domenica 12 settembre 2021

Il "Saggio" del mese - Settembre 2021

 

Il “Saggio” del mese

 Settembre 2021

La pandemia Covid19 sta sommergendo di debito il mondo intero: alla fine del 2020 il debito pubblico mondiale è stato superiore al PIL globale più di quanto non lo fosse stato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Certo non tutti i paesi affrontano la stessa situazione e purtroppo per noi il debito pubblico italiano, assieme a quello di Stati Uniti, Giappone e Grecia, è fra i più alti del mondo ed è arrivato a metà 2021, proprio per la mole di interventi in deficit varati per affrontare l’emergenza pandemica e le collegate restrizioni, alla impressionante percentuale del 160% del PIL italiano. Vale a dire che, se mai fossimo chiamati seduta stante a ripianarlo, servirebbe tutta la ricchezza nazionale producibile in un anno e mezzo. Per qualunque scenario si possa ipotizzare da qui in poi, anche il più ottimistico piuttosto che il più orientato ad un diverso e sostenibile modello di sviluppo, il cosiddetto “macigno” del debito pubblico, e relativi interessi, incide pertanto in modo determinante. Come sarà evidenziato nel “Saggio” scelto per questo mese la storia del debito pubblico è, per definizione, strettamente legata al “potere politico”, all’ “uso politico” che di esso hanno fatto, e fanno, le istituzioni politiche valutandolo uno strumento essenziale per “costruire un’idea di paese”, aspetto nobile, ma anche per l’ottenimento di consensi istituzionali, e “partitici”, aspetto un poco meno nobile. Le teorie economiche sono divise al riguardo, si può senz’altro affermare che non esiste un’unica concezione “virtuosa” del debito pubblico, la cui entità e le cui articolazioni possono legittimamente variare, anche in misura significativa, in relazione agli specifici contesti storici. Questo aspetto rende problematica, se non impossibile, una determinazione puramente matematica di un suo “livello giusto”, questa “giustezza”, e sostenibilità, devono infatti essere relazionate alle condizioni storiche, alle finalità della sua creazione e utilizzo, alle modalità della sua onorabilità, allo stato di salute generale del paese che lo detiene, ed alla sua rete di relazioni internazionali. Il “Saggio” di questo mese ricostruisce su queste basi la “storia del debito pubblico italiano” cercando di fornire elementi per capire le logiche, e le collegate modalità, che lo hanno determinato e governato nelle diverse. Lo presentiamo, ben consapevoli dello scarso “fascino” e della complessità “tecnica” del tema, con lo scopo di consentire a tutti noi, comuni contribuenti, di orientarci un poco meglio in un dibattito che, ci piaccia o no, stante quel 160%, sarà inevitabilmente sempre più centrale, soprattutto per le generazioni future.



Leonida Tedoldi: docente universitario di Storia delle Istituzioni Politiche presso l’Università di Verona


Alessandro Volpi: docente universitario di Scienze Politiche presso l’Università di Pisa, impegnato in politica, Sindaco di Massa dal 2013 al 2018 per il PD

N.B. = Il saggio di Tedoldi e Volpi è una ricostruzione molto articolata delle politiche economiche e finanziarie italiane che hanno inciso sul debito pubblico qui purtroppo non riassumibili. In questa sintesi, già così comunque non poco estesa, ci limitiamo infatti a recuperare le linee generali di evoluzione accompagnate (in appositi quadri) da alcune considerazioni di fondo che si sperano utili come valutazione generale sul ruolo del debito pubblico.  


 Il seguente grafico consente una preliminare visione storica  

Prima di entrare nella sintesi vera e propria sono ancora opportuni alcuni chiarimenti tecnico/terminologici:

- per debito pubblico si intende l’insieme dei debiti contratti da uno Stato, attraverso strumenti finanziari di diverso tipo e coinvolgendo agenti economici di differente natura

- per deficit pubblico si intende un risultato negativo del bilancio statale che si può verificare in un esercizio finanziario (un anno finanziario) quando le spese sostenute sono superiori alle entrate ottenute. Può essere “di competenza”, quando riguarda le spese e le entrate autorizzate, oppure di “cassa” quando si riferisce alle entrate/uscite effettivamente avvenute.

Per entrambi, debito e deficit, al di là del loro valore nominale è molto importante la relazione in percentuale sul PIL (Prodotto Interno Lordo) ovvero la ricchezza reale prodotta da un paese

Capitolo I

Dal “gran libro” alla prima crisi, 1861-1887

Il neonato Stato italiano deve da subito confrontarsi con la presenza di un significativo debito pubblico, aspetto in qualche modo sorprendente per una realtà nazionale appena nata e quindi temporalmente impossibilità a “creare debito”. Il fatto è che nel bilancio del nuovo Stato italiano non potevano non confluire tutti i singoli debiti i in capo ai precedenti stati e staterelli, Stato Sabaudo in primis, quasi totalmente posseduti da istituti bancari privati esteri, Rothschild in testa. Ogni alternativa è preclusa dalle casse vuote del neonato Stato, da un tessuto sociale ed economico ancora in formazione, e quindi privo di adeguate concentrazioni finanziarie, e dalla stessa fragilità della costruzione unitaria. Per mettere ordine in una situazione quanto mai confusa viene già nel 1861 istituito il …… Gran Libro del debito pubblico …. i cui due terzi sono per l’appunto in mani straniere a formare una situazione che  resterà sostanzialmente identica per tutto il primo ventennio, nonostante l’azione di messa in ordine dei conti di Quintino Sella e Marco Minghetti. Con questi rapporti di forza, i tassi di interesse sul debito sono tutt’altro che favorevoli, la loro incidenza sulla spesa statale complessiva, da un iniziale 15%, si mantiene infatti fino alla fine degli anni Settanta attorno al 30% riducendo in modo determinante la sua utilizzabilità per politiche economiche attive. Gli interventi  di contrasto a questa situazione dei governi della Destra storica si basano sui tre strumenti “classici”: riduzione della spesa pubblicaincremento del carico fiscale emissione di moneta, tutti però destinati ad avere un impatto molto limitato per la rigidità della spesa pubblica, quasi tutta destinata a coprire spese militari e di funzionamento dello Stato, per il livello ancora bassissimo della ricchezza prodotta, per la totale mancanza di un catasto della ricchezza fondiaria, e per il disordine e l’arretratezza del sistema bancario italiano, ancora assente una vera Banca centrale. Poco aiuta anche lo strumento della vendita di beni pubblici, in gran parte costituita da quelli ecclesiastici espropriati, stante un mercato immobiliare ancora asfittico. Va però riconosciuto ai governi della Destra Storica, in carica fino al 1876, di accompagnare questa crescita - dal 40% del 1861 si passa al 100% del 1876 sul PIL  vedi grafico – per molti versi inevitabile e sempre vissuta come un fattore di debolezza da superare, con una rigorosa attenzione al pareggio di bilancio statale. Grazie a duri provvedimenti fiscali quali la tassa sul macinato e all’adozione del famoso “corso forzoso” (la non convertibilità della moneta cartacea in quella metallica, oro e argento) il bilancio delle spese correnti registra uno stabile avanzo con entrate mediamente pari al 107% delle spese. Questa stabilità finanziaria ed il mutamento del quadro delle relazioni internazionali favoriscono il successo della Sinistra liberale che avvia un primo cambio di passo nella gestione del debito pubblico che, pur continuando a salire ma con tassi di interesse più gestibili, a partire dagli anni Ottanta viene virtuosamente destinato ad importanti investimenti in conto capitale quali la  costruzione della rete ferroviaria ed il potenziamento degli scali marittimi

Sono già individuabili  alcuni aspetti utili per una valutazione del “debito pubblico” come “fattore economico”. Le alterne vicende di questo primo periodo evidenziano infatti che gli strumenti tecnici per “governarlo” - riduzione della spesa pubblica, incremento del carico fiscale emissione di moneta, non possono da soli essere risolutivi. Fra debito pubblico e corso complessivo dell’economia intercorre infatti una inscindibile relazione di reciproca influenza tale da chiamare in causa l’idea generale del paese, della sua economia, del suo assetto sociale e rende così fondamentale il rapporto fra debito e sue finalità e destinazioni

Capitolo II

La trasformazione, 1888-1918

Ed è attorno a questa relazione che si concretizzano alcuni rilevanti novità nel periodo 1888-1918. Gli anni Novanta dell'Ottocento vedono un pesante rallentamento del PIL di circa il 15% (guerra doganale con la Francia, crisi agricola e del settore siderurgico, tempeste finanziarie sono le cause principali). Una contrazione che pone in seria crisi l’ancora fragile sistema bancario italiano (il caso più emblematico è il famoso scandalo della Banca Romana del 1893) imponendo la definitiva accelerazione verso la creazione della “Banca d’Italia”, ossia la “banca delle banche”, titolata a divenire l’unico istituto titolato ad emettere moneta e quindi ad avere un decisivo “ruolo tecnico, ma anche politico” nella gestione del debito pubblico. Questa nascita avviene in contemporanea con una grave crisi finanziaria mondiale, ed europea in particolare, che raffredda l’interesse estero verso i titoli del debito pubblico italiano. Inizia così, gioco forza, a divenire più rilevante la quota detenuta dalle, ormai più solide, banche italiane in buona misura attraverso l’acquisto, caldamente sollecitato, dei “Buoni (ordinari) del Tesoro”, uno strumento più agile dei prestiti a lunga scadenza destinato progressivamente ad avere un ruolo centrale nella struttura del debito pubblico italiano. Questa diversa articolazione del debito si associa, a cavallo del Novecento, con la prima vera esplosione del PIL italiano (cresciuto del 2,5% nel periodo 1885-1897, conosce nel successivo 1897-1913 un balzo del 58%) grazie al progredire di una industrializzazione finalmente di una certa rilevanza. La ricaduta sull’asfittico bilancio di Stato è da subito importante, in quelli che verranno definiti gli “anni giolittiani” si realizzano diversi saldi annuali decisamente positivi. Ed inoltre una quota significativa della nuova ricchezza si consolida in un elevato tasso di risparmio in gran misura investito in titoli statali. Il debito pubblico italiano è così sempre meno in mano straniere (dal 29,6% del 1896 al 13,5” del 1906, meno della metà in soli dieci anni) e, a dimostrazione della relazione di reciproca dipendenza fra debito e corso generale dell’economia, viene sempre più utilizzato per finanziare investimenti infrastrutturali di sostegno alla produzione (completata la rete ferroviaria e portuale, miglioramento della rete stradale) creando così un ciclo virtuoso con tassi di interesse sempre più bassi (la spesa statale per gli interessi sul debito pubblico passa dal 32,6% del 1901 al 12,6% del 1914). Questa situazione decisamente positiva non regge però l’urto dell’entrata in guerra nel 1915, i due trend favorevoli invertono radicalmente la marcia: le spese militari che crescono più del doppio fanno esplodere il debito pubblico (che sale dai 16 miliardi del 1914 ai 93 del 1921 mentre  entrate statali scendono del 48% nel 1915 e con percentuali attorno al 30% nel 1916-1917, mentre la spesa statale sale dal 14% del PIL nel 1915 al 33,7% nel 1916 ed al 37,6% nel 1917/1918) con una rilevante quota di nuovo in mani straniere

Capitolo III

Dalla fine della guerra alla “superlira”, 1919-1929

Nel tormentato dopoguerra italiano il ritorno ad un pesante indebitamento, unitamente al crollo della “Lira”, è uno dei fattori che di più contribuisce all’idea della “vittoria mutilata” e di più alimenta la retorica nazionalistica. Il complicato quadro politico del “biennio rosso” e del primo affacciarsi delle violenze fasciste impedisce l’adozione di provvedimenti politici tempestivi ed adeguati, in particolare, a differenza delle  altre nazioni europee coinvolte nel conflitto e non meno gravate da identici problemi,  manca il coraggio di un adeguato prelievo eccezionale sulla ricchezza privata. Il peso del debito resta così pesantemente stabile accentuando la relativa spesa per interessi che, con il permanere della stentata ripresa delle attività produttive, implica deficit annuali ed ulteriore indebitamento (l’unico strumento finanziario di un certo rilievo si concentra sulla emissione  di Buoni del Tesoro, che da un valore di circa 400 milioni nel 1915 crescono alla cifra monstre di più di 24 miliardi nel 1922) Il risultato è un rapporto tra debito pubblico e PIL pari al 160% (lo stesso rapporto percentuale raggiunto dal debito pubblico italiano a metà 2021, vedi Grafico). Congiuntamente alle turbolenze politiche questo quadro, con il collegato rischio di un default della lira, impone alle potenze straniere, USA ed Gran Bretagna in primis, di intervenire per impedire effetti analoghi a cascata. Il conforto di un sostegno finanziario internazionale ed il progressivo rafforzamento dell’esecutivo fascista, pagato con il tragico instaurarsi della dittatura, creano comunque le condizioni per un certo miglioramento di tutte le componenti economiche. Nel 1929 il rapporto debito pubblico e PIL è già sceso ad un sostenibile 60%, un risultato indubbiamente significativo ottenuto grazie a tre fattori: una consistente risalita del PIL dovuta al boom delle esportazioni facilitate dalla forte inflazione e dal bassissimo valore della lira – la risoluzione dei debiti di guerra, sostanzialmente cancellati grazie alla disponibilità americana ed inglese – la pacificazione sociale imposta con la forza dal fascismo accompagnata da una fase di euforia della Borsa. La definitiva piena affermazione della dittatura mussoliniana riaccende però, con il suo carico di retorica nazionalistica, motivi di tensione economica e finanziaria. Una Lira troppo debole sui mercati finanziari è un aspetto giudicato inaccettabile da Mussolini che impone come dato non trattabile e non modificabile un cambio Lira/Sterlina fissato a “quota novanta(una sterlina pari a novanta lire). Questa quota viene effettivamente mantenuta e persino migliorata, tanto da poter parlare di “superlira” a costo però di pesanti politiche interne di risparmio forzoso, “il risparmio patriottico”, e di contrazione della circolazione monetaria. Con l’effetto negativo di danneggiare le esportazioni italiane, fin lì aspetto decisivo per la crescita del PIL, frenate proprio dal valore forzatamente alto raggiunto dalla Lira.

Il rapporto tra debito e valuta (nazionale e non) rappresenta quindi un altro aspetto decisivo per la comprensione generale delle dinamiche evolutive del debito pubblico

Capitolo IV

Verso il trionfo dell’inflazione, 1930-1945

Le tensioni globali innescate dalla crisi del 1929, collegate alle svolte autoritarie europee, accentuano, non solo in Italia, la forte politicizzazione della gestione del debito pubblico. Un dato comune a tutte le economie occidentali nei primi anni Trenta, non a caso infatti si registra, dato mai più ripetuto, la coincidenza delle curve dell’andamento del debito pubblico italiana e delle altre nazioni europee. Il peso della demagogia nazionalistica fascista non tarda però a farsi sentire: il mito fascista della “superlira” abbinato a quello dell’Impero, con le sue scellerate guerre coloniali non solo frena le esportazioni, ma progressivamente isola politicamente ed economicamente l’Italia tenendo così lontani dai titoli italiani i capitali finanziari, quelli che per tutti gli anni Venti avevano sostenuto non poco il debito nazionale. La situazione peggiora e rende inevitabile un diretto intervento dello Stato fascista sia nel sistema produttivo che in quello finanziario. Sono perciò create e via via potenziate due istituzioni destinate a svolgere un ruolo centrale nella futura storia economica italiana: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, IRI, e la “Cassa depositi e prestiti” (per gestire il risparmio postale). Con esito peraltro non eccellente se lo stesso rapporto debito/PIL dal 60% del 1929 già nel 1935 all’88%. Le illusioni fasciste sulla Lira e l’isolamento economico impongono, obtorto collo, di spostare proprio sulla tenuta debito il residuo prestigio dell’infallibilità mussoliniana. Inizia pertanto un lungo periodo, accentuato dalle necessità del tragico impegno bellico, che durerà per tutti gli anni del secondo conflitto mondiale, segnato da confuse e contraddittorie politiche di emissioni, sempre più con carattere di obbligatorietà, di “titoli pubblici patriottici”, piuttosto che di “prestiti littori”, che dovranno però fare i conti con l’asfittico mercato finanziario italiano. Il rimedio di fatto praticato diventa quello di sostenere l’acquisto “incoraggiato” dei vari titoli dello Stato grazie alla concessione agevolata di finanziamenti con la crescente emissione di moneta da parte della Banca d’Italia. Un sorta di partita di giro che inevitabilmente si chiude in perdita. Crescono non a caso il disavanzo statale, la spesa per interessi, la massa monetaria circolante (passata dai 18 miliardi del 1935 ai 157 miliardi del 1942 per finire ai quasi 250 del 1944), la marea di titoli pubblici di fatto inesigibili al valore di emissione. La conseguenza, inevitabile è la svalutazione (anche formale) della Lira e l’innesco di una spirale inflazionistica incontrollabile che si mantiene costantemente su percentuali annuali vicine al 10%. Ed è questo, dal punto di vista della storia del debito pubblico italiano il dato che di più si impone al termine dello sciagurato ventennio fascista.

Un tasso di crescita dell’inflazione, specie se consistente e prolungato, ha un effetto paradossalmente positivo sul rapporto debito pubblico e PIL. Il crollo del valore reale della valuta di riferimento del debito è di fatto una maniera, tanto efficace quanto devastante per la tenuta sociale, di riduzione del debito pubblico. Il ricorso allo strumento, di fatto incontrollabile, dell’inflazione è stato ad esempio il modo con il quale la Germania è riuscita a ridurre drasticamente, con un impatto drammatico sul tenore di vita reale, i debiti pubblici al termine dei due conflitti mondiali. Un aspetto che spiega l’ossessione tedesca per il controllo rigoroso del tasso di inflazione, in qualche modo, venendo ai giorni nostri, “imposto” alla stessa UE.

Capitolo V

Il debito sotto controllo, 1946-1973

La definitiva trasformazione dell’Italia in un paese industrializzato pienamente inserito nel mercato globale, nel blocco occidentale e, con un ruolo propositivo, nel processo di costruzione della UE ha ovviamente un forte impatto sul debito pubblico, sulla sua dimensione, sulla sua strutturazione, sulle logiche economiche, finanziarie e politiche, che lo ispirano. Un periodo decisivo che tuttavia eredita, alla fine del devastante secondo conflitto mondiale, non poche delle caratteristiche analizzate nel precedente Capitolo. Persiste in particolare la forte spirale inflazionistica che aveva caratterizzato gli ultimi anni precedenti la guerra. La grande quantità di nuova moneta immessa per finanziare l’avvio della ricostruzione mantiene infatti intatta questa spirale, peraltro come in tutti i paesi coinvolti nel conflitto, che trascina però con sé la positiva conseguenza di abbattere il peso “reale” del debito pubblico consentendo  l’emissione di ripetuti “prestiti pubblici” la cui gestione, non solo tecnica, consegna alla Banca d’Italia, nella confusione politica ed istituzionale del tempo, un ruolo istituzionale di forte rilievo che, come vedremo, non verrà più abbandonato. Nonostante l’inevitabile lentezza della ricostruzione e del riavvio del sistema produttivo il rapporto debito pubblico e PIL resta infatti decisamente sotto controllo: dal 68% del 1945 scende addirittura al 32% nel 1949 anche grazie agli strumenti di sostegno finanziario (Piano Marshall) promossi dagli USA nell’ambito delle logiche della divisione in due blocchi. Questo quadro, ancora incerto ma sempre più ricco di fermenti positivi, vede irrompere, già a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, i prodomi della stagione del “boom economico”, che avrà pieno effetto negli anni Sessanta, caratterizzata da un intenso processo di industrializzazione capace di sfruttare al meglio le opportunità offerte dal consolidarsi del mercato occidentale nel quale le esportazioni italiane, grazie ai bassi livelli salariali, conoscono un’autentica esplosione. Aiutano poi, accanto al ruolo trainante dell’IRI, coraggiose politiche di spesa pubblica in buona misura utilizzata per un concreto sostegno al pieno realizzarsi dell’industrializzazione. Cresce quindi la spesa pubblica ma, grazie ai processi virtuosi innescati, è compensata dal corrispondente aumento delle entrate, legate al diffondersi di un più diffuso benessere. Sono gli anni in cui si realizzano diversi consecutivi bilanci annuali dello Stato di sostanziale pareggio che così si guadagnano il titolo di “bilanci neutrali”. Questo intreccio virtuoso fra crescita delle esportazioni, favorite dal basso costo del lavoro, e alti investimenti privati e pubblici caratterizza l’intero decennio degli anni Sessanta e, con un PIL che cresce a ritmi annuali del 5-6%, di fatto neutralizza il ricorso a finanziamenti in deficit. Ne consegue un importante ridimensionamento del debito pubblico il cui rapporto con il PIL scende alla fine del decennio fino a toccare uno straordinario 24%. L’Italia entra quindi a pieno titolo nel novero delle nazioni occidentali premiate da un processo di intenso sviluppo, economico e sociale, non a caso definito “trentennio d’oro”, una fase in cui le logiche di profitto si integrano con quelle di un ruolo positivamente attivo dello Stato con il pieno dispiegarsi del Welfare State, dello Stato Sociale. Il contesto politico italiano è per tutti questi anni caratterizzato da una indubbia stabilità governativa garantita dal costante consenso elettorale della Democrazia Cristiana, un aspetto che, come pesante contropartita, vede però progressivamente aumentare l’invadenza partitica nella gestione diretta dei processi economici. Sempre più si affermano logiche negative di raccolta consensi utilizzando interventi finanziati dalla spesa pubblica proprio in coincidenza, nella seconda metà degli anni Sessanta con i primi segnali di stanchezza del trend di crescita economica. Cresce a dismisura l’apparato statale, l’azione dell’IRI diventa farraginosa e inconcludente, la Cassa per il Mezzogiorno degenera in un sterile e disordinato finanziamento dispersivo, l’invadenza partitica viene istituzionalizzata con la nascita del Ministero delle Partecipazioni Statali, si afferma un improduttivo assistenzialismo. Le conseguenze sui conti pubblici non tardano a farsi sentire: il caotico fiume di risorse pubbliche, finanziato in deficit con il progressivo aumento dell’emissione di titoli pubblici ad interessi via via crescenti, vanifica nel giro di pochi anni il precedente eccezionale risultato. Nei primi anni Settanta il debito pubblico italiano è già risalito, ad un livello, per certi versi ancora gestibile, ma già superiore al 40% in rapporto al PIL.

Il dato più rilevante ai fini della ricostruzione del percorso storico del debito pubblico italiano più ancora che dalla sua dimensione quantitativa è rappresentato dal crescente consolidarsi di una idea di “debito pubblico” totalmente diversa da quella fin qui presente nella storia nazionale. Quello che era stato visto come un inutile e penalizzante fardello da fronteggiare mirando ad un suo virtuoso contenimento si avvia ad essere interpretato come un fattore strutturale da utilizzare, con molte meno remore ed attenzioni, come strumento stabile di intervento dello Stato nella sfera economica e finanziaria. A partire dai primi anni Settanta inizia quindi una storia del debito pubblico italiano completamente diversa

Capitolo VI

Il punto di svolta: l’inizio della crescita, 1974-1982

La fine definitiva dei “gloriosi trenta” con la progressiva crisi dello “Sato nazionale” accompagnata da profonde trasformazioni sociali e politiche incidono negativamente sui trend economici globali. La crisi energetica del 1973 è da molti assunta come simbolo di questo irreversibile cambiamento che in Italia si accompagna con il venire a galla delle fragilità strutturali di una economia cresciuta grazie ad un insieme irripetibile di contingenze favorevoli. Non aiuta, ma semmai accentua le negatività, una classe politica sempre più schiacciata sulla conservazione del potere fine a sé stessa e incapace di interventi adeguati. Tra il 1970 ed il 1976, non a caso, il crescente disavanzo del bilancio statale viene ancora coperto con la creazione di nuova moneta nell’illusione di avere di fronte una crisi congiunturale superabile con i classici sostegni alla domanda. I livelli sostenibili del debito pubblico (meno del 50% sul PIL ancora nel 1972), quasi totalmente detenuto dal risparmio interno, e dei deficit di bilancio giustificano ancora un certo ottimismo. Molto presto cancellato dal delinearsi di un sempre più delicato equilibrio globale (pesa molto la scelta USA di sospendere la storica convertibilità del dollaro in oro, accordi di Bretton Woods). La Lira entra così in un regime di costante fluttuazione che non aiuta né le esportazioni né le importazioni e trascina con sé il riaccendersi di una spirale inflazionistica che arriva a percentuali in doppia cifra. La svalutazione della Lira decisa nel 1976 dal Governo Andreotti da una parte registra una situazione di fatto dall’altra è l’ultima riprova dell’illusione di incidere sulle dinamiche economiche e produttive utilizzando il solo strumento monetario. Con queste premesse gli anni Settanta inevitabilmente vedono un debito pubblico in costante salita fino a sfiorare il 50% in rapporto al PIL ed un bilancio di Stato che presenta ormai deficit strutturali con una spesa pubblica totale, quasi totalmente improduttiva, mediamente pari al 30% del PIL, che trascina con sé l’aspetto negativo, ripetutamente evidenziato dalla Corte dei Conti, del ricorso a prestiti/debito per il finanziamento delle spese correnti, quelle di mero funzionamento dell’apparato statale, in luogo di quelle in conto investimenti.  Emblematico è il ricorso, per la prima volta, a fronte delle crescenti difficoltà di collocazione dei titoli di Stato, a richieste di sostegno finanziario ad istituzioni sovrannazionali quali il Fondo Monetario Internazionale e la stessa CEE. La confusionaria gestione politica accentua gli evidenti segnali di disaffezione elettorale ai quali cerca di porre rimedio alimentando vieppiù l’illusione di partecipazione e consenso elettorale utilizzando la spesa pubblica. A fine anni Settanta la tendenza all’aumento della spesa e del correlato debito trova inevitabile conferma attestandosi rispettivamente al 40% ed al 60% in rapporto al PIL. Si aggiunge poi un altro aspetto peggiorativo: l’urgenza di reperire risorse sul breve periodo impone il ricorso a forme di prestito più accattivanti per i risparmiatori. Inizia in questi anni l’epoca d’oro dei BOT a breve termine che costituiscono, in luogo dei titoli a lunga scadenza, la quota parte più rilevante del debito. Tutte queste tendenze non hanno carattere di casualità, ma sono le ovvie conseguenze della convinzione di poter controllare e gestire un debito se finalizzato ad un sostegno alla domanda, ed al consumo, capaci di sostenere la crescita. Sullo fondo si sta iniziando a profilare la svolta ideologica statunitense neo-liberista del pensiero monetarista delle reaganonomics con la definitiva cancellazione del paradigma keynesiano. Anche se è pur vero quanto sostenuto, già a metà anni Settanta, da Ugo La Malfa, leader del Partito Repubblicano e severo censore economico: le politiche economiche italiane hanno avuto uno stampo populista sudamericano piuttosto che keynesiano. Nel 1981 si verifica inoltre un passaggio cruciale: con l’accordo tra l’allora Ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, ed il Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, si compie il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, la quale da qui in poi non è più vincolata ad assecondare le politiche ministeriali ed acquisisce una completa autonomia in materia di politiche monetarie

Al termine degli anni Settanta, la dimensione reale del debito pubblico, pur arrivando ormai a sfiorare il 60% del PIL, ancora non si discosta dalla media dei paesi europei pesa semmai il consolidarsi di tendenze e prassi, che attestano come normale l’utilizzo spinto del debito pubblico come strumento di indirizzo e gestione economica e finanziaria

 

Capitolo VII

La crisi del debito, 1982-1995

E’ in questo periodo storico a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta che si crea la maggiore crescita del debito pubblico italiano che dal 60% sul PIL arriverà a toccare il 120% determinando quello che da lì in poi sarà lo “zoccolo duro” del debito sovrano. Per comprendere questa evoluzione è utile suddividere il periodo in esame in alcune distinte fasi:

1982/1985: la presunta “normalità” del debito al 60% sul PIL è uno degli assiomi che ispirano l’azione dei diversi governi, quasi tutti di breve durata, incapaci di varare politiche economiche e finanziarie di un qualche respiro essendo fortemente schiacciata su una idea di debito pubblico come fattore principale di crescita economica, ma soprattutto di raccolta e conservazione di consenso elettorale. Non a caso quindi si consolida un trend, attorno al 22%, di deficit annuali di bilancio sulla cui composizione, in ovvio legame con la crescita del debito e con il peso sempre più importante dei BOT ad alto tasso e di breve durata, inizia ad incidere in misura determinante la spesa per interessi che, raddoppia in rapporto al PIL. Restano ignorati i richiami della Corte dei Conti e della Banca d’Italia (Governatore Ciampi) a porre rimedio all’entità dei tassi di interessi concessi ben superiori al taso di crescita dell’economia reale, evidenziando profonde linee di divisione all’interno delle istituzioni pubbliche che vedono quelle “politiche” su posizioni “lassiste” e quelle “tecniche” su opposte idee “rigoriste”. Sono i primi segnali di una “crisi di sistema istituzionale” che a breve si manifesterà in tutta la sua ampiezza. Non deve quindi stupire che nel 1985 il debito pubblico valga ormai il 90% del PIL, ma soprattutto che la ricaduta del suo costo per interessi sia ormai pari a quello dei trasferimento dello Stato agli enti locali, agli istituti di previdenza ed al servizio sanitario.

E’ in questa fase quindi che si manifesta in tutta la sua evidenza una delle più rilevanti conseguenze negative di un alto debito pubblico: la spesa per interessi. Al di là delle logiche contabili di bilancio la negatività consiste essenzialmente nella ricaduta di tale spesa sulle “spese correnti” ossia sulla quota parte delle risorse di bilancio pubblico preposte alle spese di funzionamento, di quelle per istruzione, sanità, assistenza, politiche locali. Uno Stato molto indebitato è anche e soprattutto uno Stato molto limitato in tutte le sue concrete sfere di azione

1986-1990: sono gli anni in cui si manifesta in tutta la sua evidenza l’incapacità del quadro politico di governare la crisi del debito. L’utilizzo della spesa pubblica come presunto incentivo alla crescita economica, ma di fatto ridotta a puro strumento di raccolta di consensi elettorali, si è ormai cristallizzato in un situazione ingestibile caratterizzata in particolare da una composizione del debito ormai in gran prevalenza basata sui BOT a breve e con altissimi tassi d’interesse, a lungo compresi tra il 15% ed il 20% solo verso la fine del decennio calano leggermente al 12-13% ancora ben al di sopra della crescita della ricchezza reale. Questi altissimi rendimenti monopolizzano il risparmio interno, soprattutto quello delle famiglie (BOT people, il popolo dei BOT) introducendo, stante l’impossibilità di pesare più di tanto sul risparmio interno, una maggiore rigidità nella modulazione del debito ed una crescente incidenza della percentuale della spesa per interessi che arriva ormai a valere la metà della spesa pubblica complessiva. Il debito pubblico è ormai stabilmente ancorato a percentuali attorno al 120% sul PIL, la spinta ad affrontarlo seriamente non sembra poter maturare per percorsi interni.

Emergono alcuni decisivi aspetti: la composizione dei possessori del debito pubblico, la loro nazionalità, le loro caratteristiche sociali ed economiche, le loro specifiche aspettative finanziarie. Sono tutti fattori con una forte influenza sulle politiche e sui relativi strumenti tecnici adottabili per intervenire sulla stessa consistenza ed articolazione del debito

1991-1995: In aggiunta agli ormai strutturali elementi di debolezza interna i primi anni Novanta vedono un quadro politico in sistemica involuzione la cui residua credibilità viene azzerata dalle inchieste di Tangentopoli. A fronte di questa acclarata disfatta ed impotenza interna interviene, come contrappasso, una spinta esterna: nel 1991 viene perfezionato il percorso che porta nel Febbraio 1992 al Trattato di Maastrich che fissa i requisiti per poter aderire alla UE stabilendo criteri molto rigidi in materia di bilanci statali, di deficit e di debito pubblico. L’adesione italiana è ineludibile pena gravissime ricadute sul sistema produttivo ed impone gioco forza un cambiamento radicale sulle fallimentari logiche degli ultimi due decenni. Il primo scoglio da superare è ovviamente rappresentato dal rapporto spesa pubblica e PIL: a fronte di una serie storica di bilanci primari (il rapporto tra entrate ed uscite al netto degli interessi sul debito) tutto sommato positivi diventa urgente intervenire sulla pesantissima incidenza della spesa per gli interessi del debito pubblico, ormai divenuto il famoso “macigno”. L’unica soluzione politica in qualche modo praticabile consiste nella nascita nel 1992 di un Governo, con Primo Ministro Giuliano Amato, parzialmente autonomo dal gioco partitico che attua una severa manovra finanziaria (con prelievo forzoso sui conti correnti, svalutazione della lira e sua provvisoria uscita dal Serpente Monetario Europeo SME). Per quanto utili si tratta però di strumenti eccezionali e temporanei e non di modifiche strutturali che hanno comunque un rilevante impatto sulle forme del risparmio italiano. Inizia da qui il progressivo esaurimento del ruolo dei BOT (con il collegato primo affermarsi di forme di risparmio alternative quali i  fondi di investimento) e quindi il mutamento della composizione dei possessori del debito che inizia ad internazionalizzarsi (nel 1991 ben il 90% dei titoli statali è ancora in mano italiane, fra famiglie e istituti di credito). Gli sforzi del governo Amato producono risultati tali da incentivare il ricorso ad una ulteriore separazione dell’esecutivo dal gioco parlamentare partitico, una innovazione destinata ad avere numerose successive repliche: nel 1993 nasce il governo Ciampi, primo “governo tecnico” ed “ultimo governo della Prima Repubblica”. Al quale, con Maastrich formalmente approvato, viene dato mandato di incidere in modo più strutturale sulla spesa pubblica. Se il governo Amato aveva ottenuto risultati troppo limitati aggredendo il debito in quanto tale il nuovo governo Ciampi, teoricamente libero da rendiconto elettorali, deve incidere sulle voci che di più generano deficit e che quindi di più alimentano il ricorso al debito: sovradimensionamento dell’amministrazione pubblica, frutto di eccessive assunzioni elettorali, immissione sul mercato delle aziende pubbliche rese decotte dalla loro gestione “partitica”, ristrutturazione della spesa sociale squilibrata nella sua articolazione, rimodulazione della composizione del debito. Con inevitabili limiti e debolezze le manovre messe in atto sembrano muoversi nella giusta direzione, ma non sono certo in grado di avere un immediato impatto sul debito pubblico che, sulla spinta di tale quadro precedente, raggiunge nel 1994 il picco del 120% sul PIL. Le non rinviabili prime elezioni post Prima Repubblica aprono però la strada a nuove forze politiche, Forza Italia di Berlusconi in testa. Un vento neoliberista irrompe sulla scena e, per quanto il primo governo Berlusconi del 1994 abbia breve vita, inizia un nuova fase

E’ opportuno ribadire quanto già evidenziato: la gestione del debito pubblico è questione eminentemente “politica”, interventi definibili “tecnici” possono avere una loro giustificazione ed efficacia ottimizzando l’impostazione “tecnica” di provvedimenti che hanno comunque una visione politica alla loro base. Tagliare alcune spese piuttosto che altre, individuare ed intercettare possibili fonti di finanziamento, dare priorità ad alcuni investimenti, delineare un regime fiscale coerente con l’insieme delle azioni, sono questioni sicuramente perfezionabili grazie ad adeguate misure tecniche, ma mantengono intatta la loro natura “politica” indipendentemente dai protagonisti della loro attuazione

Capitolo VIII

                 Dalla crisi valutaria alla recessione, 

          allo scontro con l’Unione Europea, 1996-2019

1996-2000: il riuscito avvio del rientro nei parametri di Maastrich ed il clima favorevole al percorso di ulteriore integrazione europea danno spinta ad un certo rinnovamento del quadro politico, nasce nel 1996 il primo governo Prodi alla testa di una coalizione di centro-sinistra con l’obiettivo di mantenere l’Italia nel primo gruppo del paesi europei in vista del decollo dell’Unione Monetaria prevista, con la nascita tecnica dell’euro, per il 1999.  Ciò implica il proseguimento ed il rafforzamento delle azioni intraprese dal governo Ciampi (non a caso nominato Ministro del Tesoro). E’ varato, non senza difficoltà ed incertezze stante l’evidente disomogeneità della coalizione che porterà nel 1998 alla caduta del governo Prodi, un mix di interventi strutturali (fra le altre dismissioni e privatizzazioni, ristrutturazione debito enti locali e partecipate) e di maggiori entrate tributarie (l’eurotassa) che permettono di conseguire l’importante risultato del contenimento del rapporto tra deficit annuale e PIL ridotto progressivamente al 4% ed al 3%, con la spesa pubblica totale  che passa dal precedente 11,5% sul PIL a quasi la metà al 6,5%. A queste misure si accompagna una consistente ristrutturazione del debito stesso sempre meno basato sul risparmio interno e sempre più posseduto da acquirenti stranieri con la conseguente maggiore possibilità di incidere positivamente sui tassi di interessi applicati e sulla durata delle obbligazioni emesse. L’impatto sul quadro complessivo della finanza pubblica è positivo ed il rapporto debito PIL conosce un significativo rallentamento attestandosi in calo al di sotto della soglia del 120%. E’ però sempre più evidente uno strutturale calo economico e produttivo: il PIL italiano stenta ormai a mantenere un tasso annuale di crescita attorno al 2% a delineare un rallentamento del quadro economico complessivo che sarà da qui in poi un dato costante.  Le tensioni interne alla coalizione, di varia natura, non tardano ad emergere in tutta la loro portata, caduto Prodi i successivi governi di centro-sinistra (D’Alema e Amato)  proseguono, sull’onda di quanto realizzato nel 1996-1998, consolidando il trend positivo di riduzione del debito pubblico sceso nel 2000 al 110% sul PIL, ma non è certo possibile sostenere che a tale positiva azione sia corrisposta una adeguata capacità di modificare in profondità il quadro economico e sociale del paese e di intervenire in modo organico sulle dimensioni strutturali del debito pubblico (pesa in particolare la mancata realizzazione di una seria riforma fiscale e la controversa riforma del Titolo V della Costituzione sui potere delle Regioni)

2001-2007: inizia la stagione del secondo governo Berlusconi. La potenza mediatica di sostegno ad un visione neoliberista non nasconde le evidenti contraddizioni dell’azione governativa. Gli assiomi neoliberisti della ritirata dello Stato dal mercato, della riduzione del Welfare, del sostegno all’iniziativa economica privata, si traducono, per fortuna a ben vedere, in questa versione “all’italiana" in provvedimenti confusi e contraddittori (a condoni, cancellazione IMU prima casa, abolizione ticket sanitari non corrispondono investimenti di vero sostegno all’economia produttiva). La ricaduta sui conti pubblici non tarda a manifestarsi: si annullano gli avanzi primari degli anni Novanta, torna a crescere il rapporto deficit e PIL, ed il debito pubblico segna un’inversione di tendenza. Incide non poco la necessità di conservare il flusso di cassa garantito dagli acquisti, soprattutto esteri, di titoli pubblici che, a fronte di un crescente clima di perplessità verso l’andamento dell’economia italiana, impone un significativo ritocco verso l’alto degli interessi offerti. Poco incide su questo quadro la troppo breve, e fin dall’inizio tormentata, esperienza del secondo governo Prodi (Aprile 2006-Gennaio 2008)

Si fanno più evidenti due caratteristiche dell’evoluzione più recente del debito pubblico italiano. La variazione della composizione dei suoi possessori, con il crescente peso degli investitori esteri, ha sicuramente una ricaduta positiva sulla riduzione di quello del risparmio interno, ma al tempo stesso espone l’emissione dei titoli al grado di affidabilità offerto dal quadro di tenuta economica complessiva del paese. I giudizi delle “agenzie di rating”, per quanto opinabili e spesso strumentali, sono comunque la base di valutazione per molti investitori “di peso” incidendo direttamente sul famigerato “spread” e sui tassi di interesse collegati a queste due “variabili”. Ancora più rilevante per certi aspetti è il giudizio emesso dalla Corte dei Conti in relazione alla manovra finanziaria del 2005 là dove evidenzia l’affermarsi crescente dell’idea di “trasferire gli oneri del debito pubblico sulle future generazioni”. Un aspetto sempre più centrale, in generale, nella fase storica che si è aperta nel nuovo millennio

2008-2019: La crisi globale del 2007/2008 segna per l’economia globalizzata neoliberista una frattura in gran misura non ricomposta ancora prima del devastante impatto della pandemia Covid 19 e determina un quadro base tuttora in costante evoluzione. Difficile quindi valutare questi fenomeni, ancora materia di cronaca quotidiana, da un punto di vista storico consolidato. Tedoldi e Volpi si limitano quindi, in questo saggio, a ripercorrere i passaggi più rilevanti di un processo che si apre verso scenari ancora indefinibili. Sono comunque passaggi, dei quali abbiamo viva memoria diretta, che hanno in gran misura esasperato tendenze e problematiche già presenti a livello economico globale, europeo e, soprattutto, italiano. Le ricadute sulla variabile debito pubblico sono state globalmente così rilevanti da far assurgere l’indebitamento a fattore centrale per le attuali tendenze economiche. Per restare al contesto italiano la crisi del 2007/2008 investe un’economia strutturalmente, come si è appena visto, in gravissima difficoltà, basti pensare che nel periodo 2000-2008 il tasso di crescita del PIL italiano,  già drammaticamente basso nel periodo precedente, si attesta a: + 1,9% nel 2001, + 0,5% nel 2002, 0,0% nel 2003, +1,7% nel 2004, +0,9% nel 2005, +2,0% nel 2006, +1,5% nel 2007. Il crollo ai valori negativi del 2008/2009, pari rispettivamente al  meno 1,1% e ben al meno 6,6%, non possono quindi essere definiti una sorpresa. Al disastro della gestione berlusconiana nel periodo 2008-2011, è seguito un insieme di provvedimenti attuati dai diversi governi, tecnici o politici che siano stati sempre molto transitori e di segno spesso contrapposto, che non ha certo avuto una ricaduta concreta di un qualche stabile valore. A testimoniare la loro sostanziale inefficacia più che richiamarli nel loro confuso succedersi, ed avendone tutti noi una qualche recente memoria personale,  è sufficiente il seguente grafico:


Nel periodo 2009-2019 il debito italiano, partito dalla già considerevole percentuale del 112,5%, è giunto alla quota del 134,8% ben ventidue punti in più, un dato strutturale ormai endemico e di difficilissima, al limite dell’impossibile, soluzione. L’impatto pandemico ha poi inevitabilmente prodotto un ulteriore impressionante salto schizzando ad un ipotizzato 160% e dando così avvio ad una nuova storia del debito pubblico italiano, ancora tutta da scrivere.

E’ bene in chiusura evidenziare un aspetto, di valore fondamentale, che collega tutte le varie scelte politiche italiane di gestione del debito pubblico a partire dai primi anni Novanta con una evidente maggiore incidenza nel nuovo millennio: il rapporto con l’Unione Europea. L’acclarata crisi degli Stati nazionali ha assunto nel vecchio continente la caratteristica delle complesse relazioni fra le politiche nazionali e quelle comunitarie. Al di là del giudizio di merito sull’impostazione comunitaria in materia, con il carico di critiche sull’eccesso rigorista, sul peso preponderante degli “Stati forti”, Germania in primis, e dei cosiddetti “tecnocrati”, sulle rigide prese di posizione dei paesi “frugali”, appare ormai chiaro che il percorso unitario impone ai singoli paesi di delineare le proprie politiche economiche e finanziarie, ed in particolare quelle della gestione del debito pubblico, in coerenza con quelle comunitarie. Non sono quindi più percorribili percorsi al di fuori di questo quadro. Salvo adottare logiche “sovraniste” che, inevitabilmente, non possono non portare alla messa in discussione dell’idea stessa di Europa Unita. La quale, per avere una reale prospettiva di realizzazione, deve al contempo sviluppare percorsi decisionali che garantiscano trasparenza, condivisione, solidarietà, preveggenza, e che siano realmente guidati dagli ideali di compatibilità ambientale e di giustizia sociale. Ed è evidente che questo aspetto sarà ancor più centrale per i prossimi scenari.

Per meglio mettere a fuoco l’entità delle variabili economiche e finanziare in gioco riassumiamo l’attuale situazione dei conti pubblici italiani:

*   DEBITO PUBBLICO al 30 Giugno 2021 = stimato in circa 2.700 miliardi di euro

* DEFICIT PUBBLICO 2021 = l’ultimo scostamento di bilancio fatto nel Consiglio dei Ministri del 15 Aprile 2021 prevede un deficit pari all’11,8% sul PIL sperando che questo cresca nel corso dell’anno del 4,5%

* PIL 2020 = 1.650 miliardi di euro, con una caduta del 7,8% sul PIL 2019 che si era chiuso attorno a 2.000 miliardi di euro

*  La spesa per interessi sul debito pubblico nel 2020 è stata pari al 3,5% del PIL, quindi circa 60 miliardi di euro

Chiudiamo questa sintesi presentando, per punti, le considerazioni conclusive di Tedoldi e Volpi in merito a questi nuovi scenari che, in aggiunta alla consapevolezza critica di quanto fin qui successo, impongono nuove sfide e nuove scelte.

Capitolo IX

Emergenza, democrazia e debito

* *   La crisi innescata dalla pandemia Covid 19 ha, in aggiunta alle sue catastrofiche dimensioni, caratteri paradossali con la congiunta crisi di domanda ed offerta, colpendo il cuore stesso della nozione di economia e di società degli ultimi due secoli e minando alla base molte delle consolidate pratiche democratiche

*   L’inevitabile ricorso a spese in deficit ha fatto salire alle stelle i debiti pubblici di tutti i paesi, l’OCSE ha stimato una crescita media del rapporto tra debito pubblico e PIL di circa quindi punti percentuali rendendo globalmente vitale la ricerca delle risorse necessarie

*   Un dato sta accumunando i percorsi globali di risposta agli effetti economici della pandemia: il ruolo della gestione pubblica, statale o comunitaria, degli interventi spiazzando le dominanti logiche privatistiche neoliberiste

*   Ciò vale in primo luogo proprio per il governo dei deficit e dei debiti messi in atto, imponendo da subito una riflessione, globale e locale, sulle linee di azione da seguire al riguardo

*   Questa riflessione deve coniugare una rilettura critica dei tanti errori sin qui commessi, globalmente e localmente, con una approfondita valutazione dei cambiamenti di fondo innescati dalla pandemia. Non sembrano infatti sufficienti semplici “aggiustamenti” dei meccanismi economici fin qui seguiti, ad esempio per quanto concerne la situazione europea non hanno, al momento, nessun senso i criteri guida di Maastrich

*   Due aspetti in particolare rientrano da subito in questa valutazione: l’inadeguatezza del settore bancario e l’erosione delle basi fiscali sulle quali sono sin qui poggiate le politiche di prelievo sulla ricchezza.

*   Il settore bancario, europeo ed italiano in particolare, già da tempo alle prese con complessi processi di adeguamento ai nuovi contesti economici e finanziari, che rischiano di produrre un eccesso di concentrazione, non appare in grado di sostenere, per la propria parte, lo sforzo finanziario post pandemico e di essere al contrario un settore in più da sorreggere pur avendo nei propri portafogli una quota molto alta dei titoli del debito pubblico

*   Ancor più radicale deve essere il ripensamento delle logiche che hanno sin qui ispirato le politiche di prelievo fiscale che prendono in considerazione le ricchezze mobili (redditi) e immobili (proprietà e rendite). Queste logiche non sono più adeguate al quadro reale della ricchezza che ha visto negli ultimi decenni una crescita vertiginosa di quella finanziaria, non adeguatamente tassata, e l’esplosione di quella “immateriale”, e quindi per definizione sfuggente, della digitalizzazione, dell’e-commerce, dei big data. La pandemia impone di ripensare in profondità l’intera filosofia del prelievo fiscale

*   Il rientro dal debito colossale legato alla pandemia, che si è aggiunto a situazioni, come quella italiana, ma anche statunitense e giapponese, già preoccupanti e pericolose, non è quindi praticabile con politiche nazionali ma impone, in primo luogo all’Europa, di attuare interventi comuni e coordinati

*   Un primo significativo passo in questa direzione è sicuramente il Next Generation EU, ma, con riferimento a quanto evidenziato prima, anch’esso deve essere completato inserendolo in un quadro complessivo di più lunga durata

*   Appare evidente, ad esempio, che gli stessi bond del Recovery Fund, stante le difficoltà del settore bancario, rischiano di non avere sufficienti acquirenti. Così come gli interventi che ogni singolo Stato dovrà attuare, in integrazione, per trovare sul mercato finanziario europeo le risorse necessarie a finanziarli (e per l’Italia anche per governare il debito consolidato) rischiano di creare una pericolosa concorrenza in un mercato del suo già asfittico

*   Diventa così fondamentale un ulteriore salto nella costruzione dell’unità comunitaria omogeneizzando le politiche fiscali, le logiche di investimento, le manovre finanziarie, rendendo sempre più centrale il ruolo della BCE ed imponendo la consapevolezza che la pandemia sta generando una “nuova normalità” e rendendo obsolete le vecchie regole. In questo nuovo quadro ancora tutto da costruire non deve nemmeno scandalizzare l’idea della cancellazione dei debiti pubblici legati alla pandemia ovvero recuperandoli con l’emissione di titoli irredimibili (non riscattabili) ad interessi quasi nulli