venerdì 15 ottobre 2021

Il "Saggio" del mese - Ottobre 2021

 

Il “Saggio” del mese

 OTTOBRE 2021

Come preannunciato nella “Parola del mese” segue al precedente post “Cambiamento climatico 2021 – Evidenze dalle scienze fisiche”, in cui il nostro socio Gianni Colombo ha sintetizzato con coinvolgente chiarezza quanto emerge dalle analisi scientifiche sul preoccupante progredire del riscaldamento climatico, un secondo post che, seppure non abbia la classica veste del  “Saggio” perché, come cita il suo stesso sottotitolo, si tratta del resoconto di un “viaggio in un paese sconvolto dall’emergenza climatica”, merita ampiamente di essere considerato tale, e quindi essere pubblicato come il “Saggio del mese” per questo Ottobre 2021, perché altro non è che il riscontro sul campo di quanto da tempo, ci stanno segnalando saggi e rapporti ufficiali IPCC, come l’ultimo sintetizzato nel precedente post

Il fine che ha animato Roberto Mezzalama (laureato in scienze naturali, collabora con l’Università di Harvard, membro del CdA del Politecnico di Torino)

è infatti proprio quello di integrare i dati, le tabelle, i grafici, le proiezioni che analizzano con scrupolo scientifico l’evoluzione del cambiamento climatico, con la fotografia di quanto è ormai avvenuto nel nostro paese, ed in particolare in alcuni degli habitat ambientali che di più lo caratterizzano, evidenziando con coinvolgimento anche emotivo gli scenari che si stanno delineando se non si interviene concretamente, e da subito, per invertire la rotta. Lo scopo, che coinvolge tutti noi, è quello di far crescere, evidenziando quanto succede “a casa nostra, sotto i nostri occhi”, una maggiore presa di coscienza collettiva del dramma a cui stiamo andando incontro. Questa presa di coscienza, condizione sine qua per il cambio di rotta, non appare infatti, in generale, ancora adeguatamente matura e convinta. Per smuovere le nostre coscienze, là dove si dimostrano insufficienti i dati e le troppo fugaci e fragili reazioni ai cosiddetti “eventi estremi”, può forse servire la fotografia di quanto sta avvenendo, di quanto è già avvenuto, mai abbastanza percepito e compreso nella sua reale portata, raccogliendo in un unico quadro d’insieme i singoli pezzi di un impressionante collage.

(dal risvolto di copertina)……

Gli effetti del riscaldamento climatico sono già arrivati in Italia. Il clima sta cambiando velocemente e questo libro raccoglie testimonianze dalla viva voce di chi già oggi è toccato nella sua attività quotidiana dalle trasformazioni in atto nel nostro Paese. E’ la narrazione di agricoltori, pescatori, guide alpine, albergatori, guardie forestali, le persone che vedono la preoccupante accelerazione dei fenomeni che stanno cambiando i luoghi di cui si prendono cura. Un moderno Gran Tour che, raccontando la grande bellezza del nostro paese, racconta anche come siamo vicini a perdere molte delle nostre peculiarità se non agiremo in fretta e con determinazione

Capitolo primo: Come cambia il clima dell’Italia

Ancora nel secondo dopoguerra l’Italia era un paese di contadini la cui “cultura del clima” consisteva in un sentire diffuso basato sull’osservazione empirica dei fenomeni naturali nel corso dei molti secoli in cui il clima si è mantenuto costante, tanto da permeare anche il nostro attuale modo di valutarli. Molti proverbi popolari, brevi frasi facili da tenere in memoria, ancora raccontano, i modi consolidati con cui giudichiamo il clima, cosa ci attendiamo possa succedere e come valutiamo quanto effettivamente succede. Si tratta di un retroterra culturale, in gran misura inconsapevole, così consolidato da rappresentare, ancora adesso, una sorta di freno alla reale comprensione dei fenomeni in atto e del loro indiscutibile legame con l’insieme delle attività umane legate alla impressionante industrializzazione degli ultimi due secoli. Sapere allora meglio leggere i fenomeni avvenuti, in corso e prossimi, è presupposto indispensabile per capire la posta in gioco e per attuare azioni correttive adeguate. Certo non l’unico, a fronte del lungo elenco dei fattori occorrenti, ma saper interpretare come cambia il clima e come cambia, di conseguenza, l’Italia, è un decisivo passo in avanti.

Capitolo secondo: Giganti fragili

Una delle arrampicate alpine considerate “mitiche” è quella compiuta da Walter Bonatti nel 1955 di un pilastro di impressionante verticalità nel gruppo delle Aiguilles du Dru del Monte Bianco che da allora prese il nome di “Pilastro Bonatti”


Giusto cinquant’anni dopo una massa impressionante di granito si stacca dalla parte Ovest, propria quella salita da Bonatti, trascinando l’intero pilastro ai suoi piedi


E’ stato un autentico shock per gli appassionati di alpinismo ma il crollo del Pilastro Bonatti è solo l’esempio più eclatante di una impressionante serie di crolli e cadute di massi che, a partire dall’estate 2003, sta interessando tutte le Alpi. Le testimonianze delle guide alpine parlano di una trasformazione, vissuta sul campo, confermata dalle costanti rilevazioni di tutte le stazioni di monitoraggio. Le montagne, si sa, sono un simbolo della provvisorietà geologica essendo destinate a essere erose dagli eventi atmosferici, ma con un processo che dovrebbe svilupparsi con tempi, per l’appunto geologici, di milioni di anni. Quanto sta succedendo è una accelerazione decisamente anomala spiegabile solo con la “fusione del permafrost montano”, lo strato roccioso permanentemente ghiacciato inglobato nelle formazioni rocciose al di sopra di una certa altitudine, provocato dal rialzo delle temperature medie anche in alta montagna. Ma l’effetto più drammaticamente spettacolare del cambiamento climatico alpino è senza dubbio la “riduzione della massa dei ghiacciai”. Il rialzo delle temperature medie in alta montagna ha toccato ormai picchi persino più alti della media globale: dal 1864 ad oggi le temperature sulle Alpi sono aumentate di circa due gradi a fronte di una media globale di circa un grado, ma soprattutto colpisce che questo incremento si sia in gran misura concretizzato a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso. L’effetto sui ghiacciai è impressionante: se si continuerà con l’attuale trend, alla fine di questo secolo i ghiacciai italiani saranno ridotti ad un residuo 20% (concentrato nei versanti a nord delle catene più alte) della massa accumulata alla fine della “piccola era glaciale” terminata nel 1850. In aggiunta ai drammatici danni al patrimonio di acqua dolce indispensabile per l’intera Pianura Padana sarà così cancellata completamente l’immagine paesaggistica alpina. Due situazioni specifiche raccontano questo disastro: il ghiacciaio della Marmolada che, nonostante la patetica copertura con teli (di plastica!!), è destinato a sparire completamente nei prossimi 20/25 anni


e quello della Val Ferret il cui fronte a valle sta già rischiando di collassare

 

Intermezzo 1: Un piccolo paese con molti climi

Scendendo dalle Alpi si trova un paese con una morfologia pressochè unica: stretto, allungato, circondato dal mare su tre lati e attraversato da nord a sud da una dorsale montuosa. Sulla base di dieci indicatori climatici osservati nel periodo 1980-2010 l’Italia è divisa nelle seguenti sei macroregioni climatiche: area alpina - Prealpi e Appennino settentrionale - Pianura Padana -  alto versante adriatico e aree costiere centro meridionali – Appennino centro-meridionale – aree insulari ed estremo sud

Capitolo terzo: Tempesta (di vento)

A fine Ottobre 2018 una tempesta di vento investe ad una velocità superiore ai 200 Km/h una vasta area del Veneto per terminare la sua corsa distruttiva nel Friuli. La tempesta denominata Vaia colpisce in particolare i boschi dell’altopiano di Asiago e della Val di Fiemme. Il bilancio della distruzione di patrimonio boschivo parla di milioni di alberi abbattuti a formare un cumulo di più di otto milioni di metri cubi, al danno economico di circa tre miliardi di euro si aggiungono otto vittime

Tempeste di vento, tecnicamente definibili “cicloni extratropicale”, non sono un evento eccezionale per l’Italia Settentrionale, tendendo a formarsi con una certa frequenza allorquando fronti di aria polare, nel gioco delle correnti, si incanalano sino a scontrarsi nel Golfo di Genova con contrapposti fronti di aria calda ed umida del Mediterraneo. Una volta formati, a causa della differenza termica e barica dei due fronti, possono prendere tre direzioni diverse sempre seguendo direttrici in senso antiorario: verso la Pianura Padana e le Alpi, verso l’Appennino Toscano, o verso l’Alto Lazio. Il riscaldamento globale sta però pesantemente incidendo su questi scenari relativamente abituali in due modi: generando, a causa dell’instabilità termica sui Poli, più frequenti correnti di aria verso Sud e al tempo stesso riscaldando sempre di più quelle mediterranee calde e umide. Il differenziale termico e barico può così raggiungere livelli estremi generando autentici “cicloni”. E’ quindi purtroppo sempre più possibile che si creino fenomeni distruttivi come quello della tempesta Vaia. La quale ha avuto una risonanza mediatica particolare perché, fra gli altri, sono stati cancellati boschi, come quello della foresta di Peveraggio in Trentino da cui si ricavano i “legni da risonanza” per le tavole armoniche degli strumenti ad arco dell’artigianato liutaio di assoluta eccellenza di Cremona. Ma a risultare in crisi è l’intera filiera della silvicoltura delle Alpi che, soprattutto in Veneto e Trentino, rappresenta un settore di rilevante valore. Tutte le testimonianze raccolte confermano che quanto successo, oltre a modificare l’aspetto paesaggistico di intere vallate, impone un cambiamento radicale delle tipologie arboree impiantate (gli attuali abeti rossi hanno radici troppo fragili) e delle modalità di gestione del patrimonio boschivo, comprese le storiche esperienze di gestione comunitaria del bosco come quella della Magnifica Comunità di Fiemme o del Bosco del Gran Cansiglio nel Bellunese. (alle problematiche specifiche della gestione boschiva è dedicato il nostro “Saggio del mese” di Settembre 2019 “Storia dei boschi” di Hansjork Kuster). Ma ai fini di questa fotografia di una Italia costretta a cambiare drammaticamente fisionomia ciò che maggiormente preoccupa è, anche in questo caso, la constatazione del rischio del ripetersi di fenomeni simili.

Capitolo quarto: Il mare a quadretti 

E’ ormai dal 1400 che buona parte della pianura compresa tra il Piemonte Orientale e Lombardia è dedicata alla risicoltura che ancora produce più del 50% del riso europeo. Al suo definitivo consolidamento nella seconda metà dell’Ottocento hanno contribuito le straordinarie opere di ingegneria idraulica ed il sistema di canali che apportano l’acqua di questo “mare a quadretti”. Questo perfetto sistema di irrigazione poggia su due fenomeni climatici: le piogge primaverili del Piemonte occidentale trasportate dal Po e dai suoi affluenti, e le acque di scioglimento dei ghiacciai valdostani (vedi Capitolo primo) confluite nella Dora Baltea da Giugno in avanti. La tradizionale risicoltura, basata su questo sistema, ha conosciuto nel secondo dopoguerra cambiamenti radicali: il primo, negli anni Cinquanta, con l’avvento della meccanizzazione e della semina diretta in campo al posto del trapianto, un secondo, negli anni Sessanta, con l’uso massiccio dei pesticidi, addio alle “mondine”!, un terzo, in questi ultimi decenni, con l’avvento della “livella laser” che ha consentito il perfetto livellamento dei piani di coltura, ed infine, anch’esso in tempi recenti, con quello della “coltivazione in asciutta” che ha limitato la sommersione in acqua ai soli mesi estivi. L’insieme di questi cambiamenti ha modificato totalmente l’equilibrio agricolo ed ecologico che nel corso dei secoli si era consolidato attorno al “mare a quadretti” innescando un processo di reciproca interrelazione con il più generale cambiamento climatico. Se quest’ultimo ha aumentato le temperature medie dell’area interessata di circa due gradi rispetto ai tempi di realizzazione del Canale Cavour e sta riducendo la portata dei due fiumi di alimentazione idrica alterando la stagionalità di flussi e deflussi, la “nuova risicoltura industrializzata” ha caratteristiche che contribuiscono non poco alla crescita dello stesso cambiamento climatico. Meccanizzazione e pesticidi hanno avuto un impatto devastante sulla flora e sulla fauna che contribuivano non poco all’efficacia dell’irrigazione, il livellamento ha alterato il sistema dei flussi e dei deflussi, e la coltivazione in asciutta paradossalmente richiede più acqua perchè l’irrigazione, solo da Giugno in poi, trova terreni meno facili da colmare. Questo compromesso equilibrio dovrà da qui in poi misurarsi con un ulteriore riscaldamento dell’area calcolato, sulla base dell’attuale trend, in un grado tra il 2021 ed il 2040, ed un secondo grado, abbondante, dal 2041 al 2070. Riuscirà il mare a quadretti a sopravvivere alla combinazione impattante di meno acqua di alimentazione, più caldo e quindi più evaporazione?

Intermezzo 2: Com’è cambiato il clima dell’Italia?

Il clima del nostro paese è già significativamente cambiato negli ultimi trent’anni.

*   L’Italia è diventata più calda = con un trend medio di crescita delle temperature di 0,34 gradi ogni dieci anni

*   E di più della media globale = pari a 0,18 gradi ogni dieci anni

*   Con quelle massime ancora più alte della media = sono infatti cresciute di 0,42 gradi ogni dieci anni

*   I nostri mari sono sempre più caldi = la loro temperatura cresce costantemente negli ultimi vent’anni, nel 2019 di ben 0,83 gradi

*   Se le precipitazioni totali non sono cambiate più di tanto le piogge sono però divenute più intense = difficile avere dati certi ma la semplice relazione tra pari precipitazioni ma distribuite su molti meno giorni lo evidenzia indiscutibilmente, e le cronache da anni ci raccontano fenomeni sempre più intensi

*   In compenso l’aria è più secca = dal 1990 al 2019 l’umidità relativa è stata inferiore alla media del trentennio precedente per 21 anni su 30. Nel 2019 si è registrato un meno 6,0% al Sud e un meno3,8% al Nord

Capitolo quinto: Tra la terra ed il mare

Si dice “Venezia” ma per comprendere l’incidenza del riscaldamento climatico su una delle aree costituzionalmente più a rischio bisogna prendere in considerazione l’intera Laguna Veneta o meglio ancora il  sistema lagunare che va da Grado fino al Delta del Po. Dal punto di vista geologico tutte le lagune sono “ambienti effimeri” destinati a durare poche migliaia di anni prima di diventare terraferma o mare aperto se l’uomo non mette in atto interventi di contenimento, per definizione a loro volta comunque instabili. Il noto fenomeno dell’acqua alta nella Laguna di Venezia dipende dalla combinazione di cinque fattori: la marea astronomica – le condizioni meteorologiche (pressione e vento) – le “sesse”, oscillazioni della superficie dell’acqua in bacini chiusi – la “subsidenza”, l’abbassamento del livello del suolo causato dall’estrazione dell’acqua sottostante – ed infine l’innalzamento del livello del mare. Ed è soprattutto su questo fattore che incide, ancora una volta drammaticamente, il riscaldamento climatico


Nell’Adriatico il livello del mare, misurato a partire dall’epoca preindustriale, è già cresciuto di 9 cm fino al 1970 e di ben altri 8 cm dal 1970 ai giorni nostri. L’ENEA (Agenzia Nazionale Energia e sviluppo economico sostenibile) ha elaborato una mappa delle aree costiere italiane a rischio di sommersione se si confermassero le ipotesi più pessimistiche di innalzamento del livello dei mari (un metro al 2100). Sono ben trentatre queste aree che comprendono fra le altre, oltre alla Laguna di Venezia, Catania, Noto, la piana del Sele, Napoli, Cagliari, la Versilia (sul sito htpp//.flood.firetree.net si possono vedere simulazioni a livello globale). Restando allo specifico veneziano tutti gli esperti interpellati evidenziano la grande complessità di un sistema lagunare, quali che siano gli interventi umani è indispensabile che essi siano valutati in relazione al mantenimento di un equilibrio molto articolato. L’esperienza del MOSE (modulo sperimentale elettromeccanico), che pure ha recentemente dato prove confortanti della sua efficacia, dimostra quanto siano lunghi i tempi di progettazione, realizzazione e attivazione di opere comunque ciclopiche (per il MOSE ha poi inciso in modo scandaloso la sua gestione politica a dir poco malavitosa, che l’ha resa l’opera pubblica italiana più cara di tutti i tempi, circa sei miliardi di euro di cui almeno uno finito in pratiche corruttive). Non c’è molto tempo per tentare di procrastinare l’inesorabile destino geologico di Venezia e della sua laguna

Capitolo sesto: Un mare di bollicine

Si è visto in precedenza come il riscaldamento climatico possa incidere sulla risicoltura italiana, sulla sua sostenibilità produttiva e conseguentemente sulla conservazione paesaggistica del “mare a quadretti”. Non diversa appare la situazione per quella che è ormai la maggiore produzione agricola italiana, sia in termini di volumi d produzione e di ritorno economico, che di incidenza paesaggistica: la viticoltura. La storia della vite, e del vino, è infatti indissolubilmente legata alla storia del clima, vale per il passato e varrà per il futuro. La vite è in effetti un perfetto termometro naturale tanto sensibile è la sua capacità di reazione anche a piccolissime variazioni di temperatura. Tutte le sue fasi di crescita e di resa richiedono condizioni ideali di clima specifiche per ogni tipologia e per ogni contesto di produzione. In generale produrre vini di qualità richiede inverni con poche gelate importanti, una primavera calda ed una bassa variabilità della temperatura estiva. Ma soprattutto la certezza di una successione così perfettamente scandita, ogni pur minima variazione rischia di incidere pesantemente fino al punto di cancellare un’intera annata. Ed oggi è proprio questa regolarità climatica ad essere, con l’imprevedibile alternarsi di eventi eccezionali, pesantemente posta in crisi. Il cambiamento climatico non si traduce infatti solo in un innalzamento graduale delle temperature, ma proprio con una maggiore imprevedibilità del clima.


Se, al momento attuale, è proprio l’imprevedibilità dei fenomeni estremi, grandinate in primis, a rappresentare la criticità maggiore, la crescita costante della temperatura globale comporterà nei prossimi decenni cambiamenti radicali nella destinazione di aree agricole a viticoltura e nella varietà delle viti coltivate. Come si è già verificato in passato in relazione all’alternarsi di periodi più freddi e più caldi, è sempre più prevedibile un spostamento verso Nord delle vigne, ma se nel passato ciò è avvenuto in archi temporali molto lunghi oggi è possibile che questa modificazione radicale avvenga nei prossimi decenni. In Piemonte uno studio ha mostrato come l’area ottimale per la produzione di Barolo e Barbaresco, i due vini nobili piemontesi, si sposterà quasi completamente al di fuori dell’attuale area delle Langhe (dove le vigne più pregiate sono oggi valutate svariati milioni di euro) nel periodo 2070-2100. Sarà tutto da governare il processo che modificherà, spostandoli progressivamente verso Nord, i paesaggi e le economie della viticoltura italiana.

Intermezzo 3: Perché il pianeta si sta scaldando?

Alla base del riscaldamento climatico del pianeta, c’è un principio piuttosto semplice: quello del bilancio energetico, il rapporto tra la quantità di energia in entrata e quella in uscita, quando le due quantità non sono allineate il pianeta si scalda oppure si raffredda. Il fenomeno è piuttosto complesso poiché entrano in gioco numerosi fattori in articolate relazioni tra di loro. Molto sinteticamente ed al solo fine di dare un’idea di massima si può dire che l’energia in entrata costituita dalla radiazione solare è più che bilanciata da quella riflessa dalla superficie terrestre, al punto che se contassero solo questi due fattori la Terra sarebbe un pianeta gelido con una temperatura media di -18 gradi. Ma il ruolo di atmosfera, oceani e mari, vegetazione, cicli solari, inclinazione dell’asse terrestre, assorbimento di CO2 da parte delle mondo vegetale, ed altre più complesse variabili tecnicamente definite “forzanti climatiche” incide, con andamenti oscillanti, su questo bilancio di base. Ma accanto alle forzanti climatiche “naturali” l’attività dell’uomo, la “forzante antropica” (agricoltura, deforestazione, consumi energetici e relativa produzione di CO2, allevamenti intensivi, esplosione demografica, industrializzazione diffusa, consumi e stili di vita) sta incidendo, soprattutto negli ultimi due secoli, su quelle naturali spostando in modo molto significativo l’ago della bilancia energetica aumentando la quantità di energia fissa sul pianeta che si aggiunge a quella naturale in entrata. E’ un dato ormai acquisito dalla scienza che rischia di avere un punto di non ritorno a breve se il sistema climatico globale sarà definitivamente sconvolto dalla irreversibilità di alcuni “punti di svolta – tipping points” (nostra Parola del mese di Marzo 2021) e dalla loro inter-relazione

Capitolo settimo: Mare monstrum


Le temperature delle acque superficiali del Mediterraneo stanno crescendo, dal 1985 ad oggi, ad un ritmo compreso tra 0,1 e 0,4 gradi ogni dieci anni, soprattutto nell’Adriatico e lo Ionio. Le proiezioni per il futuro parlano di un ulteriore accentuazione del processo con un aumento pari ad 1,5 gradi da qui al 2100. Per quelle più profonde è davvero complesso avventurarsi in previsioni, ma un insieme di fattori lascia presupporre scenari del tutto simili. E’ molto complesso capire cosa succede “là sotto”, si tratta di fenomeni e processi che in buona misura sfuggono ai nostri occhi di osservatori esterni. Alcune situazioni, di più immediato monitoraggio, già raccontano però un cambiamento a dir poco preoccupante. L’aumento della temperatura dell’acqua marina favorisce, a causa del proliferare dei parassiti e dei patogeni, l’aumento delle patologie degli organismi marini, in particolare di quelli alla base della catena alimentare. La riduzione della circolazione delle correnti marine, causata dal livellamento verso l’alto della temperatura dell’acqua, sta riducendo, congiuntamente al crescente inquinamento, l’apporto degli organismi nutritivi delle cosiddette “foreste vegetali ed animali” (alghe e coralli) fondamentale habitat ecologico. Dalle “porte del Mediterraneo” (Gibilterra e Canale di Suez) sta così aumentando in modo esponenziale “l’invasione di specie aliene” incentivata proprio dal crescere della temperatura delle acque. Delle quasi mille specie invasive già censite una quota che varia dal 60% all’80% proviene dal Mar Rosso, dall’Oceano Indiano e dalla fascia tropicale dell’Atlantico e, addirittura del Pacifico. Arrivano e vincono la competizione vitale con le specie indigene sempre più indebolite dallo sparire delle “nicchie ecologiche” in cui erano finora dominanti. Resistono meglio, per il momento, le aree più a Nord le cui acque possono ancora contare sulle temperature più basse delle acque dolci che scendono dall’arco alpino. Peccato però che queste acque trasportino quantità impressionanti di inquinanti di vario genere. Questa impattante serie di trasformazioni si innesta inoltre su una situazione del patrimonio ittico già fortemente compromesso dal suo sovra-sfruttamento da pesca intensiva. Nel 2018 la FAO ha pubblicato un rapporto che indicava nel Mediterraneo il mare più sovra-sfruttato del mondo, dove ben il 62% delle specie commestibili viene pescato molto al di sopra del limite corretto per mantenere la loro riproducibilità. I nostri occhi di osservatori esterni potranno ben cogliere il drammatico innalzamento del livello dei mari (vedi Capitolo Quinto) ma non quello, non meno grave, che si sta compiendo “là sotto”. In compenso risentiremo delle sue pesanti conseguenze, a partire dal depauperamento della fondamentale risorsa alimentare della filiera della pesca.

Capitolo ottavo: I grandi laghi


Sono circa 1.500 i laghi italiani, la maggior parte dei quali hanno dimensioni limitate in gran misura concentrati nell’area a ridosso delle Alpi là dove si trovano quelli più grandi. La loro acqua non è più salata, diventa dolce, ma non altrettanto dolce è il loro stato di salute, proprio per le loro specifiche caratteristiche l’impatto del riscaldamento climatico rischia persino di essere ancora più grave. Quando si parla di un lago si deve intendere l’intero “bacino imbrifero” che circonda lo specchio d’acqua, ossia l’intero contesto naturale nel quale si raccolgono le acque di alimentazione del lago, il quale a sua volta lo influenza climaticamente. L’acqua di lago in generale si stratifica in livelli di differente temperatura e densità, è come se ci fossero più laghi uno messo sopra l’altro. L’interazione fra questi diversi livelli, e la conseguente ossigenazione di tutta l massa d’acqua, è fondamentale per la sua buona salute. Si tratta di un fenomeno regolato dalla diversità di temperatura di questi strati che ha il suo picco con le temperature fredde invernali oppure in presenza di forti venti. Il generale aumento climatico sta pericolosamente appiattendo queste diversità di temperatura limitando conseguentemente il ricircolo delle acque rimescolando, e sempre più solo parzialmente, solo le acque più superficiali. La serie storica dei rilevamenti effettuati fino al 1996 evidenziava un aumento medio delle temperature dell’acqua di circa 0,03 gradi l’anno, quella del ventennio successivo 1997-2016 rivela un aumento tre volte più alto pari a 0,1 gradi annui. Tutte le testimonianze raccolte confermano l’esistenza di un processo molto avviato di “impoverimento organico delle acque di lago” già pericolosamente aggredite da inquinamento delle prospicienti attività umane ed dalla loro eutrofizzazione favorita dall’eccesso di fosforo proveniente dalle coltivazioni agricole. Non diversamente dai mari anche per i laghi non è facile avere esatta cognizione di quanto si stia modificando l’equilibrio ecologico “là sotto”, ma negli ultimo decenni si è reso sempre più evidente un accelerato depauperamento del patrimonio ittico, segnale evidente di un degrado che appare inarrestabile. Gli effetti del riscaldamento climatico sui grandi ambienti lacustri sono oggetto di studi accurati (per ragioni diverse, ma tutte di origine antropica, sono ormai numerosi gli esempi di laghi, anche di grandissime dimensioni, quasi letteralmente cancellati, i più tristemente famosi sono l’Aral in Asia Centrale, il Chad in Africa ed il Poyang in Cina), tutti concordano nell’evidenziare un rischio molto elevato di autentica sopravvivenza. Il lago Trasimeno, il quarto più grande in Italia, ne è un esempio drammatico: la sua già scarsa profondità, mediamente di circa cinque metri, combinata con l’esiguità del suo bacino imbrifero, con l’eccesso di prelievo per irrigazione, e con l’inarrestabile aumento della evaporazione causata dal crescere delle temperature, rendono sempre più realistica l’ipotesi di lunghi periodi di una sua totale siccità con un completo disseccamento tra il 2050 ed il 2060.

Intermezzo 4: Come cambierà il clima dell’Italia?

Non è per nulla semplice tracciare le linee di evoluzione del clima, per farlo si ricorre a modelli matematici (quelli su scala globale sono chiamati GCM, General Circulation Models, ossia modelli di circolazione generale) che richiedono l’integrazione complessa, per fortuna resa più agevole dagli attuali super-computer, di una quantità impressionante di dati di diversissima natura (in estrema sintesi i GCM dividono l’intero pianeta e la sua atmosfera in una griglia composta da “cubetti” di alcune centinaia di km di lato e con 10/30 strati in verticale, con condizioni climatiche il più possibile omogenee, il cui assemblaggio e le cui interrelazioni formano le linee di possibile evoluzione globale). La validità di queste proiezioni viene poi sottoposta a conferma confrontandole con la successiva raccolta dei dati dell’andamento reale. In questo quadro le specifiche proiezioni per ogni singolo “cubetto” di norma si confermano quelle più affidabili. In Italia questi cubetti sono stati inoltre integrati in modelli su scala ancora più ridotta a formare cinque zone climatiche:

Zona A = pianura e colline piemontesi, pianura lombarda occidentale, con Milano, e piacentino

Zona B = Prealpi dal Biellese al Friuli, Liguria, dorsale appenninica

Zona C = regioni adriatiche

Zona D = pianure del Friuli, Veneto, Emilia, Lombardia orientale, regioni tirreniche

Zona E = aree alpine dal Piemonte al Friuli, Trentino Alto Adige incluso

A queste specifiche zone sono stati applicati due distinti scenari globali di sviluppo delle attività umane comprese quelle di riduzione delle emissioni in atmosfera elaborati dall’IPCC (Intergovernmental Panel Climate Change): il primo, chiamato RCP 4,5 più ottimistico, prevede un buon contenimento delle emissioni, il secondo, chiamato RCP 8,5 più pessimistico, prevede che si continui come adesso. (i numeri delle sigle dei due scenari, 4,5 e 8,5, indicano la quantità di energia, Watt su metro quadro, che si raggiungerà sulla superficie terrestre). Il quadro che ne consegue prevede per il periodo 2021-2050, comparato con quello, già preoccupante, del periodo 1981-2020:

Zona A= aumento medio della temperatura di 1,4 gradi, riduzione precipitazioni invernali del 4% e di quelle estive del 27%

Zona B = aumento temperatura 1,3 gradi, precipitazioni, invernali ed estive, meno 24%

Zona C = aumento temperatura 1,2 gradi, precipitazioni, invernali ed estive, meno 18%

Zona D = aumento temperatura 1,2 gradi, precipitazioni più 8% e meno 25%

Zona E = aumento temperatura 1,1 gradi, precipitazioni meno 8% e meno 15%

Questa situazione si inserirà in un contesto mediterraneo che prevede un aumento medio complessivo della temperatura più alto del 20% della media globale, pari ad un più 2,2 gradi entro il 2040 e minori precipitazioni comprese tra meno 15% e meno 30%. Tutti i paesi che si affacciano sulle coste sud del Mediterraneo, dal Libano al Marocco, saranno quindi investiti da un considerevole aumento del riscaldamento climatico. Con il conseguente inevitabile  ulteriore aumento della pressione migratoria

Capitolo nono: Non chiamatelo maltempo

Tutte le situazioni fin qui esaminate si riferiscono ai cambiamenti indotti dal riscaldamento climatico in specifici habitat ambientali, per i quali non è oggettivamente semplice avere una esatta percezione essendo fenomeni che si formano su archi temporali medio lunghi. Diverso è il discorso se si prendono in esami eventi atmosferici che vengono da tutti noi vissuti e valutati nel loro immediato accadere. Se ad esempio lo stesso innalzamento delle temperature estive, legato all’ormai stabile presenza dell’anticiclone africano in luogo di quello “tradizionale” delle Azzorre, che, dati alla mano, è oggettivamente rilevabile a partire dai primi anni duemila, non è pienamente percepito per una sorta di avvenuta assuefazione, i cosiddetti “eventi estremi” vengono immediatamente vissuti in tutto il loro rilevante impatto. La scienza climatologica mantiene, comprensibilmente, una certa prudenza nel collegare singoli fenomeni metereologici direttamente al generale processo di riscaldamento climatico, sono infatti troppe le variabili che intervengono su specifici eventi di carattere locale per poter evidenziare una loro stretta ed inequivocabile relazione. Ma, per quanto non dimostrabile con evidenze univoche di diretto rapporto, è ampiamente condivisa la valutazione del ruolo dell’aumento medio delle temperature sul formarsi di condizioni locali che portano ad “eventi estremi”. L’aria sempre più calda al suolo, certa conseguenza delle temperature estive più alte, sta accentuando il differenziale termico con eventuali correnti fredde in quota che sta alla base di fenomeni quali le “grandinate” ed i “tornado”.


E’ bene ricordare che il 45° parallelo, quello situato a metà strada fra Polo Nord ed Equatore, passa esattamente in mezzo alla Pianura Padana, ed è quindi il terreno di scontro perfetto tra masse di aria sempre più calda e fredda. Nel periodo 1979 – 2016 le rilevazioni attestano, per questa area, un aumento dell’86% di grandinate con chicchi di grandi dimensioni. Non è diverso il discorso per quelle che comunemente sono definite “trombe d’aria” ma che scientificamente si chiamano Medicanes, la crasi delle parole Mediterranean  hurricanes (uragani), come quello che ha colpito la Riviera del Brenta in Veneto nel 2015 (vedi foto)

 

Ed anche in questo caso, come per le grandinate, le testimonianze raccolte sono una drammatica conferma di quanto è attestato dalle rilevazioni dei ricercatori che evidenziano che nel periodo 1950-2015 ci sono stati in Italia ben 348 medicanes (con 69 morti, 753 feriti e danni per svariate centinaio di milioni di euro). Questi fenomeni devastanti sono l’aspetto più eclatante di una polarizzazione degli eventi atmosferici che, a fronte di una quantità di precipitazioni relativamente invariata, vede la loro alternanza con lunghi periodi di siccità (quella che comunemente viene definita cosi in meteorologia ha tra diverse accezioni: siccità metereologica, lunghi periodi di sbilancio idrologico, siccità idrologica, apporto di acqua al suolo sotto la media del periodo, e siccità agronomica, quando la scarsità d’acqua causa danni importanti alle coltivazioni). Alcune proiezioni hanno evidenziato che in generale per l’Italia è prevedibile un aumento progressivo dei giorni consecutivi senza pioggia, interrotti da precipitazioni molto concentrate in archi temporali ristretti, fino a toccare livelli altissimi, le famose “bombe d’acqua”, e con una crescente prevalenza di precipitazioni liquide rispetto a quelle nevose. Questo trend, ormai assestato, definibile come “tutto o niente”, è stato monitorato da un gruppo di studio del Politecnico di Torino che ha confermato per la decade 2005-2015 una crescita costante di eventi “record breaking” (record abbattuti). Ed inoltre piogge così intense in periodi brevi non risolvono, scorrendo via troppo velocemente, il problema del degrado dei suoli italiani sempre più soggetti a fenomeni di aridità irreversibile (desertificazione), e di salinizzazione (eccesso di sali minerali nel terreno). A fronte di tutto questo ha ancora senso parlare genericamente di “maltempo”?

Intermezzo 5: Chi studia il clima in Italia?

Un altro segnale della sottovalutazione del problema climatico è rappresentato dal fatto che l’Italia ancora non dispone di un vero e proprio servizio meteorologico nazionale civile, un ruolo per moltissimi anni ricoperto dal Servizio Meteorologico dell’aeronautica Militare. Con la riforma del Titolo V della Costituzione sono sorte stazioni meteorologiche regionali in generale gestite dalle singole ARPA (Agenzia Regionale Protezione Ambiente) con una conseguente babele di sistemi e metodi ancora del tutto da coordinare. Un ruolo questo che solo nel 2018 è stato affidato a “Italia Meteo”. Un’agenzia nazionale che dovrebbe svolgere un compito analogo a quello, ad esempio, di MeteoFrance o del Meteo Office inglese, peccato però che ad oggi i fondi assegnati sono del tutto insufficiente allo scopo. Non mancano alcune eccellenze quali l’Istituto per le scienze dell’atmosfera e del clima (ISAC) del Consiglio Nazionale delle Ricerche con sede a Bologna piuttosto che il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, una fondazione partecipata da università e centri di ricerca. Senza dimenticare associazioni come la Società Meteorologica Italiana, Nimbus (con relativi siti) ed il sito climalteranti.it  Ci sarebbero quindi adeguate competenze ed esperienze, manca semmai la volontà politica di coordinarle e di dotare il servizio meteo nazionale di risorse adeguate. Tanto per cambiare

Capitolo decimo: Cambiare l’Italia

In quest’ultimo denso Capitolo Roberto Mezzalama, sulla base di quanto raccolto ed esposto nei Capitoli precedenti, esprime appassionate, e purtroppo pessimistiche, valutazioni sullo stato di salute reale del nostro paese e valutazioni molto severe e critiche sul sempre più colpevole ritardo con il quale l’Italia, ed il mondo intero, si stanno muovendo per fronteggiare la crisi climatica. Eppure il nostro paese è, come si è visto, molto esposto dal punto di vista climatico, schiacciato com’è fra le Alpi ed il Mediterraneo, e da quello geopolitico essendo di fatto la porta di accesso delle ondate migratorie che dalle coste del Mediterraneo, e dal cuore dell’Africa, inevitabilmente muoveranno verso l’Europa scacciate dalle loro terre proprio a causa del riscaldamento climatico e dei vari processi ad esso collegati. Si è quindi di fronte ad uno scenario che per essere adeguatamente affrontato richiede un impegno ……. che si può paragonare solo ad uno sforzo bellico …….. Eppure a tutt’oggi non sembra di cogliere, nella classe politica, e nella stessa opinione pubblica, adeguata consapevolezza e decisione a muoversi. Non è possibile in questa sintesi, dedicata essenzialmente a presentare la “fotografia in tempo reale” di quanto sta avvenendo sotto i nostri distratti occhi, riportare queste considerazioni di Mezzalama, ognuna delle quali si presta a riflessioni decisive. Non mancherà occasione per riprenderle, nell’ambito degli approfondimenti che come CircolarMente sicuramente dedicheremo al tema, ci limitiamo, in linea con lo spirito di questa sintesi, a riprendere alcuni passaggi che evidenziano quanto arduo sia lo sforzo che si dovrebbe compiere, ma soprattutto quanto grave sia il ritardo con il quale ci si sta muovendo.

*   È oggettivamente lecito dubitare dell’unanimismo di facciata che accomuna ambienti politici ed economici in una generica sottoscrizione di impegni “green”. La stessa “green economy”, che altro non è che il tentativo di tenere insieme ritmi alti di crescita economica e difesa dell’ambiente, due valori per moltissimi versi del tutto inconciliabili, rischia di essere tanto velleitaria quanto strumentalmente sbandierata

*   Se si guarda anche solo al nostro paese la dichiarata volontà di procedere ad un riconversione energetica deve fare i conti con una realtà che racconta ben altre cose:

ü  Dal 1990 al 2019 le emissioni di gas climalteranti sono diminuite del 18%, vale a dire poco più di mezzo punto all’anno

ü  Nei cinque anni più recenti, 2015 – 2019, quelli più ricchi di buone intenzioni, questo valore è migliorato passando all’1% annuale

ü  Peccato che la ripartizione per settori evidenzi una relazione molto stretta non tanto con una coerente e precisa programmazione di trasformazione energetica quanto piuttosto con quella della struttura produttiva dell’economia italiana avvenuta per processi endogeni legati alla sua crisi ormai decennale accentuata dallo shock del 2007/2008

ü  E peccato soprattutto che per rispettare gli impegni formalmente già assunti con la Cop 21 di Parigi del 2015 l’Italia dovrebbe ridurre, già a partire da allora e fino al 2050, del 3,3% all’anno le sue emissioni di gas climalteranti, un ritmo radicalmente superiore a quello finora attuato. Ed ogni anno perso aumenta le percentuali degli anni a venire

ü  Il pacchetto di misure noto come “European Green Deal” va oltre ed ha l’ambizione di azzerare, sempre entro il 2050, tutte le emissioni europee di gas effetto serra. Nel successivo pacchetto di misure d’emergenza post pandemia, “Next Generation EU”, è stato quindi coerentemente chiesto agli Stati che riceveranno i consistenti aiuti, e l’Italia è il paese che di più ne riceverà, di spendere “almeno il 37% delle cifre in attività di decarbonizzazione dell’economia”. Il PNRR predisposto dal Governo non sembra proprio muoversi in questa direzione, ricercatori indipendenti hanno evidenziato, cifre alla mano, che le prestazioni ambientali delle misure prese per il nostro paese sono tra le peggiori dei Paesi del G20 ed in alcuni casi addirittura con ricadute peggiorative anziché migliorative

*   Lo scorso 2 Dicembre 2020 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha tenuto un discorso sullo “Stato del Pianeta” che denunciava il gravissimo stato delle cose aprendolo con queste parole “Cari amici, l’umanità ha dichiarato guerra alla natura”. Pochi giorni dopo si sono tenuti i tradizionali saluti di fine anno del Presidente della Repubblica e dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri”, in ambedue i discorsi nulla è stato detto al riguardo e le questioni ambientali non sono state per nulla affrontate nella loro specificità.

N.B. = per le stesse motivazioni non riportiamo in questa sintesi le due brevi interviste fatte da Mezzalama a Michelangelo Pistoletto e a Carlo Petrini che, dai rispettivi punti di vista, raccontano la necessità del giusto rapporto di una nuova umanità riappacificata con la natura rispettivamente con la “bellezza” e con il “buono, pulito e giusto”. Non mancherà occasione di riprenderli