giovedì 15 febbraio 2024

Il "Saggio" del mese - Febbraio 2024

Il “Saggio” del mese

 FEBBRAIO 2024

L’attenzione per il territorio, visto come elemento imprescindibile di conoscenza dei fenomeni socio-economici e come dimensione ottimale per costruire un diverso modello di sviluppo, rappresenta da tempo una costante in molti dei nostri “Saggi del mese”. A maggior ragione lo è in quello scelto per questo Febbraio 2024 espressamente incentrato ad esplorare aree interne del nostro paese rimaste ai margini della tumultuosa, ma contraddittoria, crescita italiana. Conoscere le ragioni di questa emarginazione è utile proprio per meglio mettere a fuoco limiti e negatività dell’idea di sviluppo che l’ha ispirata e sostenuta 

il cui autore è Filippo Tantillo

(1968, ricercatore, film-maker e attivista, lavora per università e istituti di ricerca italiani ed europei alla messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio e dei fenomeni sociali. Fa parte dell'associazione Riabitare l'Italia e del Forum Disuguaglianze e Diversità)

Le prime righe dell’Introduzione illustrano bene l’oggetto dell’esplorazione di Tantillo e anticipano le considerazioni di fondo ricavate in questo suo “viaggio nelle aree interne”:

……..Una parte del nostro paese negli ultimi anni è sparita dal discorso pubblico e dall’agenda politica. Costituisce più della metà del territorio nazionale ed è abitata da almeno 13 milioni di persone, vale a dire circa il 22% di tutti gli italiani. Derubricata a ultimo residuo dell’Italia rurale, una vandea abitata da una popolazione anziana e antimoderna, oggi appare sulla mappa demografica del Paese come un arcipelago di luoghi vuoti, quasi senza più abitanti…..E’ però sufficiente guardarci dentro per scoprire che sono terre tutt’altro che immobili, sensibili alla trasformazioni climatiche e ai mutamenti dell’economia mondiale, percorse incessantemente da flussi di umani, e quindi tali da restituire l’immagine di un Paese molto più grande e vario di come si autorappresenti …..

Sono sette le aree scelte da Tantillo come paradigmi di questa situazione, confusamente racchiusa nella confusa e indeterminata definizione di “aree interne”, ed ognuna è abbinata ad un colore che ne sintetizza la peculiarità ambientale:

*   Smeraldo = Le valli Occitane (Piemonte)

*    Rosso =Il fiume Simeto (Sicilia)

*   Verde = L’Appennino centrale

*   Argento = La costa ionica della Calabria

*   Grigio = Le Dolomiti orientali al centro d’Europa

*   Giallo = I confini mobili del Molise

*   Cenere = La Sardegna centrale

Le percorreremo, va da sé a volo d’aquila, in questa sintesi per rintracciare in ognuna di esse i tratti specifici della loro emblematica capacità di testimoniare le ricadute fortemente negative che hanno dovuto subire, ma al tempo stesso anche la capacità di reinventarsi grazie ad idee e progetti (in buona misura accompagnati dalla “Strategia nazionale per le Aree Interne” istituita nel 2012 dall’allora Ministro della Coesione Territoriale Fabrizio Barca) che molto possono valere per una generale svolta

Smeraldo = Le valli occitane (smeraldo per il verde intenso dei suoi boschi)


E’ un angolo delle Alpi, che scende dall’Alta Val di Susa fino a sfiorare il mare Ligure a cavallo del confine fra Italia e Francia, che raggruppa quattordici valli e le loro diramazioni in valli laterali (sono circa 120 Comuni, tutti sotto i 5.000 abitanti di cui una ventina con meno di cento, per una popolazione totale di circa 80.000 persone) accomunate dall’appartenenza linguistica al ceppo occitano (l’antica “Lingua d’oc”). Per quanto investite in modo differenziato dall’impetuosa crescita economica del secondo dopoguerra tutte hanno subito un pesante svuotamento di abitanti, dovuto al venire meno delle condizioni di sussistenza della tradizionale economia di montagna (ben raccontata nel libro “Assalto alle Alpi” di Albino Ferrari nostro “Saggio del mese” di Luglio 2023), che qui si è articolato in due fasi: una prima che ha visto un consistente spostamento verso le grandi città industriali e una seconda caratterizzata da una ulteriore migrazione interna verso i fondovalle dai centri abitati di media/alta montagna (la prima fase si è concentrata negli anni 60/70/80 ed è spiegata soprattutto dalla mancanza di lavoro, la seconda non si è ancora arrestata ed è sempre più segnata dalla crescente mancanza di servizi). E’ su questi ultimi che si concentra l’attenzione di Tantillo, è qui infatti che si colgono con drammatica evidenza i segni dell’abbandono umano (riforestazione e ripopolamento di animali selvaggi, case e interi borghi ormai degradati), ma è sempre qui che negli ultimi due decenni è possibile cogliere interessanti segnali di una possibile svolta, anticipata da un primo significativo cambiamento avvenuto negli anni Settanta. E’ in questo decennio che prende corpo un risveglio identitario delle popolazioni di queste valli basato sulla riscoperta del proprio patrimonio culturale in ispecie linguistico. Il dialetto occitano, fin lì vissuto come sinonimo di emarginazione, di povertà, di ignoranza, diventa un motivo di orgoglio, di recupero di una identitaria cultura storica di grande valore. Nascono movimenti, che ne richiedono la tutela e la valorizzazione, che raccolgono e danno voce ad una esigenza di riscatto e che ottengono nel 1999 un’apposita legge che riconosce l’occitano come lingua, che ne permette quindi l’insegnamento nelle scuole ed un uso limitato nella pubblica amministrazione. Questo straordinario risveglio culturale dà luce nuova alle valli e viene premiato da un interesse turistico dapprima limitato a viaggiatori appassionati di cultura e trekking, principalmente stranieri e benestanti (ancora oggi le guide moderne di alcune valli sono solo in tedesco) e poi capace di coinvolgere famiglie e giovani. Il crescente riscontro di interesse, e di ritorno economico, fa da ulteriore volano al recupero della vivibilità complessiva delle aree fin lì più trascurate delle valli occitane: si recuperano case ed alpeggi, si ridà vita ad intere borgate (Elva, Ostana, Pralup, per citare alcuni esempi), nascono Fondazioni, Circoli Culturali, Festival e Feste, l’artigianato locale si rilancia. Il recupero dell’identità linguistica si coniuga da subito con la difesa e la valorizzazione delle montagne non più basata sull’industria dello sci ma attenta alla difesa dell’ambiente. Tutto questo movimento non si è ancora tradotto in una ripresa di residenti stabili, pesa ancora troppo la mancanza di servizi adatti ad una popolazione in gran parte anziana. Non a caso, a testimonianza della valenza innovativa di questa esperienza, si è fatta strada l’idea di sostenere un nuovo mirato welfare di valle sfruttando, nel loro pieno rispetto, la grande ricchezza di risorse naturali, a cominciare dalle acque. E’ un mondo nuovo che sta creando nuove istituzioni finalizzate ad una idea di sviluppo sociale ed economico che richiede una trasformazione delle strutture decisionali legandole di più al patrimonio ambientale e culturale. L’Italia vuota per essere riempita richiede anche questa tipo di svolta. Nelle valli occitane, con tutte le immaginabili difficoltà, tutto questo sta iniziando a succedere.

 Rosso = Il fiume Simeto (rosso come la lava dell’Etna dal quale nasce)


Il bacino fluviale del Simeto è vivido testimone di molti aspetti caratteristici della storia siciliana. A lungo le sue acque, alimentate dalla nevi dell’Etna, sono state preziose per una agricoltura, in gran misura diversificata e basata su piccoli appezzamenti, che ha sostenuto l’economia di una popolazione numerosa. Nel secondo dopoguerra sono state attivate politiche di forte incentivazione alla monocoltura industrializzata di agrumi finalizzata all’esportazione (peraltro ormai entrata in crisi irreversibile stante la forte concorrenza globale), accompagnate da un utilizzo specifico delle acque e da una radicale trasformazione dell’ecosistema fluviale. Lo stravolgimento della tradizionale struttura produttiva ha comportato la concentrazione dei piccoli appezzamenti, la collegata perdita delle fonti di reddito familiare è stata compensata unicamente con le classiche politiche assistenziali. Si sono così innestate pesanti dinamiche di emigrazione, di disagio e di perdita di identità delle tradizionali comunità locali. In aggiunta lungo i 116 km del Simeto sono via via sorte una miriade di discariche abusive (a servizio dell’area urbana della vicina Catania) gestite dalla criminalità organizzata di stampo mafioso che hanno ulteriormente compromesso l’ambiente fluviale e la residua agricoltura parcellizzata. In questo quadro di degrado economico, sociale e ambientale, all’apparenza senza vie d’uscita, la molla per una reazione dal basso è stata fornita proprio dal tema della difesa dell’ambiente innescata dal progetto regionale di localizzazione di un mega inceneritore rifiuti. Nei primi anni duemila nasce il Presidio del fiume Simeto (che unisce ben 63 organizzazioni locali di vario genere) inizialmente finalizzato a contrastare tale scelta (lotta che nel 2011 si è chiusa con una confortante vittoria) ma capace di allargarsi ad una coinvolgente lotta di contrasto alle ecomafie e al complessivo degrado dell’intera area fluviale. Lo slogan “dalla protesta alla proposta” ha segnato questo salto di qualità che ha scelto come suo simbolo un’enorme carta del territorio (larga 10 metri e alta tre) che riassume in una rappresentazione cartografica-politica (si tratta di una forma diffusa nelle pratiche di lotte sociali sintetizzabile  nella formula “un mondo disegnato dal suolo”)  tutti i possibili progetti che nelle intenzioni del Presidio potranno restituire all’area interna del fiume Simeto una sua vivibilità ed una sua identità (si parla ad esempio di recupero di siti storici, di valorizzazione di prodotti tipici quali i pistacchi di Bronte, di avvio di gestione collettiva di terreni agricoli dismessi). La positiva esperienza dell’opposizione all’inceneritore ha quindi compattato una rete diffusa di associazioni, circoli culturali, sezioni di partito che le stanno dando concreto e capillare seguito, aprendo in questo modo due differenti fronti: uno di aperto conflitto con la mafia locale (non mancano di certo intimidazioni, anche pesanti, e sabotaggi) e uno di confronto, aperto e costruttivo perché basato su tematiche concrete e mirate, con le amministrazioni locali. I due fronti ovviamente si intrecciano e confermano che il recupero delle arre interne può avvenire solo grazie ad una stretta, e diversa, sinergia fra cittadinanza e istituzioni

Verde = L’Appennino centrale (il verde dei suoi prati e dei suoi alpeggi)

La popolazione di Roma è passata dai 1.600.00 circa di abitanti del 1950 ai 2.900.000 circa del 2016, buona parte di questa crescita (unitamente a quella delle prospicienti città costiere adriatiche) è avvenuta nell’arco di trent’anni, nel 1980 già si contavano 2.850.000 abitanti, ed è in gran misura costituita da cittadini provenienti dalle aree interne dell’Appennino Centrale. Questa parte della lunga catena appenninica si presenta come un susseguirsi di catene montuose, mai troppo alte e impervie, intervallate da ampie valli, una parte significativa di questo paesaggio è racchiuso in quattro parchi nazionali e in tre grandi parchi regionali, si parla del più vasto insieme di aree protette di tutta l’Europa, che forma unitamente ai vasti pascoli (con gli immancabili contrasti tra allevatori e fauna selvatica. Il WWF calcola che ogni anno siano uccisi dai 200 ai 500 lupi su una popolazione complessiva di 3.000 esemplari, le cui nascite a fatica compensano le uccisioni) uno straordinario unicum ambientale. Si parla purtroppo di un pezzo dell’Italia a fortissimo rischio sismico che nel corso degli ultimi decenni ha inferto danni pesantissimi, con molte vittime, ad un patrimonio abitativo già del suo vecchio e trascurato. Questo insieme di caratteristiche naturali e di intensi ed inevitabili fenomeni migratori ha fatto sì che le zone più interne degli Appennini Centrali siano ormai divenute una lunga sfilza di piccole città fragili con pochissimi abitanti. In questo contesto fortemente segnato, la possibilità di una svolta poggia su un fenomeno di recente avvio, ma che già vede una sua significativa consistenza: quello dei rientranti. Tornano, raggiunta la pensione, anziani originari del posto, ma tornano anche molti giovani, i loro figli e nipoti. Sono soggetti eterogenei non solo per età, ma anche per motivazioni e aspettative. Sono soprattutto i giovani che con questo percorso all’inverso stanno creando le condizioni per una inversione di tendenza. Molti riattivano coltivazioni e allevamenti, altri riattano casolari abbandonati per avviare attività di turismo sostenibile, di artigianato, di servizio alle persone. Sono in parte figli di una cultura disillusa che spesso tornano per pura necessità viste le porte chiuse che trovano in basso, altri però, e sono quelli più motivati, compiono una scelta di vita con al suo centro il senso di comunità, gestendo forme di agricoltura ecologica e solidale, ed un rapporto pieno con l’ambiente che ispira il tipo di turismo che offrono, certo non è più quello mordi e fuggi dello sci (il Terminillo è in queste zone, e d’altronde manca proprio la neve). E’ un fenomeno agli albori, ma non mancano incoraggianti riscontri

Argento = La costa ionica della Calabria (l’argento del mare increspato dai venti) 

Siamo in una area emblematica del disastro economico e sociale che da sempre caratterizza buona parte del Sud Italia così sinteticamente riassumibile: agricoltura di sussistenza, assenza di attività industriali, marginalità turistica, incapacità politiche e amministrative, assistenzialismo puro, servizi inesistenti, infrastrutture inadeguate e, certo non ultima, una fortissima presenza della ‘ndrangheta. Completa questo quadro, che ha consolidato nel secondo dopoguerra tratti antichi, una autolesionistica mancanza di attenzione e rispetto dell’ambiente che ha implicato uno sviluppo urbanistico del tutto incongruente: a partire dagli anni sessanta, con un processo del tutto non governato, sono stati letteralmente abbandonati i borghi vecchi di mezza collina e si sono creati nuovi centri sulla litoranea fatti di abitazioni anonime e già degradate (già nel 1961 l’allora Primo Ministro Fanfani così sintetizzava questa situazione: qui si tratta di rifare la struttura economica e sociale, e spesso persino il suolo). Il vuoto della politica ha lasciato spazio al contrapporsi di interessi locali tale da impedire una benchè minima progettualità di area (solamente nei primi anni del secondo dopoguerra un movimento politicizzato di braccianti è stato in grado di esprimere alcune amministrazioni con una qualche visione, però ben presto vanificata da questo tratto conflittuale, non a caso molti sostengono che Calabria debba essere declinata al plurale: le Calabrie). In un contesto così caratterizzato, e così storicamente consolidato, una qual certa svolta difficilmente può essere avviata per percorsi endogeni, occorre che intervengano fattori esogeni capaci di coniugarsi con le sopite risorse interne. Ed è esattamente questo che è avvenuto nella costa ionica calabra. A partire dalla fine degli anni Novanta su queste coste si sono concentrati flussi migratori tanto consistenti quanto fin lì imprevisti (lo sbarco simbolo di questa inaspettata novità è quello del barcone Ararat approdato il 27 Dicembre 1997 sulla spiaggia di Badolato con 826 persone a bordo in buona parte curdi iracheni). Si è trattato di un autentico shock che ha trovato, ovviamente, del tutto impreparate istituzioni e servizi sociali, ma al contrario sindaci e associazioni locali capaci di affrontare questa emergenza con un inaspettato spirito di coinvolgimento e solidarietà. Questo spirito si è tradotto in un’autentica rivoluzione culturale che ha intaccato, del tutto imprevedibilmente, uno dei pilastri della mentalità diffusa: la casa di proprietà. La consapevolezza di un patrimonio edilizio, quello dei borghi collinari, inesorabilmente condannato al degrado, collegata alla necessità urgente di dare accoglienza a quelle migliaia di persone provenienti da paesi ancora più poveri della già povera Calabria, ha innescato un movimento di straordinaria valenza. Le case degli antichi borghi, affidate ai nuovi arrivati, si sono via via ripopolate e sono tornate a vivere di una vita nuova, di colori e voci diverse. Il termine che è stato usato per definire questo fermento collettivo non è stato “accoglienza”, ma “ospitalità”, più in grado di definire il rapporto che si è creato capace di coinvolgere buona parte della comunità locale. Sino al punto di innescare una ricaduta anche in termini di turismo, ma di un turismo diverso, perché composto da persone (specie dal Nord Europa) attratte proprio dal patrimonio edilizio da ripopolare e dal clima sociale che lo ha rianimato (è stata in particolare la nota esperienza di Riace e del suo sindaco di allora, Mimmo Lucano, assurta a fama internazionale a fare da volano a questa inaspettata svolta). In questa stessa area è stata di recente avviata una esperienza di carattere del tutto opposto: il borgo di Gerace è stato selezionato per un finanziamento di 20 milioni di euro, all’interno di un progetto PNRR, finalizzato ad una totale rigenerazione urbanistica con la creazione di strutture ricettive “classiche”, a parere di molti destinata all’insuccesso per la semplice ragione che il turista classico privilegia località meglio dotate di servizi e collegamenti, e magari più glamour. Le note vicende giudiziarie, innescate da una opposizione politica ideologica, hanno pesato moltissimo sulla crescita di questa svolta che ha comunque lasciato una importante eredità culturale: quella di un turismo “diverso” fatto di cultura (anche in questo Riace è capofila), di relazioni umane all’insegna della ospitalità.

Grigio = Le Dolomiti Orientali al centro dell’Europa (il grigio delle pareti e delle rocce) 

La principale strada che sale verso le valli delle Dolomiti Orientali passa per Longarone, Casso ed Erto, ormai muti testimoni della tragedia del Vajont e della criminale sottovalutazione dei rischi idrogeologici del frammentato paesaggio italiano. Si entra da questa tragica porta in una delle zone più simboliche delle difficoltà dell’area più ad Est dell’Italia a ricostruire una sua identità socioeconomica troppo a lungo condizionata dall’essere una strategica terra di frontiera. Lo stato prolungato di servitù militare, manifestamente segnato dall’insistenza di moltissime infrastrutture militari, ha infatti profondamente segnato il suo territorio, la sua economia, la sua identità sociale e culturale, soprattutto nelle aree, come quella delle Dolomiti Orientali, già del loro emarginate dalla conformazione territoriale e ambientale (alla tragedia del Vajont si sono spesso aggiunte le devastazioni provocate da terremoti, questa è una zona ad altissimo rischio sismico). Con la sola eccezione di alcuni limitati settori di eccellenza (la coltelleria in particolare) la natura, ed i boschi soprattutto, rappresentano ancora oggi la voce più rilevante dell’economia locale. La tempesta Vaia del 2018, con milioni e milioni di alberi abbattuti (anche qui) da un autentico ciclone, ha messo a nudo la fragilità di questo patrimonio di fronte agli effetti del cambiamento climatico. Si è trattato di un fenomeno estremo (anche se il concetto di estremo va sicuramente rivisto con l’avanzare del cambiamento climatico) che ha tuttavia reso più evidente il progressivo mutare, del tutto indipendente dal diretto intervento umano, dell’ambiente boschivo che da almeno quindici anni si è innescato con l’aumentare delle temperature. Ed ha al tempo stesso sollecitato un radicale ripensamento delle pratiche di utilizzo boschivo sin qui seguite che ha dato il via ad alcune esperienze di costruzione di una filiera diversa da quella tradizionale limitata al solo taglio per ricavare materia prima per le grandi segherie (soprattutto austriache). E’ una svolta culturale ancor prima che economica, si tratta infatti di meglio assecondare il cambiamento boschivo già in corso evitando di piantare essenze “industriali(come l’abete rosso, ideale per lavorazioni ordinarie di segheria, ma con radici troppo fragili) per puntare su altre più indicate per utilizzi particolari (si punta ad esempio su alberi di “legno di risonanza” come l’acero e altri tipi di abete, ricercatissime per costruzione di strumenti musicali). Questo cambiamento si accompagna a tecniche diverse di taglio, meno estensive, più mirate, a ciclo completo sul posto. Si tratta di uno sforzo articolato che richiede specifiche competenze di vario genere che possono divenire una alternativa di valore al semplice lavoro da “boscaiolo” e che stanno per questo coinvolgendo le nuove generazioni. Fin da subito sembra essere significativa la ricaduta sulla tradizionale economia comunitaria del bosco ridando centralità ad una pratica secolare che, non per nulla, passa attraverso il rilancio e l’estensione delle “Regole”, ossia l’uso condiviso e comunemente deciso di un patrimonio boschivo costruito con l’assemblaggio delle singole proprietà (una pratica in uso già nel Medioevo e poi erroneamente trascurata) peraltro resa più agevole dalle possibilità telematiche di conoscenza, comunicazione e condivisione (che si estendono anche alla mappatura informatizzata degli alberi e del loro ciclo di vita). L’avvio forzato, ma subito declinato in positivo, di questo intreccio fra vecchie e nuove pratiche sta aprendo  prospettive anche al (ri)fiorire di attività artigianali e di piccola industria (in particolare nei settori della orologeria e dell’ottica) in grado di contrastare l’immancabile spopolamento anche qui avvenuto

Giallo = I confini mobili del Molise (il giallo delle sue colture cereagricole)  

Il territorio che ha nome Molise è stato per millenni terra di transito, di uomini, di merci (da e verso i porti adriatici) di animali (il Tratturo Magno che collega i pascoli appenninici della Maiella alle pianure pugliesi lo attraversa per intero), nomade è stata a lungo la sua identità. Ed ancora oggi questi tratti, nomadi e rurali, si sono mantenuti in buona misura tali, a segnare un netto stacco paesaggistico rispetto a quello ormai troppo diffuso dell’Italia urbanizzata e industrializzata. Non deve allora stupire se nel Molise, mentre il resto dell’Italia è già costretto a fare i conti con il post industriale, sia ancora percepibile l’anelito verso un passaggio, dall’antico al moderno, che qui non si è mai realizzato. Nemmeno il turismo, perlomeno quello canonizzato dal consumismo, è riuscito ad essere una alternativa di una qualche consistenza. D’altronde in un territorio bello perché poco antropizzato, ricco di storia però consolidata in borghi poveri di arte, il turismo deve strutturarsi in modi diversi per non restare soffocato dalla concorrenza. Eppure, mancato l’appuntamento storico con l’industrializzazione, il turismo viene ancora vissuto come l’unica prospettiva atta a fronteggiare spopolamento e mancanza di benessere. Tutti i progetti messi in campo hanno però fin qui prodotto ben pochi risultati soprattutto perché nulla(in particolare non sono mai stati avviati mirati percorsi di formazione e specializzazione per le professioni turistiche)  è stato fatto per coinvolgere le comunità locali in un cambiamento che, per essere efficace, doveva necessariamente vederle protagoniste all’interno di una ampia riflessione su quali nuove forme vincenti possa assumere un settore come quello turistico ormai globalmente inflazionato. Solo in anni recenti è iniziato per il Molise un percorso di questo tipo: con la preziosa collaborazione di un gruppo di lavoro attivato nell’ambito della Strategia Nazionale delle Aree Interne (SNAI),  con il coinvolgimento delle Comunità Montane molisane, è stato messo a punto, non senza fatica stante la scarsa collaborazione degli enti locali, un progetto che prende avvio dalla consapevolezza dei tanti limiti da superare. Le ipotesi presentate, che sono state collettivamente delineate partendo dal racconto e quindi dal recupero della locale identità storica, suscitano interesse soprattutto tra giovani imprenditori locali che si sentono imprigionati nelle classiche logiche assistenziali. E’ in questo modo che è stato riscoperto un settore, quello dei coltelli da macello (per secoli al servizio degli allevamenti) colpevolmente trascurato perché eccessivamente dimensionato sulla domanda locale. E’ ancora una piccola cosa, ma aver destinato le risorse finanziarie disponibili nell’ambito del progetto a riattivare botteghe e laboratori, sta consentendo di rimettere in moto una filiera che recupera corsi d’acqua e piccole centrali dismesse, ridefinisce il territorio riportando alla luce sentieri e percorsi abbandonati, producendo così una proposta che, per “turisti esploratori”, dà fiato ad un’economia attenta al territorio ed alla sua storia. Aver fatto entrare anche solo uno sbuffo di aria nuova nell’asfittica mentalità rassegnata del Molise sta iniziando a smuovere la palude attendista e sta tracciando un modello di sviluppo originale, eco-compatibile, orgoglioso delle tradizioni locali.

Cenere = La Sardegna centrale (la cenere degli incendi che la martoriano) 

E’ sempre stata una zona di incendi, ma quello del 2021 (durato cinque giorni, spento a fatica da 7 aerei, 13 elicotteri e 7.000 uomini) passerà alla storia per la sua violenza favorita dalla sempre più frequente siccità e soprattutto dall’esteso abbandono di prati, pascoli, boschi. Anche qui, come in tutte le aree interne già esplorate, si è di fronte al risultato, inevitabile, di un modello economico e sociale che ha volutamente dimenticato le aree territoriali che meno sembravano prestarsi alle logiche dell’industrializzazione, condannandole prima all’emarginazione e poi allo svuotamento. Ed anche qui l’esperienza dimostra che non ha però senso pensare semplicemente di ripristinare trame economiche e sociali ormai perse, quando la scommessa è quella di recuperarne la valenza identitaria, ma inserendola in modo appropriato in un contesto che deve essere calibrato, correggendone limiti e storture, sulle nuove potenzialità. E’ un autentico salto culturale che richiede coinvolgimenti personali (le aree interne sono anche dentro di noi, sostiene Tantillo) e comunitari. E’ quanto cerca di perseguire un’esperienza, mirata ai giovani, che, parafrasando la “Unione dei Fenici(la Comunità di sette comuni della Sardegna centrale) si è chiamata “Unione dei felici”. L’aspetto che sta caratterizzando questa reazione viene però ancora dal passato, è l’eredità di un movimento di associazioni e di cooperative sorte già negli anni cinquanta/sessanta nell’ambito di programmi finanziati da una organizzazione europea preposta alla distribuzione dei fondi del Programma Marshall. Questo movimento (la cui prima esperienza è stata la nascita di una cooperativa di allevamento pulcini!) ha rappresentato per decenni una preziosa forma di sostegno sociale diffuso in un contesto socio-economico, quello dell’agro-pastorale, ormai condannato all’arretratezza. Nel suo ambito, a partire dagli anni Ottanta, è stato poi promosso un progetto pilota di “ospitalità diffusa(una modalità ricettiva poi evoluta nel “bed and breakfast” e nell’agriturismo) che, raccogliendo l’attenzione di un turismo di élite, ha rappresentato il volano per un cambiamento culturale, di apertura verso il mondo capace di superare le ataviche diffidenze verso il nuovo, verso il “di fuori”. La rete cooperativa, l’apertura culturale, l’intesa sempre più estesa e profonda con chi “viene da fuori” (è riduttivo chiamare turisti le tante persone che si sono insediate in queste zone avviando attività imprenditoriali specie in campo turistico e culturale), sono diventate le basi sulle quali poggia, negli ultimi due decenni, un processo di graduale, per quanto limitato, sviluppo economico. E’ ancora poco, troppo poco, per essere una risposta adeguata a supplire a tutte le ricadute derivanti dall’abbandono delle tradizionali attività agricole e pastorali (i cui effetti sul territorio, oltretutto, si fanno pesantemente sentire come nel disastroso incendio del 2021). Ma allo stato attuale rappresenta per questa area della Sardegna ai margini del turismo di mare e delle attività economiche delle città costiere l’unica alternativa alle logiche statali e regionali ancora e sempre basate sulla costruzione di strutture ed infrastrutture (messe a disposizione del nulla) e su finanziamenti straordinari (che si disperdono in sterili rivoli assistenziali e clientelari).

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La lezione che sembra emergere dal viaggio in queste sette aree, e nei loro rispettivi colori, è proprio questa: al disordinato e mal governato sviluppo del secondo dopoguerra, che ha lasciato ai margini vaste aree del paese, creando così spopolamento, degrado ambientale, emarginazione, si è sin qui pensato di porre rimedio ribaltando su di esse, con disordinate e strumentali politiche di sostegno e rilancio, i meccanismi che sembravano aver funzionato altrove. In questa fase, in cui quel modello di sviluppo sta invece dimostrando tutti i suoi limiti e tutte le sue contraddizioni, è proprio dalle trascurate aree interne, e dai per quanto timidi processi di uscita dall’emarginazione autonomamente messi in moto, che emerge la preziosa indicazione che sono altri i valori e le potenzialità su cui puntare. Cultura, legami comunitari, mestieri e attività tradizionali riadeguati al presente, amore e cura del territorio, servizi alle persone, apertura al mondo, possono, se ben interpretati e assecondati, valere molto di più delle solite strutture, infrastrutture, finanziamenti a pioggia, calati senza adeguate visioni.



 

 

 


domenica 4 febbraio 2024

Video della conferenza del 30 Gennaio 2024 - relatore prof. Paolo Portinaro

 

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della partecipata conferenza (oltretutto ingentilita dalle apprezzate esibizioni pianistiche di allievi del  Centro Studi di Didattica Musicale Roberto Goitre di Avigliana) tenuta, in data 30 Gennaio 2024, presso l’auditorium D. Bertotto, dal prof. Pier Paolo Portinaro (docente di Filosofia Politica presso l'Università di Torino) con titolo:

“Quanta Liberta e quale Realtà”

Per accedere al video Cliccare qui

giovedì 1 febbraio 2024

La Parola del mese - Febbraio 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

Febbraio 2024

E’ una parola che, pur arrivando da lontano dalla classicità greca e romana, si collega ad una tematica più volte presente nel nostro attuale riflettere sull’urgenza di una svolta radicale nel rapporto fra l’uomo e la Terra. Ancora recentemente, nel “Saggio del mese” dello scorso Dicembre, Umberto Galimberti evidenziava la svolta intervenuta nel pensiero filosofico greco con Platone: mentre i suoi predecessori, le varie scuole presocratiche, vedevano l’uomo profondamente connesso alla physis, alla natura, la sua concezione lo colloca invece al di fuori come soggetto esterno. Già Heidegger, a cui Galimberti chiaramente si ispira, aveva individuato in questa svolta la nascita dell’attitudine umana, perfezionata poi dal metodo scientifico e dalla tecnica, a considerare la physis un oggetto conoscibile, disponibile, utilizzabile, cancellando così ogni possibile identificazione. Come vedremo, percorrendo il libro che con titolo omonimo l’ha ispirata, questa parola del mese si collega strettamente a questo aspetto mettendo ancor più in luce la sua fallacia.

METAMORFOSI

 (dal vocabolario on line Treccani) metamòrfoṡi, sostantivo femminile derivato dal verbo  greco classico “metamorphò(trasformare) composto da “meta(oltre) e “morphé(forma) = trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro di natura diversa, in senso estensivo e figurato cambiamento, modificazione in genere, nell’aspetto, nel carattere, nella condotta, nell’atteggiamento morale o spirituale

Il libro in questione è

ed il suo autore è Emanuele Coccia


(1976, filosofo italiano, professore presso l'École des hautes études en sciences sociales dal 2011, noto per la sua metafisica vegetale, è nome sempre più di peso nel dibattito internazionale, autore di diversi saggi fra cui: “La vita sensibile”, “Il bene nelle cose”, “La vita delle piante. Una metafisica della mescolanza”)

Coccia già nel sottotitolo esplicita l’assunto (che riassume aspetti filosofici, ma anche biologici, fisici, chimici) alla base della sua idea di metamorfosi: siamo un’unica, sola vita, intendendo con ciò un’idea di per sé molto semplice: la vita di tutte le specie è una, e una sola. Fin dal suo comparire questa vita si muove, si sposta, soprattutto si trasforma, è cioè soggetta a continua metamorfosi, ma sempre resta quella che per la prima volta è comparsa seppure in forme primitive. Non è semplice per tutti noi, così concentrati sulla nostra personale vita, appropriarci davvero di questa verità “cosmica”, accettare cioè che anche il nostro individuale essere altro non è che una forma particolare assunta dall’incessante scorrere metamorfico della vita “una”. Neppure la svolta impressa da Darwin con la sua rivoluzionaria concezione dell’evoluzione, con la quale già rendeva traballante l’idea umana di essere una forma di vita “a sé stante, e superiore”, è riuscita a fare breccia in questa, per quanto comprensibile, convinzione. La constatazione oggettiva che tutte le forme di vita sono fra di loro connesse in un continuo procedere metamorfico ed evoluzionistico significa, a ben vedere, qualcosa di più della sola ricostruzione fisiologica del loro passare da uno stadio all’altro, l’intuizione darwiniana trascina con sé la cosciente accettazione del fatto che l’identità di ogni specie è puramente relativa, che ogni specifica identità è determinata dalla continuità metamorfica con le altre specie. Non solo, allo stesso modo emerge con evidenza che non esiste neppure contrapposizione tra il “vivente” e il “non vivente”, quella che intendiamo come “vita” in effetti a sua volta altro non è che l’eterna mutazione, e combinazione, dei mattoncini di “non vivente”, che emersi dalla nascita dell’Universo, e dopo aver formato la chimica di base della Terra (Gaia), compongono ogni forma “vivente”. Questo rivoluzionario modo di intendere la vita, se pienamente compreso, non solo dovrebbe liberare il campo da ogni teleologia (la concezione filosofica secondo la quale l'universo, con tutto ciò che comprende, sia orientato da una finalità, decisa da una volontà divina o provvidenziale piuttosto che da un principio attivo connesso al suo stesso divenire), ma anche e soprattutto sostenere la consapevolezza che tutte le forme di vita, nessuna esclusa, hanno titolo a godere della stessa importanza, dello stesso valore: la metamorfosi è il principio di equivalenza tra tutte le nature, il processo reale che produce tale equivalenza, rispetto alla quale nessuna forma di vita, uomo compreso, può vantare un privilegiato differenziarsi. Se questo vale allora la metamorfosi possiede una duplice evidenza: ogni essere vivente possiede in sé una pluralità di forme, al contempo ereditate e trasmissibili, e al tempo stesso,  proprio per questa ragione, ciascuna di esse non esiste in maniera autonoma, separata. E’ questa la convinzione filosofica - per certi aspetti di per sé non così sorprendente, eppure costantemente ignorata e sottovalutata nel procedere storico del pensiero umano - che muove il saggio di Coccia e dalla quale prende le mosse per condurci in viaggio nelle varie fasi del vivere metamorfico esplorandole in successione. Ci limitiamo, costretti dalle abituali  dimensioni di un post, a riprendere l’essenza del suo riflettere su: nascite – bozzoli – reincarnazioni – migrazioni – associazioni.

Nascite

L’atto del nascere, del “venire al mondo”, comune a tutte le forme di vita, dai batteri agli esseri più complessi, è al tempo stesso il processo più individuale e la conferma più evidente della continuità metamorfica. Nascere, per l’essenza ultima comune a tutte le sue modalità, significa infatti l’impossibilità di separare ogni distinta individualità dalla storia naturale che l’ha preceduta e dalla predisposizione a consegnarsi a quella che la seguirà. In qualunque forma si manifesti la nascita avviene sempre in un corpo altro, ed è esattamente questo che in ultima istanza chiamiamo “natura”, nascere in effetti altro non è che una riconfigurazione naturale, e metamorfica, di qualcos’altro che “c’era prima”. La cui materia, che sempre resta quella originaria del comparire della vita, viene redistribuita diversamente in una nuova forma a sé, a testimoniare il completamento di una metamorfosi che istituisce una sorta di gemellarità cosmica con tutte le altre forme viventi, va da sé a partire innanzitutto da quella che l’ha avviata e contenuta. Se sono cioè gemelli gli esseri che hanno condiviso lo stesso guscio natale, lo sono, per ragioni di contiguità, anche tutti gli esseri che appartengono alla stessa specie, ma non di meno sono gemelle anche tutte le specie che nascendo duplicano incessantemente la comune matrice naturale. Al tempo stesso però ogni nascita costituisce un singolo anello della molteplicità che costantemente, di vita in vita, testimonia la continuità evolutiva della trasformazione delle sue forme. La pluralità degli esseri viventi rappresenta cioè il moltiplicarsi della vita che resta però la stessa per tutti, per la semplice ragione che se così non fosse non sarebbero possibili né la nascita né l’evoluzione. L’intreccio che in ogni nascita avviene tra molteplicità e continuità racconta quindi una vita che, restando sempre la stessa, è una versione più recente, più aggiornata, di quella l’ha preceduta e resa possibile. In questo modo il passato non si manifesta unicamente come memoria vitale perché, a sua volta, viene riorganizzato, ricostituito arbitrariamente, trasfigurato, metamorfizzato. Vale a dire che è proprio nell’atto del nascere che prende corpo una nuova  versione della lunga catena evolutiva che, iniziata con i primordiali atomi, ha via via segnato il formarsi metamorfico del vivere. In questo quadro esistenziale nascere non significa solo far parte del mondo, ma anche essere una sorta di specchio che accoglie in sé il mondo stesso, la natura stessa. Questa evidente verità spiega anche il fatto che ogni essere senziente, compreso l’uomo con la sua vantata coscienza di sé, sia dimentico della sua nascita. Non può che essere così: ogni nuova vita è una nuova casa della natura, che per plasmarsi in modo diverso deve essere costruita sulla base della memoria di tutto ciò che è stato prima, ma al tempo stesso essa deve essere dimentica di tutto ciò per permettere al nuovo di essere tale. E’ in questa dimenticanza che risiede l’essenza della metamorfosi.

Bozzoli

La difficile comprensione ed accettazione delle metamorfosi, del continuo mutare che investe il mondo tutto, ha una sua spiegazione: il cambiamento mette a disagio. Per quanto a parole si esaltino trasformazioni, progresso e sviluppo, ogni cambiamento reale, prima di essere progressivamente assimilato, viene sempre vissuto con timore e sospetto. Sono sostanzialmente due le modalità di trasformazione contemplate dal pensiero umano: la conversione e la rivoluzione, ma la metamorfosì non è né l’una né l’altra. La conversione descrive la trasformazione di un soggetto nell’ambito della quale ”convertirsi a…” è il frutto di un suo percorso interiore che si completa grazie ad una cosciente padronanza di sé. La metamorfosi, al contrario, non è un atto di volontà cosciente e personale, è una forza antica, esterna al soggetto, che opera in piena autonomia. La rivoluzione, intesa in senso lato, indica invece il cambiamento, radicale, del contesto in cui il soggetto vive. Nella storia dell’uomo si è da sempre accompagnata a trasformazioni della “tecnica” o della “politica”, ma, in entrambe queste modalità, la rivoluzione sempre e comunque esprime la pulsione narcisistica a governare il mondo intorno di chi le ha promosse. Lo fa la tecnica che, come strumento di proiezione perfezionata e potenziata degli organi anatomici, consente un più completo controllo ed utilizzo della natura, lo fa la rivoluzione come esaltazione della volontà di cambiamento sociale, politico e culturale. E quindi ambedue altro non sono che una forma della volontà umana, individuale e collettiva. La metamorfosi indica invece un processo di mutazione slegato dal soggetto, dalla sua volontà e dalla sua comprensione, nel quale esso è ridotto ad uno stadio di “bozzolo”. Questa strana e passeggera forma di vita chiama in causa il mondo degli insetti, autentici maestri di metamorfosi, per i quali infatti ogni crescita si associa ad una modifica della loro forma. Se non è certo proponibile un parallelo fisiologico  tra uomo e insetti è però rintracciabile un ammonimento allegorico in questa loro capacità metamorfica: come gli insetti devono spogliarsi del vecchio corpo per passare ad un nuovo modo di vivere (in una successione di fasi che hanno una loro logica: il primo organismo è dedito alla nutrizione, alla crescita, il corpo nuovo è finalizzato all’avvenire della specie tramite la riproduzione) così l’uomo, se e quando orientato ad un cambiamento, deve ugualmente spogliarsi del vecchio modo di vivere per poterne adottare uno nuovo. E d’altronde come non cogliere l’evidenza che ogni crescita, quella dell’uomo compresa, verso una forma adulta, e poi anziana, sancisce una identica metamorfosi del corpo connaturata alla nuova condizione di vita. Non di meno si può constatare che tutte le metamorfosi biologiche mantengono, grazie alla loro continuità organica, la proprietà dei corpi di non troncare mai il rapporto con la loro infanzia. Così come sostenuto da biologi e botanici gioventù e vecchiaia sono in effetti stadi di ogni vita che comunque restano fra di loro connessi seppure alternandosi in differenti sfasature temporali. Sono una lenta e graduale metamorfosi di un’unica forma di vita. Con un salto logico, neppure così tanto azzardato, può rientrare in queste considerazioni persino il ruolo della “tecnica”, se considerata in quella che è la sua ultima vera essenza: l’essere un accorgimento per superare insufficienze biologiche. Tecniche fisiologiche, come il bozzolo, adottate da specie animali e vegetali (l’elenco esemplificativo è davvero lungo) a ben vedere non sono nella loro sostanza così diverse da quelle artificiali usate dall’uomo per andare oltre le potenzialità concesse dalla sua fisiologia di muoversi nell’ambiente. Ogni tecnica, fisiologica o artificiale che sia, è quindi una sorta di procedura di ringiovanimento, un rifornimento di potenza giovanile. Non è allora così azzardato affermare che ogni oggetto tecnico (ad esempio arnesi, strumenti, macchinari, dispositivi, e persino un libro) è, come il bozzolo, una metamorfosi del corpo, una modifica della sua identità naturale.

In questo senso anche le trasformazioni metamorfiche del mondo vegetale rispondono ad una identica finalità, con un di più non poco rilevante: nelle piante la successione di fiori, frutti, foglie, modifica al tempo stesso il loro corpo e al contempo la loro relazione con l’ambiente esterno e con le altre forme di vita

Il bozzolo non è solo il paradigma della maestria metamorfica della tecnica, esso indica soprattutto una modalità dell’ “essere al mondo”. E’ cioè la dimostrazione vivente che la metamorfosi rappresenta il rapporto con sé stesso che un organismo matura nell’ambiente in cui vive, testimonia cioè la pulsione alla sopravvivenza ed all’evoluzione, che ogni essere vivente concretizza disfacendo e ricostruendo il proprio corpo, i propri geni. Nella originaria ed unica metamorfosi della Terra i bozzoli sono ovunque, raccontano tutto ciò che è vita: il mondo è un bozzolo fatto di bozzoli.

Reincarnazioni

E’ forse per un inconsapevole senso di colpa (al contrario reso esplicito in alcune culture animistiche) verso chi e cosa riduciamo a cibo che consideriamo la nutrizione un semplice scambio di energia, ma così facendo non prestiamo adeguata attenzione a due aspetti fondamentali dell’alimentazione. Il primo: in quanto animali mangiare significa appropriarsi di altra vita, animale o vegetale che sia. La vita si nutre di vita, mangiare significa fondere due o più vite in una sola. Il cibo testimonia che ogni essere vivente serve di nutrimento per altre forme di vita (l’uomo stesso, quando muore, diventa banchetto per organismi), diventa cioè una sua, non voluta, trasformazione metamorfica in un ciclo vitale che non si chiude mai. A questo primo aspetto se ne collega un secondo: la nutrizione, salvo casi eccezionali e limitatissimi, coinvolge sempre esseri di specie diverse. Anche questo aspetto è prova dell’unità vitale della Terra, la vita si nutre di vita indipendentemente dalla forma che ha. Ne consegue inoltre, a rafforzare questa unità vitale, che nessuna specie può limitarsi a sé stessa, la sua sopravvivenza, e quella che a sua volta può garantire ad altri, dipende dalle altre forme di vita. La nutrizione è una ulteriore prova della provvisorietà e della limitatezza delle forme che la vita ha evoluzionisticamente assunto. Vale a dire che mangiare, o essere mangiati, altro non è che una perenne metamorfosi. L’alimentazione, così intesa, è inoltre la prova che la morte non può essere pensata come il contrario della vita proprio perché altro non è che il passaggio dell’unica vita da una forma all’altra. Ogni morte è la continuazione della vita sotto altre sembianze. E’ però questa una considerazione “indigesta” per l’animale uomo, la presunzione umana di rappresentare una forma di vita diversa perché superiore a tutte le altre sembra rappresentare un ostacolo insormontabile. L’idea di essere a nostra volta “cibo” ci appare inaccettabile, suscita un rifiuto, la percepiamo come un’ingiustizia “morale. La negazione istintiva dell’uomo occidentale ad accettare di essere parte, una delle parti, dell’unica metamorfosi vitale si spiega in buona misura con la sua convinzione di essere, pur vivendo in modo pieno la vita attraverso il suo corpo, fatto “di materia mentale”, di essere l’unica forma di vita a disporre di tale prerogativa.

anche per questo atteggiamento esiste una diversità di concezioni in altre culture giudicate dall’Occidente “primitive”. Basti pensare che molti popoli non occidentali deliberatamente espongono i cadaveri dei propri morti al pasto degli animali selvaggi

Sicuramente incide poi uno dei dogmi fondanti la religione cristiana, quello della “resurrezione dei corpi”, che ha sicuramente contribuito a rafforzare questa convinzione. In effetti, secondo alcuni antropologi a partire da Claude Lévi Strauss, il mito della resurrezione, che in quanto tale negherebbe la metamorfosi del corpo dopo la sua morte (dimenticando così che il cadavere brulica di vita per quanto diversa), rappresenta una evoluzione di un altro mito, molto più antico, quello della “reincarnazione”. In questo mito ogni vita non resta imprigionata nei limiti del corpo che la ospita, ma si trasmette ad altri corpi in una eterna catena di trasformazioni che, coinvolgendo ogni forma vivente, è a tutti gli effetti l’eterna metamorfosi della vita terrestre.

Alla base del rifiuto della trasformazione dei corpi morti si pone una stretta correlazione tra l’idea dell’uomo fatto di materia pensante e quella della separazione fra corpo e anima/spirito, questa separazione nel mito delle resurrezione resta tale anche dopo la morte del corpo che, considerato l’unico possessore della propria anima/spirito, ad essa si ricongiungerà nella resurrezione. Non mancano peraltro nella cultura occidentale convinzioni che sembrano smentire questa idea, basti pensare alla celebrazione dello “spirito dei nostri avi che abita in noi”

E’ la stessa moderna scienza della “genetica” che avvalora l’idea della costante metamorfosi, attraverso reincarnazione, di ogni forma di vita. Ma, se ogni vivente è un’immensa impresa di riciclaggio delle vite che l’hanno preceduta, non è meno vero che nessuna reincarnazione è un semplice trasferimento delle vite precedenti. I geni che da queste sono trasmigrati nella nuova vita non sono informazioni immutabili, ma veri e propri “scrittori” che continuamente riscrivono le informazioni ricevute in essi stessi incorporate. La metamorfosi genetica è in effetti una incessante opera di riscrittura

Migrazioni

L’incessante procedere metamorfico della vita sulla Terra ha, per sua stessa definizione, carattere planetario, il continuo passaggio dell’iniziale soffio di vita da un essere ad un altro non cambia solo forma, ma è per sua natura portato in aggiunta a occupare sempre posti nuovi. Ogni forma di vita è a tutti gli effetti una sorta di “Arca di Noè”, un veicolo che contiene molte altre forme di vita e che trasporta, con sé stesso, l’intero pianeta. La metamorfosi al tempo stesso abita l’intero pianeta Terra, è cioè “planetaria”, ed è, nei vari esseri che ne sono coinvolti, a sua volta pianeta di altre forme di vita. Essere nel mondo significa trasportare altro oltre sé stessi e al contempo essere trasportati da altri. Ed ogni Arca vivente non può abitare lo stesso posto troppo a lungo, è per natura portata a viaggiare, a spostarsi incessantemente, a (tras)migrare di continuo. Lo scorrere metamorfico della vita terrestre è per definizione un viaggio inarrestabile che supera ogni spazio e travalica ogni tempo. Come si è appena detto infatti ogni gene contiene vita antica, proveniente da chissà dove, e scrive vita nuova destinata ad andare altrove. Eppure, contraddizione metamorfica, ogni essere è istintivamente portato a “cercare casa”, uno spazio ben definito nel quale trascorrere il proprio tempo. Si tratta della propensione, per molti versi comprensibile, ad una sicurezza identitaria che sembra però confliggere con l’essere “arca”. Se quest’ultima esclude di per sé stessa l’idea di confini, la casa è l’archetipo del confine, non a caso è pensata e fatta di muri che fissano i limiti di uno spazio in cui la nostra identità è naturalmente nel suo posto. Su questa contradditoria negazione dell’arca poggia la stessa moderna concezione di “ecologia”, lo evidenzia la sua etimologia: “eco” deriva dal greco “oikos” che significa “casa(da qui, ad esempio, “economia”, l’amministrazione della casa, o “ecofobia”, la paura di restare soli in casa) e da "logos" altro termine greco che indica lo studiare”. Il termine ecologia nasce infatti a fine Ottocento in Europa per indicare l’insieme di discipline utili per studiare le interazioni tra gli organismi viventi che abitano lo stesso ambiente, che hanno la stessa casa, ed è ai giorni nostri utilizzato anche per definire la ricerca di un equilibrio fra l’uomo e l’ambiente circostante. Nel perseguire questa finalità, va da sé nobile e indispensabile, ha però immaginato questa interrelazione come un insieme di case, ognuna abitata da una specifica forma di vita, che formano un agglomerato attorno alla casa di gran lunga più vistosa e importante, quella dell’uomo. L’ecologia, così impostata, si è di fatto strutturata come una sorta di agenzia immobiliare della natura, all’interno della quale ogni componente naturale, fotografata in una posa immobile, trova un suo spazio purchè compatibile con la presenza, e con le esigenze per quanto attente e misurate, dell’uomo.

Emanuele Coccia dedica al tema di quello che ritiene essere il significato ultimo di “ecologia” alcune intense pagine qui non sintetizzate sia per la loro complessità sia per la non immediata correlazione con “metamorfosi”. Ci limitiamo a puntualizzare che, a suo avviso, “ecologia”, al di là del significato di mobilitazione per le tematiche ambientali, rappresenta in effetti una visione antropocentrica della natura nella quale tutto il non umano viene ancora e sempre valutato in relazione all’azione umana, ed in particolare alle sue attività economiche

Anche questa visione si rivela però incompatibile con il ruolo insopprimibile dell’eterna metamorfosi della vita del pianeta Terra, non è infatti possibile stabilizzare in un quadro onnicomprensivo un vivente in continua trasformazione, di forme e di collocazione. Nel costante processo metamorfico tutti gli esseri, uomo compreso, mutano forma, si spostano, stabiliscono nuove relazioni fra di loro, rendendo così impossibile fissare per sempre un equilibrio in un contesto per sua natura instabile e provvisorio. L’incompatibilità fra metamorfosi e ecologia, se così intesa, sancisce quindi l’illusorietà di una visione ecologica che, oltre a mantenere al suo centro l’uomo, è strutturalmente inconciliabile con il vero scorrere della vita terrestre.

Associazioni

Anche l’idea di ecosistema, direttamente connessa con quella di ecologia, non regge ad una corretta visione metamorfica. I confini che l’uomo attribuisce ad un ecosistema di fatto sono inesistenti, la vita sulla Terra è un insieme di spazi in continuo rimescolamento in cui la forme di vita si associano provvisoriamente in relazione al loro stato provvisorio. Nessun confine, per quanto elasticamente concepito, può restare stabile in questa costante trasformazione. Meno che mai quelli che includono la dimensione umana della città, una dimensione che non ha nulla di naturale perché è in effetti un luogo fatto di pietre, di minerali, è tecnicamente un deserto, un ambiente estremo nel quale l’associazione interspecifica tra le varie forme di vita, quella che è determinata dall’evoluzione metamorfica e che su di essa quindi si fonda, è stata sostituita da una associazione, forzata, che condiziona la naturale metamorfosi del vivente sottoponendola a quella di un’unica specie, quella dell’uomo. Soprattutto nelle città (la dimensione di vita che a partire dalla Rivoluzione Agricola ha progressivamente invaso il mondo diventando quella prevalente soprattutto nella recente declinazione delle “megalopoli”), ma non solo, non si coglie più l’evidenza che, in un mondo metamorfico, vivere significa stare in spazi occupati anche da altri con i quali inevitabilmente occorre negoziare una condivisibile associazione. Il primo elemento che dovrebbe essere equamente condiviso è quello dell’aria, del respiro. L’aria che respiriamo è infatti una straordinaria prova di associazione interspecifica, è noto che l’esplosione della vita sulla Terra è stata resa possibile dall’ossigeno prodotto dalla fotosintesi vegetale, il mondo zoologico è in effetti un sottoprodotto del metabolismo delle piante, tutte le specie viventi sono cioè un effetto collaterale della loro esistenza. La presuntuosa umanità è venuta al mondo su una Terra che era già stata plasmata, a partire dalle piante, da molte altre specie, e questo significa che quello che viene comunemente definito “spazio naturale” non è per nulla “naturale”, ma è uno spazio creato e strutturato da qualcosa/qualcuno preesistente, o meglio ancora dalla metamorfosi di vite precedenti. Il mondo, la natura, nel loro complesso, sono pertanto il risultato di una realtà puramente relazionale in cui ogni specie contribuisce a definire il comune territorio ecologico associativo: ogni essere è al tempo stesso il giardino ed il giardiniere, più o meno consapevole, di altre specie. Il culmine di questa articolata e complessa  associazione, che ha contribuito a tutta l’evoluzione della vita terrestre, si manifesta allora come il risultato progressivamente voluto da una sorta di intelligenza cosmica che altro non è che la metamorfosi del mondo

Conclusioni

Coccia chiude questo suo saggio citando il pensatore ambientalista amazzonico Ailton Krenak che spesso ripete che “la vita non è intorno a noi, ma ci attraversa dall’interno e dall’esterno”, tutto il vivente è soltanto il flusso continuo di un’unica infinita metamorfosi. Accettare questa verità impone come logica conseguenza comprendere che le relazioni tra tutti gli esseri viventi sono una “forma culturale di parentela” che va costantemente rinegoziata e rinsaldata nel reciproco rispetto. In particolare corre l’obbligo per l’uomo di abbandonare ogni forma di antropocentrismo, l’auto-collocarsi al centro del mondo, ed il collegato antropomorfismo, ovvero la tendenza a proiettare nelle altre specie  attitudini e modi di vivere che sono solo umane. Comprendere che la vita terrestre altro non è che il, sempre provvisorio, risultato di una continua metamorfosi, che pienamente racchiude lo stesso uomo, fa leggere in modo diverso il passato, indirizza diversamente il presente, e proietta costantemente il vivere verso il futuro, a non avere cioè paura di morire. Le ultime tre frasi del saggio così sintetizzano questa nuova consapevolezza: Noi siamo il futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso