lunedì 4 novembre 2019

Il "Saggio" del mese - Novembre 2019


Il “Saggio” del mese

 NOVEMBRE 2019



La crisi della democrazia rappresentativa è da tempo al centro del dibattito politico e culturale in genere. Eppure non pare che siano stati compiuti passi certi e condivisi sulla comprensione dei sintomi ed ancor meno delle cause ultime. E’ sicuramente possibile che occorra aggiornare, nell’epoca della Rete, le categorie interpretative fin qui utilizzate per analizzare la versione “classica” della democrazia. Ma è altrettanto possibile che alcune di queste categorie contengano ancora elementi utili a capire in quali aspetti si è concretizzata la crisi e la frattura piuttosto che in quali, al contrario, le vecchie “chiavi di lettura” mantengono ancora una loro validità. Si muove esattamente in questo quadro il saggio che abbiamo scelto come quello del mese di Novembre 2019 in vista della conferenza del prossimo 13 Novembre con titolo “Le ferite della partecipazione e della democrazia” con relatore Leonard Mazzone, docente di filosofia presso l’Università di Firenze. Nella stessa Università insegna storia delle dottrine politiche l’autrice del saggio che recupera, proprio in funzione della sua possibile adattabilità a comprendere alcuni aspetti del presente, una interessante esperienza di scienze sociali di fine Ottocento.  Parliamo di…….



Il volto della follaSoggetti collettivi, democrazia, individuo
di Michela Nacci
(Insegna Storia delle dottrine politiche all’Università di Firenze, autrice di diversi saggi su tematiche varie della storia politica europea novecentesca tutti editi da Il mulino)
Capitolo Primo = Io ho orrore delle folle
…….A fine Ottocento fa la sua comparsa un nuovo soggetto sociale……. E’ la “folla”, e più precisamente la “folla urbana”. Una moltitudine di individui che la rivoluzione industriale, l’avvento delle grandi fabbriche, ha concentrato, soprattutto nell’ultimo quarto di secolo, nelle grandi città, nelle metropoli sempre più popolate.  Folla ed industria sono legate a filo doppio, sono una la causa dell’altra, una lo specchio dell’altra, si alimentano costantemente a vicenda. La folla, questo nuovo soggetto, ben presto si rivela centrale nelle dinamiche sociali tanto da richiedere una precisa attenzione da parte delle scienze sociali. Ma come spesso succede la letteratura arriva prima: poeti e scrittori del tempo si accorgono del suo crescente peso e la rendono protagonista in molte delle loro opere. Ed è interessante vedere come sappiano, ben prima delle più tecniche analisi socio-politiche che seguiranno, tratteggiare molte delle sue fondamentali caratteristiche, positive e negative- Baudelaire in “Lo spleen di Parigi” inserisce un capitolo intitolato “Le folle”. E’ una sorta di celebrazione della loro capacità di rappresentare una possibile liberazione dalla gabbia dell’individualismo posto al centro della nuova religione sociale borghese. Abbandonarsi alla folla diventa una esperienza di comunione universale …….una sana prostituzione dell’anima che si dà tutta intera allo sconosciuto che passa…….. Immergersi in essa, in questa novità esistenziale fino a poco tempo prima ancora inesistente, è il modo, come al suo estremo opposto la solitudine, di perdere le differenze dagli altri, di annegare nella dissoluzione della singolarità. Rimbaud nella raccolta “Illuminazioni” parla della folla come del luogo della …….somiglianza di tutti con tutti…….  Ai suoi occhi non c’è più distinzione nella moltitudine che incessantemente percorre le vie urbane. La stesa cosa accade in “L’uomo della folla” di Edgar Allan Poe. Vivere in questa nuova dimensione sociale offre inaspettate opportunità di moltiplicare la propria personalità, di sperimentare vite nuove, differenti. Assurge, come nel racconto di Dostoevskij “Il sosia”, alla vertigine di sdoppiarsi in un altro sé stesso. Anche qui, nelle folle russe, la distinzione individuale sembra non offrire più né sicurezza né piacere, annullarsi nella folla offre inaspettati orizzonti, là dove tutti si assomigliano, essere come un altro si traduce nel diventare molteplici, infiniti altri sé stesso. La folla risulta affascinante proprio perché sembra consentire, anche all’artista, di moltiplicare la propria individualità, di allargare i propri sguardi.  Ben presto però queste celebrazioni delle sensazioni euforiche, e ribelli, lasciano il posto ad inquietudini e dubbi. La folla, dopo essersi lasciati andare in essa, pare diventare qualcosa di temibile.  E’ lo stesso Baudelaire, proprio commentando la vita ai margini di Poe, che inizia a percepire i rischi ed i limiti insiti nell’annullarsi nella massa. Nel saggio “Esposizione universale del 1859” il brivido di piacere del confondersi nella folla, dell’essere uno come tutti, diventa il rifiuto di una nuova assimilazione, di un nuovo appiattimento Non ci può essere sintonia fra il genio, e per Baudelaire Edgar Allan Poe era un autentico genio, e la massa tutta uguale, con ideali bassi e volgari, ottusa e dispotica. Emile Verhaeren, nella raccolta di poesie “Le città tentacolari”, si chiede cosa ne sia del genio, del vero ed unico individuo non assimilabile, nell’epoca delle folle ed osserva che si è invertito il rapporto che esisteva fra massa e genio, non è più questo a fornire incitamento ed esempio, ma è la folla che impone la strada. Ma il nuovo soggetto ha forme mutevoli, se da una parte sembra fagocitare l’individuo, trascinandolo in una assimilazione verso il basso, dall’altra si rivela docile strumento di figure forti, di individui che assurgano al ruolo, anche momentaneo, di “capo”. Lo racconta Emile Zola in “Germinale” …….la folla non parla, inveisce, acclama, grida, non appoggia tesi adora chi le propone, non da consenso ma applaude freneticamente, e se non adora o applaude allora odia. La folla reagisce al capo, alle sue parole, al tono, all’enfasi piuttosto che al contenuto. Né capo né folla ragionano ma provano emozioni, giocano con le emozioni……. E’ la stessa folla tumultuante descritta da De Amicis in “Primo Maggio”. Pochi anni dopo gli entusiasmi iniziali di Baudelaire e Rimbaud, peraltro presto raffreddati, è Maupassant, in “Sull’acqua” a sancire i pericoli mortali nel divenire folla, in primis il pericolo di perdere per strada la capacità di riflessione, di rinunciare all’esercizio individuale dell’intelligenza, perché ……la folla non usa la ragione, ma sentimenti e passioni….. Anche nella sensibilità artistica di poeti e scrittori inizia a diventare evidente che la folla non è la somma degli individui che la compongono, proprio l’annullamento in essa delle singolarità, quell’annullamento che aveva inizialmente affascinato ed esaltato Baudelaire, la rende un essere collettivo che ha un proprio volto. E questo spiega anche il suo mancato uso della ragione …….la folla fa cose che nessuno dei singoli che la compongono da solo farebbe…… E’ ancora Dostoevskji che, sempre nel suo “Il sosia”  osserva la dissoluzione del volto dell’individuo nel …….volto della folla……… vivere in essa attiva somiglianze che possono spossessarci di ciò che consideriamo più nostro: il volto. E’ attraverso il volto che siamo riconoscibili, che esprimiamo emozioni e personalità. Ma se la folla richiede di assomigliarci l’uno all’altro allora il mio volto non è più solo il mio, è quello di tutti, quello della folla.
Capitolo Secondo = Datare
Della disciplina delle scienze sociali che ha posto la folla al centro della sua attenzione è incerta la nascita, improvvisa la morte, sospetta la rinascita. Parliamo della “psicologia collettiva”. Da non confondere con una collegata disciplina, la “psicologia sociale”. Ambedue prendono piede e vigore nell’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, ma tutta europea è la prima, tutta americana la seconda, tutta concentrata sulla folla la prima, più attenta all’insieme dei fatti sociali la seconda. La psicologia collettiva, o psicologia delle folle, affronta infatti in modo specifico …….la trasformazione psicologica dell’individuo che si verifica quando questi entra a far parte della folla…….. La sua nascita, come si è detto, è incerta, quel che è certo è che in un breve, brevissimo, arco di tempo si assiste in Europa ad un fiorire contemporaneo di studi sui comportamenti delle folle, e sul rapporto individuo – folla. Lo spunto per tale fervore intellettuale è fornito dalle crescenti tensioni sociali provocate dal primo feroce capitalismo industriale e dalle conseguenti manifestazioni di piazza che accompagnano scioperi e proteste. La vicenda della Comune di Parigi del 1871 è solo l’episodio più eclatante in un quadro europeo di forti scontri che sempre hanno al centro folle scatenate ed incontrollabili. Sono molti gli studiosi di scienze sociali collegabili alla psicologia collettiva e moltissime le opere che se ne occupano. Non mancano, al tempo, diatribe accademiche attorno al diritto di arrogarsi la primogenitura di questo diffuso interesse culturale. Polemiche che poco interessano a distanza di cento anni e più. Anche perché, a torto o ragione che sia, un’opera in particolare si è confermata nel tempo come quella più rappresentativa, si tratta del saggio “Psycologie des folles” di Gustave Le Bon (1841-1931 psicologo, antropologo e sociologo francese) uscita nel 1895. Molte polemiche accademiche, molte varianti specialistiche che però nulla aggiungono ad un concetto di base presente in tutte le opere e gli autori: …….la tesi dello spontaneo adeguamento del singolo al comportamento altrui allor che si entra nella dimensione della folla…… La psicologia collettiva afferma che tale uniformità comportamentale deriva per l’individuo dalla perdita delle tre caratteristiche che lo contraddistinguono: autonomia, razionalità e autocontrollo. Una perdita da collegare al fenomeno, incontrollabile, dell’imitazione di chi gli sta accanto. L’autonomia viene così sostituita dalla assimilazione, la razionalità dall’irrazionalità, l’autocontrollo dalla frenesia collettiva. Dall’imitazione consegue che la folla non coincide con la somma degli individui che la formano, se così non fosse non andrebbero perdute quelle tre caratteristiche. Ed invece tutte le individualità vengono assorbite a comporre un nuovo soggetto collettivo con una sua propria fisionomia ed autonomia. Accanto all’imitazione stanno altre due parole chiave per capire la psicologia collettiva: contagio e degenerazione. Come una sorta di virus il contagio si diffonde in modo impercettibile e velocissimo fino ad attraversare tutta la moltitudine, la degenerazione sta a significare, nell’ambito della folla, l’eclissarsi dei valori fin lì ispiratori del comportamento collettivo. Ma, collocata nello sfondo sociale più ampio, la degenerazione spiega anche il retroterra che prepara l’avvento della folla. Il traumatico avvento dell’industrializzazione, delle megalopoli, di masse urbane prive degli antichi punti di riferimento e sottoposte a ritmi di sfruttamento insostenibili, implica la degenerazione degli istituti corretti di una democrazia ancora troppo fragile nelle sue basi e nella sua reale applicazione. Alcuni collegamenti incidono per meglio comprendere la psicologia collettiva ed il suo assurgere la folla a soggetto sociale nuovo, autonomo e decisivo. Il primo, e più importante, è il definitivo e completo affermarsi, in quel periodo, della psicologia come strumento adattabile a tutte le discipline sociali, ma è una psicologia molto diversa da quella che identifichiamo ai nostri giorni e che si è consolidata nella seconda metà del Novecento. La psicologia di fine Ottocento ha più le caratteristiche di una sorta di combinazione fra scienze naturali, fisiologia e biologia, nella quale istinti e impulsi mantengono caratteri fortemente naturali, ossia collegati alla “natura umana”, quasi in continuità con la natura animale. L’evoluzionismo sta al tempo ancora dispiegando le sue influenze. Ad esempio Herbert Spencer (1820-1905 , filosofo inglese teorico del darwinismo sociale), proprio in collegamento con comportamenti animali, spiega alcuni comportamenti collettivi umani con l’influenza della rappresentazione visiva delle emozioni. Un altro collegamento è quello con le critiche che da più parti vengono mosse alla democrazia, vista come il mezzo per l’affermarsi della mediocrità e non dell’eccellenza, ma soprattutto come il sistema delle emozioni collettive, là dove trionfano i demagoghi. Quando scompare la psicologia collettiva? Poco dopo il suo affermarsi, già all’inizio del Novecento entra in crisi irreversibile come disciplina accademica e come fervore intellettuale. Una delle ragioni che spiegano questa improvvisa e rapida decadenza sta nel definitivo affermarsi, a cavallo del secolo, della sociologia scientifica. E’ Emile Durkeim (1858-1917, sociologo, antropologo e storico delle religioni) a tagliarla fuori dal panorama intellettuale. La sua idea che un elemento sociale, come la stessa folla, possa essere studiato solo ponendolo nel più ampio contesto sociale elimina ogni possibilità per un approccio psicologico. Ma è dalla stessa psicologia che viene un altro colpo mortale, in questo caso dalla “nuova” psicologia freudiana. Freud riprende la descrizione della folla di Gustave Le Bon ma sposta radicalmente le cause che la spiegano ponendo al loro centro la figura del “capo”. La folla non ha comportamenti istintuali ed inconsci incomprensibili. Anzi. Come ogni fenomeno psicologico può essere capito e, se patologico, curato. Questo vale anche per la folla. E la figura del capo, del catalizzatore di volontà collettive è la sua spiegazione. Non diversamente si muove una terza figura emblematica: Max Weber, l’altro grande padre della moderna sociologia assieme allo stesso Durkeim. Anche Weber spiega certe manifestazioni sociali con la figura del “capo carismatico”. Esiste poi una rinascita della psicologia collettiva ai tempi nostri? La Nacci è molto perplessa al riguardo. La psicologia collettiva sa di vecchio, di positivismo, di antidemocratico, persino di misogino, la folla si sa è femmina e come tale isterica, così scrive Le Bon. Ci sono eccezioni di grande valore: lo stesso Elias Canetti, con il suo “Massa e potere” …….compie in fondo un’opera a sfondo psicologico da taglio fine Ottocento con in più un inserimento massiccio di psicanalisi……. Ma la perplessità della Nacci è volta soprattutto verso quelle opere odierne, come “La ragione populista” di Ernesto Laclau (1935-2014, filosofo argentino), che recuperano la psicologia collettiva per riflettere attorno al populismo contemporaneo, operazione di per sé del tutto possibile e legittima, ma senza dimostrare di averla studiata e compresa a sufficienza. Esattamente quello che la Nacci ci propone con questo suo saggio.
Capitolo Terzo = Una sola ed unica persona, una belva innominata e mostruosa
La psicologia collettiva nasce sul sottofondo del terreno positivista di fine Ottocento, ma a differenza di quanto sosteneva uno dei padri del positivismo, Herbert Spencer (1820-1903, filosofo e sociologo inglese), che giudicava la folla la somma degli individui che la compongono, la definisce come un soggetto sociale con una propria fisionomia, un soggetto unitario con un proprio volto. E per Le Bon la folla rappresenta, sempre e comunque, il male in contrapposizione all’individuo che, nelle sue virtù di razionalità e autocontrollo, sintetizza il bene. Come si è visto l’individuo però perde, quando fagocitato dalla folla, queste sue virtù essendo condizionato dai meccanismi, indissolubilmente legati alla comporsi della folla stessa, di imitazione, contagio, suggestione, e di quello stesso contatto fisico che di norma l’individuo rifugge. A riprova che in essa prevalgono, sulle capacità cognitive individuali, le facoltà emotive, ossia sentimenti semplici ed estremi che inducono ad una intolleranza incontrollata verso il nemico di turno, reale o presunto che sia. Non a caso in questa assenza della ragione prendono corpo credulità, leggende, voci incontrollate quando non messe in giro ad arte. Queste caratteristiche, al centro del suo saggio Psycologie des folles”, sembrerebbero applicabili alle sole folle che si formano, in determinati momenti, nelle strade e negli spazi pubblici, ma così non è. Per Le Bon le folle, che per essere tali non richiedono numeri particolari, sono di diverso genere: folle omogenee, che comprendono sette, caste e classi, e folle eterogenee, anonime come quelle di strada oppure non anonime, come assemblee, convivi, e persino Parlamenti. La folla può essere occasionale, ma può formarsi e muoversi all’interno di percorsi con scopi precisi ………una fede comune, una passione comune, un fine comune, formano l’energia vitale di quell’essere animato che chiamiamo folla…….. Gabriel Tarde (1848-1904, sociologo e filosofo francese), altro elemento di spicco della psicologia collettiva, evidenzia il carattere centrale della subitaneità del comportamento delle folle: non servono tempi lunghi, discussioni, aggiustamenti, tutto succede velocissimo all’improvviso. La folla esplode in manifestazioni incontrollate e tantomeno si pone lo scopo di educare coloro che la formano, di farli crescere e renderli più consapevoli di sé stessi. Vuole solo la loro energia animale. Da questo punto di vista non può essere confusa con le masse dell’allora nascente movimento operaio e socialista che quegli scopi, al contrario, si pongono. Anche se parti di quelle stesse masse possono assumere, in situazioni e momenti specifici, il volto della folla. Vero è che gli stessi meccanismi irrazionali che muovono le folle possono talvolta indirizzarle verso atti di eroismo, di generosità solidale, ma nulla cambia per Le Bon ed il giudizio negativo che egli ha delle ragioni di fondo che muovono e caratterizzano la folla. La quale non va confusa con la moltitudine. Li differenzia un aspetto fondamentale: la separazione fra folla attiva e folla passiva. La linea netta di distinzione fra le due passa attraverso la diversità di sentimenti che le animano. La folla attiva è mossa da passioni, da emozioni istintive e occasionali, quella passiva da sentimenti di più lunga durata e collegati alla razionalità ……..nella folla attiva le emozioni si accendono, nella folla passiva si assopiscono, nella prima si acuiscono nella seconda scendono al minimo….. La folla attiva è quella al centro dell’interesse della psicologia collettiva, la folla passiva sostanzialmente coincide con la moltitudine, studiata dalle scienze sociali in uno spettro più ampio di competenze. Un solo elemento le accomuna: il processo della mimesi, del contagio. Ambedue acquisiscono le loro distinte caratteristiche attraverso un percorso di emulazione collettiva: immediato e incontrollabile quello della folla attiva, progressivo e lentamente avvolgente quello della folla passiva, della moltitudine. Non a caso la folla attiva è spesso caratterizzata dalla violenza, quella passiva sempre e comunque dal conformismo. Attorno a questi due elementi della “attività” e della “passività” si aprono, già all’epoca, spunti significativi di riflessione sulla democrazia, sull’individuo, sulle formazioni collettive, e sui loro legami. Pochi decenni prima, in un’America non ancora investita dalla gigantesca industrializza-zione che la farà in breve diventare la prima potenza economica mondiale, Tocqueville (1805-1859, filosofo e storico francese) nella sua lungimirante opera “La democrazia in America” ritiene che sarà proprio l’avvento pieno della democrazia a creare in America, in quell’America della prima metà dell’Ottocento, ……..una universale classe media…… Il livellamento culturale e degli stili di vita, il sopirsi nei percorsi democratici dei contrasti forti, l’adagiarsi su un benessere diffuso e senza differenze abissali fra l’alto ed il basso, tutti elementi che Tocqueville legge nel panorama sociale e politico americano, a suo avviso indurranno inevitabilmente ad uno spirito sociale improntato ad una uniformità persino troppo tranquilla. Anche per Tocqueville, molto prima di Le Bon, alla base agisce il meccanismo dell’assimilazione, scrive esattamente così …..lascio scorrere il mio sguardo su questa innumerevole folla composta da esseri simili….. Quasi a dire che la democrazia, se davvero pienamente applicata, attutisce le passioni e può condurre al conformismo, all’atomismo individuale, all’assimilazione in una indistinta classe sociale fatta di individui fotocopia, ed alla conseguente scomparsa di veri legami sociali. Tenendo sulla sfondo questi giudizi, storicamente molto contestualizzabili al posto ed al tempo in cui Tocqueville li emette, le due versioni della folla, attiva e passiva, si aprono, nell’ultimo quarto di secolo, verso due linee di pensiero distinte ma complementari. Così come stiamo vedendo la folla attiva è quella al centro della psicologia collettiva, sulla folla passiva si concentra invece il focus della letteratura sociale sulla massificazione, sulla nascita dell’uomo-massa. E’ quello che analizzano personalità come Ortega Y Gasset (1883-1955, filosofo e saggista spagnolo) in ispecie nel suo saggio “La ribellione delle masse”, e poi come David Riesman (1909-2002, sociologo statunitense) con “La folla solitaria”, e poi ancora con Herbert Marcuse (1898-1979. Filosofo e sociologo tedesco, naturalizzata americano) con il famoso “L’uomo ad una dimensione”.  Se la psicologia collettiva ritiene che i processi sociali sempre più avranno al loro centro la folla ed i suoi comportamenti, i teorici della massificazioni li vedono proiettati a creare moltitudini di uomini-massa. Uomini cioè che si muovono passivamente, silenziosamente, che non solo ……hanno lo stesso divano, lo stesso televisore, le stesse tendine, ma che hanno lo stesso desiderio: quello di aderire alle aspettative altrui…….. Due prospettive certamente divergenti, ma che hanno un tratto in comune: la scoperta della scomparsa dell’autonomia individuale. Per la prima fagocitata dalle dinamiche della folla, per la seconda divorato dalle logiche di assimilazione consumistica del mercato. La prima più europea perché più legata alla sua tradizione filosofica che da sempre vede il soggetto- individuo al centro di ogni processo, la seconda più attenta alle dinamiche sociali americane, quelle a suo tempo già prefigurate da Tocqueville. Non a caso sarà nell’ambito di questo filone che nascerà l’attenzione verso un nuovo soggetto collettivo: l’opinione pubblica. Mentre perlomeno su di un punto è già possibile emettere un primo giudizio storico: la psicologia collettiva sbagliava collegando la figura del capo alle dinamiche della folla attiva. Le folle oceaniche dei totalitarismi sono state folle passive che si limitavano ad ascoltare, a rispondere alle parole d’ordine del capo. Mentre è indubbia la passività dell’opinione pubblica che per quanto possa essere anche violenta nell’approvare o nel respingere, è indubbiamente manipolata e chiusa al ragionamento …….crede e non pensa…….
Capitolo Quarto – Folle folli
Capitolo Quinto – Castori, api, formiche, donne
Capitolo Sesto _ L’anima della razza
Tutte le caratteristiche attribuite alla folla, condivise nella loro sostanza da tutte le componenti della variegata corrente di pensiero riconducibile alla psicologia collettiva, sono state approfondite con accentuazioni diverse, ma raramente divergenti se non su aspetti molto specifici, dalle diverse discipline che l’hanno composta: psicologia, sociologia, biologia, criminologia, antropologia. Ognuno di queste ha in effetti approfondito le caratteristiche della folla considerandole, a seconda del tipo di approccio, manifestazioni patologiche piuttosto che amorali.
(Nota = In questi tre capitoli del suo saggio Michela Nacci ci conduce in un percorso molto dettagliato su come, a cavallo fra Ottocento e Novecento, la folla sia stata, a seconda delle varie discipline, attentamente studiata fino a divenire, come per Le Bon, un soggetto emblematico dell’intera epoca in cui essa è entrata al cento della scena. Un percorso non solo qui difficilmente sintetizzabile per restare nelle dimensioni standard del “Saggio del mese” ma anche così specialistico da rendere difficoltosa l’attenzione sugli aspetti più immediatamente collegabili all’attuale contesto sociale e politico. Ci limitiamo quindi a evidenziare alcuni aspetti che meglio rendono conto del fervore analitico che la psicologia collettiva ha dedicato alla folla)
L’approccio psicologico e criminologico ha molto insistito sui comportamenti e sulle caratteristiche “folli” della folla, applicando ad essa gli stessi criteri di analisi applicati per la follia dell’individuo. Questo proprio in relazione alla caratteristica basilare della folla di trasformare un insieme di individui in un solo individuo che ha il “volto della folla” ………la folla è dunque un grande folle, un folle in grande, un essere nel quale la ragione non riesce più a controllare la parte istintiva e passionale……. Da qui il manifestarsi in essa di evidenti fenomeni di delirio, di perdita di lucidità, di alterazione allucinata, di imitazione irrefrenabile, di suggestione e stravolgimento della realtà, di isteria, di aggressività e violenza incontrollabili, di cambiamento repentino degli stati d’animo, di passione esplosiva, di psicosi collettiva Si usa per descriverla la stessa esatta terminologia medica usata per descrivere le varie patologie,……..la folla è un soggetto malato…… E come tale va affrontato e valutato; non pochi criminologi ritengono che ad essa debba essere applicata la stessa attenuante della “incapacità di intendere e volere” usata per individui colpevoli di comportamenti violenti indotti da momentanee perdite della razionalità. Ma non siamo di fronte solo ad una patologia mentale, ad una follia, la folla è anche un caso di patologia sociale. In essa si manifestano elementi di parassitismo, ossia di aggressione da parte di elementi sociali che agiscono con comportamenti assimilabili all’aggressione dall’esterno di “parassiti”, di degenerazione intesa come annullamento di tutti i collanti sociali e culturali, di epidemia morale. Su questo substrato patologico si innestano poi osservazioni di tipi biologico che introducono per la folla l’incidenza di fenomeni di vero e proprio “contagio”, di “epidemie virali”. La “naturalità” delle folla diventa così la base per i frequenti paragoni, non poco forzati, con animali simbolo di comportamenti applicabili anche all’uomo. Da una parte non stupisce allora di trovare gli esempi virtuosi degli animali sociali, anche se formati da moltitudini di individui, come le api, le formiche e le termiti, dall’altra quelli di animali che quando si raggruppano sviluppano aggressività feroce, come le mute di cani inselvatichiti, i branchi di lupi, Va calata ancor più nella cultura del periodo la visione della folla come donna, con tutto il corollario dei pregiudizi antifemminili ben presenti al tempo …….le folle sono sempre femminili…….. La folla è donna perché ambedue sono più animalesche, più suggestionabili, più irrazionali, istintuale, più passionale, più emotiva, ma è soprattutto la tendenza all’isteria a creare questo forte legame identificativo. ………non esiste l’isterico, o quasi, esiste l’isterica: La folla è femmina e l’isteria è femmina….. Questo incrocio fra discipline diverse che giudicano la folla, fermo restando l’interesse specifico di ognuna, rappresenta un interessante caso di interdisciplinarietà raramente così evidente ………fanno sociologia con gli strumenti della biologia, applicano alla biologia le categorie della sociologia, mettono la psicologia ovunque……. E tutte quante non sciolgono in modo sufficientemente chiaro, anzi dividendosi fra di loro su questo aspetto, il ruolo della personalità iniziale dei singoli individui che formano poi la folla. Le folle sono tutte uguali o sono diverse fra di loro folle formate da borghesi piuttosto che da emarginati, folle cattoliche o protestanti, folle maschili o folle femminili, folle giovani o mature, folle del Nord o folle del Sud. Una prima tesi è quella che, privilegiando i meccanismi individuabili in ogni folla, ritiene che tali differenze non incidano ……..la folla non somma, la folla crea….. Una seconda tesi ritiene che invece nella folla restino tracce importanti delle diverse condizioni e caratteristiche degli individui che la compongono anche se poi i comportamenti concreti sono non meno guidati dai meccanismi di imitazione, contagio e degenerazione qui evidenziati nel precedente Capitolo Secondo. L’incidenza del fattore “razza” è significativo in questo senso. La prima relazione fra “folla” e “razza”, nell’ambito della psicologia collettiva, viene fatto proprio da le Bon in un controverso passaggio della Psycologie des folles”, là dove afferma che …..nella folla emerge l’anima della razza…… L’affermazione di Le Bon si inserisce in un dibattito che a fine Ottocento vede affacciarsi attorno al tema della razza un vasto dibattito che coinvolge, ancora una volta, più discipline e che contiene, anche,  alcune delle considerazioni alla base del “razzismo” che segnerà pesantemente la storia europea del Novecento.  Michela Nacci coglie l’occasione offerta da Le Bon per mettere ordine attorno a concetti e atteggiamenti che, se distorti e forzati, si prestano a gravi degenerazioni. E la “folla”, in questo senso, si rivela una preziosa lente di ingrandimento. Si è detto che la somiglianza che si realizza nella folla fra gli individui che la compongono è il prodotto di specifici meccanismi quali l’imitazione, la suggestione, il contagio. Le Bon aggiunge a questi un ulteriore elemento: l’inconscio collettivo. Ossia un confuso e disordinato insieme di istinti, passioni, sentimenti, ma anche elementi culturali intesi in senso lato, che formano quella che definisce per l’appunto “l’anima della razza”. La perdita della razionalità che forma e muove le folle si accompagna per le Bon all’emergere di elementi che si collocano, individualmente e collettivamente, sotto il livello della coscienza, qualcosa che ancor prima dell’uscita di scena della razionalità già stava “sotto la ragione”. Questo substrato si lega indissolubilmente, per Le Bon, con la storia del popolo in cui si manifesta perché è in essa che si è creato nel corso del tempo. Questo inconscio collettivo non può non essere diverso da popolo a popolo. Le Bon appartiene quindi a quella parte della psicologia collettiva che ritiene le folle siano diverse perché sono diversi gli inconsci collettivi che contribuiscono a crearle. Ci sono quindi folle latine, folle anglosassoni, folle francesi, folle tedesche e così via. Ma perché Le Bon ricorre al termine, che ha specifiche valenze, di “razza”? Innanzitutto incide una attitudine, al tempo molto diffusa in tutti gli ambiti culturali, di usare questo termine senza avere piena consapevolezza “scientifica” del suo vero significato. D’altronde sono ancora molto lontani a venire i risultati delle discipline che studieranno DNA e evoluzione genetica. Ma poi, in modo più specifico perché con il termine razza si fa riferimento al suo essere un soggetto collettivo che …….si colloca a metà strada fra natura e cultura, fra biologia e storia, fra eredità evolutiva e costumi, e quindi alle tradizioni, alla socialità ed alle maniere che ci hanno portato ad essere quello che siamo; e questi sono tutti elementi non razionali……. La razza è irrazionale esattamente come la folla, non dimora nei territori della ragione. Ma queste stesse caratteristiche non possono riferirsi anche ad altri soggetti collettivi già presenti nella nostra cultura? Secondo la Nacci certo che sì, e fa entrare in scena ……..il carattere nazionale, la nazione……… Se scindiamo gli elementi più “culturali”, che sempre e comunque si legano alle condizioni ambientali in cui si formano, da quelli più “biologici”, che come soprattutto oggi ben si sa essere occasionale frutto di meccanismi evolutivi locali, non più di razza si deve parlare ma di carattere nazionale. Le Bon stesso nel definire quella che chiama “anima della razza” fa riferimento proprio ai caratteri culturali che meglio di collegano al soggetto collettivo di “nazione” con i propri specifici caratteri. …….quando Le Bon parla di anima della razza si riferisce in realtà al carattere nazionale, cioè alle caratteristiche di lunghissima durata di tutta una nazione che si esprimono in ogni suo individuo anche e soprattutto quando essi si riuniscono in una folla….. La Nacci, operata questa opportuna distinzione, evidenzia poi un passaggio fondamentale: nel definire i concetti di folla, di razza piuttosto che di cittadini della nazione si compie sempre la stessa operazione culturale, si parte da una molteplicità di individui e si crea un soggetto collettivo dotato di un proprio volto. Questa operazione però compie una astrazione che non consente di registrare la realtà in tutta la sua enorme varietà, ma si selezione, sempre e comunque, qualche specifico elemento per elaborare figure che nella realtà non esistono affatto. Emerge poi l’irrazionale avversione per il “diverso” che nella folla diventa tutto quello che sta fuori di essa, nel carattere nazionale tutte le altre nazioni, nella razza tutte le altre razze. Questa avversione ha una precisa causa: il timore, in buona misura inconscio, di vedere minacciata quell’unità che fa da collante alla folla, come alla nazione, come alla razza. Tornando poi in modo più specifico alla psicologia collettiva emerge, proprio su queste basi, una sua evidente contraddizione: quello stesso inconscio che crea e alimenta il concetto di carattere nazionale piuttosto che di razza svolge, quando fa ciò, una operazione positiva, quando invece crea e alimenta una folla produce un risultato negativo …….la nazione è un soggetto sano, la folla è un soggetto malato…… Una contraddizione tutt’altro che risolta dalla psicologia collettiva. Curioso è poi il ricorso all’inconscio con modalità che, fino a quando Freud non lo riferirà al singolo individuo, per le scienze sociali a cavallo di Ottocento e Novecento tendono invece ad attribuirlo al collettivo.
Capitolo Settimo – Prima di Spengler
Nella psicologia collettiva confluiscono molti degli elementi culturali di fondo che caratterizzano l’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento. La critica radicale che essa muove alla folla, vista come soggetto sociale emblematico delle tensioni che attraversano la società occidentale in quel periodo, si collega strettamente ad una vasta corrente di pensiero altrettanto critica verso la modernità in generale. Se è vero che anche la psicologia collettiva si muove nell’alveo del positivismo di fine Ottocento, di un movimento che guarda ai progressi scientifici e propugna l’applicazione del metodo scientifico a tutte le discipline culturali, sarebbe però un errore ritenere che da esso derivi automaticamente un fiducioso ed ottimistico atteggiamento verso il futuro. …….dal metodo positivistico, dalla legge di evoluzione e dal riferimento alla natura, non deriva affatto la certezza del progresso…… E’ proprio dall’adesione alle teorie evolutive che deriva la convinzione che, come in natura, anche la società può attraversare fasi di evoluzione positiva ma anche fasi di involuzione. ……le società si espandono, ma si usurano anche, possono crescere ma anche indebolirsi e persino sparire….. Ed è questa la cifra che sembra caratterizzare una buona parte del dibattito culturale di fine ottocento, una visione pessimistica del futuro indotta dal rifiuto della modernità così come inizia a manifestarsi in quel fine secolo. Superata la fase dell’accumulazione originaria il capitalismo sta velocemente cambiando volto, le produzioni di massa per la massa stanno diventando lo standard, dai progressi scientifici stanno derivando innovazioni tecnologiche che modificano non solo le modalità di produzione ma gli stessi stili di vita. Tutto questo avviene a velocità impressionante lasciando intravedere ulteriori inarrestabili cambiamenti. Il timore che si sia messo in moto un processo inarrestabile in grado di sconvolgere la società così come si era fin lì definita coinvolge molti protagonisti della scena culturale europea e americana. Questo clima di perplessa diffidenza verso scenari futuri che sembrano gravidi di rischi se non di negatività, per molti versi assimilabile alla situazione odierna, è quello entro il quale si muove l’intero movimento della psicologia collettiva. E la folla diventa, come si è già sottolineato in precedenza, la cartina di tornasole per leggere l’irrazionalità e l’incontrollabilità dell’intero processo sociale. Diventa pertanto possibile meglio comprendere molte delle considerazioni di merito sulla folla, sull’individuo, sul loro rapporto, tenendo nella giusta considerazione questo clima anti modernista che coinvolge, inevitabilmente, anche la psicologia collettiva. E questo succede alcuni decenni prima che questi timori, queste perplessità, queste critiche assumano consistenza e forma compiuta con l’autore, Oswald Spengler (1880-1936, filosofo e storico tedesco), e l’opera, “Il tramonto dell’Occidente”  del 1918, che meglio definiscono il rifiuto della modernità, quella sorta di virus che aggredisce la società, vista come un organismo naturale, decretandone, attraverso un processo degenerativo, prima la malattia e poi la morte. E l’idea di “degenerazione”, oltre che titolo del saggio di Max Nordau (1849-1923, non a caso sia medico che sociologo, che si muove nel solco della psicologia collettiva) uscito nel 1892, è ……..lo strumento esplicativo della modernità……..
Folla, democrazia, individuo
Quali sono le considerazioni politiche che conseguono dalla critica della folla fatta dalla psicologia collettiva? ……….c’è materiale più che sufficiente per leggerla come una critica della democrazia…….. se questa, con la progressiva estensione del diritto di voto, sempre più è rivolta e si basa sulle masse, sulle folle, e se la folla è l’insieme dei limiti, dei difetti, al limite della patologia, sin qui esaminati non c’è dubbio alcuno che la stessa democrazia ha limiti, difetti, anch’essa è “malata”.  Lo è inoltre per un altro elemento tutt’altro che secondario: lo stesso istituto al centro della democrazia, il Parlamento, è una folla, ed in esso, secondo la psicologia collettiva, si manifestano gli stessi meccanismi che nella folla innescano l’irrazionalità e l’annullamento dell’individuo …….ritroviamo nelle assemblee parlamentari il semplicismo delle idee, l’irritabilità, la suggestionabilità, l’esagerazione dei sentimenti e dei comportamenti, l’influenza dei capipopolo e dei tribuni……come poggiare su queste basi un governo ragionevole e stabile?............ La democrazia si basa sulla maggioranza, la quantità vale di più della qualità, e secondo la psicologia collettiva la quantità, da sola, non ha mai vera ragione. Un giudizio senza appello quindi: nella triade in esame, folla, democrazia, individuo, quest’ultimo si annulla e viene fagocitato dalla folla, che essendo la base della democrazia conseguentemente la condanna al fallimento. Michela Nacci cerca di capire, ciò scontato, se davvero la presenza in scena come prima attrice della folla, della massa, svuota la democrazia di ogni significato, ovvero se è possibile, mantenendole il ruolo principale assistere ad una rappresentazione con un diverso finale. Un primo formidabile appiglio lo trova in Elias Canetti e nel suo fondamentale saggio “Masse e potere” (al centro della relazione di Leonard Mazzone per la nostra conferenza del 12 Novembre prossimo)
Si deve tenere conto che Canetti lo pubblica nel 1960, ma “Masse e potere” è il frutto di una elaborazione lunghissima, durata praticamente quarant’anni essendo stato avviato nei primi anni Venti del Novecento, ossia poco dopo il tramonto della psicologia collettiva. Canetti accenna solo di passaggio alla politica, o meglio ancora rielabora una visione della politica basata su altre considerazioni in gran prevalenza non direttamente politiche. Il suo è lo sguardo dell’antropologo, munito di conoscenze del mondo primitivo, antico ed extraeuropeo. Eppure la sua ricostruzione delle dinamiche che muovono le masse è perfettamente applicabile a quelle europee, a quelle contemporanee. Non diversamente dalla psicologia collettiva anche per Canetti la massa, la folla, che esistono ovunque nel mondo animale ed in quello umano, sono il soggetto sociale sul quale è indispensabile concentrare l’attenzione. Ed anche per Canetti l’individuo, il singolo, rinuncia a sé stesso per fondersi in esse. Ma la motivazione è completamente diversa: la vera molla è l’aspirazione all’uguaglianza, una uguaglianza che è nel primo decisivo istante legata al contatto fisico. Il saggio inizia con questa affermazione …….nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto……. Eppure l’istinto all’uguaglianza che percepisce nella massa annulla completamente questo timore ancestrale. ……i singoli che compongono la folla non hanno più paura l’uno dell’altro, si percepiscono come solidali, uguali, non temono più il contatto….. Questo passaggio fondamentale vale per le masse statiche, che di più esaltano compattezza, e per quelle dinamiche, le folle, nelle quali di più si realizza la fusione dei corpi. E vale per tutte le altre forme di massa che Canetti esamina: quelle chiuse e quelle aperte, quelle lente e quelle rapide, in tutte appare evidente, a suo avviso, che …….all’interno della massa domina l’uguaglianza…… La stretta relazione fra mondo animale e mondo umano si evidenzia anche nelle dinamiche interne alla massa, quella del branco, quella della muta di cani. Il ruolo dominante dell’uguaglianza fa sì che tutte le stesse caratteristiche che la psicologia collettiva attribuiva alle folle: assenza di ragionamento, irresponsabilità, animalità, scomparsa dell’individuo, perdano la loro negatività e diventino l’inevitabile corollario di un processo positivo, costruttivo. In Canetti la massa, la folla, sono come per la psicologia collettiva, e forse persino di più, alternative all’individuo ma questo non si traduce in una critica della democrazia, se democrazia è una forma politica che ha come base ……l’uguaglianza di principio fra gli individui e la salvaguardia dei loro diritti……. L’incontro sul terreno dell’uguaglianza annulla ogni distinguo fra massa e democrazia. E’ semmai, nella visione di Canetti, una estremizzazione della democrazia …….la massa porta l’uguaglianza alle ultime conseguenze e l’individuo, lo spazio che circonda l’individuo, scompare…… “Masse e potere” è un prezioso esempio di come si possa guardare alla folla, ed al suo rapporto con la democrazia, senza disprezzarla nel momento stesso in cui viene definita  come tale. La massa, la folla, con Canetti smette di esser un soggetto solo negativo, inferiore, malato, l’uguaglianza che in essa si realizza la proietta in tutt’altre direzioni. Se con Canetti si hanno quindi suggestioni che fanno guardare alla folla con uno sguardo diverso, non di meno l’altro protagonista della psicologia collettiva, l’individuo, viene differentemente considerato in altre analisi.
Già a partire dalla stessa psicologia collettiva e attraversando successive numerose scuole di pensiero, si affermano almeno quattro diverse sue interpretazioni. La prima evidenzia criticamente l’enfasi eccessiva del ruolo dell’individualità che, mossa dai timori legati all’estensione della democrazia, scarica sul soggetto “folla” queste paure. La seconda pone in luce la fragilità della costruzione teorica di un individuo ideale che, quando non fagocitato dalla folla, mantiene un perfetto autocontrollo ed usa la ragione per tenere a bada istinti e passioni. Una posizione ben sostenuta dalla scuola di Francoforte, in particolare nelle analisi di Max Horkheimer (1895-1973 filosofo e sociologo tedesco) e di Theodor Adorno (1903-1969, filosofo e sociologo tedesco), che critica apertamente il paradigma dell’individualismo capitalistico. Una terza interpretazione mette in dubbio le caratteristiche solo positive dell’individuo evidenziandone al contrario gli aspetti di meschinità e debolezza. Una quarta posizione chiama in causa come principale fattore della “folla” l’eccesso di atomismo, di frammentazione individualistica, tipici della modernità. Tutte queste perplessità muovono da una comune considerazione di tipi evoluzionistico: l’individuo è una costruzione “culturale” che si è progressivamente consolidata con passaggi storici contorti e contraddittori. L’homo sapiens non nasce infatti come individuo, ma come membro indissolubilmente legato al gruppo, alla comunità. Per alcune centinaia di migliaia di anni, senza contare l’analoga evoluzione precedente, la dimensione del collettivo è stata l’unica atta a superare le difficoltà di sopravvivenza della specie.  In essa l’individuo non era visto come entità a sé stante, di esso, come soggetto sociale autenticamente autonomo, è forse possibile parlare solo a partire  dalla rivoluzione culturale conseguente a quella agricola di poche migliaia di anni fa. Questa fragilità evoluzionistica emerge con evidenza soprattutto nella prima, terza e quarta interpretazione dell’individuo, essendo la seconda più strettamente legata al rapporto individuo-capitalismo. Su queste tre posizioni si concentra l’attenzione di Michela Nacci. La prima critica, guardando alla netta opposizione che la psicologia collettiva propone fra folla e individuo, evidenzia che ……solo in una cultura profondamente improntata all’individualismo può nascere la folla…… Per quanto questa possa essere la dimensione sociale entro la quale l’individuo perde le sue caratteristiche costitutive non si ha folla senza individui. Ed immaginare che nel passaggio in essa l’individuo subisca una trasformazione radicalmente negativa è operazione possibile solo se, preliminarmente, l’individuo è visto solo in termini positivi. Vale a dire che …..solo quando l’individualismo è considerato l’unico modello sociale che si crea l’impressione che se si attenta ad esso tutta l’impalcatura della società crolla…….. Ci si trova quindi di fronte ad una sorta di circolo vizioso basato su un presupposto non dimostrato. Che cos’è infatti l’individuo? Come è fatto quell’io che nella folla viene fagocitato dall’io collettivo? A queste domande, già nell’ambito della stessa psicologia collettiva e via via a seguire con crescente intensità, basti pensare all’irruzione della psicologia freudiana, …..l’individuo si presenta sempre più incerto, insicuro, frantumato al suo interno…… lontanissimo quindi da quel soggetto consapevole e sicuro di sé preda inspiegabile della folla. E’ questo l’assioma su cui si basa la terza critica alla teoria della folla. Quella che di più mette in luce la fragilità evolutiva della figura dell’individuo. Nel quale costantemente emergono gli istinti, le tensioni, le pulsioni, tutte eredità del suo lungo passato. Un bagaglio inconscio che non è governabile né dalla volontà né dalla razionalità, le quali non essendo dati naturali, ma il risultato, relativamente recente nel percorso evolutivo ……. di una conquista basata su sforzi, educazione, esperienza…… che non riescono a gestire l’improvviso riaffiorare dell’inconscio primitivo. In fondo quello che ritroviamo nella folla è questo insieme di automatismi comportamentale del tutto istintivi e incontrollabili che già giacciono nell’individuo. …….ecco perché la folla è la negazione punto per punto dell’individuo perché essa proviene dall’individuo…… La quarta critica muove dal considerare la presunta coesione frutto delicato e provvisorio dell’equilibrio che si instaura fra gli atomi, la moltitudine di individui, che la compongono. Atomi che con l’avvento della modernità sempre più ruotano su traiettorie autonome, separate, concentrate sul proprio personale interesse, ma che da nessuna parte portano se non all’insoddisfazione, all’amarezza di obiettivi e speranze irraggiungibili. Al punto che è proprio la folla, nel momento in cui formandosi fa crollare le barriere che dividono gli individui atomo, a mettere in luce questo lato oscuro dell’individualità. …….l’individuo da salvezza che poteva rappresentare rispetto alla folla si rivela il responsabile della sua esistenza…….  Una lunga scia di pensatori da tempo vede nell’eccesso di individualismo una delle cause fondamentali della crisi della democrazia e dell’intera coesione sociale. Basta pensare, tanto per citare alcuni degli ultimi a muoversi in questo ambito, a Richard Sennet (sociologo statunitense) con il suo “declino dell’uomo pubblico” ed a Zygmunt Baumann (1925-2017, filosofo e sociologo polacco) con il suo ampio riflettere sulla “società liquida”. L’eccesso di individualismo, dell’atomismo individuale, è il rovescio speculare della folla ed insieme, quindi, la sua premessa. Di fatto …..una società composta da individui rappresenta l’introduzione migliore ad una società formata da folle……. In sostanza la contrapposizione fra individuo e folla proposta dalla psicologia collettiva di fine ottocento, non sembra aver retto né quando assegna all’individuo la parte del “buono”, del soggetto razionale e autocontrollato, né quando vede nella folla, la parte “cattiva”, solo una esplosione irrazionale e incontrollata di istinti e pulsioni di norma tenute sotto traccia fino al traumatico avvento della modernità. E’ oggi? E’ ripresentabile una simile contrapposizione in un’epoca di individualismo imperante definitivamente sdoganato e celebrato da globalizzazione e neo-liberismo? Se è tutta da dimostrare la sussistenza della contrapposizione, perlomeno nei termini allora proposti, è certo però che sono mutate le “folle” e ancor di più l’individuo che ha accentuato la sua inconsistenza come soggetto principale delle relazioni sociali.  ……..le posizioni sembrano ribaltate: la folla era il monstrum che spaventava ora è l’individuo il monstrum che spaventa…… Al punto che è dal vuoto sociale dell’individualismo che può derivare una ripresa del ruolo del soggetto collettivo. A patto, evidenzia al termine del suo saggio Michela Nacci, di prendere le giuste distanze dagli aspetti negativi della “folla” puntando piuttosto su quelli positivi, perché di opposta natura, delle “moltitudini”, soggetti sociali persino troppo quieti, silenziosi, indifferenti. Soggetti che attendono quindi di essere mobilitati in alternativa sia agli eccessi di individualismo sia a quelli delle “folle”, assimilabili a quelle della psicologia collettiva, che ancora si agitano nelle pieghe dei nuove forme di comunicazione e relazione non più “fisica”. Sono molti gli autori che propongono percorsi rivolti alle moltitudini. Fra i tanti velocemente citati dalla Nacci ci piace quello a noi più prossimo, Giorgio Agamben (filosofo italiano, docente alla Sapienza di Roma, autore di numerosi saggi) che guarda con favore a comunità composte da “gente” in grado di abbandonare individualismi e chiusure. Un ammonimento è sicuramente ricavabile dalla psicologia collettiva: l’uso attento e ragionato del termine  ……non basta che alcuni o molti siano riuniti perché si abbia folla……. Occorre saper differenziare e richiamare la folla della psicologia collettiva solo quando davvero si ripresenta con le caratteristiche che questa le ha attribuito.

INTRODUZIONE
No, non è un refuso. Abbiamo volutamente spostato al fondo idi questa sintesi del saggio di Michela Nacci la sua “Introduzione”. Per evitare che la pur comprensibile esigenza di dare un volto dei giorni nostri al “volto della folla” finisse per condizionare la conoscenza di una dea di “folla”, che ai giorni nostri ovviamente porta, ma che ha caratteristiche specifiche meritevoli di essere conosciute, ed utili come chiave di lettura del presente, ma senza le possibili forzature di una preventiva identificazione. Ciò detto riprendiamo dall’introduzione  un passaggio, perdonate la sua lunghezza ma merita di esser ripreso integralmente, che riassume le caratteristiche attribuite al “populismo” odierno …….non ragiona, non discute, non ascolta le opinione diverse, manifesta senza timori gli istinti da cui è mosso, si fa trasportare da affetti e passioni, ama e odia senza vie di mezzo, nutre venerazione verso il leader, cerca il capro espiatorio, forma un insieme compatto che deve confermare continuamente la sua compattezza, emargina ed espelle chi dissente, definisce un nemico esterno e basa sulla lotta ad esso la sua unità, sa di essere incompetente ma vuole che la sua opinione conti, critica la politica, i politici, gli esperti, vuole eliminare ogni mediazione ed esprimersi direttamente, è il soggetto del quale si è detto che “vota con la pancia”……..E’ forse questo l’odierno “volto della folla” così come descritto dalla psicologia collettiva?

venerdì 1 novembre 2019

La parola del mese - Noveembre 2019


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

NOVEMBRE 2019

E’ più volte successo che un termine, di nuovo conio e spesso composto come in questo caso, riassuma situazioni o processi anche molto complessi e articolati. Ed altrettanto spesso di tali termini, si pensi ad esempio alle varie versioni di Internet o a Industria 4.0, pur entrati nel linguaggio comune, non si ha una esatta padronanza e conoscenza. Si sa in linea di massima a che cosa esso si riferisca ma se chiamati a precisarne il significato un poco si va in crisi. E’ il caso del termine, composto ed inglese ma ormai entrato a pieno titolo nel vocabolario italiano, che abbiamo scelto come “parola del mese” per Novembre 2019. Stiamo parlando di ………

GREEN ECONOMY

Molti ormai sanno che questo termine si riferisce ad un modo diverso di produrre, meno inquinante e più attento agli aspetti ecologici dei processi economici, ma per meglio comprendere a che cosa ci si riferisce quando viene richiamato, sovente con un eccesso di enfasi propagandistica, può essere utile la seguente definizione tratta da Wikipedia, quella che fra le tante presenti in Rete ci è sembrata la più abbordabile e la meno specialistica……..
Si definisce green economy (economia verde) o più propriamente economia ecologica, un modello teorico di sviluppo economico che prende origine da un'analisi bioeconomica del sistema economico dove oltre ai benefici (aumento del Prodotto Interno Lordo) di un certo regime di produzione si prende in considerazione anche l'impatto ambientale cioè i potenziali danni ambientali prodotti dall'intero ciclo di trasformazione delle materie prime a partire dalla loro estrazione, passando per il loro trasporto e trasformazione in energia e prodotti finiti, fino ai possibili danni ambientali che produce la loro definitiva eliminazione o smaltimento. Tali danni spesso si ripercuotono, in un meccanismo tipico di retroazione negativa, sul PIL stesso diminuendolo a causa della riduzione di resa di attività economiche che traggono vantaggio da una buona qualità dell'ambiente come agricoltura, pesca, turismo, salute pubblica, soccorsi e ricostruzione in disastri naturali. Questa analisi propone come soluzione misure economiche, legislative, tecnologiche e di educazione pubblica in grado di ridurre il consumo d'energia, di rifiuti, di risorse naturali (acqua, cibo, combustibili, metalli, ecc.) e i danni ambientali promuovendo al contempo un modello di sviluppo sostenibile attraverso l'aumento dell'efficienza energetica e di produzione che produca a sua volta una diminuzione della dipendenza dall'estero, l'abbattimento delle emissioni di gas serra, la riduzione dell'inquinamento locale e globale, compreso quello elettromagnetico, fino all'istituzione di una vera e propria economia sostenibile a scala globale e duratura servendosi prevalentemente di risorse rinnovabili (come le biomasse, l'energia eolica, l'energia solare, l'energia idraulica), la promozione/adozione di misure di efficientamento energetico e procedendo al più profondo riciclaggio di ogni tipo di scarto domestico o industriale evitando il più possibile sprechi di risorse. Si tratta dunque di un modello fortemente ottimizzato dell'attuale economia di mercato almeno nei suoi intenti originari.
La green economy, in questa sua accezione, sembra ormai essere stata adottata, se si fa riferimento al suo quotidiano richiamo da parte di uno schieramento trasversale e internazionale, come la “soluzione” sulla quale puntare per fronteggiare l’emergenza ambientale, ed in particolare quella climatica, senza al contempo compromettere l’andamento dell’economia, puntando quindi ad una sua radicale trasformazione “green”. Nulla da eccepire sulle buone intenzioni, che, per essere realmente coerenti, dovrebbero essere tradotte in orizzonti temporali di applicazione molto precisi e vincolanti visti i drammatici e incalzanti scenari che devono inderogabilmente essere affrontati nei prossimi decenni. Proprio la portata della posta in palio impone però al tempo stesso uno sforzo di maggiore conoscenza e comprensione della reale possibilità che quanto si è fin qui inteso come green economy sia davvero in grado di produrre la tanto attesa svolta, radicale ed efficace, sul rapporto fra attività umane ed ambiente, fra economia, intesa in senso lato, e pianeta Terra. Uno sforzo che, per ragioni qui di seguito precisate, DEVE davvero coinvolgere tutti i soggetti chiamati a concorrere ad ogni livello. Questo è, nel nostro piccolo, un primo contributo in questo senso da parte di CircolarMente. Il primo dato utile per questa conoscenza e comprensione è quello relativo alla “breve” storia della green economy ed alla sua capacità di aver inciso, anche se solo come primo impatto verificabile, sulle dinamiche del degrado ambientale
Dalla rivista on-line Jacobin Italia,
 ……… La strategia del «capitalismo verde» è stata adottata dal Vertice della Terra di Rio, nel 1992. Ma la storia parla chiaro: le emissioni hanno continuato ad aumentare (sono addirittura aumentate più rapidamente che nel periodo precedente al 1992. In 25 anni, da Rio in poi, le emissioni sono diminuite solo nel 2008-2009 e peraltro come risultato della recessione economica, le cui conseguenze sociali sono state molto gravi……
Dato confermato da questo diagramma, relativo all’andamento delle emissioni di CO2 in atmosfera,  tratto dal sito qualEnergia.it e 
Emerge con evidenza una curva in costante crescita con una ulteriore impennata proprio a partire dal nuovo millennio in evidente contrasto con la “buona volontà” di Rio 1992 di adottare politiche di green economy. Un ulteriore aiuto a meglio capire può venire dai seguenti dati tratti dal sito on-line valori.it

Emissioni CO2 2018: mai così alte grazie a Cina e USA

Le emissioni mondiali di CO2 registreranno un nuovo record nel 2018. A dirlo è uno studio condotto dai ricercatori del Global Carbon Project e dell’università dell’East Anglia, secondo cui le emissioni generate dall’uso dei combustibili fossili cresceranno del 2,7% raggiungendo nel 2018 i 37,1 miliardi di tonnellate. Se si aggiungono i 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica che derivano dalla deforestazione e da altre attività umane, il totale per l’anno in corso è di 41,5 miliardi di tonnellate. Stando alla ricerca, pubblicata sulla rivista Nature nei giorni in cui in Polonia si sta svolgendo la conferenza Onu sul clima, l’incremento è determinato da «una solida crescita del consumo di carbone per il secondo anno consecutivo, e da una crescita sostenuta del consumo di petrolio e gas». Le emissioni di CO2 erano aumentate anche nel 2017 sebbene in misura inferiore (+1,6%), mentre erano rimaste stabili nei tre anni precedenti, dal 2014 al 2016. A crescere di pari passo con le emissioni è la concentrazione di CO2 in atmosfera. Per 2018 è stimata in 407 parti per milione, 2,3 parti in più del 2017. Il livello è del 45% superiore rispetto al periodo preindustriale. La maglia nera delle emissioni 2018 va nuovamente alla Cina, che registra una crescita del 4,7% e da sola genera il 27% della CO2 mondiale. Seguono Usa (15% del totale), India, Russia, Giappone, Germania, Iran, Arabia Saudita, Corea del Sud e Canada. L’Unione Europea, se considerata nel suo complesso, si piazza al terzo posto, con il 10% delle emissioni globali.
Appare evidente che TUTTE le maggiori economie si comportano in modo esattamente contrario non soltanto alle buone intenzioni di Rio 1992 ma anche degli impegni solennemente presi alla COP 21 di Parigi 2015. La spiegazione di questa, tanto evidente quanto drammatica, contraddizione può essere una sola: l’economia mondiale continua ad essere inflessibilmente governata dalle logiche di mercato e del profitto e dal mito della crescita “costi quel che costi”. Queste logiche impongono che le modalità di produzione restino tali fin tanto che sono in grado di generare margini convenienti di profitto e che “eventuali” cambiamenti possano essere adottati solamente quando saranno in grado di generarne altri più attrattivi. Al di là quindi di ogni richiamo ad una diversa etica ambientale appare evidente che i soggetti economici, privati e pubblici, potranno orientarsi verso una green economy solo sulla base di valutazioni di redditività e solo se in grado di gestirla sulla base delle irrinunciabili logiche di profitto. Questa considerazione di forte critica, e di conseguente perplessità sulla retorica della green economy, è sempre più diffusa e non soltanto in ambiti tradizionalmente sensibili alle tematiche ambientali. Può valere come esempio significativo ed interessante questo articolo, tratto dal sito on-line Cosmopolis, Rivista di filosofia e teoria politica che aggancia a queste considerazioni altre, non meno decisive per meglio capire e valutare la green economy, più legate proprio al suo aspetto ecologico……..
Green economy: tattica o strategia?
Green economy, economia verde, Ecological economics… addirittura Green New Deal: chi frequenta i mondi, virtuali e fisici, vicini all'ambientalismo e più in generale all'area progressista non può fare a meno di imbattersi quotidianamente e spesso più volte al giorno in citazioni e dissertazioni sul tema. Una ricerca per Green economy ristretta ai soli siti "italiani" rintraccia in Internet oltre 160.000 citazioni.  L'inflazione di interventi e discussioni in proposito è senza dubbio ben motivata. La contemporaneità tra la peggiore crisi economica della storia moderna e l'esplodere dell'emergenza climatica chiaramente giustifica da sola l'enfasi data a quella che appare come la soluzione in un colpo solo di due problemi: uscire dalla recessione, e affrontare alla radice le cause del riscaldamento globale dovuto ai combustibili fossili. La prospettiva di disporre di una tale "bacchetta magica" è talmente suggestiva da lasciare poco spazio ad approfondimenti su due aspetti, uno operativo e l'altro concettuale, che appaiono invece cruciali per meglio comprendere la portata e i limiti delle soluzioni offerte dalla Green economy::
  • cosa caratterizza un'attività economica come effettivamente "verde", al di là dell'inevitabile sfruttamento commerciale di una terminologia in voga?
  • come si inquadra la Green economy in una strategia più ampia di ripensamento dei modelli economici tuttora dominanti?
Questo approccio si guarda bene dal mettere in discussione l'equivalenza sviluppo = crescita e assegna alla Green economy esclusivamente il ruolo di volano per rimettere in moto la macchina economica, sostituendo o affiancando a produzioni tradizionali in crisi, nuove attività classificabili come ecologiche, in modo da tener stabile o meglio ancora aumentare il tradizionale e unico indicatore del benessere economico nazionale: la crescita del Prodotto interno lordo. Peraltro, questa impostazione – che dovrebbe condurre ad un rilancio della produzione – malauguratamente non è associata ad azioni conseguenti e coerenti e quindi rischia di non condurre neanche ai risultati macroeconomici che si propone. Infatti come su molti altri temi, si enunciano principi ed obiettivi per poi contraddirli con scelte operative di segno completamente opposto. Qualche riflessione sui criteri per la classificazione delle attività economiche che vengono prospettate come eco-compatibili appare importante come strumento per evitare le insidie di un eccessivo e indiscriminato entusiasmo. Indubbiamente è verde un business che sia incentrato su prodotti o servizi intrinsecamente sostenibili, la cui realizzazione richiede esclusivamente risorse rinnovabili. In questa categoria si possono classificare senz'altro esempi come la generazione di energia da fonti rinnovabili, la produzione di imballaggi riutilizzabili o rigenerabili, il turismo a basso impatto in strutture ricettive combinate ad aziende agricole. Attività di questo tipo appaiono teoricamente replicabili a piacere senza arrecare danni all'ambiente e senza porre questioni di sostenibilità, a meno di ipotizzare il raggiungimento di un livello tale di produzione da incontrare i limiti della capacità rigenerativa di una risorsa rinnovabile utilizzata (acqua, biomassa…), o della disponibilità di un elemento accessorio alla produzione non considerato in prima approssimazione (per esempio l'utilizzo di suolo per la installazione di pannelli fotovoltaici). Cautela è comunque necessaria nella valutazione della sostenibilità dell'intera catena del valore coinvolta. Produzioni che ad una prima analisi possono apparire ambientalmente convenienti possono implicare effetti secondari disastrosi. Un esempio clamoroso è l'utilizzo di olio di palma per la produzione di biodiesel, inizialmente accolto con entusiasmo come fonte di energia rinnovabile caratterizzata da un bilancio del ciclo CO2 favorevole e al tempo stesso capace di consentire sviluppo economico in zone del sud-est asiatico fino ad allora arretrate. La successiva impennata della produzione (con punte del 400% in 10 anni in alcuni paesi) ha rapidamente mostrato la sostanziale insostenibilità dello sfruttamento di questa risorsa, a seguito del sistematico disboscamento di foresta tropicale praticato per ricavare nuove aree coltivabili, la drastica distruzione di biodiversità che ne consegue e, secondo le ultime valutazioni, persino un bilancio di CO2 sfavorevole a causa del rilascio di quella precedentemente intrappolata nel sottosuolo dei terreni disboscati Una seconda categoria più ampia e sfumata è quella in cui la caratteristica green del prodotto o servizio consiste in un minore impatto ambientale rispetto a prodotti già esistenti. In questo caso si ragiona "per sottrazione", permettendo di definire (spesso a fini di promozione commerciale) come "eco" ad esempio un'automobile con motore a combustione interna, perché consuma significativamente meno carburante delle concorrenti, oppure un tipo di batteria perché ha un ridotto tenore di sostanze pericolose per l'ambiente .Poiché lo sviluppo di nuovi prodotti o la modifica di quelli esistenti per ridurne l'impronta ecologica, richiede spesso una rivisitazione dei processi aziendali e delle tecniche produttive, questa classe di attività ha un forte potenziale di traino rispetto ad attività correlate che costituiscono in un certo senso l'indotto della Green economy e sono fortemente connesse ad innovazione e ricerca: ottimizzazione e rinnovo delle tecnologie di processo utilizzate, riuso o riciclo di materiali, risparmio e recupero energetico, persino adozione di sistemi software che supportino la minimizzazione dell'impatto ambientale sin dalla fase di design.  Attività di questo tipo hanno sicuramente un effetto benefico sull'impronta ecologica del sistema economico di un paese e al tempo stesso possono dare realmente impulso all'economia nazionale. Si deve però riflettere sui limiti che i meccanismi appena descritti hanno in una prospettiva di più lungo termine. Come discusso, infatti, i benefici ambientali ottenuti con l'economia verde rientrano in gran parte in una logica di "riduzione del danno". Si producono beni nuovi o migliorati, in modo da utilizzare minori quantità di materie prime e di energia e con maggiore attenzione agli impatti sull'ecosistema dell'intero ciclo di vita dei prodotti. Ma fintanto che l'obiettivo dal punto di vista economico resta quello di aumentare indefinitamente la quantità dei manufatti e il loro valore aggiunto, questo approccio può solo spostare in avanti il limite temporale al quale l'intero sistema risulterà comunque insostenibile……..(prosegue)
Accanto al peso contraddittorio delle logiche di profitto, che rallentano o accelerano la green economy esclusivamente su ragioni di ritorno economico, si apre quindi, viste alcune illuminanti osservazioni del precedente articolo, una finestra sulla stessa “validità ambientale” di molti dei fattori che la costituiscono. Molto polemico e critico in questo senso è il seguente articolo tratto dal sito ilconformistaonline ………
Bugie Verdi. La green economy che distrugge l’ambiente
La green economy nuoce all’ambiente. Dai pannelli fotovoltaici alle auto elettriche, le tecnologie “pulite” consumano troppe risorse naturali, e per questo sono ”veleno per l’ecosistema” (p.19).  E’ la tesi, provocatoria, che Friedrich Schmidt-Bleek –  fondatore del Wuppertal Institute für Umwelt, Energie und Klima presenta nel suo ultimo saggio Bugie Verdi. Nulla per l’ambiente, tutto per il commercio – come politica e economia mandano in rovina il mondo). La riflessione di Bleek muove dalla critica alle politiche ambientali del governo tedesco, concentrate esclusivamente su efficienza energetica e lotta alle emissioni di CO2, e cieche di fronte alla causa precipua del “degrado ambientale”: il consumo eccessivo di risorse naturali che la nostra economia richiede. Schmidt-Bleek introduce i concetti di “zaino ecologico” e di “MIPS“, (intensità materiale e energetica del prodotto per unità di servizio), termini chiave del suo lavoro. Ogni bene, nel tragitto che percorre dalla “miniera” alla vendita, consuma una determinata quantità di Natura (acqua, suolo, materie prime biotiche e abiotiche, energia), non computata nel prezzo finale di mercato. Si parla, in proposito, di “zaino ecologico” delle merci, pari alla differenza tra kg di risorse naturali utilizzate per la sua produzione e peso del prodotto (in kg).  L’intensità materiale va calcolata considerando tutte le fasi di vita del prodotto – estrazione, produzione, distribuzione, uso, riciclo/smaltimento – e rapportata alla durata del servizio offerto dal bene. L’impronta ecologica di una merce sarà quindi tanto più bassa quanto minore è il suo zaino ecologico e quanto maggiore è la durata della sua vita utile e più intenso il suo utilizzo. Nella nuova prospettiva delle “risorse”, tecnologie che appaiono eco-compatibili secondo il parametro delle emissioni di carbonio e del consumo di combustibili fossili, risultano dannose per l’ambiente. Prendiamo l’auto elettrica e quella a motore ibrido. In generale, nel Material Input complessivo di un’autovettura il consumo di carburante incide solo per il 15-20%. Concentrandoci solo sulle emissioni nocive di CO2 riconducibili a questo, ci si dimentica del restante 80%, responsabile dei maggiori danni all’ambiente.  Schmidt Bleek può affermare a ragione che “Il prezzo ecologico dell’auto elettrica è notevolmente più elevato di quello delle vetture che vanno a benzina e diesel” perché la sua produzione richiede materiali rari come rame e litio, che portano “sulle proprie spalle”, secondo le tabelle inserite in appendice al libro (pp. 260-287), zaini ecologici molto pesanti. Per ogni kilogrammo di rame prelevato, per esempio, vengono “disturbati” 500 kg di altri materiali. L’estrazione massiva di litio dai laghi salati di Cina e Sudamerica sconvolge inoltre l’equilibro di quegli ecosistemi, con effetti sistemici imprevedibili. Ampie controindicazioni presentano anche l’utilizzo di biomassa come combustibile “pulito” e i pannelli fotovoltaici. La produzione di biocarburanti sottrae terreni per l’autosufficienza alimentare delle popolazioni del Sud America, mentre i pannelli fotovoltaici hanno ancora un’efficienza ecologica molto bassa: 1,8 kg di materiali naturali per kilowattora prodotto . Schmidt Bleek critica l’ottimismo naive di chi ritiene che la maggior incidenza dei servizi sul PIL nelle economie avanzate si traduca automaticamente in una de-materializzazione delle merci, tale da disaccoppiare la crescita economica dal consumo di risorse.  E’ un’illusione: le tecnologie dell’informazione e comunicazione sono tutte estremamente material intensive: la produzione di un computer richiede circa 1500 kg di materiali naturali, uno smartphone di circa 150 grammi, 70 kg. Una politica che punti seriamente a preservare le essenziali funzioni dell’ecosistema dovrebbe, per Schmidt Bleek, impegnarsi su due fronti: migliorare la produttività delle risorse (minimizzando l’input di materia-energia impiegato nell’intero ciclo di vita del prodotto)  di un fattore 10 nell’arco dei prossimi 30 anni da un lato, e ridurre il flusso di merci prodotte, aumentandone nel contempo la durata e l’intensità d’utilizzo, dall’altro. Ciò è fondamentale, perché se “si riducesse l’intensità materiale ed energetica di auto e telefonini, ma nello stesso tempo si aumentasse del doppio la loro produzione, l’effetto positivo di un minor zaino ecologico per unità di prodotto si annullerebbe. Per conseguire il primo obiettivo andrebbe reso decisamente più caro per le imprese l’utilizzo del fattore di produzione “natura”, oggi praticamente gratuito, a differenza del fattore “lavoro”, sul quale ricade un abnorme fardello fiscale. Una riforma fiscale ecologica tale da rendere più costoso il consumo di risorse naturali e più economico il lavoro, spingerebbe – attraverso il potere segnaletico dei prezzi – gli attori economici a orientare in senso sostenibile il sistema dell’estrazione delle risorse e della produzione, quello della logistica, dello smaltimento e del riciclo; oltre a combattere la piaga della disoccupazione……..(prosegue)
Queste ulteriori osservazioni consentono di capire quanto la prospettiva di una svolta ecologica della produzione e dell’economia sia un processo complesso ad iniziare dalle stesse caratteristiche “tecniche” che dovrebbero caratterizzarla. Considerazioni quanto mai complicate che in questo nostro primo approccio al tema possono essere solamente accennate. Vale invece la pena di riprendere le valutazioni sulla reale e veritiera “filosofia” che dovrebbe animare la green economy, collegandoci in questo senso al saggio di Razmig Keucheryan “La natura è un campo di battaglia” sintetizzato come “Saggio del mese” di Agosto 2019 e ad alcuni spunti alla discussione nel merito offerti dal seguente articolo tratto dal sito on-line decrescita.com
La favola della green economy come panacea di tutti i mali
…………Adesso è il turno della green economy, una versione aggiornata dello sviluppo sostenibile, anche se non necessariamente sostitutiva di quella più “datata”, anche perchè i due concetti non solo possono convivere ma l’ultima si inserisce perfettamente nella prospettiva della prima. I paesi potenti e i grandi “poteri” non hanno alcun interesse a modificare le cause strutturali del disastro climatico. Al contrario tutti sembrano ormai convinti, al Nord come al Sud, che la soluzione alla crisi mondiale passi per il rilancio della crescita, dell’economia di mercato, ma di colore verde (automobile verde, energia verde, abitazione verde…). ……… Di fatto continuano le logiche economiche, soprattutto finanziarie, per risolvere il disastro ecologico mantenendo intatto il mito, il primato del consumo. Consumo sempre energivoro, ma verde! Insomma, quello che serve per “rinverdire” la fiducia in questo modello di sviluppo e di società senza discuterne le fondamenta. Un “correttivo” improntato su possibili alternative alla produzione di energia che certo rappresenta un bel problema ma non è l’unico. Non si tratta solo di scegliere la bicicletta all’automobile, il biologico o la “filiera corta” ai prodotti della grande distribuzione, la verdura all’hamburger, il sole al nucleare, il riciclo all’usa e getta. Bensì di applicare un principio guida trasversale e sistemico ad ogni settore “merceologico” e prescrivere delle specifiche tecniche e modalità concretamente misurabili (con indicatori diversi e alternativi a quelli del PIL e simili): ad esempio la decrescita dei flussi di energia e delle materie prime impegnati nei cicli produttivi e di consumo. Non contestiamo l’importanza e l’urgenza di ‘mettere al verde’ le nostre economie, tuttavia colorare di verde il sistema economico senza modificarne i principi e le modalità di funzionamento che sono all’origine della crisi, ha poco senso. Abbiamo davvero bisogno di altre centinaia di milioni di automobili e di camion, anche se verdi? Milioni di case “passive” non risolveranno niente per miliardi di persone povere, senz’acqua potabile né servizi sanitari, senza abitazione decente, senza accesso alla sanità e all’istruzione base. Oggi ci confrontiamo con tanti “ambientalisti” che credono di poter arrestare il collasso degli ecosistemi affidandosi al “green business”, di fatto identificando il problema ambiente soltanto con il mutamento climatico; il quale certo, nell’impazzimento delle stagioni e nel moltiplicarsi di fenomeni meteorologici “estremi”, ne costituisce la conseguenza più grave, ma non può essere considerata la sola, col rischio di mancare l’intero obiettivo. ………. Facciamo l’ipotesi che le grandi multinazionali del petrolio, della chimica, dell’agricoltura riconvertano le loro produzioni in senso ambientale, così da avere grandi benefici sull’inquinamento, sull’effetto serra, sui cambiamenti climatici ecc. Però rimarrebbero salde le logiche del profitto, le differenze e le ingiustizie sociali, lo sfruttamento dei popoli (specie quelli dei sud del mondo) le guerra e altro.
Esattamente quelle che hanno prodotto l’attuale stato delle cose e che rendono, come logica conseguenza, molto problematica la reale efficacia di una green economy se con esse non ci si misura in modo radicale. Riprendiamo dalla rivista on-line Jacobin Italia, un secondo estratto da un articolo di Daniel Tanuro
………. Dobbiamo rompere con il modello della crescita, ma se è vero che «un capitalismo senza crescita è una contraddizione in termini», (Schumpeter), allora è necessario tracciare una via d’uscita dal capitalismo perché, come ha detto Einstein, «non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato». Dobbiamo adottare due principi molto chiari: produrre di meno e condividere di più; produrre per reali bisogni umani, democraticamente determinati nel rispetto degli ecosistemi e non a scopo di lucro …….
Posizioni condivisibili o no ma che quantomeno, a nostro modesto avviso, aiutano a capire che dietro la facciata propagandistica la green economy può raggiungere risultati concreti solo se diventa, nella fisiologica diversità di accenti, l’occasione per un coinvolgimento veramente democratico dell’intera società nell’affrontare scelte drammaticamente decisive per il nostro futuro all’interno di un quadro che realmente metta in rapporto tra di loro ……..
La green-economy, anche per le problematiche qui viste, si presenta quindi, proprio per dare sostanza alla sua condivisibilissima ambizione di fronteggiare l’emergenza ambientale, come una occasione straordinaria per riflettere ed agire sulle logiche che questa emergenza hanno creato. Una occasione che va colta ad ogni livello. CircolarMente è convinta che l’ambito locale possa, proiettandosi verso il contesto globale, giocare un ruolo fondamentale in questo senso. Più che mai una vera svolta a livello globale, se non si vuole restare ancorati a messianiche attese salvifiche, va costruita e concretamente avviata proprio partendo dagli ambiti locali, i quali vanno, per essere coerenti con questi obiettivi, ridefiniti superano antistorici localismi. Nel nostro piccolissimo contesto l’esperienza della costituzione dell’area di salvaguardia della Dora, alla quale abbiamo dedicato la nostra prima iniziativa del programma 2019-2020 e che, come abbiamo visto, coinvolge diversi comuni, può davvero rappresentare una occasione di riflessione su questi temi ed un concreto volano per avviare cambiamenti reali ed efficaci