domenica 13 maggio 2018

Il saggio del mese - Maggio 2018


(a cura di Gieffe)

Prende avvio, con questa prima segnalazione, una nuova “rubrica” in questo blog di CircolarMente. L’idea è quella di affiancare, ma non necessariamente in stretto collegamento fra di loro, alla ormai consolidata “Parola del mese” il “Saggio del mese”. Ossia una pubblicazione di saggistica che sembra, a giudizio di chi la proporrà, offrire interessanti spunti di riflessione, collegabili alle tematiche affrontate da CircolarMente, nell’ambito delle conferenze e dei seminari, ed in questo stesso blog, o comunque in linea con la nostra ambizione di contribuire a quella “cittadinanza attiva," in senso lato, obiettivo principale della nostra associazione.
Quali potrebbero quindi essere nel mare infinito della saggistica i saggi proponibili? L’ormai consolidata esperienza di CircolarMente dimostra che in tutti questi anni sono stati affrontati argomenti ad ampio raggio, legati fra di loro, anno per anno, da alcune parole chiave con una impostazione che voleva coniugare il miglior approfondimento con il maggior coinvolgimento possibili. E questa dovrebbe essere la bussola che guiderà le future scelte di saggi: nessuna particolare limitazione per quanto concerne le tematiche puntando quindi su testi non eccessivamente “specialistici” in grado comunque di “arricchire” il nostro dibattito aperto ed inclusivo.
Le segnalazioni cercheranno di non essere una semplice indicazione di titolo ed autore ma avranno l’ambizione di essere già ,di per sé stesse, una prima occasione di riflessione.
Alla quale sarebbe bello se l’invito alla lettura fosse, con i tempi ed i modi che ci sono consentiti dal vivere quotidiano, da qualcuno recepito ed ancora più bello sarebbe se questa lettura producesse un commento, un parere, una sintesi.
Ricadute belle ma non indispensabili, e soprattutto non necessariamente immediate, ci piace infatti pensare che, sui tempi lunghi, si riesca a creare una sorta di “catalogo” dal quale attingere per eventuali future esigenze di approfondimento, individuali e collettive.
Alcune proposte potranno essere quelle stesse consigliate dai relatori delle nostre conferenze e seminari, altre nasceranno da sollecitazioni legate a futuri contesti, altre ancora, ci piace pensarlo, arriveranno da iscritti e simpatizzanti che vorranno, con questa modesta rubrica, condividere loro personali scoperte e letture.

Tutto ciò detto iniziamo con………

Il saggio del mese


Maggio 2018
Lo spunto per segnalare questo testo, scoperto nel sito on-line “DoppioZero” in un articolo a firma di Moreno Montanari (analista e filosofo autore di diversi saggi tra i quali  Il Tao di Nietzsche (Mimesis, 2005,);  Hadot e Foucault nello specchio dei greci. La filosofia antica come esercizio di trasformazione (Mimesis, 2010); La filosofia come cura (Mursia, 2012); Vivere la filosofia (Mursia, 2013); Gli equivoci dell’amore (Mursia, 2015). Collabora stabilmente alla  Rivista di psicologia analitica e alle pagine culturali di la Repubblica e di  Doppiozero) nasce in particolare da alcune riflessioni  sorte a margine  di recenti conferenze (“Il futuro della procreazione” e “Digital Twins” ad esempio) che avevano a loro volta indotto a scegliere il prefisso “post”, nelle sue specifiche versioni “post-moderno” - “post-umano” – "post-industriale", per meglio capire la discutibile, per quanto diffusa, convinzione che molti dei nuovi scenari all’ordine del giorno possano essere affrontati solo ricorrendo a categorie interpretative altrettanto innovative (e quindi post). Ma è proprio così? Sicuri che il pensiero “antico” (si fa per dire) sia ormai inutilizzabile per leggere il presente? Il saggio che proponiamo, oltre che per interessanti osservazioni più “politiche”, si muove esattamente in questo quadro….

Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis, Milano_Udine, 2018, pp 236, euro 20),




Leggere Marx
come sottotesto del nostro tempo
articolo di Moreno Montanari

Romano Màdera riprende un discorso iniziato nel 1977, prima data di uscita del cuore di questo testo rivisto e ampliato in questa nuova edizione. All’epoca l’autore usciva con le ossa rotte dalla lotta politica, ma non aveva rinunciato “al sogno di una cosa”, all’utopia di una condizione umana maggiormente consapevole e realizzata in una società più giusta e solidale. Non si trattava, né si tratta, dunque di abbandonare Marx, almeno non in toto, ma di restare fedeli alle istanze che avevano dato forma a un desiderio capace di incendiare gli animi, rivedendone la forma. Secondo Màdera, quella di Marx fu “una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi e una terapia inconsistente”. Se la prima va rilanciata perché è tuttora assolutamente attuale, la seconda va corretta e la terza, la rivoluzione comunista condotta dalla classe proletaria e da quanti si schiereranno con essa, decisamente abbandonata. L’idea dell’unione di tutti proletari in vista della rivoluzione comunista, osserva Màdera, risulta del resto del tutto slegata dall’impianto teoretico dell’opera marxiana e quasi giustapposta ad essa. La sua necessità scientifica, potremmo dire, appare piuttosto una necessità morale, nel senso kantiano del termine. 
Secondo l’autore, la straordinaria fama de Il manifesto del partito comunista ha posto l’attenzione sul Marx politico finendo per sottostimare l’importanza “del filosofo-sociologo-antropologo critico che bisogna saper leggere nel suo lessico hegeliano riformato”. Al centro della proposta marxiana Màdera scorge il tentativo di educare alla formazione di una “coscienza enorme” che sia consapevole dell’interdipendenza di tutto da tutti e di ciascuno da tutto, e che diventi per questo capace di denaturalizzare i fenomeni sociali avvertiti come inevitabili e validi in sé, siano essi il capitalismo, la famiglia, la morale o i rapporti di produzione, perché “il capitale fabbrica, tra gli altri suoi prodotti, anche il prodotto umano”, con la formidabile capacità di “rendere perfettamente omogeneo a se stesso ogni preteso avversario”. La questione è dunque la produzione sociale, di merci e di identità, “senza coscienza e senza controllo, le qualità assenti che costituiscono il Feticcio-Golem, automa collettivo guidato da una sistematica del caos”. Al Marx strutturalista, che leggeva la storia come esito inevitabile di forze che ne determinano il corso, Màdera affianca, per integrarne la prospettiva, la dimensione biografica e individuale al centro dei lavori di Nietzsche e di Freud. Nessuno dei due possedeva la visione d’insieme delle determinazioni storiche propria di Marx, né la sua “spinta ideale e amorosa verso il prossimo”, ma entrambi avevano il merito di evidenziare l’irriducibilità del singolo alle forze che certo lo innervano e lo condizionano ma che, tuttavia, non lo determinano. Uniti e integrati, i “tre filosofi del sospetto”, come li definì Ricoeur, potevano offrire una sintesi capace di facilitare una diversa percezione della realtà, dunque di sé e del mondo, coniugando la dimensione individuale alla dimensione collettiva che li innerva sin nel midollo, senza tuttavia annullarne la particolarità biografico-esistenziale. Si scorgono qui i primi segni della proposta etico-terapeutico-esistenziale che Màdera ha chiamato “analisi biografica a orientamento filosofico" e che considera il suo “personale modo di continuare a fare politica con altri mezzi”. Ad animarlo è l’idea è che “l’analisi”, critica o analitica, “non basta, ci vuole un esercizio per trasformarsi e autotrasformarsi, una sorta di disciplina personale e di gruppo, tailor-made, adatta alla biografia di ogni individuo e insieme capace di convivere e cooperare in un collettivo”. In questa prospettiva le speranze che animavano Marx non vengono meno ma cessano di essere mete che si vorrebbe concretizzare per rivelarsi principi e valori per i quali vale la pena vivere, nella consapevolezza che: “non si lavora per vedere la costruzione del Tempio, ma per partecipare, portandoli proprio mattone, alla speranza che un Tempio, dedicato a un’umanità redenta da se stessa, e dal suo retaggio di orrori, ci possa mai essere”. La sconfitta, insomma, non annulla l’utopia; insegna a viverla diversamente. Ma torniamo al Marx filosofo e critico della società: secondo Màdera il cuore della sua proposta critica sta nell’aver colto con straordinario acume che “il feticismo costituisce il codice genetico della società dell’accumulazione” sul quale si fondano “non solo la teoria del valore e la sua forma, ma anche la teoria generale dei rapporti di produzione e di scambio, nonché la critica dell’economia politica”. È su di esso che poggia quella che Màdera definisce «La religione consacrata del consumo mantiene della religione l’inattingibilità delle sue origini e l’ordine sacrificale della sua scala di valori: proprio perché “incarnato” nell’uso, il valore di scambio che in esso si realizza diventa “naturale”, innervato dentro le dinamiche del bisogno organico e psichico, qualcosa la cui rinuncia risulta innaturale e disapprovata dalla coscienza collettiva». Appare dunque chiaro come la reificazione denunciata da Marx non si limiti a far scadere le persone a funzioni, mere cose tra le cose, proprio mentre infonde personalità alle merci elevandole a feticci dotati di quel  magico valore spirituale, che gli antropologi chiamano mana; essa “struttura i rapporti di potere, le relazioni tra persone, la psicologia collettiva, i valori, gli ideali, i simboli,” operando una vera e propria rivoluzione antropologica che chiama l’individuo ad una coscienza non più, o non soltanto, di classe ma, più ampiamente, esistenziale. La coscienza enorme auspicata da Marx dovrà essere olistica e portare il soggetto a riconoscere “nella sua corporea individualità, l’universalità che è, dissolvendo l’identificazione feticistica” che lo porta a scambiare la parte per il tutto (questo è appunto un feticcio), per riconoscere, sulla scia di Nietzsche, la propria identità come irriducibilmente molteplice, in divenire e in permanente coabitazione con un Altro che le ricorda, freudianamente, che “l’io non è il padrone di casa”. Permettendo di comprendere come anche la stessa identità sia un feticcio di cui si dimentica la natura intrinsecamente dialettica che non va confusa con una sterile ipseità, Freud e Nietzsche offrono all’indagine marxiana la considerazione della dimensione irriducibilmente biografica di ogni vicenda umana; da parte sua Marx ricorda alla psicoanalisi che “l’assoluta incongruenza delle nostre vite non dipende affatto da una qualche psicopatologia, anzi fa spesso parte della loro eziologia, poiché favorisce uno stato permanente di dissociazione”. Il filosofo tedesco Marx cercava compagni di viaggio che si lamentava di non aver trovato, tanto da sostenere che avrebbe potuto fondare un partito con lui e l’amico Friedrich Engels come unici iscritti; Nietzsche e Freud l’hanno volutamente ignorato e si sono pensati enormemente distanti dal suo pensiero, solo perché lontani dalla sua proposta strettamente politica. Chissà se ora che quella proposta ha palesato tutti i suoi limiti, questi tre spiriti non possano agitarsi insieme per il mondo.


sabato 12 maggio 2018

Cos'è l'anarco-primitivismo? - Articolo di A.D. Signorelli (Il Tascabile)


Pubblichiamo questo articolo, tratto dalla rivista on-line “Il Tascabile”, perché affronta, seppur partendo dalla presentazione di alcune posizioni decisamente “estremiste” in grado comunque di porre interessanti interrogativi, alcune delle tematiche che sono emerse nel dibattito seguito ad alcune delle recenti conferenze di CircolarMente, proiettandoci verso un futuro tutto da scrivere (speriamo!)



Cos’è l’anarco-primitivismo?
L'evoluzione di una filosofia radicale che può aiutare a prendere coscienza dei problemi del contemporaneo.



Articolo di Andrea Daniele Signorelli milanese, classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel 2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti” per Informant Edizioni.



La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana (…). Il continuo sviluppo della tecnologia peggiorerà la situazione. Essa sottometterà gli esseri umani a trattamenti sempre più abietti, infliggerà al mondo naturale danni sempre maggiori, porterà probabilmente a maggiore disgregazione sociale e sofferenza psicologica e a incrementare la sofferenza fisica nei paesi sviluppati. (…) Il sistema tecnologico industriale può sopravvivere o crollare. Se sopravvive, potrebbe [farlo] solo al costo di ridurre permanentemente gli esseri umani a prodotti costruiti, semplici ingranaggi della macchina sociale.

Con queste parole si apre "La società industriale e il suo futuro", il pamphlet – pubblicato nel 1995 sul New York Times e sul Washington Post – in cui è condensata l’ideologia di Theodore J. Kaczinsky, meglio noto come Unabomber: il terrorista statunitense autore di molteplici attentati esplosivi che, tra il 1978 e il 1995, hanno causato la morte di tre persone e il ferimento di altre ventitre. A rispolverare le azioni, e le teorie, di un personaggio così controverso è stata la miniserie prodotta da Netflix Manhut: Unabomber, che ripercorre la decennale caccia all’uomo necessaria per individuare l’autore degli attentati, ma che non si lascia sfuggire l’occasione di ritrarre una figura complessa e che non può essere ridotta allo stereotipo del “pazzo bombarolo”. Nato nel 1942 a Chicago, Kaczinsky è un alunno prodigio che ancora adolescente si aggira per i corridoi di Harvard, dove nel 1962 consegue la laurea in Matematica. Passato all’Università del Michigan – dove consegue un dottorato e inizia la carriera accademica – il futuro Unabomber rassegna all’improvviso le dimissioni nel 1969 e si trasferisce nella casa dei genitori, nel sobborgo di Lombard (Illinois). Non resiste a lungo: il richiamo di un’esistenza allo stato brado è talmente forte che costruisce una capanna nei boschi fuori da Lincoln (Montana) e vi si trasferisce per condurre una vita autosufficiente; fatta di caccia e raccolta, senza elettricità né acqua corrente. Sono i primi segnali del fatto che Kaczinsky sta mettendo in pratica nella vita quotidiana le teorie anti-tecnologiche alla base del suo pensiero (e dei suoi attentati); teorie che ancora oggi propugna (il suo ultimo libro, Anti-Tech Revolution, è del 2016) e che, nel mare magnum delle correnti politiche estremiste, vanno sotto il nome di anarco-primitivismo. Ritorno a una vita da cacciatori e raccoglitori in piccole comunità, rifiuto di qualunque strumento che l’uomo non sia in grado di costruire e controllare in autonomia, rifiuto di qualunque forma di governo e assoluto egualitarismo: in sintesi estrema, sono queste le caratteristiche di un’ideologia che trova il suo massimo esponente nel filosofo  John Zerzan (autore già nel 1988 di Questioning Technologye per qualche tempo confidente di Unabomber dopo l’arresto), conta numerosi punti di contatto con l'anarco-ecologismo e ha dato vita ad alcuni gruppi estremisti e violenti come Obsidian Point o Individual Tending Towards the Wild. 

La società dell’ansia

“Voglio vedere la società di massa diventare radicalmente decentralizzata, in comunità in cui si viva faccia a faccia”, spiega Zerzan a Gizmodo. “I primi umani avevano un approccio alla vita funzionale e non distruttivo, che non richiedeva, in linea di massima, molto lavoro, non oggettificava le donne ed era anti-gerarchico. Vi sembra un modello così arretrato?”. Ma nell’anarco-primitivismo non c’è solo l’idealizzazione di una primitiva età dell’oro; c’è anche il rifiuto degli effetti collaterali della società capitalista e tecnologica: “I progressi tecnologici hanno portato solo più lavoro. Questo è un fatto”, prosegue Zerzan. “Alla luce di tutto ciò, è davvero credibile chi oggi promette che una società ancora più tecnologica porterebbe a una vita di meno lavoro?”. I punti centrali del pensiero di Zerzan sono fondamentalmente tre: la tecnologia ha creato una società rigidamente divisa in classi, dove “gli uomini diventano semplici ingranaggi della macchina sociale”, in cui l’ambiente viene distrutto e ansia, stress, insonnia e depressione sono sempre più diffusi. Perché, nell’epoca del benessere, siamo alle prese con l’ansia e la depressione? In questa società, “il tempo smette di essere lineare e diventa caotico, puntiforme”, risponde un pensatore estraneo al primitivismo come Mark Fisher in Realismo Capitalista. “Il sistema nervoso viene ristrutturato allo stesso modo della produzione e della distribuzione. Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta. Periodi in cui lavori si alternano a periodi in cui sei disoccupato. Costretto a una fila infinita di impieghi a breve termine, non riesci a pianificare un futuro. (…) Il conflitto scatenato nella psiche degli individui non può che produrre vittime (…). Da questo punto di vista, se la schizofrenia è – come ricordano Deleuze e Guattari – la condizione che segna il limite esterno del capitalismo, allora il disturbo bipolare è la malattia mentale che del capitalismo segna l’interno. Di più: coi suoi incessanti cicli di espansione e crisi, è il capitalismo stesso a essere profondamente e irriducibilmente bipolare, periodicamente oscillante tra stati di eccitazione incontrollata (l’esuberanza irrazionale delle ‘bolle’) e crolli depressivi (l’espressione ‘depressione economica’ non è evidentemente casuale)”. Tutto ciò non è solo teorizzato da pensatori più o meno estremi, ma supportato da dati oggettivi. Due studi inglesi citati da Oliver James ne Il Capitalista Egoista – testo a sua volta citato da Fisher – descrivono come i disturbi mentali siano quasi raddoppiati tra le persone nate nel 1946 e quelle nate nel 1970. “Per esempio”, scrive Oliver James, “nel 1982 il 16% delle donne trentaseienni ha riportato di soffrire di ‘problemi di nervi, sentirsi giù, tristi o depresse’, mentre nel 2000 la cifra per le trentenni era del 29% (per gli uomini era l’8% nel 1982, il 13% nel 2000)”.

ll più grande errore nella storia dell’umanità

Ma se per Mark Fisher e Oliver James questo aumento delle malattie mentali è strettamente legato alla società post-fordista e turbo-liberista in cui siamo immersi oggi, per gli anarco-primitivisti le cause originarie di tutti i mali della modernità vanno cercate molto più indietro nel tempo. All’epoca, per la precisione, di quello che Jared Diamond ha chiamato “il più grande errore nella storia dell’umanità”: il passaggio da un’economia basata sulla caccia e sulla raccolta a una basata sull’agricoltura. A loro dire, per rintracciare le cause del nostro malessere non dobbiamo guardare né al post-fordismo, né alla Rivoluzione industriale; ma alla Rivoluzione neolitica di diecimila anni fa.
“Recenti scoperte indicano che l’adozione dell’agricoltura, che si presume essere stato il nostro passaggio più decisivo in direzione di una vita migliore, sia stata per molti versi una catastrofe dalla quale non ci siamo mai ripresi. Con l’agricoltura sono giunte le madornali ineguaglianze sociali e sessuali, la malattia e il dispotismo che hanno dannato la nostra esistenza”, scrive Diamond nel suo celebre articolo per Discover Magazine del 1987. Utilizzando parole che farebbero la gioia di qualunque primitivista, Diamond spiega: “Sparse per il mondo, molte decine di gruppi di cosiddetti primitivi, come i Kalahari o i Boscimani, continuano a vivere da cacciatori e raccoglitori. Si è scoperto che queste persone hanno molto tempo libero, dormono parecchio e lavorano molto meno dei loro vicini agricoltori. Per esempio, il tempo dedicato ogni settimana all’ottenimento del cibo è solo di 12/19 ore per un gruppo di Boscimani; 14 ore o meno per i nomadi della Tanzania.” Lavorano meno, hanno più tempo libero, sono meno soggetti a ineguaglianze sociali di ogni tipo. E sono anche più in salute: “Mentre gli agricoltori concentrano la loro dieta in colture come il riso o le patate, il mix di piante e animali selvatici nella dieta dei gruppi ancora esistenti di cacciatori e raccoglitori fornisce più proteine e un migliore equilibrio degli altri nutrienti”, prosegue Diamond. “È quasi inconcepibile che i Boscimani, che mangiano circa 75 tipi diversi di piante selvatiche, possano morire di fame nel modo in cui sono morti centinaia di migliaia di contadini irlandesi durante la carestia di patate del 1840”. Non è il caso di soffermarsi sulle ragioni che hanno comunque portato l’uomo a scegliere una vita agricola (ampiamente spiegate nell’articolo di Jared Diamond), è però importante notare come la Rivoluzione neolitica potrebbe anche essere alla base della diffusione delle epidemie:
Il solo fatto che l’agricoltura abbia incoraggiato le persone a riunirsi in società affollate, molte delle quali praticavano il commercio con altre società altrettanto affollate, ha portato alla diffusione di parassiti e malattie infettive. (…) Le epidemie non potevano diffondersi quando la popolazione era sparsa in piccoli gruppi.
Ma come potremmo oggi rinunciare alle innovazioni in campo scientifico e medico che hanno portato ai vaccini, alla sconfitta di molte malattie, alla drastica riduzione della mortalità infantile e l’allungamento della vita umana? “Una delle conquiste della modernità è l’aumento della longevità, non c’è dubbio”, spiega Zerzan. “Ma ci si deve riflettere sopra: cos’è la qualità della vita? Le condizioni critiche continuano ad aumentare anche se le persone riescono in media a vivere più a lungo. Non ci sono evidenze a favore di un ulteriore aumento della longevità. E le nostre capacità fisiche? I nostri sensi un tempo erano molto più acuti ed eravamo molto più robusti di quanto non siamo oggi”. Il punto, probabilmente, sta nel decidere se la qualità della vita si possa misurare in termini numerici; che mostrano percentuali e cifre dove altri si soffermano su aspetti, appunto, qualitativi. Concetti simili si ritrovano anche in uno studioso distante dai radicalismi primitivisti come l’israeliano Yuval Noah Harari, che in Sapiens scrive: “Il successo evoluzionistico di una specie si misura in termini di copie di DNA: una specie del cui DNA non rimangono più copie è dichiarata estinta (…). Se invece essa può vantare molte repliche del proprio DNA, ha successo e prospera. Guardando la cosa da questa prospettiva, mille copie del DNA sono meglio di cento copie. Sta qui l’essenza della Rivoluzione agricola: la capacità di mantenere in vita più gente in condizioni peggiori. Ma perché gli individui dovrebbero badare a questi calcoli sul meccanismo dell’evoluzione? Perché mai una persona sana di mente vorrebbe abbassare la propria qualità di vita giusto per moltiplicare il numero di copie del genoma di Homo Sapiens?”. La Rivoluzione agricola potrebbe quindi essere stata una truffa dal punto di vista salutare e sociale. E non solo: “Si è trattato di un passaggio fondamentale, dal prendere quello che la natura offre al dominio sulla natura”, spiega Zerzan sempre a Gizmodo. “La logica intrinseca della domesticazione di animali e piante è quella di una progressione ininterrotta che rafforza e rende sempre più profondo l’ethos del controllo. Oggi, ovviamente, il controllo ha raggiunto il livello molecolare con le nanotecnologie, e la sfera di quelle che ritengo le fantasie poco salutari delle neuroscienze transumaniste e dell’intelligenza artificiale”.

Libertà primitiva e controllo tecnologico

Il dilemma controllo o libertà, immersi come siamo nel pieno della rivoluzione tecnologica, è un tema più attuale che mai. Ogni volta che facciamo affidamento su un dispositivo affinché gestisca per noi le nostre vite (dai navigatori satellitari agli assistenti virtuali, fino alle auto autonome) stiamo inevitabilmente cedendo una parte di libertà e autonomia. Uno scambio che ha innegabili vantaggi, ma che spesso viene vissuto acriticamente.
Da questo punto di vista, per Zerzan, la divisione fondamentale è tra strumenti e dispositivi tecnologici. I primi sono quelli che rimangono sotto il controllo di chi li usa (un martello, per esempio); mentre i secondi “conducono chi li usa sotto il controllo di chi li produce”. Non è difficile immaginare cosa possa pensare il filosofo primitivista del tema della raccolta dati condotta da aziende private che arrivano a conoscere anche i dettagli più intimi delle nostre vite, spesso senza che l’utente ne sia pienamente Sempre in Sapiens, Harari scrive: “Durante gli ultimi decenni ci siamo inventati innumerevoli arnesi che fanno risparmiare tempo e ai quali si attribuisce la capacità di farci vivere più rilassati: lavatrici, aspirapolvere, lavastoviglie, telefoni cellulari, computer, posta elettronica. Prima ci voleva un po’ di tempo per scrivere una lettera, apporre l’indirizzo, affrancare una busta e portarla fino alla buca della posta. E ci volevano giorni o settimane, magari anche mesi, per ricevere una risposta. Oggi posso buttare giù una mail, inviarla dall’altra parte del globo e (se il mio destinatario è online) ricevere una risposta un minuto dopo. Ho risparmiato tutto quel traffico e quel tempo, ma davvero faccio una vita più rilassata? Purtroppo, no. (…) Oggi io ricevo decine di mail ogni giorni, tutte da persone che si aspettano una pronta risposta. Pensavamo che questo volesse dire risparmiare tempo; invece abbiamo accelerato di dieci volte la ruota che macina la nostra vita e reso i nostri giorni più ansiosi e agitati”. La tecnologia, dopo averci promesso più tempo libero e una vita più comoda, si è dimostrata una semplice alleata della società turbo-capitalista; limitandosi – come analizzato di recente -  a renderci più produttivi ed efficienti, ma di certo non più liberi e rilassati. Insomma, che sia colpa della rivoluzione agricola, di quella industriale o di quella tecnologica, il risultato è lo stesso: le migliori condizioni di salute generali odierne sono pagate al prezzo di un’inferiore qualità della vita; la società della scelta (o del rischio, come direbbe il sociologo Ulrich Beck) porta con sé ansia e depressione e la tecnologia ci ha portato ad avere ritmi di vita sempre meno naturali. Nel frattempo – come anticipato da Foucault, secondo cui la Rivoluzione industriale ha avuto anche l’obiettivo di imporre una maggiore disciplina alla società – il controllo sociale si è fatto più serrato. Vuole la leggenda che Kaczinsky abbia avuto la sua prima “illuminazione primitivista” trovandosi fermo in macchina a un semaforo rosso. Da destra e da sinistra non arrivava evidentemente nessuno. Eppure quella luce rossa che gli intimava di restare fermo fino al via libera aveva una tale presa su di lui da rendere impossibile utilizzare il semplice buon senso e decidere di procedere nonostante il rosso. A chi non è mai capitato di fare un pensiero simile, fermi in attesa del verde indipendentemente da quanto la strada fosse sgombra? Per evitare il caos, e quindi per il bene della società, rinunciamo a una parte di libertà.

Primitivisti versus Transumanisti

È curioso come una teoria che si pone all’estremo opposto dell’anarco-primitivismo – come il transumanesimo – abbia individuato gli stessi identici problemi: “Come transumanista sono completamente d’accordo con la visione dei primitivisti, secondo i quali cui la tecnologia e il progresso stanno fondamentalmente cambiando la vita dell’umanità in peggio”, scrive su Motherboard il filosofo e futurologo Zoltan Istvan. “La tecnologia e la civilizzazione sono decisamente uscite dal nostro controllo. (…) Il cervello e il corpo umano non sono fatti per una tecnologia così radicale, per le gigantesche metropoli in cui molti di noi vivono, o per gli schemi sociali e lavorativi intensivi che ci ritroviamo a vivere”.
C’è meno enfasi sulla questione ambientale; ma di fondo i problemi individuati sono gli stessi. La soluzione, però, è drasticamente diversa: “(Noi transumanisti) vogliamo lasciarci alle spalle la razza umana e accogliere un futuro tecnologico e dominato dalla scienza, fatto di protesi robotiche, ecosistemi digitali, un ampliamento indefinito della vita e nuove filosofie sociali”, prosegue Istvan. “Il punto di scontro fondamentale di ‘anarco-primitivismo versus transumanesimo’ è che le persone tendono a pensare che siamo ancora umani. Una descrizione [che] perde completamente la sua rilevanza quando si discute con chi indossa un esoscheletro, possiede un microchip RFID, assume occasionalmente del Viagra e indossa dei Google Glass. Siamo esseri umani? Non più, e abbiamo iniziato a dirigerci verso il transumanesimo molto tempo fa, quando abbiamo ricevuto il nostro primo vaccino”. La soluzione, quindi, non può passare da un ritorno a uno stile di vita primitivo, ma piuttosto dal trovare il coraggio – sostengono i transumanisti – di accettare le estreme conseguenze del progresso tecnologico e abbracciarlo senza remore; trovando nella tecnologia le risposte ai problemi che la stessa tecnologia ha (in parte) posto. Entrambe le teorie potrebbero essere derubricate a utopie radicali che vivono solo nella mente di filosofi scollegati dalla realtà – peraltro il primitivista Zertan e il transumanista Zoltan hanno recentemente dato vita a un dibattito alla Stanford University – ma il primitivismo sembra aver colto con maggiore lucidità la principale incognita della nostra epoca: ha senso continuare a sfruttare uomo e ambiente a beneficio di un capitalismo che non giova più alla società nel suo complesso? Un tema che le classiche categorie socio-politiche non affrontano ancora con sufficiente determinazione. Ed è forse proprio questo che va salvato della teoria primitivista: la corretta individuazione di problemi che non popolano l’agenda politica, ma attorno ai quali sta iniziando a formarsi una certa consapevolezza. Non torneremo a essere cacciatori e raccoglitori (non fosse altro che per una semplice questione numerica: siamo troppi) e nemmeno sembrano riscuotere successo vie “moderate” come la decrescita felice (rinnegata dai primitivisti); ma se riusciremo a inquadrare correttamente i mali del nostro tempo, e a porvi rimedio, potrebbe anche essere merito di movimenti estremisti, utopisti e “impossibili” che li hanno individuati.

giovedì 10 maggio 2018

Sintesi della relazione tenuta dal prof. Vercelli Claudio nella conferenza "Voglia di nero" a cura di Enrica Gallo


Relazione sull’incontro con il prof. Claudio Vercelli:



VOGLIA DI NERO
La destra radicale del terzo millennio
in Italia e in Europa

Un pubblico particolarmente folto e interessato, presenti il sindaco dott. Andrea Archinà e altri rappresentanti dell’amministrazione aviglianese, ha partecipato all’incontro promosso congiuntamente dall’ANPI di Avigliana e dall’associazione culturale CircolarMente, che in occasione del 25 aprile hanno voluto interrogarsi su quanto resta nella realtà attuale di quel lascito, e se sia sufficiente per erigere robuste difese contro le derive autoritarie e potenzialmente contagiose già presenti in alcuni paesi europei. Il compito di fornire adeguati strumenti di lettura su di un tema di grande criticità, reso efficacemente dal titolo della conferenza, è stato affidato alla competenza e alla passione comunicativa del prof. Claudio Vercelli: nella sua veste di storico, pubblicista e ricercatore dell’Istituto Salvemini, oltre che di docente  presso l’Università Popolare di Torino, si è  infatti occupato a fondo dei totalitarismi del novecento, e sta ora orientando la sua analisi sui temi del populismo e dei movimenti della destra radicale contemporanea.
N.B. = come di consueto, CircolarMente offre ai suoi iscritti e simpatizzanti una sintesi dei punti salienti del discorso del relatore

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All’inizio del suo intervento, il prof. Vercelli esplicita la sua intenzione di proporre una serie di quesiti non retorici, che richiederanno pertanto risposte articolate. Comincia dunque con una domanda “larga”:
QUAL' E’ OGGI LO SPAZIO DELLE DESTRE RADICALI IN ITALIA E IN EUROPA?     
Prima di affrontare questo tema è opportuno a suo giudizio fare una precisazione, lasciando per ora da parte il fatto che il termine “destre radicali” è interpretabile in diverse accezioni.  In esso ci sono pur tuttavia alcuni elementi di fondo che ci permettono di considerare i movimenti radicali di destra come un fenomeno non solo contemporaneo, ma che ha accompagnato lo sviluppo dello spazio politico di molti paesi negli ultimi due secoli.  Ad essere coinvolte infatti non sono state solo l’Italia e la Germania, ma anche la Francia: è proprio in questo paese che fra la fine dell’800 e l’inizio del 900 è avvenuto il passaggio dalla tradizionale destra conservatrice, legata a precisi gruppi di potere e alle classi sociali borghesi, alla nuova destra radicale che guardava invece alla comunità nazionale per organizzarla, cercandone il consenso.
Ciò detto, il prof. Vercelli torna alla domanda iniziale con una prima considerazione che attiene in modo particolare alla situazione italiana.
LO SPAZIO DELLE FORMAZIONI POLITICHE DELLA DESTRA RADICALE IN ITALIA E’ PIU’ AMPIO DI QUANTO CERTI RISULTATI ELETTORALI FAREBBERO PRESUPPORRE:
Se dovessimo giudicare questo spazio dai risultati delle recenti elezioni, dove le liste più rappresentative come CasaPound e Forza Nuova non sono state premiate dal voto, potremmo facilmente pensare ad uno spazio più limitato di quanto in realtà non sia. In effetti lo spazio che la destra radicale occupa è molto più ampio di quello che appartiene alle forze politiche che si rifanno direttamente o indirettamente al lascito fascista, da cui la maggioranza degli italiani in generale tende a prendere le distanze al momento del voto (anche se è giusto ricordare agli ascoltatori più giovani che nella Prima Repubblica un partito dichiaratamente neofascista come il Movimento Sociale ha sempre goduto di un consenso che oscillava fra il 5 e il 12%).
Sulla configurazione precisa di questo spazio il prof. Vercelli tornerà più oltre. In questa prima parte del suo intervento invita invece il pubblico ad osservare alcune immagini (qui purtroppo non riproducibili) da cui si evidenzia una presenza decisamente esibita nello spazio pubblico di molti gruppi che sfilano in camicia nera, pugno alzato nel saluto romano, o che celebrano riti identitari, omaggiando quelli che considerano i loro martiri. Immagini inquietanti, che la cronaca recente ha più volte mostrato, e che spesso suscitano in chi le guarda delle domande certo ben comprensibili: perché queste manifestazioni vengono permesse? non dovrebbe intervenire la magistratura, per far rispettare il dettato costituzionale?
Avendole più volte sentite risuonare nei suoi interventi pubblici, il prof. Vercelli apre una parentesi importante intesa a chiarire un tema di grande rilevanza, relativo alla liceità o meno di queste manifestazioni rispetto a quanto prevede la nostra Costituzione.
Il problema della liceità e il dettato costituzionale
Nata dall’antifascismo, e dallo stesso fortemente permeata, proprio in grazia di esso la nostra Costituzione tutela in ogni modo la libertà di manifestare il proprio pensiero e il proprio sentire, compreso quello ispirato dal fascismo, limitandosi a vietare il passaggio dal pensiero ad un’azione intesa a ricostruire quel partito che conteneva in sé i fondamenti della disgregazione del sistema democratico costituzionale.
La magistratura dunque è autorizzata ad intervenire solo quando si possa ipotizzare tale reato, e spesso le manifestazioni di cui sopra, pur spingendosi al limite, non lo varcano. Ma anche al di là di questa difficoltà operativa, il prof. Vercelli valuta negativamente l’idea che si possa affidare alla magistratura (ammesso e non concesso che essa sia tutta su posizioni progressiste) il compito di anticipare o di surrogare il compito della politica. A suo giudizio infatti è la coscienza dei cittadini di uno stato democratico che deve attivarsi rispetto a questi episodi, traducendosi in azione politica e civile di contrasto.
Fatta questa puntualizzazione, il relatore torna a porre il problema di quale sia oggi, non solo in Italia ma in Europa, lo spazio che fa da contenitore alle destre radicali, abbozzando una prima risposta.
 PIU’ IN GENERALE, E’ LO SPAZIO DI UNA GROSSA CRISI DEGLI ORDINAMENTI COSTITUITI, CHE DEVONO CONFRONTARSI CON UN CAMBIAMENTO EPOCALE CHE VIENE VISSUTO CON PROFONDO DISAGIO DA UNA PARTE COSPICUA DELLA POPOLAZIONE:
Se fino a venti o trent’anni fa, osserva il prof. Vercelli, noi potevamo raccontarci (già allora in parte ingannandoci) che il mutamento che stava avvenendo rappresentava un elemento di crisi da cui si sarebbe potuti uscire, ripristinando quella relativa serenità e stabilità che avevano caratterizzato i decenni precedenti, ora non è più così: il mutamento che ha coinvolto le nostre società ha subìto una tale accelerazione da renderlo irreversibile.
Dobbiamo per forza partire da questo dato, a suo giudizio, e cioè dal fatto che molti segmenti significativi delle società occidentali vivono questo mutamento con un profondo disagio, che non è solamente determinato dalla crisi economica (che pure ha colpito duramente), ma deriva da una sensazione sempre più forte di spaesamento e di marginalizzazione di fronte ad esistenze che si sono fatte tutto ad un tratto più precarie. Questo genera non solo ansia, ma può portare ad un vero e proprio panico identitario: se non vediamo più un rapporto fra investimenti e ricavo, fra studio e lavoro, fra rispetto delle regole e dei doveri e riconoscimento dei diritti – in altri termini, se perdiamo o temiamo di perdere ciò che dava una certa sicurezza alle generazioni precedenti, determinando in esse una fiducia positiva di futuro - le sirene del populismo suoneranno attraenti alle nostre orecchie. Potremmo così cominciare a pensare che le barriere difensive rappresentate dalle istituzioni che negli anni sono state costruite a protezione comune, ma che sono oggi attraversate da una grossa crisi di legittimità, non abbiano più valore, siano anzi d’intralcio, se non addirittura che operino consapevolmente contro di noi.
E’ proprio questo il luogo mentale in cui la destra radicale, secondo il prof. Vercelli, trova il suo spazio e da cui trae la sua forza, che è inversamente proporzionale alla crisi di quell’Unione Europea che proprio essa contribuisce a sgretolare, utilizzando come cuneo il problema dell’immigrazione.
il ritorno dei nazionalismi e il pericolo di una “balcanizzazione” dell’Europa                             
Questo ci porta dunque a parlare dell’Europa, di ciò che sta succedendo in quella serie di paesi che si sono uniti nel patto di Visegràd, e in particolare nell’Ungheria di Victor Orban.
Ex liberale, cresciuto nella fase finale del comunismo e poi riconvertitosi alla nuova destra populista, egli è ora il più rappresentativo esponente della cosiddetta “democrazia illiberale”, cioè di un tipo di governo che mantiene solo le forme esterne dell’apparato democratico (le elezioni) senza rispettare ciò che dovrebbe esserne la sostanza (la separazione dei poteri, il riconoscimento dei diritti delle minoranze). Giunto al suo quarto mandato, Orban gode tuttora di un vasto consenso elettorale, soprattutto in quelle aree rurali in cui il voto è fortemente conservatore, anche se forse questo termine non è il più adatto ad identificare una tendenza che vuole trasformare radicalmente l’esistente, sventolando bandiere identitarie e soprattutto negando i diritti delle minoranze (del resto, osserva il prof. Vercelli, tutti i fascismi – compresi quelli più edulcorati ed “eleganti” – hanno sempre funzionato in questo modo. Si comincia col negare i diritti di coloro che vengono percepiti come marginali, nell’indifferenza, quando non nel plauso, dei molti che si cullano nell’idea che la restrizione dei diritti toccherà solo agli altri, a quelli che “non sono come noi”. Ma in realtà si colpiscono minoranze per educare e allineare le maggioranze, come l’esperienza storica insegna.
Non dissimile la situazione della Polonia, nel cui parlamento la maggioranza è su posizioni molto radicali. Solo venti o trenta anni fa esse sarebbero state fortemente censurate, impedendo l’ingresso in un’unione i cui statuti costitutivi sono intesi ad impedire l’emergere di pulsioni nazionalistiche e illiberali. Eppure è proprio questo che sta avvenendo sotto i nostri occhi, perché di fatto questi paesi che dall’ingresso nella UE hanno ricevuto indubbi vantaggi ora si adoperano consapevolmente per sgretolarla, utilizzando come cuneo la questione dirimente dell’immigrazione.
Ora noi possiamo essere anche molto critici nei confronti di questa Unione Europea (così si dichiara infatti il prof. Vercelli, un tempo convinto europeista ma attualmente non certo ben disposto verso la sua deriva tecnocratica), e trovare disdicevole oltre ogni dire l’atteggiamento disarticolato dell’Europa rispetto ai processi migratori. Nondimeno bisogna riconoscere che se essa dovesse crollare trasformandosi in un mosaico di nazioni fittizie, prive cioè della capacità di agire in un contesto globale, la situazione potrebbe farsi davvero inquietante.
Già venti anni fa del resto la tragedia dei Balcani aveva reso evidenti i limiti del processo di integrazione e i pericoli a cui società apparentemente tranquille e pacificate si espongono, nel momento in cui certi salvagenti e certi ammortizzatori vengono meno. Tutto potrebbe nuovamente essere possibile (spinte etniche, neonazionalismi, tifoserie da stadio che si trasformano in milizie paramilitari compiendo massacri indicibili…).
E’ per questo che a giudizio del relatore la questione dell’Europa deve stare davvero nella nostra agenda personale e collettiva, perché essa rappresenta un baluardo, che va però ripensato e rivitalizzato.
E’ LO SPAZIO DEL “SENSO COMUNE”, CHE LE DESTRE RADICALI ESALTANO E RACCOLGONO POLITICAMENTE:  
Proseguendo nell’articolazione della sua risposta, il prof. Vercelli pone alcune puntualizzazioni ulteriori sullo spazio da cui le destre radicali traggono alimento, oggi fortemente modificato da tutta una serie di elementi che contribuiscono a creare una sorta di “senso comune“ trasversale a formazioni  politiche e  movimenti  che non necessariamente si presentano come destre radicali, tracimando, per così dire, nella società tutta. Li indichiamo qui per punti, anche se nel discorso del prof. Vercelli sono stati formulati in modo meno schematico (teniamo conto che in alcuni casi si riferiscono in modo specifico alla situazione italiana, mentre in altri sono più generali).
 il disancoramento dei partiti dal vecchio arco costituzionale, la banalizzazione della memoria storica  e lo sdoganamento  di pensieri e parole d’ordine legate all’esperienza del fascismo
Se pensiamo allo spazio politico, risulta evidente che siamo passati qui in Italia da un sistema di partiti nati da un patto costituzionale a formazioni politiche nuove, che spesso non si riconoscono pienamente nella Costituzione o che le sono sostanzialmente indifferenti, non temendo di disattivarla in alcuni punti. Il contesto politico diventa così fatalmente disomogeneo fra norme di principio e dati di fatto, non ad esse coerenti.
All’appannarsi della memoria costituzionale dei partiti viene a corrispondere una parallela perdita di memoria storica, o per meglio dire una sua banalizzazione (la storia ridotta a gossip, a frattaglie) che si accompagna a equiparazioni fuorvianti provenienti da un’offerta editoriale e pubblicistica che favorisce un discorso qualunquista (il prof. Vercelli cita ad esempio i libri di Giampaolo Pansa, che solo apparentemente, essendo lui stato un uomo di sinistra, sembrano intesi a ristabilire un giudizio più equo, di verità più completa). In questo modo viene a cadere per le nuove generazioni quello che a suo giudizio è stato il lascito educativo forte della lotta di liberazione, e cioè la responsabilità dell’azione civile e politica per cui la mia libertà deve essere direttamente proporzionale alla mia responsabilità.
Allo stesso tempo, abbiamo assistito allo sdoganamento di pensieri e parole d’ordine aggressive e violente che in altri tempi sarebbero state censurate o autocensurate, in quanto rinviavano all’esperienza storica del fascismo.
Secondo il prof. Vercelli, questo fatto ha inquinato non solo il discorso pubblico ma anche quello delle relazioni sociali, con esiti davvero inquietanti. Non è ovviamente solo una questione di galateo istituzionale: l’abbassamento di livello del discorso modifica la vita associata, la corrode internamente, e questo ci conduce ad un altro elemento degno di considerazione di cui il prof. Vercelli ha indicato le possibili derive.
il populismo digitale, la semplificazione del discorso e l’apoteosi della disintermediazione
Di fronte alla difficoltà di capire che cosa sta succedendo e di reggerne la complessità, si preferiscono oggi risposte semplici e assolutorie. Purtroppo però la semplificazione è spesso foriera di travisamenti, quando non apre addirittura ad ipotesi complottistiche deliranti (un conto è dire, ad esempio, che la questione dell’immigrazione è problematica, e che non è certo senza effetti sulla vita dei cittadini delle società che accolgono, un conto è immaginare un gigantesco piano di sostituzione etnica messo scientemente in campo per annullare la civiltà occidentale). Sembra effettivamente un passaggio azzardato e poco verosimile, ma siamo su di un piano scivoloso perché le risposte semplici, come osserva il prof. Vercelli, tendono fatalmente a diventare risposte regressive.
La responsabilità dei social media in questo campo sono molteplici, per via delle modalità del loro accesso. L’idea che uno vale uno (idea pericolosa quanto mai, a suo parere: in un mercato del lavoro sempre più integrato se io mi muovo come soggetto singolo sono perduto) e che le mie opinioni contano quanto o  più di quelle di altri che abbiano una specifica competenza in materia, non nascono direttamente dai social ma certo si appoggiano a quello che il relatore definisce  “populismo digitale”: una sorta di contenitore apparentemente neutro dove tutto è azzerato, dove la possibilità di dire ciò che uno vuole non tiene sempre conto della necessità di pensare in modo strutturato e coerente, e dove è più facile trovare tifoserie piuttosto che argomentazioni. Il prof. Vercelli parla infatti di una “ossificazione ideologica”, cioè di una mancanza di confronto con dati di realtà diversi su cui è facile costruire un discorso di destra radicale.
 la debolezza della politica
 Tutto questo peraltro, secondo il relatore, potrebbe non essere così determinante nel favorire la deriva verso una destra radicale se ad esso non si aggiungesse una profonda debolezza della politica, che non è stata in grado, anche nelle sue componenti che si qualificavano come “progressiste”, di intervenire efficacemente su tutta una serie di criticità: non ha saputo in particolare ridurre le disuguaglianze che si facevano via via più dirimenti, proponendo un pensiero alternativo alla semplice accettazione dell’esistente.
E’ questo dunque, a suo giudizio, il vero spazio da cui la destra radicale (o per meglio dire le destre, che qui vengono considerate nel loro insieme senza approfondire le differenze interne alle varie organizzazioni) deriva la sua capacità attrattiva, proponendo quei “rimedi” che ora diventano l’oggetto del discorso.                              
CHE TIPO DI RISPOSTE FORNISCE LA DESTRA RADICALE?                                 
FORNISCE APPARENTE VICINANZA  CON RISPOSTE “DI SOLLIEVO”: 
Il termine che il prof. Vercelli usa per unificare tutta una serie di risposte tipiche di questo orientamento politico può apparire di primo acchito sconcertante, ma indica in realtà un tipo di azione ben precisa – certo temporanea, e di fatto ingannevole – volta però ad esprimere vicinanza rispetto all’esperienza di deprivazione che molte persone oggi vivono e che non è certo priva di fondamento.
Ora è importante vedere attraverso quali modalità questa vicinanza viene espressa, perché è qui che in effetti si manifestano i segni di una deriva pericolosa. Si può dare, per esempio, un nome e una fisionomia a ciò che ci provoca fastidio, e che forse sopporteremmo meglio se non avessimo questa percezione di smarrimento e se il nostro quadro di riferimento non fosse così nebuloso (gli immigrati si prestano molto bene a questa funzione di schiarimento!); si possono far immaginare scenari che per quanto di esecuzione ben difficile se non del tutto impossibile sembrano in grado di porre fine alle nostre ansie (facciamoli tornare tutti a casa loro!).
In altri casi, sembrerà altrettanto rassicurante l’idea di rinchiuderci nei confini nazionali, riprendendo una fantomatica “sovranità” in un quadro mondiale che richiederebbe invece una rinnovata capacità di integrazione europea.
IN ALTRI CASI, FORNISCE   RISPOSTE  PIU’ CONCRETE mA CON UN FORTE   DISCRIMINE IDENTITARIO:
E’ pur vero che talvolta le manifestazioni di vicinanza hanno una caratteristica diversa, che non deriva da una linea politica astratta (cioè da quelle parole d’ordine quali l’onore, l’ordine, la tradizione, volte in modo specifico ai militanti veri e propri) ma si traducono in azioni concrete e per alcuni aspetti simili a quelle che potrebbero essere messe in atto da formazioni di una sinistra altrettanto radicale.
Per esemplificarle, il prof. Vercelli fa riferimento ad alcune esperienze di CasaPound, che ha iniziato il suo radicamento in certe zone occupando stabili abbandonati da decenni, offrendoli a canone equo o gratuitamente a persone che soffrivano di un particolare disagio abitativo e organizzando per la comunità tutta una serie di servizi essenziali. C’era però sempre, a differenziarle da iniziative consimili di diversa matrice politica, una discriminante forte di tipo etnico, la stessa che è poi passata largamente nel senso comune che ormai attraversa anche altre formazioni politiche e pezzi notevoli della nostra società, e cioè:  
“SOLO PER GLI ITALIANI” 
Discrimine pericoloso, osserva il prof. Vercelli, perché quando si comincia a distinguere il NOI da LORO, siamo già su di un piano inclinato e scivoloso, che potrebbe sempre volgersi un giorno contro di noi, se lo accettiamo troppo supinamente.  Del resto è proprio in questo passaggio dallo scontro sociale a quello etnico che si misura, a suo giudizio, una parte consistente del paesaggio politico che ha cercato di illustrare in questo incontro, tenendo volutamente contenuta questa parte espositiva per lasciare spazio agli interventi del pubblico.            
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IL CONFRONTO CON IL PUBBLICO
Diamo ora alcuni ragguagli relativi al confronto con il pubblico, che è stato molto ampio e in cui alcuni temi sono stati approfonditi, altri aperti:
le responsabilità dei partiti di sinistra e quelle del “senso comune” diffuso dai media
le politiche economiche e sociali delle destre, da quelle storiche a quelle odierne
il tema della salvaguardia della memoria storica e della Costituzione e il compito dell’ANPI
Uno dei primi interrogativi che emergono nel dibattito attiene alle responsabilità dei governi di centro sinistra, che sono ritenuti troppo corrivi all’ideologia liberista dominante e che non hanno dato spazio a politiche di effettivo sostegno per i ceti meno abbienti (mentre quelli di centrodestra, che governano alcuni paesi europei, hanno presumibilmente ricevuto il loro consenso sia da temi identitari che da interventi di natura “sociale”).  Si chiede dunque al relatore di tornare sul tema della responsabilità dei partiti di centro sinistra e di dare qualche ragguaglio sulle politiche economiche propugnate dalle destre radicali.
Successivamente - spostandosi dalle responsabilità della politica a quelle sociali e individuali, in cui si è tutti coinvolti - si evidenzia la complicità per così dire soggettiva e sotterranea, e pertanto molto difficile da scalfire, di cui l’avanzare dei fascismi indubbiamente approfitta, e che passa attraverso i messaggi populisti e qualunquisti dei media costituendo una sorta di fiume carsico che li alimenta. Per affrontarlo ci vuole la politica, certo, ma secondo l’interlocutrice occorrerebbe davvero puntare su di una scuola che riuscisse a trasmettere ai giovani il valore di una Costituzione che valorizza la libertà del pensiero di tutti. Sul tema della Costituzione interviene anche la presidente dell’ANPI, che si chiede quale può essere il ruolo dell’associazione nella situazione complessa e per molti versi drammatica in cui ci troviamo, con le destre ad un passo dal governo, e la criminalizzazione non del fascismo, ma dell’antifascismo. Vigilare perché il dettato costituzionale non venga snaturato nei suoi elementi fondanti, certamente, passare alle nuove generazioni la memoria storica. Ma può bastare?   
E’ drammaticamente vero, secondo il relatore, che i partiti di sinistra abbiano abdicato al ruolo storico di garanti della giustizia sociale - a partire dall’esperienza blairiana della “terza via-  assumendo spesso una posizione “orizzontale” rispetto all’ideologia liberista (fatta eccezione per una parte residuale di essi che peraltro, a suo giudizio, è ancora legata ad una visione del lavoro tipica di un mondo industriale ormai irrimediabilmente lontano). Occorrerebbe invece un pensiero nuovo per tempi non solo difficili, ma diversi, dove nel mondo del lavoro prevale l’immateriale e dove ciò che apparentemente ci avvantaggia come consumatori (vedi Amazon, i viaggi low cost) è basato sullo sfruttamento di lavoratori senza tutele. Sono questi i processi che oggi vanno pensati e governati e su cui i partiti di centro sinistra dovrebbero davvero impegnarsi, agendo in una indispensabile dimensione sovranazionale.
Se poi spostiamo il fulcro del discorso sulle politiche sociali di alcuni governi di centro destra, possiamo osservare intanto che non c’è nulla di nuovo, in questo: anche il fascismo – vero giano bifronte – era partito da posizioni socialisteggianti, arrivando poi con la sua visione organicistica della società ad azzerare totalmente il campo della politica, che è lo spazio vero del confronto sociale. In altri termini il modello delle destre radicali è quello del solidarismo  etnicista, che vale fino  a che esse sono in posizione minoritaria. Quando assumono il potere adottano in pieno le pratiche liberiste, mentre nel contempo spariscono le tutele e vengono compressi i diritti in cambio del senso di appartenenza su cui fanno leva. Questo vale anche per i movimenti islamisti radicali, che a giudizio del prof. Vercelli vengono spesso vissuti con una certa ingenuità da molti osservatori europei che vi ravvedono forme di neocomunismo, mentre sono essenzialmente fascisti (vanno infatti a nozze con il liberismo). Allo stesso modo funzionano le teocrazie, tanto ferme nel governare le relazioni sociali in modo violento, impedendo ogni spinta emancipativa, quanto flessibili nelle dottrine economiche.
Per quanto riguarda invece il ruolo dell’ANPI, il prof. Vercelli ritiene che l’associazione non debba diventare cosa diversa da quanto è stato indicato. Testimone di memoria, dunque, anche se il problema che si pone oggi è il come ci rapportiamo con quella memoria, come raccordiamo quel deposito ineludibile di identità ai cambiamenti in atto. E’ certamente vero che stiamo assistendo ad una sorta di criminalizzazione dell’antifascismo, ma bisogna ricordare che esso è sempre stato minoritario rispetto all’ampia linea grigia e ad un discorso di senso comune che ha fin da subito provato il desiderio di lasciarsi alle spalle l’epopea resistenziale, annullando ogni distinzione.
Non è nuovo dunque questo problema, è bensì un discorso che ritorna e che giustamente ci inquieta. E’ pur vero che la situazione odierna non è la stessa di allora, ma in compenso tutto è più diffuso e confuso come in una mucillagine invischiante, pericolosa soprattutto per le nuove generazioni a cui si passano messaggi scomposti e incoerenti, così che  la spinta educativa  allo studio e all’impegno viene destrutturata in altri contesti su cui non si può intervenire (pensiamo alle immense praterie del Web, dove libertà e responsabilità non sempre coincidono).
Osservazioni analoghe possono essere fatte sulla Costituzione e sull’impegno a vigilare. Anche qui, secondo il relatore, è necessario ricordare che accanto alla costituzione formale è sempre esistita una costituzione materiale e reale che risente dei rapporti di forza: vediamo bene che i valori della Costituzione non sempre sono applicati, ma dobbiamo prendere atto che essi seguono gli interessi e i cambiamenti della società, non è solo una responsabilità della politica. Questi discorsi possono probabilmente apparire poco rassicuranti – il prof. Vercelli ne conviene, pur ritenendo che si debba tenere ben presente l’ordine delle questioni con cui dobbiamo confrontarci.  Non è detto infatti che questo quadro non possa cambiare, possiamo anzi pensare che un giorno questo avverrà e impegnarci in questa direzione, dobbiamo nondimeno essere molto lucidi nella nostra analisi.
il legame fra i movimenti   populisti e le destre radicali
la persistenza delle “parole d’ordine” fra passato e presente     
Nella seconda serie di interventi si chiede al relatore di condurre la sua analisi sui legami che possono instaurarsi oggi fra le due anime rappresentate dai populismi e dalle destre radicali, che si sono inserite su tematiche simili, e sulle conseguenze possibili di una loro saldatura; si riprende inoltre il tema del rifiuto della complessità e del bisogno di risposte facili e di parole d’ordine riandando col pensiero a quelle propugnate dal fascismo, che ancora  campeggiano (sbiadite o rinverdite? ) sui muri delle nostre città. Un caso di memoria persistente dunque, accanto ad altre che invece si sono davvero appannate…           
In effetti, osserva il prof. Vercelli in risposta a quest’ultima osservazione, la percezione di queste memorie residuali è palese, soprattutto se ci si sposta dalla realtà torinese ad altre zone d’Italia (fa riferimento a Latina, da lui ben conosciuta per motivi professionali, dove le falangi studentesche hanno ormai occupato tutto lo spazio che negli anni sessanta e settanta era invece orientato a sinistra, garantendo un loro preciso “ordine” nelle scuole). Qui le scritte sui muri parlano dichiaratamente un linguaggio neofascista, spingendosi decisamente avanti su questo terreno, quasi a misurare fino a che punto la provocazione può spingersi. Sono segnali indubbiamente inquietanti, ma il contesto storico è diverso, e non ci autorizza a suo giudizio a ritenere che la storia vada a ripetersi.
Questo non vuol dire, naturalmente, che non ci siano fondati motivi di preoccupazione anche rispetto al tema posto nell’intervento precedente, e cioè l’eventuale saldatura fra movimenti populistici e destre radicali.
Se pure non sarebbe corretto, dal punto di vista dell’analisi politica, ritenere che i populismi siano “naturaliter” di destra – sono infatti esistiti storicamente dei movimenti populisti di sinistra -  si riscontra tuttavia in essi una forma di debole democrazia, di lontananza ideologica e culturale da quei sistemi di diritti che le Costituzioni incarnano. Possiamo dunque parlare di una forma di contiguità, più culturale che politica. Del resto, come si è già detto in precedenza, lo spazio che le destre radicali occupano è più ampio di quello segnato dalle sigle più note, e si è ben incuneato in partiti che hanno nutrita rappresentanza in parlamento.
E’ un paesaggio davvero inedito quello che ci si prospetta, e l’analisi del passato secondo il prof. Vercelli non è più sufficiente, perché più che di fronte ad un ritorno noi siamo in una fase di transizione fra un passato che non c’è più e che però persiste, e uno scenario di cui cogliamo certe linee ma non il disegno completo. Una vera “età dell’incertezza”, in cui possono manifestarsi forme patologiche.
la democrazia alla prova delle derive autoritarie
luoghi di tenuta democratica
luci e ombre
Gli ultimi interventi vanno a concludere idealmente il confronto del relatore con il pubblico. Da un lato infatti la presidente dell’associazione “CircolarMente” chiede al prof. Vercelli se nella sua vasta attività di pubblicista e docente abbia rilevato elementi di speranza sulla tenuta democratica del nostro paese, tali da non destinarci a considerare il fascismo la vera “autobiografia di una nazione”, secondo l’espressione usata da Gobetti.  
Dall’altro, un secondo interlocutore esprime  il suo forte sdegno verso una democrazia che non sa o non vuole (che anzi, a suo giudizio, non ha mai saputo né voluto, come dimostrano le molte ombre della storia recente) apprestare gli strumenti per difendersi dalle derive autoritarie, facendo tesoro dell’esperienza storica: una democrazia impotente o ambigua, che di fronte ad esempi recenti come quello di Macerata  ricorre, nella persona del ministro degli interni, alla tesi degli  “opposti estremismi”…
Unificando nella sua risposta i due interventi, il prof. Vercelli comincia con l’osservare che non siamo oggi completamente disarmati di fronte a questi pericoli: siamo bensì privi di una chiara direzione di marcia, perché il nostro tempo, più ancora che drammatico, è estremamente confuso. In una società che sta cambiando, non è facile dare un senso al tutto e questo fa sì che di fronte a fenomeni pure molto inquietanti si verifichi una sorta di strozzatura – che in effetti sta diventando gigantesca - fra percezione e azione, per cui opporsi non è sempre facile (del resto, osserva, quando negli anni ormai lontani che in questa occasione del 25 aprile stiamo celebrando  quella parte minoritaria di italiani ha sentito il bisogno di muoversi contro il fascismo, ha compiuto scelte che non erano inizialmente tutte preordinate, ma che si sarebbero precisate nel corso del tempo).
Poi, certo, bisogna anche considerare il fatto che le democrazie non sono così seducenti come i totalitarismi, perché si basano su identità composte e plurali che richiedono la mediazione fra interessi diversi e compresenti. E’ su questo, peraltro, che si basa la nostra libertà.
Per quanto riguarda poi gli elementi di buona tenuta su cui è stato invitato a ragionare, il prof. Vercelli indica senza esitazioni la scuola. Benché ferita e offesa da anni di grave incuria politica, essa costituisce ancora a suo giudizio un buon presidio di cittadinanza, il luogo in cui le nuove generazioni non solo acquisiscono competenza ma passano da una dimensione familistica a una sociale. Certo dentro la scuola ci sono contraddizioni e conflitti in cui i giovani sono coinvolti. Ciò nondimeno, pur non sottovalutando i rischi che vengono indicati in un successivo intervento (in cui ci si interroga sulla mancanza di responsabilità rispetto alle  proprie azioni,  anche da un punto di vista etico, che appare evidente in molti dei giovani che sono stati di recente  protagonisti di fatti di cronaca interni al mondo della scuola o a quello dei social), il relatore non ritiene che questi episodi siano tali da richiedere l’adozione di una pedagogia compensativa, o perlomeno vede l’elemento di maggiore criticità nelle fragilità di molti genitori che deresponsabilizzano i propri figli, e risultano pertanto incapaci di stabilire un buon patto educativo con la scuola. Del resto la deresponsabilizzazione collettiva è un portato non secondario del liberismo, e costituisce ormai un contesto in cui le energie migliori vanno a scontrarsi. La partita però non è perduta, a suo giudizio: anche se spesso abbiamo la sensazione che certezze e speranze siano ormai alle nostre spalle, ancora non ci siamo giocati tutte le carte e il risultato non è scontato.   

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Per CircolarMente
Enrica Gallo

Pubblichiamo, qui di seguito, alcune delle diapositive a supporto della relazione tenuta dal Prof. Vercelli che non è stato possibile visionare nel corso della serata