La Parola del mese
Una parola in grado
di offrirci nuovi spunti di riflessione
LUGLIO 2025
Corre una sorta di obbligo per il
lessico politico di battezzare ogni cambiamento strutturale, nella società,
nelle forme del potere, nell’economia, con un termine capace di sintetizzarne
quella che viene ritenuta la sua principale caratteristica. Non poteva sfuggire
a questa tendenza la trasformazione avvenuta a cavallo del nuovo millennio con
la definitiva e totale affermazione della tecnologia in ogni campo. La Parola
di questo mese recupera il termine che, inizialmente riferito principalmente
all’aspetto economico e produttivo, si è poi esteso a collegate forme del
potere e della vita politica …………..
TECNOCAPITALISMO
Dal punto di vista
etimologico è una parola che semplicemente mette in relazione due termini: Tècno (dal greco “τέχνη”, primo
elemento di parole composte nelle quali significa “arte,
capacità tecnica” o indica comunque una
relazione con la tecnica)
e Capitalismo (dal
latino “caput – testa” e “alere – nutrire”, originariamente
introdotto nell’analisi marxista, ma poi
accolto dalla scienza e dalla storiografia economica, con il quale si indica il
sistema economico e sociale giunto a maturazione nel 19° secolo e poi evoluto
in successive forme)
che sono ormai
entrati, nell’era della tecnologia spinta, in strettissima simbiosi.
Il termine tecnocapitalismo definisce
quindi un sistema integrato di tecnica e capitalismo, ossia un sistema economico in cui l’innovazione tecnologica
e l’uso intensivo della tecnologia sono al centro dell’attività economica e
della creazione di valore. In questa versione del capitalismo sono diventate vincenti le
imprese che più e meglio sanno sviluppare e commercializzare tecnologie
innovative (di produzione e di offerta/gestione di
servizi) che, avendo
ormai l’economia carattere globale, consentono di generare profitti
significativi in tempi straordinariamente accelerati.
Tecnocapitalismo, se così inteso, sembrerebbe avere una
accezione neutra di semplice fotografia di un dato strutturale economico, ma
così non è nel campo delle scienze sociali perché la sua declinazione può
variare a seconda della diversa importanza attribuita ad uno dei due termini
che lo compongono.
Nell’opinione di chi considera le
innovazioni tecnologiche l’aspetto più rilevante tecnocapitalismo indica il ruolo
determinante che esse hanno assunto nel conformare l’attuale capitalismo, tale
da giustificare l’appellativo di “quarta
rivoluzione industriale” (per indicare la crescente
compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico, grazie alla somma dei
progressi in Intelligenza Artificiale, robotica, l’Internet delle
cose, stampa 3D, ingegneria genetica,
computer quantistici e altre correlate tecnologie) vale
a dire una totale trasformazione del modo di produrre e di fare economia non
dissimile nella sua portata dalle tre rivoluzioni che l’hanno preceduta (la prima, ottocentesca, data
dall’avvento dell’energia a vapore, seguita dalla seconda del passaggio, nel
primo Novecento, al motore a scoppio e all’energia elettrica, ed infine la
terza, in qualche misura propedeutica a questa quarta, con la prima comparsa,
iniziata negli anni Cinquanta, di processi automatizzati e computerizzati).
Al contrario per chi ritiene che il
capitalismo, seppur così trasformato, rimanga l’aspetto ancora determinante, tecnocapitalismo non indica nessun reale cambio di
paradigma, i mutamenti consentiti dalla tecnologia nell’estrarre valore (profitti) da parti sempre maggiori della vita
dell’uomo e della società non hanno modificato ed hanno anzi rafforzato quella razionalità
strumentale/calcolante-industriale che è la vera anima della
modernità. Vale a dire che il capitalismo, nella sua versione tecno,
è apparentemente diverso, ma sostanzialmente non dissimile da
quello descritto da Marx e da quello novecentesco, perché sempre si basa sulla
divisione del lavoro e sulla sua successiva, per quanto modificata, ricomposizione/integrazione
in una struttura organizzata maggiore della semplice somma delle parti
precedentemente suddivise.
Per lo scopo di questa Parola del mese ciò che
più interessa, al di là della diversa importanza attribuibile ai due termini in
questione, è piuttosto meglio capire quanto la consolidata affermazione del tecnocapitalismo stia incidendo sulla
società, sulla democrazia e sui modi di vivere. In effetti più ancora della
rilevanza assunta dall’insieme delle attività economiche tecnologiche, comunque
indubitabile e di straordinario impatto sull’intero sistema capitalistico, ciò
che sta ormai da alcuni anni impressionando, è il parallelo fenomeno di
concentrazione della loro proprietà in un numero ristretto, molto ristretto, di
soggetti, non a caso comunemente definiti “tecnooligarchi”
e da alcuni “tecnotitani”.
Non è infatti dato riscontrare
nell’intera storia del capitalismo una simile concentrazione di ricchezza e di
potere di controllo dell’intero ciclo economico, ormai assurta a livelli tali
da giustificare ampiamente il parallelismo tra tecnocapitalismo e oligarchia
(nostra parola del mese di Aprile 2022), il “governo
di pochi”. Non a caso quindi è proprio sulla relazione che il tecnocapitalismo sta implicando fra
dimensioni economiche e potere esercitabile che si sono concentrate le
attenzioni di media, di analisti politici, di studiosi di scienze sociali,del confronto politico e dell’intera opinione pubblica. Fra le tantissime
riflessioni sul tema ci è sembrato interessante ed utile recuperare quella di Lelio Demichelis
(docente
di sociologia presso il Dipartimento di Economia dell’Università
dell’Insubria-Varese) che
da diversi anni sta indagando sul tema con un primo testo “La religione tecno-capitalista”
seguito poi da “La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo
ed il tecnocapitalismo” (nostro saggio del
mese di Dicembre 2018)
Merita recuperare alcuni passaggi della
sua analisi (prevalentemente dedicata alle ricadute della
rivoluzione tecnologica nel mondo del lavoro) che, pur non essendo la traccia principale che seguiremo
per approfondire il tema sollecitato da questa Parola del mese, bene inquadrano
alcune delle conseguenze che derivano dal potere acquisito dal tecnocapitalismo e dai suoi alfieri. Demichelis non è
particolarmente interessato alla diversa declinazione di cui si è detto, sostiene
infatti che tecnica e capitalismo sono una cosa sola,
perché i loro scopi, solo apparentemente diversi, che consistono per il
capitalismo nell’accrescimento infinito del profitto privato e per la tecnica
nell’accrescimento altrettanto infinito della propria potenza, sono a tutti gli
effetti funzionali e integrati l’uno all’altro. Precisa poi che di conseguenza
entrambi, nella loro definitiva congiunzione nell’attuale tecnocapitalismo, puntano a superare
ogni limite/ostacolo, a vivere di velocizzazione e di accelerazione continua, a
non tollerare alcun dissenso soffocando ogni ricerca di alternative, a verticalizzare
le relazioni sociali ed i rapporti di lavoro, a rimuovere quindi i corpi
sociali intermedi di mediazione e partecipazione collettiva.
Un’autentica duplice volontà di potenza
che inesorabilmente sta incrinando l’essenza stessa della democrazia che, così
come è stata sin qui intesa, basa al contrario la sua essenza sul bilanciamento dei poteri al proprio interno,
e soprattutto conosce e pratica il concetto di limite perseguendo coerentemente il controllo di ogni volontà di
potenza e di ogni eccedenza ed eccesso di un potere sugli altri.
Se così stanno le cose il tecnocapitalismo impone alla
democrazia ed ai suoi difensori un’attenzione, finora non sufficientemente
messa in campo, per la tematica dei “diritti
tecnici”, ossia quelli in capo ad ogni cittadino ogni qual volta è
inserito, connesso ed integrato, in apparati tecnologici così saldamente in
mano di imprese private che, proprio su questa base, hanno acquisito un
impensabile potere economico ed oramai anche politico. In questo senso la
finalità della democrazia e della giustizia economica da sole non sono più sufficienti perché la tecnica che compone
il suffisso tecno di tecnocapitalismo
è con ogni evidenza diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta essendo
divenuta “fine e non più mezzo”, tanto da
rappresentare la dimensione capace di inglobare l’intero vivere umano (da
qui la “grande alienazione” del titolo del saggio di Demichelis). A suo avviso quindi il tecnocapitalismo, ed i rischi che la sua
affermazione sta comportando, rendono insufficiente la democratizzazione del
capitalismo se non viene completata con quella della tecnologia ovvero della
tecnica in quanto sistema.
A maggior ragione diventa utile, in
questo contesto, ricostruire il concreto percorso storico delle idee e delle
scelte strategiche che hanno condotto a questo stato di cose, lo faremo avendo
come traccia l’interessante testo, di recentissima uscita, “Tecnocapitalismo. L’ascesa dei nuovi oligarchi e la lotta per il bene
comune”
la cui autrice è Loretta Napoleoni
(economista e saggista)
Anche
per questo saggio (una
ricostruzione molto articolata del complesso intreccio di fattori economici,
sociali, culturali, politici che hanno costituito il percorso di trasformazione
complessiva dell’attuale capitalismo globalizzato) ci
limitiamo qui a riprendere le parti più specificamente dedicate
all’affermazione, all’interno di tale contesto generale, del tecnocapitalismo:
Cyberpunk = agli inizi degli anni Novanta l’onda da
non molto montata delle tecnologie ICT (Tecnologie di Informazione e
Comunicazione) ha già
prodotto un considerevole numero di imprese di straordinario successo del
settore (in primis Microsoft, Apple, IBM e INTEL, quelle che
hanno messo a punto le prime innovazioni hardware e software per presto
divenire le big company del settore, ma restando ancora lontane dal costituire un tecnocapitalismo compiuto) le più grandi delle quali si sono
ampliate anche grazie alle costanti acquisizioni di startup (imprese
di recente nascita)
che hanno messo a punto, in brevissimo tempo con le geniali intuizioni dei loro
creatori, prodotti innovativi vincenti. Vendendo la loro esclusiva alle big
company, in questo modo divenute ancora più big, imprenditori di poco più di
trent’anni, con in cassaforte patrimoni multimilionari, sono liberi di
reinventarsi nuovi ruoli sul mercato. Molti di loro, condividendo passioni e
caratteristiche culturali, spesso sono accumunati anche da visioni di lungo
respiro che vanno da idee sociali libertarie ad altre più conservatrici se non
elitarie, fanno comunque gruppo ed iniziano a concordare strategie di mercato
nel settore. In quello che al tempo è stato auto-definito un contesto cyberpunk (genere
narrativo che in chiave fantastica critica il controllo capillare
dell'individuo da parte di una società oppressiva) prendono consistenza due concetti che
in breve caratterizzeranno quella scena imprenditoriale e culturale: la convinzione che sia la tecnologia e non la
politica a proteggere le libertà individuali e che essa, per potersi muovere
efficacemente, deve proteggersi dai controlli e intrusioni del vecchio sistema
di potere. Questo secondo aspetto
viene concretamente tradotto, per le loro necessità comunicative, nello
sviluppo di sistemi crittografati (sistemi che, a partire dal
lancio su vasta scala del sistema “PGP, Pretty Good Privacy, buona e bella
privacy”, consentono solo a chi condivide una chiave di accesso di decifrare la
comunicazione), un
passo fondamentale che aprirà, da lì a poco, le porte all’ecommerce ed alle criptovalute.
Alcuni commentatori hanno fatto notare che nel
cerchio, tutt’altro che esteso, dei nerd cyberpunk è stata rilevata un’alta
incidenza di soggetti affetti dalla sindrome di Asperger, una sindrome (che
colpisce di più i maschi delle femmine) dello spettro autistico, che comporta “abilità
sociali limitate, propensione all’ossessione, interesse per i sistemi, amore
per i numeri, rifiuto del confronto privilegiando il pensiero individuale”. Può sembrare una nota di colore, ma il
fatto che ne siano in qualche modo coinvolti molti dei personaggi (tutti
maschi) emblema del tecnocapitalismo, (a partire da Elon Musk) qualche riflessione aggiuntiva la
sollecita
Bitcoin = Questa ossessiva ricerca e messa a
punto di sistemi criptati di comunicazione da subito viene estesa alle modalità
di gestione delle comuni attività economiche on-line, incluse quelle
finanziarie, compresa una più libera circolazione del denaro, che non tarda a
tradursi nell’idea di crearne una ad hoc, naturalmente virtuale. A differenza
dell’e-commerce (la vendita di prodotti, di ogni tipo di
prodotto, on-line, la cui architettura viene rapidamente messa a punto per
presto divenire uno dei settori più rilevanti del tecnocapitalismo) questo secondo obiettivo si presenta
però di non facile soluzione, troppo forte e rigido è infatti il potere ed il
controllo esercitato dalle autorità monetarie statali e troppo complesse le
stesse articolazioni di sistema che devono garantire il massimo di efficienza,
di privacy e di controllo, a lungo gli sforzi messi in campo non sortiscono
risultati concreti.
La svolta si realizza solo nel 2008, in
non casuale coincidenza con la più grave crisi finanziaria del capitalismo
globalizzato che sottopone tutte le monete nazionali, o di aree comuni come
l’euro, a tensioni pesantissime (la moneta tradizionale è tecnicamente
definita uno strumento “fiat”, per
indicare che, non essendo più ancorata dal 1971, fine degli accordi di Bretton
Woods, al valore di un metallo come
l’oro, essa ha un valore basato esclusivamente sulla fiducia del mercato). Un personaggio di nome Satoshi
Nakamoto (un evidente nome di fantasia) del tutto sconosciuto (e
tale ancora è) segnala
al gruppo dei cyberpunk di aver messo a punto un sistema di gestione telematica
di una moneta, chiamata “Bit-coin” (nostra
Parola del mese di Febbraio 2018),
che garantisce piena efficienza di transazioni monetarie ed assoluta
riservatezza. Il successo, complice la crisi finanziaria, è immediato, l’era
delle criptovalute è iniziata (il tempismo della nascita
del Bit-coin ha suscitato non poche domande, troppo elevata era infatti la
competenza, informatica e finanziaria, necessaria per creare uno strumento così
raffinato. Sono da subito circolate voci secondo le quali dietro Satoshi
Nakamoto si siano in effetti mossi soggetti di altissimo livello dello stesso
mondo finanziario “ufficiale” interessati a creare nuovi spazi di manovra per
investimenti e profitti. Un’ipotesi che, se confermata, rafforzerebbe
l’opinione di molti che fin da subito il successo dei cyberpunk sia stato
“benedetto” da una parte del potere).
Non interessa qui entrare nel merito
del funzionamento tecnico (molto complesso) del Bit-coin piuttosto che individuare
il suo vero creatore o valutare l’universo delle cryptovalute da lì in poi
evoluto (se ne contano ormai più di diecimila), ciò che merita evidenziare è il fatto
che il percorso verso la definitiva affermazione del tecnocapitalismo conosce con questa
svolta un fondamentale passo in avanti: l’idea
di una economia ed una società alternative a quella classica, al tempo ancora
non poco venata di idealismi vagamente libertari, poggia ora, sfondato il muro
della dittatura finanziaria e monetaria, su una base più solida sulla quale diventa
possibile, tecnicamente e ideologicamente, costruire altre progettualità.
Mondo cripto – NFT = La criptovaluta creata da Satoshi
Nakamoto (che con il tempo ha dimostrato, a differenza di molte altre,
di possedere buone doti di affidabilità e di controllabilità, grazie al suo rigoroso
sistema delle block-chain, letteralmente catena di blocchi ossia una costante
verifica, consegnata nelle mani degli stessi utilizzatori, di tutta la trafila
delle transazioni) ha
infatti fornito, al di là della sua specifica utilizzazione, un’architettura
informatica adattabile anche ad altri usi. Buona parte dei quali hanno formato
una sorta di mondo cripto che per un certo periodo ha mantenute ferme le
due iniziali filosofie di base cyberpunk: autonomizzazione
dalle istituzioni statali e rafforzamento ed ampliamento delle libertà
individuali.
Qualcosa si è però molto presto incrinato
in queste speranze libertarie e nelle prospettive gestionali da loro prodotte, ed
è esattamente in questa frattura che si sono sviluppati i germi della nascita
del tecnocapitalismo, ossia di un
individualismo imprenditoriale che individuava nella tecnologia della Rete, e
nella sua pervasività sempre più diffusa, una dimensione ottimale di mercato
nella quale conquistare nuove posizioni egemoniche (quelle
conquistate da quelli che Loretta Napoleoni definisce i
nuovi tecnotitani ),
mantenendo al tempo stesso, ma a questo punto per tutt’altri fini rispetto a
quelli originari, anche l’ideologico obiettivo di scavalcare le funzioni di
controllo e regolamentazione statali fino a prevedere e ad esaltare nuove forme
di potere (i nuovi tecnoligarchi). Due esempi lo testimoniano in modo
esemplare: con un brevissimo salto temporale, ma con uno sconvolgente salto
logico rispetto alle iniziali illusioni libertarie (ancora
evidenti nel 2008), si
arriva alla nascita di OpenAI nel 2015 e alla clamorosa esplosione del fenomeno NFT nel 2021.
OpenAI (un modello linguistico
informatizzato di grandi dimensioni strutturato su una rete neurale, una
replica tecnologica del cervello umano) nasce nel 2015 grazie ai finanziamenti di un gruppo di
investitori (accomunati dalla fiducia nelle potenzialità,
di vario genere, dell’Intelligenza Artificiale AI), quasi tutti provenienti dall’ambiente
nerd cyberpunk, con lo scopo, dichiarato come “umanitario”, di sviluppare una forma, accessibile per tutti,
di intelligenza artificiale a sussidio di esigenze di vario tipo. Solo quattro
anni dopo, nel 2019, avvia una partnership con Microsoft (che
investirà miliardi di dollari per sostenere lo sviluppo delle versioni di
ChatGPT, il nome dell’AI di OpenAI)
che manda in soffitta la finalità filantropica per elaborare raffinate
strategie di applicazione (estendibili ad ogni ambito produttivo ed
economico) per
ricavare lauti profitti. Al di là dell’acceso dibattito attorno all’AI, alle
sue possibili applicazioni, ai rischi di una sua incontrollata estensione ed ai
dubbi sulla sua ragione d’essere, è centrale evidenziare, in questo
approfondimento sull’attuale tecnocapitalismo,
questo cambio radicale di paradigma, culturale ed economico, attuato dai suoi
protagonisti che si è presto tradotto in una sua fideistica esaltazione che va
in tutt’altra direzione rispetto alla iniziale finalità umanitaria. Appare
sempre più evidente il suo ruolo centrale nelle strategie tecno-capitalistiche
tale da giustificare il timore dell’avvento di un capitalismo ipertecnologico
fondato unicamente sul capitale.
Non appare dissimile la finalità ultima
del nascente mondo degli NFT , Non Fungible Token
(letteralmente
“Gettone non replicabile”, è la registrazione su una blockchain, come quella
dei Bitcoin, del possesso esclusivo di un oggetto digitale, il token, che può
essere rivenduto piuttosto che reso accessibile previo compenso di norma in
criptovalute) che,
nati per certificare opere d’arte create appositamente come NFT, si stanno
rapidamente estendendo nel mondo della Rete (sono nate
applicazioni perlomeno stravaganti, ma di enorme successo, con un giro d’affari
incredibile, come “Criptokitties” un gioco di allevamento virtuale di gattini,
che rendono legittimo l’interrogarsi su quale umanità stia nascendo nell’era
della Rete). Sono ormai molti i commentatori che pronosticano la loro evoluzione, non solo più nella forma di proprietà di oggetti virtuali, come modo standard
di commerciare, sfruttando specifiche blockchain, tutto ciò che richiede una
prova della proprietà e che può essere scambiato sul mercato.
Il quale assumerebbe in questo modo una
dimensione sempre più ancorata unicamente ad una Rete slegata dalle istituzioni
statali e dal loro potere di controllo e regolamentazione.
L’ascesa dei
tecnotitani = Non sono
meno significativi altri esempi, come quelli di Uber
(la
modalità di gestione del trasporto automobilistico che mette in contatto diretto utente e autista)
e di Airbnb (analogo rapporto diretto tra affittuario e locatore di affitti brevi), che rendono legittima questa
previsione. L’intero comparto delle attività economiche che rientrano
nell’alveo, sempre più variegato, del tecnocapitalismo evidenzia, per spiegare il suo successo, la
rilevanza, economica e politica, dell’aspetto temporale: l’intero sistema di
norme e convenzioni che fino al loro avvento regolavano il funzionamento di
settori significativi del mercato è stato letteralmente sconvolto e reso
inefficace dalla loro capacità di affermarsi e consolidarsi ad una incredibile
velocità di rimodulazione. Il mercato tecnologico
viaggia ad una velocità impensabile per le tradizionali attività legislative di
controllo e per i classici modelli di gestione contrattuale del lavoro.
Non soltanto il tecnocapitalismo possiede
caratteristiche intrinseche alla sua conformazione che gli consentono una buona
dose di impermeabilità a controlli e regolamentazioni (spesso
favorita da una complice ignavia della politica), ma il suo indubbio successo economico è ormai tale da catturare
l’attenzione interessata dell’alta finanza e degli investitori istituzionali (fondi
pensione, compagnie assicurative e banche) che, salendo sul carro del vincitore, non poco contribuiscono
alla sua crescita. Si realizza infatti, negli anni immediatamente successivi
alla crisi strutturale del 2008, il paradosso che buona parte dei flussi
finanziari (creazione di nuovo denaro pagata con debito pubblico) attivati per soccorrere i classici
settori economici sono, attraverso questi stessi, dirottati, come finanziamento
speculativo, verso quelli tecnologici che, solo pochi anni prima, i Cyberpunk
avevano immaginato come alternativi allo Stato ed al vecchio capitalismo. E’
anche grazie a questo flusso di ingenti finanziamenti che le big company del
settore – Microsoft, Apple, Amazon, Ndivia, Alphabet
(ex Google), Meta (ex Facebook) – sono sistematicamente in grado di fagocitare
ogni impresa, ogni nuova attività, che si presti a rafforzare il settore.
L’avidità capitalistica dei nuovi
padroni del vapore (tecnologico) è talmente insaziabile da mettere in atto
anche uno sfruttamento scientifico, ma di certo non meno pesante, del proprio
personale (la “gig economy”
del lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo) ipocritamente mascherata anche con la
studiata capacità di presentarsi sul mercato con la candida e progressista
veste della “sharing economy (economia condivisa)”,
una economia “della gente” che dovrebbe
realizzare, a dar credito al racconto di comodo, la fusione tra gli interessi
dei produttori e quelli del consumatore/utente. La realtà racconta tutt’altra
storia.
La fine dello
Stato-nazione = La
rivoluzione tecno-capitalistica avviene negli USA sulla base della combinazione
dei fattori, culturali – scientifici – tecnologici, di cui si è detto,
realizzando un sistema di potere economico molto concentrato, di natura
oligopolistica, con una formidabile potenza di fuoco: negli anni della pandemia la capitalizzazione
azionaria delle citate big company è arrivata a valere oltre 4.000 miliardi di
dollari superando il PIL della Germania, la quarta economia mondiale.
Non può certo stupire che una tale
potenza abbia cancellato ogni possibile concorrenza (con
la sola eccezione della Cina, la recente affermazione della AI cinese DeepSeek
è emblematica di una capacità tecnologica non inferiore a quella
tecnocapitalista), in
particolare quella, quanto mai già timida del suo, del vecchio continente (alla
UE allo stato attuale non resta altra arma che quella, non poco spuntata, di
tentare di contenere, normandola e tassandola, tale invadenza). In questo scenario il trasferimento
di sovranità reale alle tech companies dai vecchi Stati nazione, la dimensione
istituzionale entro la quale non a caso si era formato e sviluppato il
capitalismo classico europeo, è diventato inevitabile. Con la cancellazione di
fatto, in un arco temporale incredibilmente compresso, della dimensione
spaziale realizzata grazie alla dimensione globale della Rete, il tecnocapitalismo ha allentato
oltremisura tutte le storiche relazioni tra territorio, popolazioni e Stati.
L’avvenuta affermazione planetaria di Google Maps (adottata persino dagli eserciti di molti
paesi del mondo per controllare il territorio anche nascondendo agli occhi
altrui, previ lauti compensi, installazioni strategiche) e quella in corso di Starlink (la
costellazione di satelliti creata da Elon Musk per sistemi di comunicazione)
sono solo alcuni degli esempi più significativi del potere di controllo degli
spazi fisici, economici, politici e, non ultimi, esistenziali
I baroni dello spazio = A completare la rassegna degli spunti
più significativi offerti dal saggio di Loretta Napoleoni recuperiamo quelli
relativi ad altri due fondamentali aspetti costitutivi dell’attuale tecnocapitalismo (che,
essendo fra di loro strettamente connessi, aggiungono elementi di riflessione
anche sulla stessa correlazione, più o meno bilanciata, fra tecno e capitalismo): l’adesione
incondizionata al mito della crescita
infinita, proprio delle logiche capitalistiche, e la nuova corsa alla conquista dello spazio, esaltazione
prometeica della potenza tecnologica.
A dare sostanza alla prima
considerazione, in aggiunta a quanto già esaminato in precedenza, interviene l’evidente
assenza nel mondo dei tecnotitani/tecnoligarchi, di attenzioni verso le
innegabili ricadute che la rincorsa di una crescita economica sempre più
insostenibile sta avendo sulla salute di un pianeta dalle risorse finite. Ogni
qual volta l’emergenza ambientale e climatica ha evidenziato l’inconciliabilità
fra sostenibilità e ricerca ossessiva del profitto, gli alfieri del tecnocapitalismo si sono fatti notare
per la loro assenza se non per una incondizionata difesa della redditività. Non
a caso, nell’incredibile campionario delle innovazioni tecnologiche costantemente
promosse per quasi tutte le attività umane, praticamente nessuna si prefigge
l’obiettivo di soluzioni di mitigazione ambientale, di utilizzo consapevole e
mirato delle risorse terrestri, di messa a punto di sistemi energetici
alternativi.
Semmai la consapevolezza, indubbiamente
presente nelle loro strategie di lungo periodo, dell’inconciliabilità della
crescita infinita con un pianeta dalle risorse finite viene semplicemente declinata
nel loro superamento realizzato con una sorta di fuga dalla Terra stessa. Ciò
sta chiaramente avvenendo con la messa a punto di progetti che guardano,
andando oltre i limiti fisici terrestri, allo sfruttamento dello spazio che
circonda la Terra con la realizzazione di strutture artificiali collocabili ben
oltre il cosiddetto ““LEO, Low Earth Orbit”
(l’area
compresa tra i 240 e 800 km di distanza dalla Terra, nella quale è attualmente
concentrata la maggior parte dei satelliti terrestri in orbita), per intercettare corpi celesti ricchi
di minerali e per spostare produzioni ad alto impatto, piuttosto che, ancora
più ambiziosamente, alla “terrificazione di
altri pianeti” (la trasformazione delle loro condizioni
ambientali), a partire
da Marte (nelle intenzioni a lungo termine di Musk la sua
conversione a casa stabile perlomeno di una parte dell’umanità, facile capire
quale, è già ben più di un sogno utopico).
Si tratta di programmi che richiedono
impressionanti investimenti per la messa a punto di tecnologie che li rendano
possibili, a dir poco avveniristiche, ma la logica che li sostiene è evidente: se il pianeta Terra rischia di non bastare più a
sostenere l’irrinunciabile crescita, la soluzione è quella di trasferire
altrove il business. E’
questa la convinzione che anima tecnotitani quali Elon Musk, Jeff Bezos, Paul
Allen, Richard Branson, soprannominati per questa loro aspirazione i “Baroni dello Spazio”.
In quella che per ora, se si guarda ai
suoi aspetti più fantascientifici, ha ancora i tratti di una utopia
tecnologica, si stanno concretamente realizzando programmi di colonizzazione
della LEO che, anche grazie al fattivo coinvolgimento di organizzazioni
pubbliche come la NASA (che da anni ha attivato una joint
venture con la SpaceX di Elon Musk),
già trasferiscono su satelliti parti significative di attività come la gestione
della Rete ed i programmi di comunicazione sensibile (oltre
a Musk con Starlink, la società per la gestione della sua costellazione di
satelliti, si è aggiunto Jeff Bezos con il progetto Kuiper con identici
obiettivi. Secondo la Satellite Industry Association entro il 2030 potrebbero
esserci in orbita qualcosa come 100.000 veicoli spaziali di natura commerciale
tenendo conto che, a confermare che lo spazio è ormai diventato una concreta
dimensione economica e tecnologica, la stessa Cina sta muovendo importanti
passi in questa direzione. Sarà interessante capire come saranno gestiti i
rischi di incidenti causati da tale sovraffollamento). La pericolosa forza vitale del tecnocapitalismo non si misura quindi
solo sulla sua attuale già realizzata pervasività, ma rischia davvero di
accentuarsi ogni oltre limite con la sua espansione egemonica nello spazio.
Chiudiamo
questa Parola del mese con una citazione dal testo di Loretta Napoleoni che
bene riassume i rischi che derivano da questa preoccupante concentrazione di
potere economico, tecnologico e sempre più anche politico, definita “tecnocapitalismo”
: ……. I
tecnotitani, alias Baroni dello Spazio, potrebbero essere considerati i
pronipoti dei capitalisti d’industria artefici della Rivoluzione industriale,
ma diversamente da loro, che dovevano fare i conti con la forza lavoro umana,
non devono affrontare questa dialettica grazie al ruolo sempre più centrale
della tecnologia. Se questo capitalismo riuscirà ad espandersi anche nel cosmo,
la sua potenza sarà ancora di più un problema per la democrazia e per l’umanità
in generale perché inevitabilmente cresceranno disuguaglianze, abusi, rischi di
guerre.
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