domenica 15 ottobre 2023

Il "Saggio" del mese - Ottobre 2023

 

Il “Saggio” del mese

 OTTOBRE 2023

Anche per il “Saggio” di questo mese ci siamo fatti guidare da un approccio antropologico per affrontare, da una angolatura diversa e particolare, un tema, quello del “cibo”, già preso in esame da CircolarMente con una specifica conferenza e più volte in questo stesso blog

Il 12 Febbraio 2020 si è tenuta la conferenza del geografo Giacomo Pettenati e dell’agronomo Federico Borrelli con titolo “Sistemi del cibo, globalizzazione, sostenibilità e sovranità alimentare nel Sud del mondo”. I temi che ne sono derivati sono stati poi approfonditi nel “Saggio del mese” di Febbraio 2020 con il testo “Storia del cibo” di Felipe Armesto nel quale si è seguita l’evoluzione storica delle forme di alimentazione umana, in quello di Marzo 2020 “I padroni del cibo” di Roy Patel è stato esaminato il crescente prevalere della produzione alimentare di tipo industriale, concentrata nelle mani di poche multinazionali, su quella tradizionale parcellizzata in produzioni locali, ed infine in quello di Novembre 2020 “Presi per la gola” di Tim Spector le distorsioni alimentari che tale situazione sta creando nei modi standardizzati di mangiare e bere

Le prime frasi di questo Saggio bene e subito chiariscono le sue del tutto diverse finalità di analisi antropologica …… L’uomo è ciò che mangia, ma Dio non è da meno. Perché da che mondo è mondo attraverso le scelte alimentari ogni popolo costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità ….. 


i suoi autori sono: Elisabetta Moro

Insegna Antropologia culturale all’Università di Napoli. Presiede il “Comitato Unesco di cultura intangibile”

e Marino Niola

Insegna Antropologia del simboli all’Università di Napoli. Segue in particolare il tema dei risvolti culturali dei sistemi e delle forme di alimentazione, argomento che spesso presenta con articoli su La Repubblica

La tesi sulla quale Elisabetta Moro e Marino Niola hanno costruito questo saggio, a tutti gli effetti una ampia ricostruzione antropologica, consiste nel ritenere che il cibo rappresenti una delle componenti culturali sulle quali poggia il rispecchiamento tra l’essere supremo ed i suoi fedeli. Sono infatti convinti che all’origine di quello che comunemente viene definito gusto alimentare non vi sia la semplice somma di un gioco delle papille gustative e delle disponibilità di risorse commestibili, ma un intreccio complesso e avvincente tra piacere, desiderio, paura, accessibilità, immaginazione, imposizione, sentimento, comandamento. Il gusto, se così inteso, concorre quindi in modo decisivo a definire l’identità complessiva di un popolo, di una cultura. Il suo legame con la divinità, ed il suo essere al tempo stesso spiegazione ultima e modello da imitare, trova cioè spiegazione, e ragione d’essere, nel costituire una importante base identitaria. Ed allora “mangiare come Dio comanda(ovvero per dirla con la famosa espressione coniata dal filosofo Ludwig Feuerbach: “siamo quello che mangiamo”) non è più una semplice espressione proverbiale, ma diventa una fondamentale chiave di lettura per individuare e capire come ogni cultura sia divenuta quella che è. In questo senso il cibo, proprio in quanto carburante della storia umana, è anche materia prima dello stesso sentire religioso, e le norme alimentari sono il fondamento di quelle morali, non la loro conseguenza. Ogni decalogo religioso è in effetti un menù sottotraccia …. nel senso che l’uomo ha, universalmente, attribuito al volere divino norme, usi e costumi (quel che è lecito o proibito mangiare, tempi e modalità della sua produzione, del suo commercio, della sua preparazione, le forme per consumarlo, e tutto poggia sull’antefatto mitico della conquista del fuoco) in realtà da lui stesso creati, ma che acquistano una autorità superiore, indiscutibile, nel momento in cui sono sacralizzati.

Ovviamente a tavola è lecito fare come si crede, ma è utile sapere che ogni fede nutrizionale ha quasi sempre alle spalle una fede religiosa, in fondo, consapevoli o meno, ogni volta che ci mettiamo a tavola cerchiamo di mangiare come Dio comanda


Questa tesi rappresenta quindi la chiave di lettura per seguire l’accurata ricostruzione (che qui percorreremo in estrema sintesi) che Elisabetta Moro e Marino Niola, in questo saggio, hanno fatto del connubio cibo-religione in alcune culture umane, quelle più popolate, con la sola, inspiegabile, assenza di quella cinese. E’ invece comprensibile che le dimensioni del saggio non abbiano consentito di esaminare l’incredibile varietà di situazioni rappresentate dalle numerose culture di popoli e etnia non meno presenti nella storia dell’umanità

1 - Teologia della dieta mediterranea

E’ opinione condivisa che la dieta alimentare più soddisfacente per un corretto fabbisogno energetico sia quella definita, non a caso, “mediterranea” essendo la moderna sintesi di millenarie usanze alimentari di alcuni popoli che si affacciano sul Mare Mediterraneo. La cultura della Grecia classica, con il suo variegato politeismo, è quella che meglio ha canonizzato le implicazioni di un rapporto cibo-religione comunque comunemente rintracciabile all’origine di ogni sua variegata evoluzione. E’ quindi di notevole interesse la constatazione che questo rapporto sia nato da un autentico “non rapporto”, da una evidente separazione. Parafrasando la frase di Feuerbach testé richiamata si può infatti sostenere che “dimmi come mangi e ti dirò se sei un immortale”, gli dei dell’Olimpo greco godono di una alimentazione del tutto diversa da quella dei mortali umani a marcare una differenza di status non valicabile. Non solo gli dei consumano cibi esclusivi (nettare ed ambrosia, elisir di immortalità) ma, in quanto tali, si arrogano il diritto di essere i generosi dispensatori di tutti quelli di rango ben inferiore che nutrono i comuni mortali, a partire dai tre alimenti che costituiscono la cosiddetta “triade mediterranea” che, composta da “pane – olio – vino”, da millenni rappresenta la comune base delle cucine del Mare Nostrum.

La sacralità di questi macronutrienti è in effetti rintracciabile, con locali variazioni di lieve entità, in tutte le culture dell’area mediterranea. Quella greco-romana in particolare ha costruito attorno ad essi un imponente apparato di regole religiose, narrazioni mitologiche, pratiche rituali, credenze superstiziose. A ben vedere è proprio questa sacralizzazione che, non casualmente, ha anche definito un regime dietetico considerato, nella pratica quotidiana, quello più sostenibile e più nutriente. Molto prima degli attuali DOC (Denominazione di Origine Controllata), e per millenni, è valsa una diversa DOC (Denominazione di Origine Consacrata)

Prima ancora del pane, il risultato finale di un lungo lavorio che inizia con l’aratura e la semina, è già attestata, e tutelata, l’origine divina delle “messi(tutti i vari tipi di cereali che vengono “mietuti”). E non a caso già per questo aspetto preliminare al vero cibo nella cultura greca compare nelle vesti di nume tutelare una dea: Demetra (da Demeter letteralmente “dea madre”), che in quella latina diventa Cerere (da cui il termine “cereali”), nonché sua figlia Kore (altrimenti detta Persefone) che in latino ha nome Proserpina. Non dissimili dai riti e dai sacrifici ad esse dedicati sono quelli tributati ad un’altra divinità, quella della vegetazione: Adone, figlio di Afrodite/Venere (nelle culture mesopotamiche un analogo dio prende il nome di Attis o Tamuz) festeggiato ogni anno verso primavera per celebrare il continuo rinnovarsi del ciclo di morte e rinascita nel ciclo stagionale delle piante.

sono riti ancestrali molto interessanti perché presenti con identiche caratteristiche in molte culture: tutti questi Dei spesso nascono da vergini, muoiono per un breve periodo per rinnovarsi in una successiva resurrezione e hanno, con queste caratteristiche, un forte legame soprattutto con il ciclo di vita dei cereali. Questa figura mitica, e le usanze ad essa collegate, erano presenti anche nella cultura ebraica arcaica che ne accentuava in particolare il rapporto con il pane. Non è forse un caso quindi che Gesù, il pane della vita, sia fatto nascere in Betlemme, che significa “la casa del pane”, dove sorgeva un ombroso bosco dedicato proprio alla figura mitologica di Adone

E d’altronde il pane, in tutte le culture collegabili a quelle mediterranee, ha la valenza di simbolo di un potere divino che va oltre il suo valore di cibo, di alimento per antonomasia. La panificazione, e la conservazione del pane, sono state a lungo pratiche, non dissimili da quelle del fuoco, in grado di spiegare la stessa struttura di potere della comunità.

un esempio viene dall’antico inglese dove i termini che sono poi evoluti in Lord e Lady letteralmente significavano “guardiano del pane” e “colei che impasta il pane

Ed in effetti i miti e le leggende sull’invenzione e sulla conservazione del fuoco hanno tratti molto simili a quelli che riguardano un ingrediente fondamentale del pane: il lievito. Nell’immaginario mediterraneo la sostanza magica che gonfia il pane è sempre il dono di un essere soprannaturale, spesso femminile, depositario dei saperi utili alla sopravvivenza della comunità. La pasta madre, essendo spesso un bene comune, è essa stessa un simbolo ed un fattore di coesione sociale, fino ad essere considerato in alcune culture una sorta di tabù, non essendo umanamente spiegabile il mistero della lievitazione. Si può allora affermare che il pane, l’alimento ideale della comunità, implica scambio solidale divenendo, anche grazie alla sua investitura divina, la metafora della vita e del lavoro umani. Altri dei intervengono anche per l’altro cibo della triade mediterranea: l’olio e l’ulivo ricadono sotto il segno di Atena, figlia di Zeus, (Minerva nella cultura latina), che dona agli uomini il primo ulivo, quello “sacro”, attorno al quale sorge la capitale dell’Attica, chiamata in suo onore: Atene. L’identificazione tra ulivo e l’intera polis è totale nella cultura greca, quello ritenuto il dono di Atena è protetto con la pena di morte per chi lo danneggia

Guido Ceronetti evidenzia con acume questo aspetto là dover afferma “è l’interdetto sacro che protegge la natura, non la buona educazione, non la legge civile “se l’ulivo è sacro ad un dio l’ulivo non sarà tagliato

Se la Grecia antica sacralizza l’olivicultura le altre culture mediterranee non sono da meno, nella tradizione ebraica, ad esempio, l’ulivo cade dal Paradiso e cresce sulla tomba di Adamo, a significare che la storia dell’intera umanità e quella dell’ulivo sono la stessa cosa. A spiegare questo suo ruolo centrale, andando oltre la sua celebrazione mitologica, concorre la caratteristica dell’olio di “ungere”, di essere cioè al tempo stesso capace di “legare gli alimenti” e di “impedire ad altri alimenti di legarsi”. Unisce e insieme divide. L’olio è cioè un potentissimo connettivo, sia naturale che soprannaturale. Il terzo elemento della triade è il vino, il dono di Dionisio (per i Romani Bacco), ma se quelli del pane e dell’olio hanno un rassicurante carattere di coesione comunitaria questo del vino presenta elementi squilibrati. L’intensità del rapporto con Dionisio/Bacco deve essere accuratamente calibrata, il vino implica, proprio per le sue caratteristiche inebrianti, il forte rischio di non controllare la magica forza vitale del succo della vite. In questo senso il suo temperato uso è al tempo stesso raccomandato per il beneficio personale, ma è anche condizione necessaria per buone relazioni comunitarie. In questo senso se la civiltà si misura anche per il dono divino del vino, questo a sua volta misura il grado di civiltà. Dionisio/Bacco sono dei con poco e strano senso del limite, questo compete a chi si accosta alla coppa di vino (l’uso tradizionale greco prevede di mescolare una tazza di vino con venti di acqua!)

Va precisato che le caratteristiche organolettiche del vino dei tempi antichi sono del tutto dissimili da quelle attuali. Si tratta infatti di un prodotto ottenuto da una spremitura raffazzonata, non filtrato, non fermentato a sufficienza, e quindi una sorta di spesso mosto così ricco di etanolo da richiedere una sua forte diluizione

Se quindi è bene non seguire ciecamente il carro di Dionisio/Bacco (raffigurato come un carro coperto di foglie e pampini, su cui viaggiano baccanti a satiri, trainato da tigri e pantere) il suo dono è però anche un prezioso viatico per la socializzazione e la conoscenza, che trova nel “simposio” della mitologia mediterranea il suo paradigma (il termine che ancora oggi indica una riunione conviviale deriva dal greco symposion il cui significato letterale è “con bevanda”). Ed è con questo carattere di comunanza che il vino viene poi assunto, come vedremo, dal cristianesimo fino a divenire sostanza sacra dell’eucarestia. Non sono però attribuibili a numi tutelari le raccomandazioni che caratterizzano la dieta mediterranea, ma alle riflessioni di filosofi, a partire da Pitagora e Platone. Certo il regime alimentare assurto a universale regola aurea della corretta alimentazione si spiega innanzitutto con le condizioni materiali di esistenza dei popoli mediterranei (di sicuro non improntate all’abbondanza e alla ricchezza) ma l’antica diffusa pratica alimentare basata sul prevalere di verdure e vegetali (antesignana del vegetarianismo) racchiude anche una saggezza esistenziale che va oltre l’essere un sano regime alimentare

2 – La tavola di Mosè

Sarà che secondo il Vecchio Testamento la storia dell’uomo, sulla terra, inizia con un morso di troppo, quello di Adamo ed Eva al frutto proibito, e sarà che da allora in fatto di cibo l’uomo ha parecchio da farsi perdonare dal Dio del popolo eletto, ma un filo doppio ed indissolubile lega cibo e religione nel mondo ebraico. Lungo gli stessi millenni nei quali l’Olimpo politeista offriva in dono all’uomo i cibi della triade mediterranea in quella che diverrà la Terra Santa dietro ad ogni alimento, ad ogni ricetta, vengono fissate rigorosissimi precetti e divieti che fissano scrupolosamente cosa mangiare, cosa non mangiare, come cucinare, quando, quanto e come mangiare. E d’altronde per meritarsi il proclamato status di “popolo eletto” corre l’obbligo per le dodici tribù di Israele di obbedire scrupolosamente ogni qual volta Dio fa sentire la sua voce che in fatto di cibo è quanto mai perentoria. Alla generosa concessione sancita nel libro della Genesi (Gen 9,3)quanto si muove e ha vita vi servirà da cibo” fa subito seguito un lungo ed articolato elenco di divieti, di tabù. Ad esempio:

*   non mangiare carne contenente sangue [“la vita di ogni essere è il suo sangue perciò vi ordino di non mangiare sangue di alcuna specie vivente” (Lv 17,10)] e quindi la macellazione deve seguire un vero e proprio rito di purificazione

*    la sola carne mangiabile è quella di animali che siano ruminanti e dotati di unghia dipartita (e quindi bovini e ovini si, maiali, cavalli e cammelli no)

*   volatili si, ma con moltissime eccezioni

*   pesci si ma solo quelli con pinne e squame, vietati quindi molluschi, frutti di mare e crostacei

Una delle regole più importanti fissa il divieto di associare carne e latte nello stesso piatto (e quindi, tuttora, nelle case e nei ristoranti ebraici si usano servizi di piatti e pentole distinti per l’una e l’altro, e anche lavastoviglie e comparti frigo diversi) e la consumazione dei pasti è punteggiata di preghiere e gesti rituali. Ognuna di queste regole (qui ne sono citate solo alcune) trova una sua ragione d’essere in sottili considerazioni teologiche che puntano a confermare e rafforzare lo status di popolo eletto dividendo l’intero creato tra ciò che è “puro, ossia kasher o kosher” e ciò che è “impuro ossia taref”. Questi precetti della Torah (la Bibbia ebraica) non sono quindi incorporei dettami teologici, ma sanno tradursi in un preciso e vincolante complesso di comportamenti concreti riguardo al cibo, la cui finalità ultima è quella di creare, anche attraverso tali pratiche, quella consolidata identità collettiva che ha da sempre, attraversando millenni e le tante diaspore subite, consentito all’antico popolo di Israele di mantenersi unito, vicino, anche se disperso per il mondo intero. Va poi detto che tale sistema di divieti non ha certi impedito alla cucina ebraica di essere ricca di sapori, umori, odori, anzi paradossalmente tali ostacoli hanno incentivato la migliore valorizzazione di tutti i cibi kosher, creando così una cultura del cibo sana e variegata. Tale da aver recentemente conquistato, in quest’epoca di salutismo alimentare, anche il palato di chi ebreo non è, e non a caso quindi gli alimenti prodotti secondo le regole ebraiche (rigorosamente certificati da rabbini), sono sempre più presenti sulle tavole di mezzo mondo con un numero crescente di consumatori rassicurati dal fatto che uno dei comandamenti kosher fissa la regola che “il cibo non deve contenere nulla che sia dannoso alla salute”.

Per esempio il rigore delle modalità di macellazione e trasformazione delle carni, attestata dal marchio kosher, è sinonimo di grande attenzione alla qualità del prodotto, non stupisce allora che nei soli USA il cibo ebraico sia arrivato a rappresentare il 40% del food businnes. Kosher is better

3 - I cristiani mangiano di tutto

E’ molto forte il rapporto culturale e religioso del cristianesimo con le preesistenti culture e religioni mediterranee, quelle classiche e a maggior ragione con quella ebraica, e questo legame vale sicuramente anche per la cultura del cibo. Ma è altrettanto vero che il cristianesimo rappresenta una straordinaria svolta nel rapporto tra divino e cibo: scompaiono i gaudenti dei dell’Olimpo generosi dispensatori dei doni della triade mediterranea e soprattutto scompare l’ebraica discriminazione tra alimenti puri ed impuri, tra cibi leciti e illeciti, il buon cristiano può mangiare di tutto, purchè rispetti il precetto della temperanza, restando il suo unico comandamento la condivisione del cibo. Stiamo parlando di una svolta che accompagna quella più generale del progressivo, perché durato diversi decenni, distacco del cristianesimo dalla sua matrice più strettamente ebraica. Non è stata, come è noto, una evoluzione semplice e indolore, ma al termine del primo secolo dopo Cristo la scelta è compiuta (ben testimoniata dall’ultimo dei Vangeli, quello di Giovanni): il messaggio di Gesù non parla ai soli ebrei, ma ha valenza universale, si rivolge a tutte le genti, a tutti gli uomini. Ed anche il cibo viene chiamato a testimoniare questo decisivo cambio di paradigma: scompaiono i precetti ebraici così rigorosi proprio perché così rivolti al solo popolo eletto, se il nuovo Verbo si rivolge a tutti deve accettare tutte le diversità alimentari, tutti i cibi, tutti i modi di cucinare e mangiare …. tutto quel che si trova sui banchi del mercato è buono per i cristiani perché viene da Dio e tutto quel che viene da Dio non può essere impuro ….. Non possono cioè esistere separazioni fra uomini e genti in base a quel che mangiano e bevono, ma, in sintonia con il messaggio cristiano di redenzione, questa apertura, questa inclusione, viene completata con un nuovo credo alimentare: quello della moderazione (e della giustizia distributiva). Le prime comunità cristiane adottano quindi con convinto rigore il vero nuovo comandamento sul cibo: la ricerca della temperanza. Da allora se smette di essere rilevante “cosa si mangia” diventano fondamentali “il quanto, il quando, il come(banalmente ha qui origine il detto “di tutto un po’). Fatto salvo, nella sua sostanza, questo decisivo passaggio è però altrettanto vero che il rapporto del cristianesimo con il cibo si è da San Paolo in poi (il vero protagonista di questa svolta) fatto non poco complicato, peraltro non diversamente da tutte le questioni dottrinali che per secoli e secoli hanno caratterizzato la vita delle Chiese cristiane. Una montagna di controversie, puntualizzazioni, cambiamenti, aggiustamenti, eresie, divisioni che hanno investito anche la sfera del cibo tant’è che, molto spesso, si sono espresse proprio con il linguaggio dell’alimentazione. D’altronde lo stesso messaggio evangelico si è fin dal suo inizio basato proprio sulla identificazione teologica tra “verbo e cibo”, in particolare sulla stretta associazione tra “la figura di Gesù Cristo e la (prontamente recuperata) classica triade mediterranea” del pane, del vino, dell’olio. Ma a differenza delle blande implicazioni teologiche della cultura classica questa associazione assume un fondamentale valore, Gesù inteso come Cristo offre all’umanità, nel rito eucaristico che celebra la piena adesione al divino, il suo corpo umano transustanziato in pane e vino: questo è il pane che è disceso dal cielo, non come quello che i padri mangiarono, chi mangia questo pane vivrà in eterno (Vangelo di Giovanni 6,58). Ed è proprio “panificandosi” che Gesù Cristo ristabilisce l’equilibrio spezzato dal peccato originale

Come già richiamato in precedenza l’accostamento con il pane è già insito nella scelta del luogo di nascita di Gesù: Betlemme, in ebraico “casa del pane”. Ed il nome “ostia”, la particella consumata nella Comunione, ha derivazione dal latino “hostia” che indicava la vittima offerta in sacrificio

Non meno significativo, in questa associazione divino-cibo, è il fatto che il pane fosse all’epoca il risultato del lavoro dell’intera comunità, il frutto di un lavoro cooperativo, averla scelta esalta quindi anche la dimensione comunitaria del cristianesimo (dal pane, non a caso, derivano parole come “compagno” dal latino “cum panis, con pane”). Con queste premesse meglio si comprende perché la preghiera principale del cristianesimo, il Padrenostro, citi esplicamente “dacci oggi il nostro pane quotidiano”. E se la parte corporea del Figlio di Dio è rappresentata dal pane, non sorprende che la parte liquida sia rappresentata dal dono di Dionisio, a sancire il recupero del secondo cibo della triade, e che sia l’olio, il suo terzo componente, a definire la sua natura divina, visto che “christòs” in greco significa “unto”, esattamente come la parola ebraica “masiakh”, da cui deriva “messia”, Gesù Cristo è “il Messia” che porta la salvezza essendo “l’unto del Signore(altrettanto significativi sono altri due passaggi dei Vangeli: Gesù dopo l’ultima cena si ritira in preghiera nel “Getsemani”, che in aramaico significa frantoio, che si trova ai piedi del Monte degli Ulivi). Il Cristianesimo quindi recupera nel suo strettissimo rapporto con il cibo tutti e tre gli alimenti della triade mediterranea usandoli però, in modo totalmente diverso, proprio per definire il nuovo carattere di salvezza divina ….. si può allora dire che con il sacramento della comunione i cristiani chiudono il cerchio aperto dalle religioni precedenti arrivando simbolicamente a mangiare Dio ….. L’apertura del cristianesimo verso ogni tipo di cibo si accompagna però con un forte richiamo alla temperanza, alla moderazione nel cibarsi, che bene si spiega proprio con il significato salvifico, sancito dalla Comunione, dell’unione con il divino attraverso il cibo. Ciò che è sacro e salvifico non può essere svilito dall’eccesso smodato, nella visione etica cristiana i “peccati di gola” sono quindi allo stesso livello dei “peccati della carne, della lussuria”. Ed ecco perché la pratica del digiuno, purchè praticato senza vanagloriosi eccessi, è così incoraggiata dal cristianesimo, rivelando anche in questo caso una stretta relazione con le preesistenti culture classica ed ebraica.  

I quaranta giorni Quaresimali che precedono la Pasqua sono i quaranta giorni fissati da Pitagora per completare il suo rito purificatore, sono i quaranta giorni di digiuno seguiti da Mosè prima di ricevere le Tavole della Legge. Un principio quaresimale è peraltro presente in tutte le culture e le religioni che, seppure con diverse declinazioni, hanno sempre avvertito l’esigenza di un periodo di purificazione, di controllo dei corpi

Lo stesso culto della magrezza, per quanto oggi declinato in senso estetico e salutista, bene si collega alla cristiana visione originaria della temperanza e della moderazione che non condannava il sovrappeso in sé, ma come peccaminoso accaparramento di risorse alimentari a scapito della condivisione comunitaria. L’apertura del cristianesimo verso ogni tipo di cibo è confermata dall’assenza di particolari divieti, anche se è riscontrabile una qualche diffidenza per l’eccesso di consumo di carne. Si tratta di un cibo che a lungo è stato un impossibile lusso per le tavole dei poveri, così come lo era per quelle delle prime comunità cristiane, ma che, in quanto tale, non è mai stato oggetto di particolari divieti. Semmai nel cristianesimo non ha mai goduto di particolare simpatia per il suo inevitabile accostamento alla crudità, alla crudeltà, all’uccisione, al versamento di sangue, ben testimoniato dalla stessa origine etimologica della parola “carne” che alcuni fanno derivare da due radici indoeuropee: *kru, che indica proprio la morte, la violenza, piuttosto che *ker che indica il taglio, il tagliare, il ferire.

a conferma della incostante, se non contradditoria, evoluzione della dottrina cristiana lo stesso obbligo del “mangiare di magro il Venerdì” è sempre stato declinato con rigore variabile. Nel 1994 la CEI, la Conferenza Episcopale Italiana, riprendendo una precedente indicazione di papa Paolo VI ha chiarito che non esiste alcun obbligo in tal senso, che ogni fedele può decidere autonomamente magari sostituendolo con un’opera di bene, di carità, se non con una preghiera

4 – L’Islam tra purezza e pericolo

L’altra grande religione monoteista sembra segnare un ritorno ad una visione del rapporto tra divino e cibo contrassegnata da divieti e proibizioni: …. sono vietati gli animali morti, il sangue, la carne di porco e ciò su cui sia stato invocato altro nome che quello di Allah ….. (Quinta sura del Corano). L’islamismo in effetti sembra collocarsi a metà strada tra i due grandi monoteismi che storicamente lo precedono e con i quali ha riconosciute relazioni: fa proprio l’universalismo del messaggio cristiano pensando ad una analoga diffusione globale, ma al tempo stesso introduce nella sua dottrina, analogamente all’ebraismo, una linea netta di demarcazione tra infedeli e propri fedeli, i quali sono tenuti a marcare questa separazione anche nel cibo che il Corano conseguentemente suddivide tra quelli “halal”, ossia i cibi consentiti, e quelli “haram”, cioè i cibi impuri e quindi proibiti. La lista dettagliata di ciò che si può mangiare e di ciò che è vietato è molto simile a quella ebraica, ad esempio sono halal le carni ovine e bovine purchè macellate ritualmente per evitare il sangue, sono invece haram le carni di maiale, conigli, uccelli, cavalli, muli, asini e di tutti gli animali che strisciano. Sono halal i pesci con spine a squame, vietati molluschi, crostacei. Una proibizione specifica dell’Islam (sulla quale si tornerà) è, come è noto, quella del vino e di tutte le sostanze inebrianti.

questa sostanziale omogeneità con i divieti ebraici viene spiegata da alcuni storici con la comune discendenza da culture tribali del MedioOriente preislamico che prescrivevano specifiche alimentazioni per ragioni insieme  etiche e dietetiche, ritualiste e salutiste

Allo stesso modo della cucina ebraica l’insieme di queste regole vincolanti ha sollecitato l’uso migliore e più fantasioso di tutti i cibi halal dando così origine ad una cucina ricca e variegata (ad es. il kebab, il couscous, i falafel) che inoltre, incrociandosi lungo i secoli con quella delle altre tradizioni mediterranea, ha creato piatti universali (ad es. dolci preparati senza uso di grassi animali e quindi a base di miele e ricotta, il pane con semi di sesamo, le varie farinate di ceci, una delle quali, tipica del Monferrato, è chiamata “belecauda”). In generale il rapporto del divino con il cibo è nell’Islam rigorosamente fissato dalla interpretazione delle varie sure del Corano che regolano ogni aspetto del vivere individuale e collettivo dei mussulmani.

in effetti il Corano non è opera rigorosamente omogenea, le sue sure vengono di norma suddivise tra quelle denominate “meccane”, ossia rivelate da Maometto nella sua permanenza alla Mecca, il cui scopo primario era quello di costruire un primo impianto dottrinale e che quindi appaiono meno stringenti e rigide, e quelle successive all’Egira (il trasferimento di Maometto a Medina) chiamate “medinesi”, quando prevale lo scopo di fissare regole molto più severe per meglio gestire l’eterogeneità della crescente diffusione dell’Islam

A differenza del Cristianesimo che, come si è visto, ha consentito, proprio per la sua sostanziale mancanza di un definito impianto di regole alimentari, una ben più ampia elasticità nel rapporto con il cibo, nel mondo mussulmano - pur tenendo conto delle sue significative divisioni (in particolare fra sunniti e sciiti) - la necessità di omogeneizzare la pratica di una fede che si è diffusa globalmente con grande rapidità ha di fatto accentuato l’applicazione rigorosa dei divieti alimentari. Ad esempio la pratica della macellazione degli animali halal è persino più rigorosa e rituale di quella ebraica kosher, l’osservanza del digiuno rituale, il Ramadàn, è molto più diffusamente rispettata.

non mancano in questo complesso di rigide regole alcune che possono di più sorprendere chi segue altre concezioni del rapporto del divino con il cibo. Il mussulmano deve seguire a tavola un rigoroso galateo che prevede in particolare che il cibo sia sempre preso con la mano destra, che l’Islam giudica quella “pura”, quella che fa il bene

Ma non mancano ricadute positive sotto diversi punti di vista: il buon mussulmano deve sì essere sempre grato ad Allah per il cibo che mangia, ringraziandolo scrupolosamente prima di cibarsi, ma deve essere moderato e sempre disponibile a condividere il suo cibo con altri. Dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati è pratica molto più seguita nell’Islam che nell’ormai secolarizzato mondo cristiano. La scelta degli alimenti vegetali deve rigorosamente seguire la loro stagionalità, una regola che, di norma altrettanto scrupolosamente seguita, bene abbina buone ricadute nutrizionali e rispetto di produzioni sostenibili. Si è detto in precedenza della diversa modulazione delle norme alimentari islamiche fra le sure meccani e medinesi, un aspetto che investe in particolare il rapporto con il vino, ed in generale con le sostanze inebrianti. Mentre nelle prime il loro divieto era molto blando e tollerante, nelle secondo questo si è fatto molto più severo arrivando a interdire non solo il succo d’uva, ma anche quello ottenuto dalla fermentazione di cereali (liquori e birre). Ed i mussulmani più rigorosi non si azzardano nemmeno a toccare le bottiglie che le contengono, e quindi anche a servirle ad altri, perché la loro impurità è simbolica prima ancora che materiale.

5 – Il dilemma Indù, Buddha, Jina, Gandhi

Lo sguardo ora si volge dal bacino mediterraneo, dalla cultura del cibo della sua classicità e dei suoi tre grandi monoteismi, verso Oriente, verso quel crogiolo di divinità e di usanze alimentari rappresentato dal subcontinente indiano. Il primo grande ceppo religioso esplorato da Elisabetta Moro e Marino Niola è quello, politeista e poliforme, della religione Indù, considerata da molti quella più antica, le sue radici infatti risalgono a più di quattromila anni. Una recente ricerca (effettuata nel 2021 dall’istituto Pew Center di Washington specializzato in indagini sociali) ha sondato le attuali forme della religiosità induista (con 900 milioni di seguaci è la terza religione più diffusa dopo il cristianesimo e l’Islam), la risposta alla domanda su quale sia il comportamento che di più e meglio rappresenta la fede in Bhrama, Vishnu e Shiva (le tre principali divinità, la sacra Trimurti, del pantheon induista) è quanto meno sorprendente: a fare la differenza fra un credente e un non credente è prima di tutto l’osservanza delle regole e dei precetti alimentari. Come a dire che “mangiare come Dio comanda è più importante che credere al Dio che comanda”. E la prima fondamentale regola è quella di digiunare un giorno a settimana dedicandolo al nume che si intende celebrare per ingraziarselo (il pantheon induista è non poco numeroso, accanto ai tre dei principali siedono numerose altre divinità ognuna delle quali, non diversamente dall’Olimpo greco, presiede ad una qualche virtù o potenza). Il digiuno per gli induisti assume una straordinaria valenza: purifica il corpo, eleva l’anima, libera dal ciclo delle reincarnazioni (che gli indiani vivono come un castigo divino). Non a caso la parola che indica il digiuno è “upvas” che letteralmente vuol dire “sedere vicino a Dio”. Questa dedizione ascetica, seguita con totale devozione, non significa che per l’induismo il cibo non sia centrale, al contrario le regole che disciplinano la scelta, la cottura ed il consumo di cibo rappresentano, in positivo, la base della stessa pratica religiosa, al punto che il cuoco per eccellenza è il brahmino/brahmano, il sacerdote induista. Esiste infatti un forte parallelismo tra l’amalgama dei tanti incrociati riti religiosi che un pantheon così variegato in qualche modo impone e quella dei gusti, dei sapori, delle combinazioni. Il cibo è cioè considerato il veicolo principale del contatto con il divino, e per fare ciò deve essere totalmente puro, e considerato che l’impurità è trasmessa proprio da chi cucina ben si comprende perché la casta più pura sia quella dei brahmini, mentre quello più impuro è il cibo dei paria, la casta più in basso.

Il cibo più puro in assoluto è il “ghi”, il burro chiarificato prodotto con il latte delle mucche sacre, anche bruciato nelle lampade votive ed usato per ungere le statue degli dei

La ricerca della purezza assoluta implica anche che il cibo avanzato, ormai impuro, debba essere buttato via, non prestandosi come avanzo ad ulteriori manipolazioni, e che i cibi crudi siano preferiti a quelli cotti proprio per evitare le impurità della manipolazione. Se il cibo così considerato è l’elemento fondamentale dell’identità e dell’unità induista l’esaltazione esasperata della sua purezza diventa però il motivo dell’astio verso le abitudini alimentari delle altre religioni. La stessa ostilità spesso molto violenta degli induisti verso i mussulmani nasce (ovviamente oltre che da motivazioni politico-religiose) da ragioni legate al mancato rispetto della purezza dei cibi. E quasi sempre il pretesto per questa violenta ostilità è legata al consumo di carne di mucca, di manzo. Il rapporto con il cibo “carne”, e con l’animale suo maggior fornitore, rappresenta sicuramente l’aspetto più rilevante non solo per la religione indù essendo comune a tutte le culture che con essa hanno storicamente avuto una stretta relazione. Nello stesso periodo storico (VI secolo a.C.) in cui Pitagora elabora la sua idea di un’alimentazione non violenta, escludendo quindi ogni consumo di carne (e dando così forma ad una idea compiuta di vegetarianismo) il Buddha (Siddhārtha Gautama, 564-480 a.C., Buddha è il participio passato del sanscrito budh, prendere conoscenza, svegliarsi. Buddha significa quindi "risvegliato") predica nella regione indiana una identica filosofia sulla vita e sul rapporto tra l’uomo e le altre creature. Entrambi condannano apertamente i sacrifici animali indistintamente presenti in tutte le culture sin qui esaminate. Il loro vegetarianismo filosofico non è quindi riducibile ad una mera dieta per essere una cosciente presa di posizione in nome dei diritti del vivente.

La svolta decisiva in questo senso è poi avvenuta con l’avvento del Cristianesimo che ha abolito il sacrificio animale reso ormai superfluo da quello universale di Cristo, l’agnello sacrificale per eccellenza. A cascata in tutte le culture religiose sono state, per emulazione, progressivamente cancellati riti sacrificali di animali. La macellazione è quindi divenuta una modalità non più sacrale per quanto, come si è visto, ancora regolata in alcune culture da precise prescrizioni religiose

Nello specifico della cultura induista – che ha considerato il Buddha un induista tanto da inglobarlo nella sua area religiosa (del resto l’induismo pretende, in base ad un principio di annichilazione, di contenere per definizione tutto e tutti) – il suo insegnamento vegetariano ha vieppiù rafforzato il rispetto sacrale verso le vacche.

denominate nei testi sacri “kamdhenu” una figura divina con le corna che simboleggiano gli dei, le zampe che indicano le antiche scritture e le mammelle che richiamano gli obiettivi dell’esistenza umana: giustizia, salvezza, desiderio e ricchezza. La mucca è sempre stata considerata il regalo più appropriato per i brahmani/brahmini e quindi ucciderne una equivaleva ad uccidere un sacerdote, il crimine più empio

Un’altra costola del mondo religioso induista è rappresentata dal “jainismo’giainismo” (da Jina, il nome di Dio, che in sanscrito significa “il Vittorioso”) che, basato sugli insegnamenti di Mahavira (soprannome di Varhamàna 599-527 a.C.) ed ispirato da un accentuato ascetismo, eleva il divieto del consumo di carne, e a maggior ragione quello di mucca, a dogma assoluto.

l’alimentazione dei giainisti si è progressivamente radicalizzata fino a divenire la religione vegana per eccellenza, bandendo dalla tavola non solo la carne ma tutti i prodotti ottenuti da animali arrecando loro sofferenze

Il jainismo ha peraltro avuto nella storia recente indiana un ruolo particolare perché ad esso si ispirava il padre dell’India moderna e indipendente: Mahatma (la grande anima) Gandhi. Il suo non è certo un insegnamento religioso, ma al pari di una religione “laica” ha elevato a valore fondante della società il totale rispetto per ogni essere vivente (tanto da immaginare un’India non più basata sulle caste ed essere proprio per questo assassinato da un fondamentalista indu) animali pienamente compresi. Non più di precetto religioso si deve parlare ma di una convinzione fondante il vivere in comunità in armonia con il creato

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Lo scopo dichiarato di questo breve saggio, esplicitato da Elisabetta Moro e Marino Niola nell’Epilogo che lo chiude, è anche quello di denunciare una esasperata ideologia del cibo che negli ultimi decenni ha investito la parte ricca del mondo. Mentre un numero inaccettabile di donne, uomini, bambini, non può contare su una adeguata alimentazione, essendo il loro problema non quello di “cosa mangiare” ma quello di avere “qualcosa da mangiare”, pressochè in tutte le società, ed in particolare la loro parte più benestante, si è innescato un paradossale cambiamento: si è cioè passati dalla condizione (in questo saggio illustrata) in cui la religione era il grande codice dei comportamenti alimentari a quella attuale in cui si è affermata una vera e propria “religione del cibo”. Un culto della tavola  che va ben al di là della semplice nutrizione per assumere forme rigorose di osservanza alimentare che si suddivide in due opposte “chiese”: quella della “cibomania” e quella della “cibofobia”. La prima, con i vari cuochi elevati al rango di sacerdoti del cibo, propone una autentica esaltazione del piacere a tavola, della conoscenza specialistica di gusti, aromi, luoghi di produzione, di una gastronomia esclusiva e narcisistica. La seconda, con i suoi guru influencer, è all’opposto la negazione del piacere a tavola in nome di un salutismo estremo, della santificazione di cibi presunti salvavita, in cui la tavola viene vista come una potenziale fabbrica di malattie e di malsano invecchiamento. Dietro ad entrambe si muovono settori che, nella società di mercato, realizzano straordinari profitti. Il cielo divino si è così capovolto:

se le religioni hanno sempre cercato di tenere a freno l’eccesso di piacere promettendo premi e minacciando castighi, ora che gli dei sono in esilio i nuovi controllori del piacere siamo semplicemente noi, la nostra cultura consumistica, le nostre filosofie di vita



martedì 10 ottobre 2023

Video della conferenza del 04 Ottobre 2023 - Relatore prof. Matteo Saudino

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della partecipata conferenza tenuta, in data 04 Ottobre presso l’auditorium D. Bertotto, dal prof. Matteo Saudino (professore di filosofia presso il Liceo Gioberti di Torino, inventore del seguitissimo canale “Barbasophia” su YouTube. Ha pubblicati diversi testi di divulgazione e manuali filosofici) con titolo: “Le figure della libertà

Per accedere al video Clicca qui 




domenica 1 ottobre 2023

La Parola del mese - Ottobre 2023

                                               La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

OTTOBRE 2023

Emerge con sempre maggiore evidenza, da molte delle riflessioni proposte in questo blog, la constatazione che è sempre più opportuno ed urgente, un profondo e globale cambiamento del modello di sviluppo, ossia del principale responsabile dell’attuale emergenza ambientale e climatica, del sistema delle disuguaglianze sociali, dei rischi in campo geopolitico. E’ cioè non più rinviabile la messa in discussione radicale dei paradigmi economici e produttivi finalizzati all’insostenibile ed ingiusto mito della crescita infinita, dei correlati modelli di consumo e stili di vita, delle relazioni internazionali ancora e sempre guidate da logiche di potenza e di confronto militare. Ognuna di queste svolte richiede specifiche analisi, elaborazione di adeguate prospettive di fondo e concreti programmi di realizzazione. Purtroppo non sembra possibile cogliere, nell’attuale quadro politico globale, importanti passi in avanti in questa direzione, pesano ancora moltissimo le vecchie logiche economiche e produttive con i loro connessi interessi privati di profitto, l’inadeguatezza delle classi dirigenti politiche, i limiti e le contraddizioni della stessa democrazia rappresentativa, il velleitarismo confusionario di molti dei movimenti alternativi di opposizione. Un altro fattore, che molto spiega l’attuale stallo, pesa poi come un macigno: l’inadeguata consapevolezza di massa delle reale posta in gioco. Molti, troppi, chiudono per quieto vivere gli occhi di fronte alle evidenze. Molti, troppi, per quanto magari più sensibili faticano a tradurre questa consapevolezza in scelte sufficientemente coerenti e adeguate. Sembra che l’intera umanità ancora troppo fatichi ad uscire dalla sbornia consumistica e ideologica che ha accompagnato, alimentandolo ed essendone a sua volta alimentata, il modello di sviluppo che ha progressivamente segnato la storia di tutto il pianeta dalla Rivoluzione Industriale in poi. In generale non appare quindi adeguatamente compresa la constatazione che la vecchia strada della crescita infinita non è più percorribile e che a nulla servono lievi scostamenti di direzione. E’ tempo di avviarci lungo percorsi radicalmente alternativi. Questa “parola del mese” indica un verbo che riassume esattamente questo cambiamento totale di rotta. Lo chiarisce un articolo che bene lo spiega partendo da un significativa e concreta esperienza in questo senso. Per sperare in un vero cambiamento è anche di esempi esemplari che abbiamo bisogno.

BIFORCARE

Biforcare - verbo transitivo dal latino “bifurcare” composto da “furca” (forca) e dal prefisso  “bi” (due volte) = Dividere in due a guisa di forca; più comunemente il biforcarsi di strada, ramo o altro, che a un certo punto si divide in due parti o direzioni (Vocabolario online Treccani)

 

Disertori della crescita

Abbandonare il modello dominante per tornare a immaginare delle alternative: l’invito alla “biforcazione” dei laureandi dell’AgroParisTech.

Articolo di Paolo Bosca (nato ad Asti nel 1996, ha studiato a Venezia e lavora tra Pollenzo e Milano. Si occupa di spazio e di luoghi sia dal punto di vista teorico, attraverso la filosofia e la geografia, sia in una prospettiva pratica attraverso la gastronomia e l’agricoltura. Ha scritto per CookInc Mag, Antinomie, DudeMag, collaborato con Zero - Laboratorio di Filosofia per “Tempi materiali”, col Museo MACRO di Roma per il progetto “The Book Club” e nel 2022 con la residenza internazionale CanSerrat per la ricerca “Manifesto per una cultura locale) – sito on line Il Tascabile

Al termine del loro percorso di studi presso AgroParisTech, una delle più prestigiose istituzioni di formazione agrotecnica d’Europa, i laureandi 2022 hanno tenuto il loro discorso di fronte alla platea radunata per il graduation day. Si è trattato di un discorso a più voci, in cui gli studenti hanno preso una posizione comune che ha assunto la forma di un appello: biforquer, biforcareBiforcare significa per loro prendere un’altra strada rispetto a quella per cui sono stati formati, “rifiutare la scelta che gli si offre”, per dirla con il linguaggio degli undercommonsnegare l’esistenza di un solo modello di agricoltura per contribuire attivamente alla costruzione di un modello agricolo in cui la vita va di pari passo con il lavoro, l’attivismo, l’ecologia. Nella prima parte del loro intervento gli studenti criticano l’intero sistema di potere dominante, che si estende ben oltre il campo dell’agroindustria. Fanno riferimento alle promesse della green economy, del mercato e della crescita, accusandole di produrre un modello di vita basato sul lavoro alienato, precario e ricattatorio. Biforcare, affermano, è smettere di prestare le proprie energie a questo sistema, superandone i valori e i giudizi. È un appello radicale, specialmente perché proviene dalle punte di diamante di un’istituzione che, come recita il sito, mira a formare i “talenti di un pianeta sostenibile”. Malgrado gli sia stato dedicato solo qualche trafiletto sui giornali europei, il video ha raggiunto quasi un milione di visualizzazioni. Alla fine uno dopo l’altro gli studenti si alternano al microfono per dichiarare dove li ha condotti per ora la biforcazione: c’è chi ha cominciato a fare l’agricoltore in un paese, chi sta imparando a produrre miele, chi lavora per i diritti della terra contro l’accaparramento edilizio, chi fa il panettiere. Mestieri umili che “deludono le aspettative”, ma sono il risultato di una scelta consapevole che può aiutare a rileggere almeno tre questioni fondamentali del presente. Prima, la Great Resignation, cioè l’abbandono, senza apparente motivo, da parte di pezzi sempre più grandi della popolazione di posti di lavoro salariato senza apparente motivo, senza avanzamenti di carriera o successive certezze; in secondo luogo il fenomeno del neo-ruralismo, cioè il ritorno di sempre più persone spesso giovani a una vita rurale, fatta di lavoro agricolo svolto in aree non urbane; infine, la crisi della partecipazione politica, con percentuali sempre minori di votanti e un disinteresse diffuso verso l’attività democratica. Tutti e tre questi fenomeni sottintendono una domanda fondamentale riguardo alla fiducia in quelle che sono state le parole d’ordine della modernità. Il progresso, la scienza e la tecnica come soluzioni universali, l’agroindustria stessa, ma anche la cultura dominante, il sistema di produzione di merci e immagini, il denaro come fonte di sostentamento, la risoluzione proposta attualmente alle emergenze naturali. “L’innovazione tecnologica e le startup non salveranno nulla se non il capitalismo”, afferma uno dei laureati dell’APT. 

Si tratta di una sfiducia così profonda nei confronti del modello attuale da investire “tutto l’essere”, ogni aspetto della realtà, afferma Bifo nel capitolo finale del suo ultimo libro, “Disertate”. Bifo non è nuovo alle provocazioni rivoluzionarie, ma per la prima volta sembra trovarsi alle strette con le potenzialità dell’agire politico, che non sembra più in grado di rispondere alle problematiche poste dal cambiamento climatico e dal capitalismo avanzato. “La storia umana è giunta al punto in cui non è più data la possibilità di azione volontaria efficace”, sostiene nelle prime pagine. E allora l’unica via è disertare, lasciare il campo di battaglia, rifiutare la guerra insieme ai valori di tutte le parti coinvolte per fuggire verso un luogo dove cominciare a ricostruire. Infatti, secondo Bifo, non tutto è perduto. Proprio quando sembra che di fronte non ci siano altro che macerie tornano ad affacciarsi tra le righe del filosofo – e nei discorsi dei giovani agroecologi – parole scomparse da tempo, come gioia, grazia, erotismo, partecipazione. Le parole chiave di Disertate sono affermative: empatia, sensibilità, attenzione all’altro e amore di sé sono i punti di partenza per la progettualità libera dei disertori, l’unica capace di rianimare la forza del desiderio che sembra aver abbandonato da tempo il campo sociale. Se la diserzione è così profonda da riguardare tutto l’essere, allora un ruolo chiave, sostiene Bifo, ce l’ha l’immaginazione, l’unica facoltà in grado di trovare nuove vie dove non sembra esserci nulla, in un gioco continuo di creazione di nuovi elementi e interpretazione dello stato di cose. L’immaginazione è una facoltà attiva e creatrice. La biforcazione degli studenti dell’APT è un possibile risultato della capacità di immaginare una strada ulteriore rispetto a quella visibile. È ora di prendere sul serio l’ipotesi che dietro la perdita di attrattiva da parte di molti dei valori sui quali si fonda la società da almeno mezzo secolo non ci sia una misteriosa epidemia di depressione da curare, ma al contrario la presa di coscienza da parte dei “malati”, che è il primo passo verso la guarigione. La radicalità delle idee di biforcazione e diserzione sta nel fatto che differenti aspetti del mondo contemporaneo vengano letti in modo unitario, rendendo il rifiuto efficacemente rivolto verso un destinatario preciso, anche se multiforme: l’intero sistema di norme, pratiche e valori nel quale viviamo immersi. Un sistema che ha perso di solidità, finendo per esercitare minore attrattiva. La scelta radicale degli studenti dell’APT non è un sacrificio. Nonostante la formazione di altissimo livello si può scegliere un mestiere umile. Lavorare la terra non significa abbandonare il proprio sapere, ma metterlo al suo massimo frutto per cercare gratificazioni differenti. Siamo abituati a pensare che il percorso che passa dalla formazione scolastica conduca alla professione in modo lineare. “Nella sua attuale occupazione, quanto le sono state utili le competenze acquisite durante il percorso di studi?” è una tra le prime domande di qualsiasi indagine sui lavoratori neodiplomati o neolaureati. Un lavoro è tanto più confacente quanto più si approssima alle previsioni del corso di studi. E tanto più il percorso di studi è lungo e complesso, quanto più ci si auspica che il lavoro cui conduce sia specializzato, prestigioso, ben pagato e d’alto profilo all’interno del sistema sociale. In questo contesto è chiaro che nessuna delle biforcazioni è accettabile. Tuttavia è proprio il percorso di studi che ha portato questi studenti a ipotizzarne la possibilità, perché esiste un altro senso dello studio, oltre alla sua conversione in posizione sociale. Sapere è qualcosa di più di acquisire competenze tecniche da mettere a frutto. Conoscere meglio il mondo permette di farsi un’idea chiara su come posizionarsi al meglio al suo interno. Quando il sistema non è più accettabile, occorre disfarsene, biforcare. Lo afferma ironicamente uno degli studenti, quando descrive cosa vede all’orizzonte se proseguisse seguendo la via che gli viene prospettata: “a voi che siete seduti su una scrivania, e cercate la libertà fuori dalla finestra; voi che prendete il TGV tutti i week end in cerca di un benessere che non arriva; a chi è frustrato perché sperava di cambiare da dentro un sistema che non accenna a mutare: non siete i soli a pensare che ci sia qualcosa che non va. Perché c’è qualcosa che non va. […] Se avete paura di abbandonare il sentiero, pensate a questo: che vita volete? Un capo cinico, un salario che permetta di prendere spesso l’aereo, un mutuo trentennale per una casa suburbana, cinque settimane di vacanza, un’auto elettrica, un fairphone, una carta fedeltà al supermercato green e poi un burnout a quarant’anni? Non perdiamo il nostro tempo.” È chiaro che questo racconto non rappresenta il futuro di chiunque scelga di cercare la propria strada tra quelle offerte, o di trovare un posto all’interno del sistema dominante. Ma la questione è che le garanzie offerte dal modello dominante si sono ristrette, il ventaglio di possibilità è meno ampio e per entrare a farne parte è necessario cedere sempre un pezzetto in più. Biforcare, in quest’ottica, è tutt’altro che irrazionale. Si tratta di un semplice bilancio costi-benefici. Certo, cambiano i criteri del bilancio: costi e benefici non si misurano solo sulle entrate di denaro, sul prestigio sociale o sugli agi materiali. Si tratta di costruire il progetto di un altro modo di vivere, e sulla base di esso compiere le proprie scelte. Anche qui il discorso dei laureati dell’APT cerca di non frammentare un fenomeno complesso: gli studenti si rifiutano di separare vita privata e lavoro, riconoscimento e salute, economia ed ecologia. La vita è un tutt’uno fatto di giorni e notti, biforcare significa cercare un equilibrio ecologico, un differente modo di vita. La biforcazione degli studenti dell’APT è nata proprio da incontri con persone che incarnano diversi modi di vivere: non promesse, non progetti, ma esistenze concrete. Nell’appendice etnografica che chiude il suo ultimo libro “Essere natura (questo saggio è stato alla base della nostra Parola del mese di Marzo 2023) Andrea Staid ha intervistato persone che per vari motivi hanno disertato in questo senso. Li ha chiamati “Disertori della crescita” perché si sono affrancati più possibile da valori fondamentali del sistema dominante, uno su tutti la crescita, che sia professionale, economica, urbana o personale. Molti di loro provengono da ottimi percorsi d’istruzione e lavoro, hanno fatto parte della macchina sociale e infine hanno scelto di biforcare. Staid non racconta di vite romanticamente immerse nella natura e nell’ozio. I protagonisti della sua etnografia non testimoniano abbondanza né vite facili, perché le stesse promesse di abbondanza e comfort fanno parte del panorama desolante a cui serve cercare un’alternativa. Uno degli intervistati di Essere natura dice “è solo dal vissuto del qui e ora che si può produrre un cambiamento. Per me questa è la possibilità di una vita ecologica radicale che va contro quel tipo di civilizzazione che oggi consideriamo l’unica possibile: faccio fatica pensare una politica ecologica che non sia la vita stessa.” Spesso oggi è una qualche forma di incontro con la natura a scatenare la critica radicale nei confronti del sistema dominante. Sperimentare l’ecologia profonda nella vita di altre persone è un primo passo per rendersi conto che un altro modo di vita c’è. Il punto centrale di ogni pensiero ecologico, afferma Staid è la presa d’atto che come esseri umani siamo parte della natura, obbediamo e rispondiamo alle sue regole come ogni altro organismo e, dagli altri organismi, abbiamo molto da imparare su come impostare un futuro vivibile e sensato. Solo facendo propria questa eco-logica è possibile rimanere nel mondo. La natura infatti offre continuamente esempi di eco-logica, un modello radicalmente opposto a quello a cui siamo abituati. Quest’ultimo infatti separa, frammenta, disunisce per sfruttare singole risorse e poi, quando qualcosa si rompe, lo trasforma in una “sfida” o una “occasione” da risolvere con premura da parte di chi ne ha l’expertise. Si traccia il confine di un “cantiere” su cui lavorare finché non torna tutto a posto. Biforcare significa anche rifiutare di lavorare in questi cantieri, boicottare la lottizzazione. La natura al contrario insegna l’interconnessione, l’interpolazione, il mescolamento, la sistematicità, la conservazione. “Ecologia” indica questo percepire interconnesso che sa vedere il piccolo nel grande e il grande nel piccolo, che sente e partecipa al flusso di annodamento e snodamento in cui appaiono quelle che chiamiamo “cose” o “oggetti” o “esseri umani” e che sono tutt’altro che autonomi. Allo stesso modo cambiamento climatico, crisi economiche, calo della biodiversità, non sono né questioni isolate né “oggetti”, ma al pari di ogni altra cosa del mondo vivono in una rete incredibilmente ampia di relazioni. L’abitudine a percepire, più che singoli fenomeni, i sistemi di cui essi fanno parte consente una “presa” critica particolarmente efficace sulla varietà di aspetti che compongono il “sistema dominante” rispetto a cui gli studenti intendono biforcarsi. Parlare di “sistema” crea sempre un certo imbarazzo. È una parola poco precisa, naïf. Ma guardando da una prospettiva ecologica alla molteplicità di “issues” a cui assistiamo oggi sotto il profilo ecologico diventa sensato parlare di “sistema” per nominare un insieme coerente, anche se non perimetrabile, di pratiche, valori e dispositivi che agiscono coerentemente per generare tutta una serie di effetti. Un esempio, tratto dal discorso degli studenti APT: non ha senso cercare di rendere l’agrobusiness sostenibile, dal momento che l’agrobusiness stesso si fonda su un’idea non sostenibile del territorio e delle risorse, guidata unicamente dal denaro come fine ultimo. Risolvere il problema implica addentrarsi eco-logicamente nei gangli del sistema dominante facendo propria la lezione della natura. In una logica della terra il consumismo, l’urbanizzazione, la precarizzazione del lavoro, la specializzazione e la privatizzazione dei saperi, l’economia di mercato, l’agroindustria sono legate da un’unità profonda, proprio come accade in un ecosistema. In ognuno dei tre esempi che abbiamo citato (Il discorso di laurea ad APT, Disertate Essere natura) è implicato il lavoro agricolo. Il mondo rurale, inteso anche nei termini di autoproduzione del proprio sostentamento, è all’origine di molte delle biforcazioni contemporanee. È il “terreno” dove queste finiscono per condurre. Nel caso degli studenti è evidente: come abbiamo detto all’inizio ciascuno di loro si è inserito in un contesto dove pratica agricoltura o allevamento di piccola scala. Lo stesso vale per i Disertori di Essere natura: molti di essi hanno scelto aree rurali e mestieri “umili”. Anche in Bifo però c’è un chiaro riferimento al tema della produzione agricola come punto fondamentale della diserzione. La fine del secondo e il terzo dei principi in cui si articola la strategia della diserzione suonano così: “Dedicate le vostre energie alla cura, alla trasmissione del sapere, alla ricerca, all’autosufficienza alimentare. Rompete ogni rapporto con l’economia. Non consumate più niente che non sia prodotto dalle comunità di autoproduzione. Boicottate la circolazione delle merci.” Garantirsi la possibilità di mangiare fuori dal sistema è il primo passo. Oggi la stragrande maggioranza delle persone si garantisce le necessità di base (cibo, tetto) grazie al denaro. Sono almeno decenni che facciamo lavori che non hanno alcun legame con le nostre necessità di base per ricevere il denaro con cui soddisfarle. Tuttavia il denaro, così come la tecnologia e la scienza, non è “né apolitico, né neutro”, afferma uno degli studenti. Fluttua, si muove, si accumula e si distribuisce secondo dinamiche sistemiche di cui nessuno ha il comando, nemmeno il sistema capitalistico stesso, che non può fare altro se non assicurare i propri cittadini dai rischi più gravi. Bifo cita la distinzione fatta sul New York Times da Ross Douthat tra practicals virtuals. I primi sono tutti coloro che lavorano, vivono e producono beni o processi nel mondo materiale. Sono practicals i camionisti, gli agricoltori, i netturbini, i pescatori. I secondi sono coloro che vivono grazie ai proventi di un lavoro che non appartiene né agisce immediatamente sul mondo materiale, ma che trae il proprio valore da elementi virtuali. Questa distinzione rispecchia un preciso modello di mondo che sottintende una precisa gerarchia tra i lavori teorici e astratti, quelli più prestigiosi, e quelli pratici, umili e meno d’avanguardia. Abbiamo già detto che questa gerarchia fa parte di un sistema di valori che la biforcazione mette in discussione. Questo non solo perché spesso la scelta di fare un mestiere pratico viene presa da chi ha un’alta formazione, ma soprattutto perché nella prospettiva di queste persone il lavoro pratico produce al contempo una varietà di valori “virtuali” di pari pregio, produce una nuova cultura. Produrre biodiversità è una questione, se non virtuale, sicuramente teorica, così come contribuire allo sviluppo di dinamiche virtuose di mutuo appoggio in contesti svantaggiati, o riabitare luoghi dismessi, combattere l’accaparramento di terre. La questione del sostentamento era centrale anche in Marx, e la sua teoria della frattura metabolica è il punto centrale di gran parte della sua ecologia. Le pagine del Capitale dedicate alla “rottura dell’interazione metabolica tra uomo e terra” sono state fondamentali per attualizzare gli scritti del filosofo tedesco alla luce dei problemi ambientali. John Bellamy Foster scrive nel 1999 un articolo che rilegge il marxismo come qualcosa di più di una filosofia solo antropo- e tecno-centrica, e lo fa proprio rileggendo le righe dedicate alla metabolic rift. Marx osserva una frattura nel rapporto tra uomo e terra, che sarebbe la conseguenza di due fenomeni interconnessi. Il primo è l’aumento rapido del numero di terre in affitto che l’agroindustria capitalista sottraeva alla produzione medio-piccola, costringendo gli abitanti a spostarsi in massa verso le città industriali. Il secondo è lo sviluppo dell’industria dei fertilizzanti che provocò una rivoluzione nella scienza dei suoli, consentendo uno sfruttamento delle risorse del terreno tale da rendere immediatamente evidenti gli effetti negativi sull’ecosistema. Questi due processi compongono quella che è stata chiamata la Seconda Rivoluzione Agricola e accadono tra il 1815 e il 1850. Rifondare un rapporto produttivo e metabolico con la terra è l’unico modo per ricomporre questa frattura, nata proprio dalla perdita di circolarità tra uso, abitazione, consumo, fertilizzazione. Le biforcazioni e le diserzioni di cui parliamo rifiutano ambedue le cause del metabolic rift, implicando una continuità tra ciò che accadeva all’epoca di Marx e ciò che accade oggi, e soprattutto tra i timori del filosofo tedesco e quelli di coloro che oggi si impegnano a fronteggiare gli effetti estremi di quella frattura. Sappiamo che uno dei problemi del rapporto che oggi abbiamo con le emergenze climatiche è la sensazione di non poter fare nulla. La sensazione di inadeguatezza della volontà individuale, del sistema politico, scientifico ed economico nei confronti delle problematiche causate dal cambiamento climatico è il punto di partenza per capire anche i comportamenti politici delle persone. Il discorso degli studenti di APT è chiaro su questo: biforcare è un atto politico anche e soprattutto nella misura in cui rifiuta ogni tradizionale azione politica. La partecipazione democratica delle generazioni più giovani (e non solo) è in calo a livelli drammatici. Forse oggi, sostiene Bifo, nel momento della diserzione, non è più tempo di cercare di convincere i generali a interrompere la battaglia, non si cerca nemmeno il sollevamento di massa. Abbandonare e basta, “nulla di eroico” afferma il pensatore bolognese. Solo sopravvivenza e, forse, desiderio che va oltre le alternative presenti. Anche quando non è solitaria, la diserzione rimane al confine del campo politico, anche se è tutt’altro che priva di progettualità. La progettualità che traspare dal discorso degli studenti di APT quando dichiarano i primi approdi delle loro biforcazione, o quella dei disertori di Staid, fa pensare più all’azione diretta che al processo politico partecipativo. L’azione diretta è un insieme di pratiche d’azione tipico di movimenti eversivi, talvolta di matrice anarchica, che consiste in azioni di disobbedienza civile volte a interrompere o a danneggiare direttamente processi di potere ai quali ci si vuole opporre. Due esempi noti di azione diretta sono stati il boicottaggio da parte del movimento no-global della conferenza OMC di Seattle, nel 1999, o del G8 di Genova, nel 2001. Agire direttamente significa bypassare il dialogo, bloccare l’azione, lavorare senza mediatori sul piano dei processi in corso. Biforcare, rifiutare un intero sistema di valori e di alternative offerte da uno status quo per costruire su altre basi un rizoma di pratiche etiche profondamente radicate nella vita individuale è qualcosa di simile ad un’azione diretta rivolta contro il sistema stesso. C’è un ultimo aspetto a cui vale la pena accennare per capire la portata del discorso degli studenti dell’APT: il tema della località. Tutti gli esempi che abbiamo portato tendono a dare attenzione alla località, a dimensioni spaziali ridotte e tendenzialmente marginali rispetto ai grandi centri. Questo, da un lato, perché dinamiche come quelle descritte dagli studenti sono attuabili più facilmente lontano dagli epicentri politico-economici, che richiedono agli abitanti molto più denaro e, di conseguenza, lasciano meno spazio all’azione non conforme ai modelli di produzione del valore; dall’altro perché il legame con il luogo che si abita è fondamentale per ogni ecologia. Il localismo, in questi casi, mostra l’altra faccia rispetto al marketing territoriale al quale siamo abituati. Si tratta di riposizionarsi su un piano concreto fatto di una certa aria, un certo panorama, certe risorse botaniche, biologiche, atmosferiche, inserirsi all’interno di una rete complessa. È difficile che questo accada su un piano globale, sicuramente non sul piano globalizzato dello spazio asettico su cui ci si muove solo grazie al navigatore satellitare perché non si conosce nulla. Chi diserta cerca una terra sicura dove continuare a vivere al di là della guerra da cui è fuggito. Rispetto a una situazione di conflitto in cui la volontà, nelle parole di Bifo, non ha più alcuna forza d’azione, il tentativo di allontanarsi è anche una logica conseguenza del desiderio di agire. Dopo la diserzione ciò che si può costruire è un villaggio, un contesto ridotto, fatto di legami intersoggettivi diretti, non una città. La critica che viene fatta solitamente a chi sostiene che la biforcazione sia un’alternativa reale è che non si può tornare indietro. Non si può immaginare un futuro in cui si prescinda dalle conquiste che la tecnologia e l’economia hanno raggiunto nell’ultimo secolo. È chiaro che ad un primo sguardo tutte le biforcazioni che abbiamo citato appaiono come un passo indietro rispetto a molti aspetti del progresso, la ricostruzione di un modo di vita pre-capitalistico (e non post-). Ma è impossibile prevedere sia la portata, sia le ricadute sul breve-medio termine di processi minoritari e ancora a uno stato embrionale. Non si può affermare se, come e quanto, essi avranno la forza di imporsi nel campo sociale, né quali saranno le loro conseguenze. Anche quando si sviluppano correnti che possono sembrare passatiste o regressiste, il loro scopo appartiene comunque al futuro, perché nascono nel seno della contemporaneità, e possono attingere alla memoria come a una risorsa: ricordare come si è vissuto nel corso della storia, conservare saperi tradizionali, significa avere un più ampio bagaglio di informazioni con cui guardare all’avvenire come a qualcosa di non completamente dato. Ciò che si rifiuta non è il futuro, il miglioramento delle proprie condizioni o l’idea stessa di crescita; ma l’appiattimento di tutti e tre questi elementi sul piano bidimensionale della stretta contemporaneità, sull’idea che in fondo ci potrà essere solo ciò che c’è. Ciò di cui gli studenti sono alla ricerca biforcando i loro percorsi è una vita che si confaccia maggiormente alle forme del loro desiderio. La vita non è mai dietro, ma ci attrae sempre verso l’ignoto. Forse il problema sono le parole. Come qualificare questo desiderio di fare un passo a lato rispetto al progresso comunemente inteso? Sono già state coniate alcune parole importanti: decrescita, diserzione, anticapitalismo, ma mi sembra di poter dire che si tratta di parole inadeguate perché contengono una negazione. Insieme, compongono una specie di teologia negativa che lascia poco spazio all’immaginazione. Biforcare indica qualcosa di diverso. Significa semplicemente dividere in due, rendere possibile uno scarto rispetto a qualcosa, aprire un nuovo campo di possibilità. In questo senso il discorso degli studenti di Agro Paris Tech è un vero e proprio manifesto.