei confronti degli altri. Essere consapevoli delle nostre debolezze ci rende più rispettosi di quelle degli altri

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