venerdì 21 aprile 2023

Conferenza del 19 Aprile 2023 - relatore prof. Giuseppe Gabusi

 Diversamente da tutte quelle precedenti non è stato possibile registrare la relazione del prof. Giuseppe Gabusi tenuta Mercoledì scorso con tema "La Cina al centro del cambiamento globale". Ne siamo particolarmente dispiaciuti perchè è stata una relazione molto chiara e approfondita sulle attuali dinamiche geopolitiche che ha ben coinvolto i partecipanti viste le tante domande di approfondimento che sono seguite. Come rimedio, molto parziale, pubblichiamo una intervista, di pochi giorni addietro, al prof. Gabusi che quantomeno riporta alcuni dei punti affrontati nel suo intervento.

La Cina punta alla leadership del Sud globale, un altro ordine mondiale

Intervista di Pier Paolo Luciano a Giuseppe Gabusi pubblicata in data 14 Aprile 2023 nella rivista online “mondoeconomico.eu”

Professore, Macron ha sbagliato a dire che gli europei debbono chiedersi se sia nell’interesse dell’Europa accettare le consegne altrui (leggi Stati Uniti) su Taiwan?

Terrei distinti i due aspetti, Taiwan e il rapporto con gli Stati Uniti. Su Taiwan, non mi risulta che esistano differenze di posizione formale tra Washington e l’Europa: tutti concordano sul principio di “una sola Cina”, ritengono che la questione vada risolta per via pacifica, e intrattengono rapporti economici con l’isola, ospitando nelle proprie capitali uffici commerciali di rappresentanza che, se nominati diversamente, possono creare problemi con Pechino (vedi alla voce: Lituania). Ciò detto, l’idea macroniana dell’autonomia strategica europea è da tempo in circolazione, e si inserisce in una certa tradizione francese di non condivisione di tutte le scelte dell’alleato americano (si pensi alla “politica della sedia vuota” in ambito Nato, o al mancato sostegno nella seconda Guerra del Golfo). Calato nel contesto delle tensioni sullo Stretto di Taiwan, Macron voleva forse dire che l’Europa non si sente obbligata a difendere Taiwan, qualora Pechino attaccasse. Formulato nel pieno delle nuove esercitazioni militari che simulano un blocco totale dell’isola, questo commento si è tradotto in una gaffe diplomatica che ha mobilitato – a suon di smentite e distinguo – le cancellerie occidentali. L’Europa in generale sembra avere un atteggiamento più equilibrato e meno istintivo, ma non può ritenere che la questione di Taiwan non la riguardi: quest’area infatti, se la situazione sfugge di mano, potrebbe essere il punto di innesco di una guerra mondiale. E mi meraviglia che Macron sostenga l’estraneità del quadrante alla sicurezza europea: proprio la Francia, infatti, dovrebbe preoccuparsi più di altri, visto che Parigi ama sottolineare di essere l’unico “resident power” tra gli stati membri dell’Unione, grazie ai territori d’oltremare della Nuova Caledonia e della Polinesia francese.

Lei da esperto di cose asiatiche ritiene che Macron – a parte gli importanti contratti per le aziende francesi – abbia ottenuto qualche risultato sul fronte della pace in Ucraina da Xi Jinping?

Non può ottenere nulla, finché Xi Jinping tiene il punto sull’Ucraina per resistere alle pressioni e sanzioni economiche di Washington che mirano al contenimento della Cina. Persino il modesto risultato atteso – la promessa di una telefonata a Volodymyr Zelens’kyi – è stato annacquato dall’inciso “quando sarà il momento opportuno”. Molto pragmaticamente, Pechino ritiene che né Kyiv né Mosca siano pronte per la pace, e quindi pensa che la situazione sul campo sarà determinante per stabilire le condizioni che porteranno alla tregua.

A quale ruolo punta secondo lei Pechino nella guerra della Russia all’Ucraina?

Al ruolo di capofila di una serie di Paesi del “Sud Globale” (inclusa, a questo punto, la Russia) che, pur essendo imbarazzati dalla cruda violazione del principio di integrità territoriale e dalla realtà di una guerra di annessione che appartiene a epoche passate, non vogliono essere coinvolti in un conflitto coloniale tutto interno all’Europa. Anche in questo caso la storia conta: quando gli indiani pensano a Londra, probabilmente ricordano i soldati inglesi che spararono sulla folla ad Amritsar nel 1919, più di quanto pensino ai diritti proclamati nella Magna Charta. Con la scelta di avvicinarsi a Mosca, Pechino segnala che un altro ordine mondiale, non basato sull’egemonia americana e dell’Occidente, è possibile: un ordine, ovviamente, che rispetti le specificità dei singoli stati, incluso naturalmente il monopolio del potere del Partito Comunista Cinese nella Repubblica Popolare, e un diverso modo di concepire i rapporti tra stato e individuo, tra istituzioni e comunità.

Crede che la Cina oserà oltrepassare la linea rossa di Washington, cioè la fornitura di armi a Mosca?

Ufficialmente, credo di no. Il problema è che, grazie anche alle catene globali del valore, esistono mille modi per gli operatori privati di aggirare confini, sanzioni, veti governativi, e di fare affari. L’industria delle armi è più che mai fiorente, e non sarei sorpreso di trovare – anche grazie a impensabili triangolazioni – tracce di tecnologia “dual use” cinese – o di qualsiasi altra provenienza – tra le file sia ucraine sia russe.

La presidente della commissione europea von der Leyen durante la visita a Pechino si è fatta interprete di una linea più articolata rispetto agli Stati Uniti sulla Cina. Ha voluto insomma tenere una porta aperta?

Dal 2019, come ormai noto, l’Ue definisce ufficialmente la Cina un partner negoziale, un concorrente economico e un partner strategico. Si tratta, in effetti, di una posizione più articolata rispetto all’ossessione anti-cinese che caratterizza l’intero spettro della politica americana, ma è anche vero che non è facile per l’Europa trovare un equilibrio tra posizioni antitetiche. La linea europea oggi è più ferma e franca, e sembra prendere atto della realtà: la Presidente della Commissione ha infatti ricordato di recente che l’accordo sugli investimenti firmato con la Cina dovrà essere ripensato e rivisto, perché nella situazione attuale il Parlamento europeo non ratificherà un trattato di libero scambio con un Paese che adotta sanzioni contro i propri membri.

Proprio von der Leyen ha detto che il decoupling non è nell’interesse di Bruxelles, ma sarà questo il nuovo campo di battaglia tra Cina e Stati Uniti?

Non credo a un disaccoppiamento dell’economia globale in due blocchi totalmente distinti, perché la Cina è parte integrante dell’economia mondiale ed estrometterla significherebbe farsi del male, come sanno appunto gli imprenditori tedeschi e francesi che hanno accompagnato Scholz e Macron nei loro rispettivi viaggi di stato a Pechino. Tuttavia, la guerra tecnologica in atto sui microprocessori, vista l’importanza di questi ultimi nella produzione di un’infinità di beni, dagli smartphones alle automobili, potrebbe portare a qualche forma di frattura nell’economia globale, soprattutto (ma non solo) nei settori a tecnologia avanzata, dall’intelligenza artificiale al settore biomedicale.  Il problema di fondo, però, come ricordò il settimanale britannico “The Economist” a suo tempo, è il seguente: è possibile un commercio senza fiducia? O dobbiamo commerciare solo con gli alleati? O solo con le democrazie?

E vede il rischio che Europa e Stati Uniti diventino digitalmente dipendenti dalla Cina di Xi?

Direi piuttosto che siamo tutti dipendenti da Taiwan: le aziende taiwanesi producono il 60% dei chip mondiali, e addirittura il 90% di quelli più avanzati. Più seriamente, dal momento che il sistema retto dal partito-stato cinese può permettersi forme di controllo della rete inimmaginabili per l’opinione pubblica occidentale, credo che Europa e Stati Uniti abbiano già preso contromisure, e la stessa von der Leyen ha espresso la necessità per l’Ue di rafforzare la propria capacità innovativa in questi settori.

Sbaglia l’Occidente a non voler riconoscere un nuovo status alla Cina nell’economia globale?

Mi sembra che l’Occidente da anni abbia riconosciuto un certo status alla Cina nell’economia globale: molti dirigenti delle aziende globali – a cominciare dai colossi tedeschi delle auto, a cui il tessuto produttivo italiano fornisce componentistica – sanno come oggi non si possa prescindere dal mercato cinese. Il problema è il riconoscimento di un nuovo status politico, che l’Occidente non è disposto a concedere facilmente a un Paese non democratico, estraneo alla cultura liberale su cui si è retto l’ordine internazionale almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per questo gli Stati Uniti mirano a volere mantenere esplicitamente una “soverchiante superiorità” rispetto alla Cina. Quanto questa operazione sia fattibile – e a quali costi – nella situazione attuale è tutto da verificare.


mercoledì 19 aprile 2023

Il "Saggio" del mese - Aprile 2023

 

Il “Saggio” del mese

 APRILE 2023

E’ ormai molto lungo l’elenco delle negatività economiche imputabili all’esaltazione ideologica del libero mercato capitalistico della scuola neoliberista. Nata negli USA verso la fine degli anni Settanta (vedi il precedente nostro “Saggio del mese” di Marzo 2023 = “Dominio” di Marco D’Eramo), e presto divenuta la teoria economica dominante, il neoliberismo si è dimostrato impermeabile all’accumularsi di problematiche, esplose soprattutto con la crisi globale del 2008, che evidenziano le sue profonde contraddizioni ed incongruenze. Tuttavia ancora oggi rappresenta il pensiero che di più ispira le politiche economiche globali. Un aspetto preoccupante in una fase in cui l’umanità intera è chiamata e mettere in discussione i modelli di sviluppo che hanno determinato l’emergenza ambientale/climatica e la grave ingiustizia economico-sociale globale, che impone, anche a questo modesto blog, di continuare a proporre spunti di riflessione che aiutino a meglio capire il corso della recente storia economica. Lo facciamo anche con questo “Saggio del mese”

dell’economista Ha-Joon Chang

(Ha-Joon Chang, 1963, economista sudcoreano di scuola keynesiana, specializzato in Economia dello sviluppo, Docente di Economia Politica dello Sviluppo all'Università di Cambridge, autore di numerosi saggi di grande impatto, fra i quali spicca  "Kick Away the Ladder: Strategia di sviluppo in prospettiva storica")

Questo testo si presenta con l’agile formula (ben testimoniata dalla stessa copertina) di una sorta di “botta e risposta”  che prende in esame alcuni dei più importanti teoremi neoliberisti per sottoporli a sintetico, ma non meno severo, esame. Non ha quindi la veste di un testo per addetti ai lavori, ma quella di un saggio divulgativo che mette in ordine in modo originale alcuni elementi (ben 23, ognuno dei quali da solo meriterebbe ben altri approfondimenti) a formare un quadro d’insieme che si prefigge lo scopo di coinvolgere anche “i non esperti” (quali molti di noi sono, a partire da chi scrive) con la finalità di smentire l’idea che le teorie economiche siano riservate a pochi specialisti (nell’introduzione si afferma che il 95% della scienza economica è fatto di argomenti comuni resi complicati e che il restante 5% sono sì questioni complesse, ma che possono essere spiegate con linguaggio accessibile).

SETTE MODI DI LEGGERE QUESTO SAGGIO PER PILLOLE (suggeriti “al lettore” dallo stesso suo autore)

1 = Se non sei sicuro di sapere bene cosa sia il capitalismo, leggi: Cosa 1 – 2 - 5 -8 – 13 – 16 – 19 - 20 – 23

2 = Se pensi che la politica sia fondamentalmente una perdita di tempo, leggi: Cosa 1 – 5 - 7 - 12 – 16 – 19 – 20 – 22

3 = Se ti sei chiesto perché la tua vita non sembra migliorare malgrado un reddito più alto e tecnologie più avanzate, leggi: Cosa 2 – 4 – 6 – 8 – 9 – 10 – 17 – 18 – 22

4 = Se pensi che i più ricchi sono diventati più ricchi perché sono più capaci, più istruiti, e più intraprendenti, leggi: Cosa 3 – 10 – 13 – 14 – 15 – 16 – 17 – 20 – 21

5 = Se vuoi sapere perché i paesi poveri sono poveri e come possono uscire dalla povertà, leggi: Cosa 3 – 6 – 7 – 8 – 9 -10 – 11 – 12 – 13 – 17 – 23

6 = Se pensi che il mondo sia ingiusto ma che non ci si possa fare nulla, leggi: 1 – 2 – 3 – 4 – 5 11 – 13 – 14 – 15 – 20 – 21

7 = leggi l’intero libro nell’ordine che ha (quello consigliato in questa nostra di sintesi di una sintesi)

 Cosa 1 = Il libero mercato non esiste

Cosa dicono = i mercati devono essere liberi, se lo Stato interviene per regolarlo le risorse economiche non vengono utilizzate al loro meglio. Cosa non dicono = Il libero mercato non esiste perchè non esistono parametri per valutare il suo grado di libertà, che resta quindi una definizione ideologica. Non dicono che da sempre sul mercato hanno inciso molte leggi (ad es. la soppressione del lavoro minorile) fatte con finalità non economiche, ma non per questo meno decisive per il suo stesso corretto funzionamento. Anche oggi gli la politica, globale, è chiamata ad operare allo stesso modo (ad es. per contrastare l’inquinamento ambientale, per regolare i flussi migratori, per siglare accordi internazionali ai fini della pace) su temi non economici, ma inevitabilmente di forte incidenza sul mercato. La libertà dei mercati sarà sempre e comunque delimitata in un quadro composto anche da altri fondamentali valori

Cosa 2 = Le aziende non vanno gestite nell’interesse degli azionisti

Cosa dicono = gli azionisti possiedono le aziende che quindi vanno gestite nel loro interesse. Cosa non dicono = l’interesse degli azionisti mira a guadagni immediati e questo compromette il futuro a lungo termine dell’impresa. Il capitalismo si è formato grazie ai massicci investimenti (ferrovie, acciaierie, attività chimiche) che avevano prospettive di ritorno economico su orizzonti lunghi. Se al tempo fosse già prevalso il teorema neoliberista il capitalismo non sarebbe diventato quel che oggi è. Non dicono che le analisi macro-economiche dimostrano che, a partire dagli anni Ottanta allorquando questo teorema è prevalso, la quota di profitti destinata agli investimenti si è drasticamente ridotta, ed è invece aumentata quella per l’acquisto di proprie azioni da parte delle stesse imprese. E gli investimenti sono fondamentali per una buona salute dell’economia, senza prima o poi questa si ferma. Jack Welch (1935, presidente della General Electric americana, per andare in pensione ha ricevuto un buona uscita di 417 milioni di dollari, la più alta mai pagata) ha confessato che lo shareholder (creare valore per gli azionisti) è “l’idea più stupida al mondo”.

 Cosa 3 = Nei paesi ricchi la maggior parte delle persone viene pagata troppo

Cosa dicono = solo un mercato del lavoro libero da regole e contratti sindacali assicura remunerazioni efficienti ed eque. Cosa non dicono =ritenere che ciascuno sia pagato equamente in relazione al proprio valore è un mito ideologico. La retribuzione erogata per lo stesso tipo di prestazione varia molto da paese e paese, e fra categoria e categoria, ma non riflette mai solo il valore della prestazione stessa. In un mercato del lavoro che non è mi davvero libero incidono le condizioni socio-economiche (a partire dal coefficiente di produttività del lavoro) del contesto in cui la prestazione avviene (che variano per l’appunto da paese a paese, da categoria a categoria, e per le diverse tecnologie che consentono una maggiore produttività) . Non dicono quindi che anche in questo caso è il contesto socio-economico complessivo (sul quale incidono molti fattori, su quello del lavoro molto incidono ad esempio le politiche sull’immigrazione, spesso decise per ragioni non solo economiche) a determinare il valore di una prestazione. I livelli salariali non sono mai determinati solo dal libero gioco di domanda ed offerta.

Cosa 4 = La lavatrice ha cambiato la vita più di Internet

Cosa dicono = le tecnologie della comunicazione hanno prodotto “la fine della distanza”, anche l’economia deve adeguarsi a questa nuova dimensione Cosa non dicono = le rivoluzioni tecnologiche modificano economie e società in modi molto complessi, non sempre il più nuovo è il migliore. La percezione che l’ultima novità tecnologica sia rivoluzionaria dipende molto dal fatto che la stiamo vivendo, ma non è detto che sia sempre così innovativa. Ad esempio l’arrivo nelle case di (quasi) tutto il mondo degli elettrodomestici, lavatrice in primis, (e della collegata energia elettrica) ha innescato cambiamenti sociali (stili di vita diversi e guadagno di tempo) ed economici (la maggiore libertà delle donne dal giogo dei lavori domestici ha consentito un loro maggiore ingresso nel mercato del lavoro). Certo molto è cambiato con Internet, ma non è corretto sostenere che è la più grande svolta della storia umana. Non dicono ad esempio che la “fine della distanza” di Internet è battuta anche dall’umile telegrafo (grazie al quale, dopo la sua invenzione nel 1837, un messaggio dall’Europa agli USA passava dalle tre settimane di viaggio in nave a soli 7/8 minuti. Quelli in meno di Internet sono nulla al confronto!)

Cosa 5 = Aspettati il peggio e otterrai il peggio

Cosa dicono = L’ individuo nel “mercato”, per istinto insopprimibile, mira al suo massimo profitto. Perché il mercato funzioni è bene aspettarsi il peggio da parte degli altri.  Cosa non dicono = Se l’unica regola sul mercato fosse il proprio personale interesse, l’economia sarebbe ferma perché sommersa da truffe e raggiri. Esiste un “agire morale” anche in economia. Soprattutto nelle economie complesse, come quelle attuali, relazioni fra soggetti economici basate solo sulla reciproca diffidenza fermerebbero tutto per il timore di restare danneggiati dall’egoismo altrui. Ma se nulla è fermo, anzi, è perché negli ordinari rapporti tra fornitore ed utilizzatore, fra imprenditore e dipendenti, fra venditore e compratore, intervengono anche onestà, reciproco rispetto, senso del dovere, solidarietà, e molti altri stimoli non meno forti dell’egoismo. Non dicono quindi che è proprio quando gli “altri” percepiscono che sono considerati solo come portatori del proprio interesse, che più facilmente scatta, perso per perso, il loro stinto ad esserlo.

Cosa 6 = La maggiore stabilità macroeconomica non ha reso l’economia mondiale più stabile

Cosa dicono = Affinchè il libero mercato possa funzionare al suo meglio devono essere rimossi ostacoli e interferenze esterne, a partire dall’inflazione. Questo è lo scopo principale degli Stati e delle Banche Centrali. Cosa non dicono = Il ruolo dello Stato in economia non può essere solo quello di guardiano dell’inflazione. L’instabilità dei mercati è strutturale e può manifestarsi anche in contesti in cui tutto, inflazione compresa, sembra essere sotto controllo. Il mito dell’efficienza del mercato lasciato libero di esprimersi sulla base delle sue logiche implica che l’inflazione (quella derivante da ragioni esogene, esterne, al mercato) debba essere tenuta sotto costante controllo. Lo Stato che il neoliberismo vorrebbe assente dalla scena economica esattamente questo deve fare. Che alti livelli di inflazione (iperinflazione) siano di grave danno per l’intera società è dato risaputo, ma se è quindi giusto tenere sotto controllo il tasso di inflazione, un eccesso di politiche antinflazionistiche può fare più male che bene. La storia delle economie dimostra inoltre che un quadro macroeconomico sotto controllo da solo non basta ad evitare turbolenze sui mercati (studi dimostrano che,  a partire dagli anni Novanta, seppure in presenza di forti politiche antinflazionistiche non sono mancate forti crisi finanziarie e produttive) Non dicono cioè che tassi di inflazione moderata non sono così pericolosi e che l’ossessione neoliberista di tenerli sotto ferreo controllo va a scapito di adeguate attenzioni ad altre fondamentali componenti economiche a partire dal tasso di occupazione

Cosa 7 = Le politiche liberiste raramente rendono ricchi i paesi poveri

Cosa dicono = Le politiche neoliberiste della globalizzazione hanno innescato trasformazioni positive per tutti i paesi.  Cosa non dicono = Il miglioramento del quadro economico globale, e delle condizioni di vita in molti paesi, ha ben altre spiegazioni e semmai le politiche neoliberiste sono state di freno. Il teorema neoliberista di apertura totale dei mercati internazionali e nazionali non spiega come in molti casi il progresso economico si sia al contrario realizzato grazie a politiche opposte di protezione del mercato interno. (Ne sono clamoroso esempio proprio gli USA, il paese più protezionista del mondo durante tutta la sua ascesa economica dal 1830 al 1940, e oggi patria della corrente neoliberista più forte e agguerrita, quella di Milton Friedman e dei Chicago Boys). Non dicono che per lo sviluppo economico dei paesi ex coloniali, là dove è avvenuto, una iniziale fase di protezione dell’economia nazionale è stata fondamentale (come per gli USA) per creare una struttura di base indispensabile per meglio inserirsi nel mercato globale. Invece là dove questo iniziale consolidamento interno non è avvenuto (ad es. molti paesi dell’America Latina e dell’Africa subsahariana) con l’arrivo della globalizzazione il progresso economico è stato decisamente inferiore

Cosa 8 = Il capitale ha nazione

Cosa dicono = la globalizzazione ha ormai imposto un modello di impresa “trans-nazionale”, le politiche economiche dei singoli Stati non lo devono contrastare.  Cosa non dicono = la sola “nazionalità” non è sufficiente a determinare efficienza e solidità delle attività economiche, ma ignorarla del tutto è ancora oggi un forte rischio. E’ dato acquisito la recente profonda modifica della struttura aziendale “standard” (si parla ovviamente di grandi imprese che operano su scala molto vasta), che è cambiata nella sua articolazione (direzione in un paese, sede legale in un altro, sede fiscale in un altro ancora, e così via), nella dislocazione degli impianti di produzione e della connessa filiera, nella diversificazione dei settori di produzione. Di norma resiste ancora un legame forte con la nazionalità di origine per quanto concerne la provenienza degli alti dirigenti e la locazione delle attività di ricerca e sviluppo. Non dicono quindi che se lo sguardo è rivolto al mondo intero, mente e cuore restano connessi con il paese di nascita. In questo quadro di congiunte disarticolazioni strutturali e legami nazionali non trovano senso né chiusure protezionistiche né totale fiducia sulle motivazioni ultime delle imprese. La trans-nazionalità delle imprese richiede, proprio per la sua natura, attente politiche di controllo sul fenomeno basate, più che su autolesionistiche barriere e impossibili divieti, su una intelligente valorizzazione dei legami di nazionalità che ancora mantengono un loro rilevante ruolo

Cosa 9 = Non viviamo in un’epoca postindustriale

Cosa dicono = l’Occidente sta ormai completando il passaggio dalla tradizionale economia manifatturiera (prodotti fisici) a quella innovativa dell’economia immateriale (servizi), un processo inarrestabile che progressivamente diverrà globale.  Cosa non dicono = Il fatto che buona parte del lavoro si svolga in uffici e negozi non basta per dire che la manifattura è superata!  Certo il suo peso sul PIL è proporzionalmente meno rilevante, ma questo non vuol dire che non resti una componente economica fondamentale (la crescita della quota percentuale dei servizi in occidente ha peraltro diverse spiegazioni: l’esternalizzazione delle attività di servizio, la concorrenza internazionale su molti prodotti a costi più bassi, la riduzione dei prezzi grazie alle economie di scala, hanno ridotto il valore economico della produzione di manufatti, non la sua consistenza quantitativa). Ciò vale in particolare per i paesi in via di sviluppo che tanto sono concorrenziali sul piano di buon parte della manifattura quanto sono ancora deboli nell’offerta dei servizi (la Cina sta sicuramente pilotando la sua economia anche verso l’immateriale, ma per intanto continua a sommergere il mondo intero di manufatti, di alta e bassa gamma). Se per molti aspetti sembra comunque inarrestabile, sul lungo periodo, la tendenza ad una economia “leggera” (più servizi meno manifattura) non ci dicono però che: la produttività nei servizi procede più lentamente (i margini di efficientamento sono più bassi), è meno performante la loro esportazione (quantomeno per molte tipologie di servizio, come quelli alla persona), la percentuale dei servizi sul PIL non può superare una certa soglia (i beni primari, intesi in senso lato, non sono eliminabili).

Cosa 10 = Gli Stati Uniti non hanno il tenore di vita più alto del mondo

Cosa dicono = Il benessere diffuso americano è la migliore dimostrazione della validità del libero mercato (di cui gli USA sono gli alfieri).  Cosa non dicono = Se si prendono in considerazione tutti gli elementi che, oltre al solo potere di acquisto, formano un “reale” benessere non è vero che negli USA si vive meglio. Gli USA non sono il paese più ricco del mondo, diversi paesi europei hanno un reddito pro-capite (PIL diviso per numero abitanti) più alto, e non hanno una buona posizione in diversi indicatori di benessere (salute, età media di vita, criminalità, ad es). Vero è che il consumatore americano (quello che può permetterselo) possiede molte merci, si tratta di però di capire se è meglio il modello di vita USA “più beni materiali meno tempo libero” o quello europeo “meno beni materiali e più tempo libero”. Non dicono soprattutto che l’apparente maggior benessere americano [in gran misura sostenuto da un tasso di cambio internazionale (il prezzo di una moneta in termini di un’altra moneta), ancora e sempre calcolato in dollari americani] va rapportato al reddito medio pro-capite, e quello USA hanno il più alto indice di disuguaglianza (molto reddito posseduto dalle fasce più alte) fra i paesi ricchi.

Cosa 11 = L’Africa non è destinata al sottosviluppo

Cosa dicono = L’ Africa è destinata al sottosviluppo. La condannano fattori climatici e geografici, ragioni geopolitiche e culturali.  Cosa non dicono = L’Africa non è sempre stata indietro nello sviluppo economico. La sua natura e la sua storia non sono una condanna non risolvibile, il problema è “politico”, se cambia la politica del mondo verso l’Africa il suo futuro può cambiare. I fattori climatici e geografici che la penalizzano possono essere affrontati disponendo di tecnologie, istituzioni e pratiche gestionali, ossia politiche adeguate. Fino alla fine degli Settanta il tasso di sviluppo africano era relativamente buono, possibile che solo dagli anni Ottanta in poi i suoi fattori frenanti siano diventati così penalizzanti? Non dicono che è proprio dagli anni Ottanta, con l’imposizione di politiche di liberalizzazione forzata ai commerci di ispirazione neoliberista, che l’economia africana, ancora fragile e non strutturata, è stata travolta da una concorrenza per la quale non era preparata. Le speranze maturate nel secondo dopoguerra con la definitiva fine del colonialismo classico, di una uscita dallo sfruttamento estero sono così presto svanite. L’Africa, le sue risorse naturali e umane, restano terra di conquista. E quindi la spiegazione del suo attuale sottosviluppo è solo politica, e sta in capo all’Occidente ricco

Cosa 12 = Gli Stati sanno puntare su imprese vincenti

Cosa dicono = Lo Stato non ha le competenze per prendere decisioni imprenditoriali valide. E anche quando punta a sostenere imprese private sbaglia perché le motivazioni non sono imprenditoriali, ma quasi sempre di salvataggio di imprese decotte  Cosa non dicono = Se ci guardiamo intorno con sguardo imparziale vediamo che non sono pochi, anzi, i casi in cui gli Stati sanno puntare su imprese vincenti. Al di là della funzione di un buon numero di Stati nel promuovere/sostenere (con commesse mirate ad es.) le industrie di base nelle prime fasi di sviluppo capitalistico è noto che ai nostri giorni è fondamentale il ruolo, diretto e indiretto dello Stato, in molti settori produttivi di alto livello (ad es. aereospaziale, semiconduttori, biotecnologie). Non dicono in particolare che lo sviluppo tecnologico ha alzato così tanto l’asticella degli investimenti (soprattutto per ricerca e innovazione) per avviare nuove produzioni o ottimizzare quelle già attive che è ormai pressochè obbligatoria una stretta sinergia tra imprese private e settore pubblico.

Cosa 13 = Rendere i ricchi ancora più ricchi non rende tutti più ricchi

Cosa dicono = La ricchezza prima di essere distribuita va creata, sono i ricchi che investendo la creano. Più sono ricchi, più possono investire, più si crea ricchezza per tutti. Cosa non dicono = Al di là del dibattito teorico è la realtà che smentisce questa idea (conosciuta come “trickle-down economics, ricchezza che “cola” dall’alto): dopo trent’anni e più di politiche a favore dei ricchi l’economia “di tutti” non è per nulla cresciuta, anzi. Non dicono cioè che averne dato la fetta ben più grossa ai ricchi non ha fatto crescere la torta della ricchezza generale. Non solo: sempre la storia attesta che il periodo (il secondo dopoguerra) in cui in Occidente la tassazione dei redditi più alti toccò i suoi massimi è, non a caso, coinciso con la maggior crescita di ricchezza diffusa. Non dicono allora che dare più ricchezza ai ricchi (in aggiunta al fatto che, come la storia dimostra, esistono altre soluzioni ben più efficaci), non ha senso se non è finalizzata, mediante precisi indirizzi e controlli, ad un effettivo aumento degli investimenti. Non solo: questi investimenti devono essere “produttivi” e non essere indirizzati a speculazioni finanziarie (il finanzcapitalismo di Luciano Gallino: denaro che crea altro denaro)

Cosa 14 = I manager americani sono pagati troppo

Cosa dicono = Gli altissimi stipendi dei top-manager, soprattutto americani e inglesi, sono giustificati dalle leggi di mercato. Se si vuole il meglio bisogna pagarlo adeguatamente Cosa non dicono = Sono stipendi esageratamente alti in diversi sensi: del tutto sproporzionati rispetto a quelli dei loro predecessori che pure hanno garantito risultati persino migliori, fuori mercato rispetto alla media globale, del suo già alta, dei dirigenti di alta fascia eppure incredibilmente garantiti anche in caso di insuccesso. Retribuzioni che mediamente valgono 300/400 volte quelle di un lavoratore medio (fino agli anni Settanta valevano “solo”30/40 volte tanto) non hanno nessuna giustificazione nelle stesse leggi di mercato. Nessuno di questi top-manager ha ottenuto, e nessuno potrebbe farlo, risultati di bilancio proporzionati. Non dicono quindi che ai livelli alti della classe dirigente si è ormai formata una sorta di “casta” che “occupa” buona parte dei consigli di amministrazione delle più grandi aziende e che auto-determina i propri livelli di retribuzione (il caso più assurdo è che in caso di insuccesso gestionale, e sono ormai molti, vengono “liquidati” con incredibili buonuscite, fissate e garantite a priori nel contratto di assunzione)

Cosa 15 = I paesi poveri sono più intraprendenti di quelli ricchi

Cosa dicono = Le differenze di crescita economica fra gli Stati sono in gran misura determinati dal diverso spirito imprenditoriale. Quello dei paesi ricchi è molto più agguerrito di quello dei paesi poveri  Cosa non dicono = Ciò che rende i paesi poveri sempre più poveri non è la mancanza di vitalità imprenditoriale, ma il peso della storia fatto di assenza di tecnologie adeguate, di organizzazioni sociali sviluppate, e quindi di aziende concorrenziali. La gente comune è molto più intraprendente nei paesi poveri che in quelli ricchi, se vuole sopravvivere deve esserlo. Questa vivacità imprenditoriale avrebbe le potenzialità per essere il motore di uno sviluppo, ma su di essa pesa troppo l’arretratezza del quadro economico e la mancanza di adeguate risorse finanziarie, se compressa a livelli bassi di fatturato non può cioè innescare da sola un volano di sviluppo sufficientemente forte (il cosiddetto “microcredito” resta una forma di finanziamento da sopravvivenza inadeguato per un vero salto di qualità). Ma soprattutto non dicono che, nell’attuale mercato globale, il miglior spirito imprenditoriale non è sufficiente se si esprime a livello individuale, quello che serve è la crescita di imprese collettive. L’imprenditore “eroico” non è più adeguato in un quadro economico fatto di processi complessi di natura collettiva. Una realtà difficile da accettare per una teoria economica basata “sull’individuo imprenditore di sé stesso

 

Cosa 16 = Non siamo abbastanza intelligenti da lasciar fare al mercato

Cosa dicono = Il mercato, se lasciato libero, per funzionare al meglio ha bisogno che la razionalità economica dei suoi soggetti non venga incanalata in certe direzioni dalla politica Cosa non dicono = Non esiste una razionalità economica così compiuta da non aver bisogno, specie in un mondo sempre più complesso, di un quadro fatto anche di regole entro il quale muoversi. Immaginare l’attuale mercato come un terreno nel quale i soggetti economici “si incontrano” e trovano un equilibrio grazie alla libera espressione della loro razionalità economica (la mano invisibile del mercato di Adam Smith) è vivere fuori dal mondo. Innanzitutto l’uomo in generale non è per nulla fatto di sola razionalità ed anzi nei suoi comportamenti, quelli economici compresi, è alta la componente di irrazionalità. Ed è proprio questa la ragione per la quale, per ridurre la varietà e la complessità delle scelte che possono essere compiute anche irrazionalmente, che occorre un sistema di regole, in economia come in ogni ambito sociale, che limitino entro spazi definiti la libertà di scelta. Restando in economia la crisi finanziaria del 2007/2008 è stata la dimostrazione più chiara dei rischi che si corrono senza un sistema di regole. A ben vedere non dicono che abbiamo bisogno di regole proprio perché non siamo abbastanza intelligenti (razionali)

Cosa 17 = Più istruzione non rende un paese più ricco

Cosa dicono = Una forza lavoro ben istruita è fondamentale per lo sviluppo economico. La differenza tra paesi ricchi e paesi poveri si spiega per il differente livello di istruzione, che, specialmente quella universitaria, è la vera chiave della prosperità Cosa non dicono = Non ci sono prove che più istruzione equivalga a più prosperità. Molta della conoscenza fornita dall’istruzione non è determinante per il suo aumento. Premesso che l’istruzione è preziosa per la sua capacità di potenziare le potenzialità individuali e di avere una migliore nozione del mondo e della vita, la sua effettiva capacità di migliorare la produttività e quindi di produrre maggiore ricchezza, è in buona misura un mito. Ci sono scarse prove in tal senso ed anzi molte evidenze vanno in senso contrario (il miracolo economico dell’Asia Orientale è esploso con livelli di istruzione molto bassi, altri paesi con un livello molto più alto come l’Argentina da decenni non riescono a crescere. La stessa Africa subsahariana evidenzia che, seppure a fronte di massicci investimenti sul tasso di alfabetizzazione, il reddito pro-capite resta in costante diminuzione). Sembra quindi possibile sostenere che l’istruzione di per sé stessa non abbia un ruolo così importante in economia (perché molte materie che la compongono non hanno una relazione diretta con i processi economici, perché le materie che di più la possiedono da sole non hanno un impatto diretto sul lavoro, perché l’istruzione davvero finalizzata al lavoro la si impara sul lavoro, perché molta conoscenza produttiva è ormai incorporata nelle macchine, perché nelle economia altamente tecnologizzate gran parte dei nuovi lavori non richiedono istruzione ). Non dicono quindi che ciò che distingue i paesi ricchi da quelli poveri non è tanto il livello di istruzione del singolo individuo, ma come gli individui sono organizzati in entità collettive (imprese grandi e piccole) ad alta produttività

Cosa 18 = Quello che è buono per la General Motors non sempre è buono per gli Stati Uniti 

Cosa dicono = Le imprese sono il cuore del mercato, sono loro che creano lavoro, ricchezza, sviluppo tecnologico.  Quello che è buono per loro è perciò buono per l’economia nazionale. A patto che sia loro permesso di muoversi sul mercato con la massima libertà Cosa non dicono = Malgrado la loro centralità lasciare alle imprese la massima libertà può non essere buono neppure per loro stesse e tanto meno per l’economia nazionale. 1953 Charlie Wilson (ex amministratore delegato della GM appena nominato ministro della difesa) in un discorso al Congresso ebbe modo di dire che quello che è buono per gli USA è buono per la General Motors e viceversa. Nel 2009 al termine di un lungo calvario fatto di gravissimi errori manageriali la General Motors è fallita. L’averla lasciata totalmente libera di muoversi sul mercato ha cancellato centinaia di migliaia di posti di lavoro e danneggiato pesantemente l’economia americana. Dall’altra parte dell’Oceano negli stessi anni della lunga crisi della GM nella Corea del Sud agli inizi della sua espansione economica vigevano regole che, per aprire una nuova fabbrica, imponevano 299 permessi rilasciati da 199 agenzie diverse (in Italia al confronto siamo dei dilettanti!), ciononostante il boom sudcoreano (e allo stesso modo quello dell’intera Asia Orientale) è proseguito a ritmi impressionanti. I due differenti percorsi si spiegano con la semplice constatazione che i decisori aziendali se hanno buone prospettive di guadagno si fanno una ragione dei 299 permessi, se prevedono margini risicati di ritorno economico si lasciano spaventare anche solo da 29 permessi. Non dicono che alla fine quello che conta non è la quantità delle regole, ma la loro qualità

Cosa 19 = Malgrado la caduta del comunismo viviamo ancora in economie pianificate 

Cosa dicono = Nelle attuali economie complesse ogni idea di pianificazione, per quanto più timida di quella sovietica, non è sostenibile. La politica deve abbandonare l’illusione di poter pianificare ogni aspetto dei processi economici e lasciare il compito alle imprese. Meno pianificazione c’è meglio è. Cosa non dicono = Le economie capitalistiche a tutti gli effetti sono in larga misura pianificate. Quella statale interviene per ottimizzare le attività di supporto (infrastrutture, ricerca e innovazione), quella privata, specie delle grandi imprese, pianifica in modo molto dettagliato ogni sua singola attività. L’idea della pianificazione economica deriva direttamente dal pensiero marxista e dalla constatazione della necessità di superare, tramite di essa, la contraddizione tra sviluppo interconnesso della produzione e la proprietà privata che rende impossibile un loro efficace coordinamento (nel pensiero neoliberista tale coordinamento è garantito, per incanto, dal mercato). L’esasperazione sovietica della pianificazione (tradotta nell’eccesso burocratico di programmare ogni singolo dettaglio economico) non ha certo deposto a suo favore. Ma è rimasta, al di là dei proclami contrari, una prassi consolidata anche nelle economie capitalistiche avanzate, soprattutto nelle forma di “pianificazione indicativa” (si pianificano solo le attività macroeconomiche). Non dicono quindi che quella che viene poeticamente definita “visione imprenditoriale” altro non è che una programmazione mirata su tempi lunghi indispensabile in una economia globalizzata e sempre più interconnessa.

Cosa 20 = L’uguaglianza di opportunità può non essere equa 

Cosa dicono = Contro l’ideale di superare le disuguaglianze socio-economico il neoliberismo ha attuato una campagna di denuncia del soffocamento del “merito” fatto in nome dell’uguaglianza dei punti di arrivo Cosa non dicono = C’è uguaglianza e uguaglianza, quella che l’interesse collettivo e individuale deve promuovere è quella delle opportunità di partenza. Un concetto che però è tanto facilmente condivisibile quanto complicato da concretizzare. Non è da molto, in pratica dal secondo dopoguerra, che globalmente sono state adottate concrete politiche per il superamento degli ostacoli (in molte culture sancito dalla appartenenza di casta) che impediscono la scalata sociale (il famoso “ascensore sociale”) a “persone di talento nate però da genitori sbagliati”. Occorre riconoscere che le logiche di mercato, che mirano all’ottimizzazione dei profitti tramite il miglior utilizzo razionale delle risorse disponibili personale compreso, molto hanno aiutato nel superare pregiudizi di razza, di ceto, di appartenenze culturali. Ma molto resta ancora da fare per andare oltre la generica uguaglianza formale di opportunità. Non dicono che puntare a pari opportunità “reali” di fatto significa intervenire su tutte le componenti sociali ed economiche che concorrono a dotare l’individuo di uguali strumenti di sviluppo delle proprie doti (ad es. garanzie di adeguato reddito di partenza, accesso a percorsi paritari di istruzione e formazione, livelli comuni di assistenza sanitaria). Non è una coincidenza che i più alti livelli di mobilità sociale (l’ascensore) si registrano nei paesi con migliore stato sociale (welfare), proprio quello che il neoliberismo vuole abbattere rendendo così demagogico e strumentale il suo richiamo al merito.

Cosa 21 = Uno stato sociale più generoso rende la gente più aperta al cambiamento

Cosa dicono = La ragione ideologica usata dal neoliberismo contro lo stato sociale consiste nel ritenerlo un limite al cambiamento e al progresso. La protezione che offre, garantendo una sorta di posizione di rendita, è un disincentivo all’adattamento, individuale e collettivo, alle trasformazioni del mercato  Cosa non dicono = Uno stato sociale ben strutturato in modo efficiente in realtà può essere, garantendo forme di equo sostegno, di incoraggiamento al rischio, al mettersi in gioco, alla disponibilità al cambiamento. Uno dei tratti caratteristici delle attuali economie avanzate è la forte insicurezza del posto di lavoro. Sono ben poche le professioni che, non essendo investite dai costanti cambiamenti tecnologici e dalle politiche neoliberiste di liberalizzazione dei mercati, offrono una qualche garanzia di impiego certo a lungo termine. La soluzione neoliberiste punta ad accrescere la concorrenza sul mercato del lavoro e critica forme di assistenza e sussidio ai disoccupati che affievoliscono la disponibilità a mettersi in gioco “dell’individuo imprenditore di sé stesso(uno dei capisaldi ideologici neoliberisti). Non dicono però che l’insicurezza del posto di lavoro, nei paesi senza le coperture del Welfare, di fatto accentua l’attaccamento al settore lavorativo in cui già si lavora ed è quindi un fattore di resistenza ai processi di cambiamento. Allo stesso modo non dicono che il fatto di poter contare su forme di assistenza in caso di perdita del posto di lavoro è invece un buon incentivo ad assumere qualche calcolato rischio nella scelta della professione. Il raffronto fra economie a trazione neoliberista con quelle con forme di welfare evidenzia, a conferma di ciò, che un diffuso stato sociale non è per nulla incompatibile con i tassi di crescita economica ed è anzi un forte incentivo dinamico

Cosa 22 = I mercati finanziari devono essere meno efficienti

Cosa dicono = L’efficienza dei mercati finanziari è, a maggior ragione in una economia globalizzata, la chiave della ricchezza di un paese. I risultati ottenuti negli ultimi decenni lo confermano. Bloccarli, metterli sotto controllo è una scelta errata e controproducente  Cosa non dicono = E’ vero: i mercati finanziari oggi sono molto efficienti e performanti. Troppo però. Si è creata una forbice troppo ampia tra la velocità della loro crescita e quella dell’economia reale, il rischio di “bolle” speculative è quindi molto alto. Le politiche neoliberiste mirate a favorire la crescita economica anche grazie alla totale deregolamentazione finanziaria (iniziate negli USA e nel Regno Unito e poi adottate in quasi tutti i paesi dell’Occidente ed in buona parte in quelli del Sud globale) hanno in effetti garantito una impressionante crescita dei profitti (tale da innescare una “finanziarizzazione” spinta anche dello stesso settore manifatturiero) anche grazie all’invenzione di prodotti finanziari tanto innovativi quanto rischiosi (spiccano i famosi “derivati”, a suo tempo definiti da Warren Buffet , noto finanziere americano, “armi di distruzione finanziaria di massa). Non dicono che questa euforia (che la crisi del 2008, dalla quale ancora si stenta ad uscire, ha di molto ridimensionato) ha però prodotto due effetti collaterali molto negativi: il primo è la forbice con l’economia reale di cui si è detto, il secondo consiste nel fatto che la redditività (per quanto rischiosa) degli investimenti finanziari (denaro che crea denaro) ha sottratto troppe risorse per quelli a fini produttivi (denaro che produce merci che producono denaro) ampliando a dismisura tale forbice. Al di là della sconvolgente concentrazione di ricchezza in poche mani che tutto ciò ha comportato, e restando concentrati sulla efficienza di una economia di mercato, diventa indispensabile intervenire con limitazioni mirate sulla eccessiva (e rischiosa) efficienza redditizia dei mercati finanziari (James Tobin, Nobel per l’economia del 1981, inventore di una tassazione specifica sui profitti finanziari, così la giustificava: “occorre gettare un po’ di sabbia nello loro ruote”). A tutt’oggi ben poco è però cambiato.

Cosa 23 = Una buona politica economica non ha bisogno di bravi economisti

Cosa dicono = L’economia, ed in particolare quella che poggia su un libero mercato, è un’autentica scienza che impone di conseguenza metodi scientifici per essere gestita e quindi tecnici capaci di usarli al loro meglio. A maggior ragione la politica dovrebbe astenersi dal mettere mano alla materia ed affidarsi a loro Cosa non dicono = Non sono così indispensabili i “bravi economisti”, gran parte dell’imprenditoria di successo non era composta da economisti, e non lo erano molti dei politici che hanno, ovunque, attuato politiche economiche vincenti. E se mai ’economia fosse davvero una scienza ne occorrerebbe una molto diversa da quella neoliberista. Le esperienze concrete di brillanti crescite delle economie in tutte le epoche, e ovunque nel mondo, attestano che per governare tali positivi processi è indispensabile una visione complessiva della società e del contesto storico in cui essi avvengono ben più di una conoscenza economica specialistica. Non per nulla John Kenneth Galbraith (da molti addetti ai lavori considerato il più brillante economista del XX secolo) affermava testualmente che “le scienze economiche sono estremamente utili come forma di impiego degli economisti”. I quali, nella loro ultima versione neoliberista, hanno dimostrato quanto poco di scientifico ci sia nelle discipline economiche quando dopo aver sostenuto, naturalmente su basi scientifiche, che tutto in economia procedeva bene sono stati clamorosamente spiazzati dalla crisi del 2007/2008 (la più grave in assoluto dopo quella della Grande Depressione del 1929, e per la quale non hanno saputo trovare spiegazioni) al cui verificarsi avevano non poco contribuito. Certo esistono scuole di pensiero economico di diverso orientamento (quella keynesiana ad esempio che, grazie proprio all’esperienza del 1929, ha fornito indicazioni preziose per tenere sotto controllo quella del 2007/2008) ma quello che non dicono è che sui processi economici incide una così ampia varietà di fattori (politici, culturali, geopolitici, psicologici individuali e collettivi, geografici e ambientali, per dirne alcuni) da rendere molto fragile la presunta scientificità delle teorie economiche e a cascata anche il ruolo, che resta comunque utile, degli economisti.

Conclusioni:

Come Winston Churchill disse a proposito della democrazia Ha-Joon Chang è allo stesso modo convinto che “il capitalismo è il peggior sistema economico eccezion fatta per tutti gli altri”. Ma è e resta un meccanismo sociale ed economico molto ingiusto e fragile che va regolato e guidato. Ci sono molti modi per farlo e quello proposto dal neoliberismo, solo uno fra i tanti, poggia, come dimostrano le 23 cose, su ipotesi ideologiche fallaci, molto discutibili, che accentuano i suoi difetti di ingiustizia e fragilità. Eppure dopo decenni di evidenti insuccessi e profonde contraddizioni resta tuttora il modello economico, e sociale, dominante. Occorre allora agire concretamente per contrastarlo e sostituirlo con un modello più efficace nel rispondere all’esigenza di profonde modifiche imposte dall’attuale stato delle cose. Le 23 considerazioni “per pillole” non sono certo sufficienti e adeguate, ma quantomeno dal loro insieme emergono alcuni principi utili per immaginare e costruire un sistema economico alternativo

Ø basato sul presupposto che la razionalità umana è molto limitata e molto condizionata

Ø che punti, incentivandole, sulle doti sociali umane migliori, e non su quelle peggiori che esaltano egoismo ed eccessivo interesse privato

Ø capace di definire un sistema di retribuzioni non esclusivamente fondato sul merito

Ø in grado di rivalutare la produzione di cose, la manifattura

Ø orientato ad un migliore equilibrio tra economia finanziaria e economia reale

Ø in cui lo Stato, l’interesse pubblico, abbia un ruolo più ampio ed attivo

Ø finalizzato a correggere l’ingiusta differenza fra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo, e al loro interno fra classi ricche e classi povere