venerdì 29 gennaio 2016

FRONTIERE

Nel momento in cui l’avvenire stesso dell’Unione è messo in forse dalla ventilata sospensione di Schengen e dal ritorno di quelle frontiere che l’ondata migratoria ha sollecitato, rivelando peraltro la fragilità della costruzione europea, può essere utile la lettura di questo breve brano in cui Dario Gentili riflette sulla crisi della sovranità statale nel mondo globalizzato, che si rende evidente nella moltiplicazione e nella sovrapposizione dei confini e nell’innalzamento di muri tesi a separare interno ed esterno, come frontiere difensive contro un supposto disordine barbarico.

Questo testo fa parte di una serie di materiali di lavoro dal titolo  “ Filosofie e mondializzazione. Terra e luoghi nell’età globale”, messi a punto da Stefano Marzocchi in “ Novecento. Filosofia e dintorni”, disponibile on line:



FRONTIERE
( tratto da “ Confini, frontiere, muri” di Dario Gentili - Lettera Internazionale n° 98- 2008)
                                                

Perché ci sia confine, c'è bisogno che siano almeno due gli ordini politici che si riconoscono la sovranità su un dato territorio. Se l'impero ha ai propri margini frontiere, lo Stato ha confini. In epoca moderna l'ambivalenza latina di fines e limes... si è perduta a vantaggio del confine. In inglese, lingua marittima e non continentale, invece, la distinzione tra bound e frontier rimane netta... Nello stesso periodo in cui in Europa si afferma la topografia del confine, dall'altra parte dell'oceano la topografia della frontiera ritrova gli spazi sconfinati nel West degli Stati Uniti in via di espansione. Frederick Jackson Turner è il più noto storico - e apologeta - della frontiera americana... The Frontier in American History del 1920... «La frontiera americana si distingue nettamente da quella europea, che è una linea di confine fortificata che corre attraverso terre densamente abitate. La cosa più significativa della frontiera americana è che è posta proprio al limite dei territori aperti all'espansione e alla conquista»... non è lineare come il confine ed è mobile, protesa costantemente alla conquista... «In quest'avanzata, la frontiera è la cresta, la lama acuta dell'onda, il punto d'incontro tra barbarie e civiltà». Da un verso, la frontiera americana, come il limes romano, è a contatto con il barbaricum, la cui conquista è anche un'opera di civilizzazione... Dall'altro verso, la metaforica della frontiera è marittima piuttosto che terrestre... «Ciò che il Mediterraneo rappresentava per i greci, perché recideva i legami della consuetudine, offriva nuove esperienze e suscitava istituzioni e attività, questo, e qualcosa di più, ha 3 rappresentato direttamente per gli Stati Uniti, e più remotamente per le nazioni d'Europa, la frontiera nel suo avanzare e nel suo conseguente restringersi». Il mare rappresenta l'elemento opposto della terra: è sconfinato e smisurato. È, insieme al deserto della Terra Promessa a esso affine, l'altra faccia dell'Occidente, l'alternativa sempre possibile rispetto al radicamento sulla terra: guerra e viaggio, Iliade e Odissea... La frontiera americana non può fissarsi, irrigidirsi in confine: la sua espansione non si è arrestata nemmeno con la conquista definitiva del West... «Sarebbe un profeta ben imprudente chi asserisse che il carattere espansivo della vita americana sia ora interamente cessato. Il movimento è stato il fattore dominante, e, se questo allenamento non ha effetto su un popolo, l'energia americana chiederà continuamente un campo più vasto per esercitarsi» (Turner). La globalizzazione può essere un fenomeno leggibile alla luce dell'esperienza della frontiera, del suo state of mind, come scrive Turner: è la forma specifica dell'imperialismo americano, del suo sconfinamento di natura prettamente marittima ed economica - in questo più affine al modello imperiale inglese che a quello romano. E tuttavia, la frontiera - e la globalizzazione - comprende in sé, fin nel suo etimo, il rischio della sua perversione: imporre la linea alla fluidità del mare, innalzare e militarizzare un "fronte" contro un nemico che non minaccia alcuna guerra, ma serve per mantenere desta la vigilanza su un'identità ormai in crisi... Uno Stato-nazione che pretende di "regolare" i "flussi" di merci, informazioni e persone, che circolano attraverso uno spazio marittimo e imperiale, in base alla logica lineare e discriminante del territorio; una sovranità che presume di "regolare" le frontiere come se fossero confini - ecco il nuovo muro. I muri di oggi manifestano la crisi della sovranità e, più in generale, la crisi della modernità... I muri oggi non vengono eretti per definire confini bensì frontiere; ma non si tratta della tipologia della frontiera mobile americana - e di ogni colonialismo in generale. Questi muri di frontiera sono immobili. Pur non riconoscendo alcun ordine politico al di fuori, non sono frontiere di conquista, bensì di difesa; a differenza del confine, non definiscono entrambe le parti, ma soltanto la rettitudine di una parte, quella interna: sono i baluardi di difesa contro gli attacchi alla democrazia e all'ordine interno, così se ne giustifica sovente la costruzione... Nel mondo globale, confini e frontiere, piuttosto che venir meno, si moltiplicano, si sovrappongono e si confondono anche all'interno di un medesimo ordine politico-giuridico. Nell'Unione Europea, per esempio, i confini sono porosi all'interno degli Stati di Maastricht e rigidi ai suoi margini esterni; allo stesso tempo, torna nel Vecchio Continente anche la frontiera in quanto zona di espansione verso Est e verso i paesi dell'altra sponda del Mediterraneo. A complicare ulteriormente la topografia politica contemporanea a livello globale, si aggiunge il fronte della sovranità: il muro di frontiera. Dalla parte interna, l'ordine, la democrazia, lo Stato di diritto e la cittadinanza e, dall'altra, il loro contrario speculare - donne e uomini di cui si riconosce esclusivamente la condizione fuorilegge, che non accorda loro nemmeno lo statuto di nemico, tutt'al più di criminale... I muri di frontiera di oggi comportano allo stesso tempo la differenza qualitativa della frontiera e la separazione netta tra interno ed esterno del confine. Nel mondo greco, i barbari erano al di fuori del logos, nel mondo romano al di fuori del limes dell'impero; nel mondo contemporaneo, i barbari possono essere all'interno dei confini statuali e, al contempo, al di fuori delle frontiere murate...

martedì 26 gennaio 2016

"Rompere il cerchio crescita-migranti" - breve saggio di Maurizio Pallante


Maurizio Pallante è un eretico e un irregolare della cultura. Laureato in Lettere, si occupa di economia ecologica e tecnologie ambientali. Nel 2007 ha fondato il Movimento per la decrescita felice, di cui è presidente onorario. Tra i molti libri pubblicati, ricordiamo “La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PI” (2005) e “Sono io che non capisco. Considerazioni sull’arte contemporanea di un obiettore alla crescita” (2013). Con le edizioni Lindau ha pubblicato “Monasteri del terzo millennio”.


Rompere il cerchio crescita-migranti

I flussi di migranti che a rischio della vita, e pagando altissimi costi anche in denaro, attraversano su barconi improbabili il tratto di mare Mediterraneo tra le coste del nord-Africa e dell’Europa del sud, suscitano nell’opinione pubblica dei paesi in cui arrivano due reazioni contrastanti: quella umanitaria dell’accoglienza in nome della fratellanza e dell’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani, e quella egoistica del rifiuto dell’accoglienza che si traduce nella richiesta di riportarli nei luoghi da cui sono partiti o di usare la forza per impedire che partano. La prima reazione è dettata da motivazioni religiose o da motivazioni politiche sostenute dalle frange più a sinistra della sinistra. La seconda è motivata dalla paura per l’insicurezza sociale che può essere innescata dall’arrivo di persone che non hanno nessuna risorsa per vivere e che l’istinto di sopravvivenza può indurre a tentare di tutto per riuscirci. Questa paura, che secondo i sostenitori dell’accoglienza sarebbe immotivata, ma qualche fondamento lo ha, viene ingigantita e strumentalizzata politicamente dai settori della destra più retriva. Ma né gli uni, né gli altri fanno un’analisi approfondita delle ragioni per cui masse crescenti di persone fuggono dai luoghi in cui sono nate e si riversano nei paesi dell’Europa occidentale. Le analisi si fermano all’ovvia constatazione del fatto che ciò avviene perché non riescono più a ricavare da quei luoghi il necessario per vivere e, se non bastasse, sono diventati teatri di guerre tribali sanguinosissime e interminabili. D’accordo, ma perché non riescono più a ricavare da vivere dai luoghi in cui per migliaia di anni sono vissuti i loro antenati e perché quei luoghi sono diventati teatri di guerra? Queste domande non solo non ricevono risposta, ma non vengono neppure formulate. Eppure, se non si capiscono le cause, non si può ovviamente nemmeno tentare di rimuoverle e se ci si limita a cercare di attenuarne le conseguenze, si pu  addirittura correre il rischio di rafforzarle. Le considerazioni che seguono sono un tentativo di dare una risposta a queste domande, risalendo dapprima velocemente alle cause remote, per poi svolgere altrettanto velocemente qualche riflessione sulle cause immediate. La prima considerazione da fare è che le migrazioni sono una necessità intrinseca delle economie che hanno finalizzato le attività produttive alla crescita della produzione di merci. Lo sono state sin dall’inizio della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del settecento, quando in conseguenza di alcune leggi vessatorie contro l’agricoltura di sussistenza, i contadini non riuscirono più a ricavare dalle loro terre ci  di cui avevano bisogno per vivere e furono costretti a emigrare nelle città, dove trovavano da lavorare come operai nei primi opifici in cambio di un misero reddito monetario che li metteva in condizione di comprare sotto forma di merci i beni che non potevano più autoprodurre. Senza le migrazioni forzate degli ex-contadini, l’industria non avrebbe trovato non solo la manodopera di cui aveva bisogno per produrre merci, ma nemmeno un numero sufficiente di persone provviste di reddito monetario in grado di acquistare le merci prodotte.

La crescita della produzione industriale, con cui è stato identificato il benessere, richiede un aumento costante dei produttori e consumatori di merci, che sono due facce della stessa medaglia, perché per avere il denaro necessario a comprare le merci, a meno che non si viva di rendita, occorre lavorare nella produzione di merci, o nei servizi necessari al funzionamento di una società che tende a mercificare tutto, in cambio di un reddito monetario. Pertanto, ha sempre avuto bisogno di costringere, con la forza legale dello Stato integrata da forme di forza illegale, e contestualmente di convincere, con l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, numeri crescenti di persone a passare dall’economia di sussistenza all’economia mercantile. Un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci ha bisogno di distruggere le economie di sussistenza e di avviare flussi migratori dalle campagne alle città, prima in ambito regionale (come è avvenuto in Italia nella prima metà del novecento), poi a livello nazionale (come è avvenuto in Italia nella seconda metà del novecento), poi a livello internazionale, come è avvenuto in Europa a partire dagli anni ottanta del secolo scorso con l’arrivo di migranti dai paesi dell’Est e dall’Africa. Per venire ai flussi migratori che hanno destato tanto allarme in questi giorni, l’11 maggio 2015 il banchiere Carlos Moedas, Commissario europeo alla ricerca, all’innovazione e alla scienza, ha dichiarato all’emittente francese Europe1: «Bisogna avere più immigrati in Europa. L’immigrazione è necessaria alla crescita ed è certo che se potessimo avere più persone, potremmo avere più crescita. Il mio messaggio ai francesi e all’Europa è che dobbiamo aprire le nostre porte».1 Con una sintonia che potrebbe stupire, il dossier Migranti, attori di sviluppo, presentato il 4 giugno 2015 all’Expo di Milano dalla struttura della Chiesa cattolica che si occupa di questo problema, la Caritas/Migrantes, ha messo in evidenza che i migranti costituiscono una ricchezza per l’Italia, perché producono l’8,8 del prodotto interno lordo, pari a oltre 123 miliardi di euro. E vengono pure pagati meno dei lavoratori italiani: un italiano guadagna in media 1.326 euro al mese, un cittadino comunitario 993, un extracomunitario 942. Per non parlare di chi lavora in nero, a cui viene dato solo il necessario per sopravvivere e tornare a lavorare giorno dopo giorno fino a quando ce n’è bisogno. Cosa si può volere di più? Nell’ultimo trimestre del 2015, in concomitanza con un’improvvisa accentuazione dei flussi migratori in diversi Paesi europei, si sono moltiplicati sui mass media gli interventi sui vantaggi che i migranti apportano alla crescita economica di questi Paesi, ai loro pensionati e al loro welfare state. A volte con argomentazioni in cui la malafede è troppo scoperta per essere consapevole: «Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il 2060».2 Ben peggio di un’ennesima conferma che il gran parlare d’accoglienza è un’ipocrisia: ai popoli ricchi serve che aumenti il numero dei rifugiati, di coloro che sono costretti ad andarsene dalle loro terre. Se gli Stati europei hanno questa esigenza, potranno adoperarsi per eliminare, o quanto meno ridurre, le cause che costringono i più poveri dei popoli poveri a intraprendere quei viaggi infernali che spesso si concludono con un naufragio? O faranno in modo di accentuarle? Brutto segno se di arriva a scrivere cose di questo genere, per di più in nome della solidarietà e dell’accoglienza. Per cortesia, lasciamo stare tutta questa retorica basata sui buoni sentimenti, sulla carità cristiana, sulla fratellanza e sulla giustizia sociale. Non che non ci sia chi agisce con questa nobiltà d’animo, ma finisce col fare il cavallo di Troia di chi, invece, utilizza i migranti (che per lo più sono persone nel pieno della loro forza fisica e della loro lucidità mentale) per far crescere il prodotto interno lordo dei paesi ricchi, utilizzando teste e braccia che potrebbero produrre ciò che serve per far uscire dalla miseria i propri paesi d’origine. Per non parlare di chi, come si è visto con l’indagine di Mafia Capitale, utilizza per arricchirsi illegalmente i finanziamenti stanziati per l’accoglienza temporanea dei migranti. Le migrazioni dai paesi non industrializzati verso i paesi industrializzati sono causate dal fatto che, per sostenere la crescita dei loro sistemi economici, i paesi industrializzati depredano i paesi non industrializzati delle loro risorse, istigano i popoli che li abitano a farsi guerre fratricide, li cacciano dalle loro terre comprandole per un tozzo di pane perché non esistono catasti, corrompono i loro governanti, li portano al potere d’imperio, li sostituiscono e li fanno uccidere se diventano un ostacolo per i loro interessi, usano i contributi economici dei governi occidentali ai popoli in via di sviluppo per costringerli a passare dall’economia non mercantile all’economia monetaria, dall’agricoltura tradizionale di sussistenza, da cui hanno sempre tratto da vivere, alle monocolture per il mercato mondiale, inducendoli a fertilizzare chimicamente i terreni per aumentare le rese fino a renderli sterili. E mentre li impoveriscono scientificamente, anche col pretesto di aiutarli, fanno balenare davanti ai loro occhi la possibilità di accedere alle meraviglie tecnologiche dei paesi industrializzati. Se i migranti se ne vanno dai loro paesi dove non riescono più a vivere e contribuiscono col loro lavoro a far crescere il prodotto interno lordo dei paesi industrializzati, contribuiscono ad accrescere la ricchezza di questi paesi e ad accentuare il loro fabbisogno di risorse. Per procurarsele i paesi industrializzati continueranno a rapinarle ai paesi non industrializzati, continuando a utilizzare tutte le forme di violenza e sopraffazione con cui sottomettono i popoli poveri e accentuano la loro povertà inducendoli a emigrare per vivere. Le migrazioni tendono ad autoalimentarsi. Se non si preoccupano di intervenire sulle cause, le organizzazioni umanitarie in cui si impegna la componente più generosa della nostra società, contribuiscono a prolungare nel tempo l’ingiustizia e l’iniquità nei confronti dei più derelitti. Premesso che alleviare una sofferenza è un dovere morale e, pertanto, deve essere svolto tempestivamente senza se e senza ma, capirne le cause è un dovere intellettuale. La comprensione delle cause che attivano i flussi migratori dall’Africa ai paesi dell’Europa occidentale è offuscata dal sistema dei valori che accomuna, al di là delle differenze, tutte le correnti di pensiero nei paesi in cui l’economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci. Per descrivere gli occupanti dei barconi che arrivano sulle coste dell’Italia meridionale, o affondano tragicamente nel canale di Sicilia, i mass media ripetono un luogo comune di cui non immaginano le implicazioni culturali: «disperati che si sottopongono a sofferenze indicibili e mettono a rischio la loro stessa vita alla ricerca di un futuro migliore». Il futuro migliore sarebbe l’inserimento nelle società in cui vivono i popoli che si autodefiniscono sviluppati perché hanno un alto valore del prodotto interno lordo pro-capite. Convinti di appartenere alla società più evoluta che sia mai apparsa nella storia, inevitabilmente questi popoli pensano che il massimo desiderio dei popoli che essi definiscono sottosviluppati, sia di condividere i loro stili di vita. Di diventare sviluppati anche loro. Non riescono nemmeno a immaginare che possa esistere un’idea di benessere diversa dalla crescita del prodotto interno lordo pro-capite, magari più vera e più capace di futuro. Non si rendono conto che nei confronti dei migranti dall’Africa in Europa, come nei confronti dei contadini, degli artigiani e delle comunità nei paesi in via di sviluppo, si sta ripetendo la stessa storia iniziata nel diciottesimo secolo in Inghilterra.

L’unica possibilità per attenuare le sofferenze dei migranti dai paesi africani, non è spianare, seppure con le migliori intenzioni, la strada all’esigenza delle economie della crescita di accrescere con le migrazioni il numero dei produttori e consumatori di merci per continuare a crescere, ma impegnarsi affinché i paesi industrializzati abbandonino la finalizzazione dell’economia alla crescita, riscoprendo l’importanza dell’autoproduzione per autoconsumo, dell’agricoltura tradizionale, dell’artigianato, dei rapporti comunitari, dell’economia del dono, della sobrietà, del rispetto della terra, della simbiosi che lega l’umanità alla fotosintesi clorofilliana attraverso il respiro, della bellezza, della contemplazione, della spiritualità. Questo recupero di valori e di modelli di comportamento del passato è una condizione necessaria per ridurre l’impronta ecologica della specie umana e per consentire una più equa ripartizione delle risorse tra i popoli, ma non sarebbe sufficiente se non venisse accompagnato da un grande slancio progettuale di innovazioni tecnologiche finalizzate all’aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse della terra, in modo da renderne compatibile il consumo con la loro capacità di riprodursi e di metabolizzare le emissioni che, inevitabilmente, si producono nei processi che le trasformano in beni atti a soddisfare le esigenze vitali della specie umana. Solo la decrescita della produzione di merci nei paesi industrializzati, attuata mediante l’adozione di stili di vita più responsabili e di tecnologie finalizzate eticamente, può ridurre la loro necessità di risorse, evitare che le sottraggano ai popoli poveri utilizzando forme inenarrabili di violenza di massa nei loro confronti, evitare di costringerli a emigrare rischiando la vita perché non riescono più continuare a vivere, come i loro avi, con le risorse della terra in cui sono nati. Solo una decrescita con quelle caratteristiche può consentire di realizzare condizioni di maggiore giustizia non solo tra i popoli, ma anche con le generazioni future. Nell’enciclica Laudato si’, con cui Papa Francesco già dal titolo ha voluto sottolineare la ragione per cui ha scelto il suo nome di pontefice, la decrescita dei consumi di risorse da parte dei popoli ricchi viene indicata, seppur con alcune cautele che sembrano motivate dalla preoccupazione di attenuarne l’impatto sul paradigma culturale fondante delle società industriali, come la condizione imprescindibile per realizzare una maggiore equità tra i popoli. «[…] è arrivata l’ora – scrive il pontefice – di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti». Anche se questa interpretazione non evidenzia con chiarezza la connotazione della mercificazione insita nella crescita economica, ma indica soltanto la diminuzione dei consumi di risorse da parte dei popoli che hanno più del necessario per consentire di aumentare la disponibilità delle risorse necessarie a soddisfare i bisogni vitali dei popoli poveri, per la prima volta la decrescita riceve un riconoscimento della massima autorevolezza morale e viene indicata come la condizione indispensabile per realizzare in questa fase della storia la pulsione all’eguaglianza insita nell’animo umano, che costituisce l’elemento caratterizzante dell’insegnamento di Cristo.

Dopo la "lettura" de "Il Capitale nel XXI secolo" di Thomas Piketty - Commento di Massima Bercetti


Giovedì pomeriggio Giancarlo Fagiano, membro del direttivo di CircolarMente, ha presentato al nostro pubblico il testo di Thomas Piketty “Il capitale del XXI secolo”. Con grande modestia si è presentato come un semplice lettore, ma l’esposizione è stata rigorosa e accattivante. La relazione è stata condotta con grande capacità comunicativa, in coerenza con l’intento dello stesso autore che ha voluto intenzionalmente rivolgersi non solo ad un pubblico di addetti ai lavori aprendo le sue riflessioni, come raramente avviene nei testi di economia, alle scienze sociali e in alcuni casi anche alla letteratura. Il libro, che illustra le dinamiche del capitalismo negli ultimi tre secoli, ha registrato un grande, inaspettato successo di pubblico anche tra i non addetti ai lavori probabilmente perché, a partire dalla messa al centro del fenomeno delle crescenti disuguaglianze, ha toccato un nervo scoperto interno alle grandi narrazioni neoliberiste e ha indicato una terza via riformista, interna allo stesso capitalismo, collocata tra la prospettiva neoliberista, che ha prodotto i guasti con i quali facciamo i conti, e la prospettiva rivoluzionaria, che storicamente ha fornito delle pessime prove. I teorici del neoliberismo sostengono che la crescita economica, indipendentemente dalle disuguaglianze, genera ricchezza diffusa. Secondo Piketty non è così, in quanto una migliore distribuzione della ricchezza si è realizzata esclusivamente nel trentennio tra il 45 e il 75, a causa della coincidenza di diversi fattori quali: la ricostruzione postbellica, la crescita demografica, l’esistenza di un modello economico alternativo rappresentato dall’ URSS, ruolo dei sindacati, mentre a partire dagli anni 80, ovvero dalla messa in pratica delle politiche neoliberiste, le disuguaglianze sono aumentate tanto che, se non si porrà un freno, il XXI secolo tornerà ad essere contraddistinto dalle stesse condizioni di disuguaglianza di inizio novecento. Un combinato di bassa crescita economica e di bassa natalità farà sì che la ricchezza da capitale si concentrerà, mediante i meccanismi dell’eredità, tanto da diventare sempre più dirimente, rispetto ai redditi da lavoro, nella gestione delle singole esistenze.
Se teniamo inoltre presente il restringimento delle possibilità lavorative offerte ai giovani, usando il linguaggio di Marx si potrebbe ben dire che il lavoro morto condizionerà pesantemente quello vivo limitando fortemente, come già accade, la mobilità sociale.
Piketty, che fin qui si è mosso mostrando esclusivamente dei dati di ordine economico, completa l’opera individuando nella leva della fiscalità lo strumento che dovrebbe consentire di contrastare la tendenza in atto. Parte questa che non abbiamo avuto tempo nel pomeriggio di affrontare, per cui ci proponiamo di ritrovarci a breve per concludere e lasciare spazio alla discussione. Come è emerso nel confronto il libro di Piketty mostra una linea di tendenza, che ha il pregio di essere suffragata da una gran mole di dati. Certo l’autore non dice nulla sulle variabili di ordine politico/ambientale/sociale lasciando la discussione e la valutazione alla classe dirigente politica, ma anche a quella parte, purtroppo sempre più modesta, che pensa di poter contare un poco all’interno dei tortuosi processi della società civile.

sabato 23 gennaio 2016

Commento/recensione del libro di Flores d'Arcais da parte di Gustavo Zagrebelsky


Il nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais: il ruolo del pensiero democratico radicale come unico strumento di integrazione di fronte al fanatismo

GUSTAVO ZAGREBELSKY -  la Repubblica  del  23 Gennaio 2016  

Molte cose è il libro di Paolo Flores d’Arcais “La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale” (Raffaello Cortina Editore): un allarme per il pericolo che l’Islam fondamentalista rappresenta per gli ideali politici dell’Occidente, una denuncia delle debolezze e delle ipocrisie dei nostri governi, una teoria delle condizioni irrinunciabili della democrazia. Il “precipitato” di tutti i discorsi anzidetti è nella parola laicità, intesa nel senso più rigoroso, senza gli aggettivi oggi di moda (sana, positiva, vera: aggettivi che non l’arricchiscono, ma l’avvelenano). Le considerazioni che seguono non sono, propriamente, una recensione. Sono piuttosto un tentativo d’inquadrare i problemi e di sollecitare riflessioni su questioni cruciali per il nostro avvenire.

La laicità è il presupposto della democrazia, in quanto s’intenda la religione come eteronomia, cioè soggezione alla trascendenza. La democrazia, al contrario, è autonomia, cioè libertà nell’immanenza. Si potrebbe dire così: chi si appella alla religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un ordine sacro oggettivo necessario che a noi spetta rispettare e, eventualmente, restaurare se è stato violato; chi si appella alla democrazia ritiene, invece, che la casa terrena non abbia un ordine, ma siamo noi a doverglielo dare, attraverso discussioni, controversie, voti ed elezioni. Chi vuole risolvere i problemi della convivenza in base a premesse sacrali apre le porte a quella maledizione dell’umanità che sono le guerre di religione. Ora, se guardiamo alla storia, dobbiamo riconoscere che è nello Stato nazionale che la democrazia ha trovato l’humus necessario. Questo è un punto importante per comprendere le difficoltà odierne della democrazia. Lo Stato nazionale ha generato mostri totalitari, quando è degenerato in nazionalismo. Ma la nazione ha realizzato la “sfera pubblica” comune, nella quale i cittadini possano confrontarsi dialogicamente, e “discorsivamente” partecipare alla creazione d’una volontà comune su temi di rilevanza generale. La democrazia non è incompatibile con il pluralismo delle opinioni, ma il “multiculturalismo” è altra cosa, è rottura dell’unità del quadro entro il quale si deve svolgere la vita comune.

Il libro di Flores è una scossa necessaria e salubre contro la cecità, la viltà e l’inanità di fronte ai pericoli del fanatismo religioso usato come sostanza incendiaria, versata sulle controversie economiche e politiche che dividono il mondo e le società e le trasformano in crociate. Un breve excursus storico. La Francia del Cinque-Seicento fu il terreno d’una orribile guerra civile in cui ragioni politiche si mescolavano col fanatismo religioso: l’obbedienza cattolica contro la riforma protestante. La “notte di San Bartolomeo” (23-24 agosto 1572) in cui migliaia di Ugonotti furono trucidati dal partito cattolico sotto l’egida di Caterina de’ Medici è un esempio di come si possono regolare i conti tra fedeli di religione diversa e azzerare le diversità imponendo una sola legittimità. Contro tanta barbarie, si fece strada un diverso modo di pensare che potrebbe essere sintetizzato in un detto del Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital: «Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme », ciascuno con la sua fede. Quella massima trovò attuazione con l’editto di Nantes di Enrico IV (1598) che, sia pure provvisoriamente e con molte limitazioni, riconobbe la libertà di coscienza e di culto: tolleranza a condizione che cattolici e protestanti stessero ciascuno al proprio posto e il potere assoluto del Re non fosse messo in discussione.

Questa forma di coesistenza per parti separate poteva valere in quel tempo, quando di democrazia non si parlava. In democrazia, deve esistere un unico foro politico generale dove tutti sono chiamati a partecipare. Non basta che ci sia un potere che garantisca la non aggressione. Occorre che i “fedeli” delle diverse chiese si rispettino e si riconoscano reciprocamente come portatori di buone ragioni valide in generale. La legittimità democratica nasce da lì, dal riconoscimento d’essere parti d’un foro comune. Il foro comune si chiama “nazione”.

La nazione è stata celebrata come la casa accogliente, protettiva, il luogo del cuore, la Heimat del romanticismo tedesco. La storia delle Nazioni e della “nazionalizzazione delle masse” (titolo d’un celebre libro di George Mosse del 1974) è stata però lunga e tortuosa e, soprattutto, fatta di cose molto diverse: movimenti di emancipazione da servaggi e discriminazioni e conquista di diritti (per esempio, il voto e la protezione sociale per la classe lavoratrice, in origine esclusa dalla nazione, secondo la concezione borghese) o, al contrario, di discriminazione e persecuzione. L’unità è una bella cosa se è il prodotto dell’azione che mira a distruggere barriere e a creare fratellanza. Ma può essere — ed è stata — cosa violenta, se è imposta con obblighi e divieti (come l’uniformità di lingua, di religione e di insegnamento). Può essere terribile, se viene brandita come arma contro coloro che i governi dichiarano “non integrabili”, i diversi per natura: gli stranieri, i senza cittadinanza, i nemici della Patria, i potenziali traditori (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, gli slavi, i latini, secondo il concetto nazionale razzista del nazismo).

Raccogliamo questi spunti di riflessione e facciamoli reagire con i problemi del multiculturalismo. Il “modello San Bartolomeo”, cioè la violenza e i pogrom usati per sbarazzarsi dei migranti è proponibile solo per gli xenofobi razzisti di casa nostra. Tuttavia, neppure la separazione “modello Nantes” è accettabile: i muri, le enclave e i quartieri monoetnici, le classi scolastiche separate o le scuole coraniche sostitutive di quelle pubbliche. Sono cose che hanno il nome apartheid e sono inconcepibili in democrazia.

La parola-chiave dei nostri giorni è integrazione e, nel libro di Flores, l’integrazione implica la laicità nella sua accezione più rigorosa. Si prenda la questione dei simboli: come dovrebbe essere vietata l’esibizione di quelli islamici (il velo delle donne), così dovrebbe essere per quelli cristiani (il crocifisso nei luoghi pubblici). Ma, qui c’è il rischio d’una aporia, un’aperta contraddizione. La laicità è funzionale all’autonomia, ma la si può imporre in regime di eteronomia. Si può essere laici perché qualcuno ce lo comanda? La contraddizione non è da poco. La laicità imposta significa soffocare i propri tratti identitari e, da questo soffocamento, si possono sprigionare reazioni di rigetto. L’esperienza insegna: invece di promuovere convivenza, si rischia di alimentare i conflitti.

L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione. Prima o poi, non saremo più gli stessi. Di questo possiamo essere certi. Si tratta di sapere se ci si arriveremo in mezzo a conflitti o, invece, con la disponibilità delle culture a entrare in rapporto. Ferma restando l’intransigenza verso ogni forma di violenza tra e nei gruppi sociali, e fermo l’aiuto che deve essere dato a coloro che liberamente desiderano sottrarsi alle imposizioni delle loro comunità, si tratta di promuovere l’interazione, nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica. Convinzione o illusione? Non lo sappiamo, ma sappiamo che questa è l’unica via conforme alle nostre convinzioni democratiche.

mercoledì 20 gennaio 2016

Cosa si nasconde detro la nascita dell'Isis (Articolo apparso sulla rivista on-line www.tpi.it/mondo/africa-e-medio-oriente)


Una teoria controversa su cosa si nasconde dietro la nascita dell'Isis


Secondo l’economista francese Thomas Piketty, le disuguaglianze economiche in Medio oriente sono una delle cause principali dell’evoluzione dello Stato Islamico

 A circa un anno dalla pubblicazione del saggio “Il capitale nel XXI secolo”, uno dei libri più venduti nell'ultimo anno negli Stati Uniti, l’economista francese Thomas Piketty è tornato a parlare di economia con un intervento sul quotidiano francese Le Monde.

In una analisi sulla genesi del terrorismo pubblicata dopo gli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre, l'economista francese ha affermato che a provocarne la nascita sarebbero le disparità economiche presenti nei Paesi del Medio oriente.

Piketty scrive che il sistema socio-politico del Medio oriente è stato indebolito dalla presenza di gran parte del petrolio mondiale nel sottosuolo di poche nazioni scarsamente popolate. Nell'area compresa tra Egitto e Iran, Siria inclusa, la ricchezza è concentrata per circa il 70 per cento nelle mani delle monarchie del petrolio, mentre quei paesi sono abitati solo dal 10 per cento dei 300 milioni di persone che occupano l’intera area.

Piketty fa riferimento a Paesi come Qatar, Emirati Arabi, Kuwait, Arabia Saudita, Bahrain e Oman. In base alle stime effettuate dall’economista nella suo libro “Il capitale nel XXI secolo”, queste zone sono popolate solo dal 16 per cento degli abitanti totali della regione ma concentrano però il 60 per cento del prodotto interno lordo. Entro tali confini, dichiara l’autore, una piccolissima fetta della popolazione controlla gran parte della ricchezza mentre la restante percentuale, che include donne e rifugiati, è mantenuta in stato di “semi-schiavitù”.

La situazione economica mediorientale, dice Piketty, è diventata un pretesto per le azioni dei jihadisti, al pari delle ferite subite a causa delle guerre condotte nella regione dalle potenze occidentali. In cima alla lista c'è la prima Guerra del Golfo (1990-1991), che l’autore ritiene essersi conclusa con la restituzione del petrolio da parte delle truppe alleate nelle mani degli “emiri” arabi.

Nonostante l’esperto non lo dichiari espressamente, dal suo punto di vista, la combinazione tra l’impoverimento economico e gli orrori della guerra, avrebbe dato origine a quella che definisce la “polveriera” del terrorismo mediorientale.

Particolarmente aspra l’accusa che l’autore muove nei confronti dell’Occidente, colpevole di aver causato disparità in Medio oriente e aver contribuito alla persistenza delle monarchie del petrolio. “Questi regimi sono supportati militarmente e politicamente dalle potenze occidentali, ben felici di ricavare qualche briciola utile a finanziare le proprie squadre di calcio

Il terrorismo nato da tali diseguaglianze, continua Piketty, dovrebbe essere combattuto economicamente. I paesi occidentali dovrebbero dimostrare di essere interessati alla crescita sociale del Medio oriente e non alla mera garanzia dei propri interessi finanziari o alla cura dei rapporti con le famiglie più potenti. Il modo per farlo, dice, è assicurare che i ricavi derivanti dal commercio di petrolio siano utilizzati per finanziare lo “sviluppo territoriale” della regione, già a partire da un miglioramento dell’educazione.

L’economista dedica infine uno sguardo al proprio Paese di origine, la Francia, condannando l'atteggiamento discriminatorio di Parigi nei confronti degli immigrati e il mantenimento di un alto livello di disoccupazione tra gli stessi. L’Europa dovrebbe abbandonare la propria politica di “austerità”, rinvigorire il proprio modello di integrazione e a creare nuove opportunità di lavoro, dice, facendo notare che il continente aveva accettato di accogliere un milione di immigrati l’anno prima che iniziasse la crisi finanziaria.

Rimane da verificare se, alla luce del confronto tra la situazione economica del Medio oriente e la condizione delle altre regioni del mondo, le disparità di ricchezza possano essere alla base della nascita dello Stato Islamico.

sabato 16 gennaio 2016

Viaggi, confini, misure del mondo......a cura di un gruppo di lavoro (Antonietta Fonnesu, Enrica Gallo, Liliana Quagliotti)


Quando abbiamo deciso, come “CircolarMente”, di porre il tema del confine, nella sua accezione più ampia, al centro del nostro percorso di studio, ci siamo interrogati fra le altre cose sul rapporto fra l’irrigidimento  dei confini - intesi tanto come spazi fisici  quanto come spazi mentali e identitari - e il loro attraversamento, incarnato non solo da quelli che ci siamo abituati a chiamare, per semplificazione, “migranti”, ma in senso più ampio dalla mobilità che ha rappresentato una delle componenti fondamentali della storia dell’uomo. Ci si chiedeva, fra l’altro, come fosse possibile che secoli e secoli di viaggi, di attraversamenti, di contatti anche fruttuosi e stimolanti fra culture diverse non solo non avessero reso i confini più porosi e permeabili all’incontro con la diversità, ma spesso acuito le divisioni e ispessito le mura di contenimento del NOI rispetto al LORO.

Un interrogativo, questo, che in parte avevamo già esplorato in anni precedenti attraverso i seminari condotti dal prof. Remotti in chiave di antropologia culturale, in cui la riflessione verteva appunto sul bisogno umano di definirsi per contrasto, aggrappandosi all’idea di identità come permanenza, solida roccia da preservare da ogni erosione, piuttosto che riconoscerne la natura di flusso che costantemente plasma e trasforma: ora peraltro ci premeva di esaminarlo con un’attenzione più mirata, tenendo conto delle ombre scure che cominciavano già allora ad addensarsi nella realtà geopolitica europea (eravamo all’inizio di un anno che sotto questo aspetto sarebbe diventato via via più drammatico).

Abbiamo pertanto organizzato alcune specifiche proposte di riflessione, affidandole a relatori di grande esperienza e capacità espositiva, mentre nel contempo ci si attrezzava, dividendosi in gruppi secondo interessi e competenze, per relazionare su alcuni testi che potevano integrare in modo significativo il nostro percorso sul tema dei confini.

Quelli che ora presentiamo e a cui abbiamo dato un’intitolazione complessiva abbastanza generica per contenerli nel loro insieme, non sono collegati fra loro in modo univoco, appartenendo ad ambiti disciplinari diversi a cui corrisponde una differente impostazione metodologica: spaziano infatti dall’indagine  storica sulle alterazioni dell’ identità personale e collettiva indotte dalla mobilità umana (LA MENTE DEL  VIAGGIATORE, di Eric J.Leed)  all’interpretazione narrativa di quel momento del tutto particolare della storia europea – la fine del 700 - in cui l’esigenza di ampliare i confini del conosciuto prendendone possesso attraverso nuove modalità di indagine, nuovi strumenti di misura, nuove strategie di pensiero è stata particolarmente intensa (LA MISURA DEL MONDO, di Daniel Kehlmann); dalla riflessione filosofica sulla globalizzazione come esito di un movimento espansionistico senza pari verso il “Fuori” che si attiva a partire dai grandi viaggi oltreoceano, e a cui concorrono in pari misura tanto elementi simbolici quanto concretamente economici, politici e militari (L’ULTIMA SFERA, di Peter Sloterdijk), all’indagine più prettamente geografica su di un mondo in cui tempo e spazio hanno perso quasi ogni importanza, imponendoci di ripensare al concetto di “luogo”  - e parimenti di confine – in forme diverse da quelle tradizionali  (LA CRISI DELLA RAGIONE CARTOGRAFICA, di Franco Farinelli).

Pur tuttavia questi testi così diversi si sono incontrati con una sorta di rimbalzo dall’uno all’altro  in cui la casualità ha avuto anche un suo gioco, consentendoci di analizzare le questioni da cui eravamo partiti sotto diversi punti di vista, spostandone e modificandone i bordi (così accade in effetti nel viaggio, che non può del tutto prescindere da una forma di erranza, di vagabondaggio, se vuole davvero pervenire ad un risultato trasformativo). Non è stato controproducente, a nostro avviso, il fatto che nessuno di essi fosse incentrato in modo specifico sulle questioni geopolitiche del mondo contemporaneo: se assumiamo infatti per vera la lezione che ci viene dal primo di questi testi, riconoscendo come ciò che è familiare non sempre è davvero pensabile (per conoscerlo, spiega infatti lo storico Eric J.Leed, dobbiamo partire, lasciare i lidi conosciuti), potremo riscontrare che distanziandosi in qualche misura dagli avvenimenti presenti diventa possibile vederli sotto una nuova angolatura.

 

Invitiamo dunque gli amici di “CircolarMente” a condividere queste letture e a scambiare con noi le loro impressioni sui testi proposti, che sono stati presentati e riassunti (ad eccezione del romanzo di Kehlmann)  nella sezione “Filosofia/Psiche” della pagina “Documentazione “ del nostro blog.

 
 
 

 

giovedì 14 gennaio 2016

“La guerra del sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale” - libro di Paolo Flores d'Arcais


Sta per uscire il nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais dal titolo “La guerra del sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale” (Raffaello Cortina Editore).

 
Questo breve estratto fa comprendere con chiarezza le linee guida del saggio di d’Arcais……

Il fondamentalismo islamico ha dichiarato guerra a quattro secoli di modernità, alla civiltà dell’illuminismo e dell’eguaglianza nata da eresia+scienza.
Sottrarsi è illusorio, i fondamentalisti del Sacro non si fermeranno, gli establishment del privilegio fanno da quinta colonna (a loro interessano affari e profitti, con chiunque, non disincanto e laicità, e meno che mai “liberté, égalité, fraternité”)
L’accoglienza è doverosa (oltre che inevitabile), le risorse ci sono (se si combatte la dismisura oscena delle diseguaglianze di ricchezze e redditi), ma deve avvenire come integrazione e assimilazione dei singoli (anche se masse) ai diritti e doveri delle libertà democratiche.
Il multiculturalismo è l’obbrobrio che baratta i diritti degli individui (donne e dissidenti) al feticcio della “diversità”, cioè al potere clerical-maschilista di padri, mariti, imam.


Può aiutare a meglio intuire il taglio del libro la sintesi di una intervista rilasciata da d’Arcais a Radio Popolare……
 
Paolo Flores d’Arcais, filosofo e direttore di Micromega, ha un’idea precisa dello scontro in atto tra l’Occidente e Daesh, il cosiddetto stato islamico. Di fronte al presidente francese Hollande che dichiara lo “stato di guerra”, Flores d’Arcais replica che l’Occidente non vuole capire la natura di questa guerra. «E’ una guerra – dice il direttore di Micromega – contro la modernità illuminista e contro ciò che dalla modernità illuminista in poi è stato promesso: una democrazia coerente, radicale, di sovranità uguale per tutti. Il fondamentalismo islamico lancia la propria sfida globale contro questa modernità illuminista. E’ questa la radicalità dello scontro. Purtroppo, gli establishment occidentali non sono quelli che possono davvero combattere questa guerra, perché in larga misura e da molti punti di vista sono la “quinta colonna”, non rappresentano la civiltà nata dai lumi che diventa democrazia. Gli establishment occidentali sono, invece, coloro che la calpestano in continuazione e quindi non hanno credibilità e interesse per reggere questo scontro nei termini in cui si pone. Lo vogliono reggere solo come scontro geopolitico, di interessi nazionali. Ma è molto più di questo». Perché gli establishment occidentali sono una “quinta colonna” in questa guerra, perché dovrebbero essere i complici della distruzione di quei valori della modernità illuminista? «Perchè non c’è un Occidente – dice Flores d’Arcais- . Se vogliamo semplificare ci sono due “occidenti”. Il primo: l’Occidente dei valori che tutti richiamano nelle costituzioni, dei valori che nascono con l’illuminismo: i valori egualitari e libertari riassunti nelle tre parole chiavi della rivoluzione francese. Queste tre parole (liberté egalité fraternité) significano che non c’è libertà se non c’è eguaglianza e che solo la libertà nell’eguaglianza può dar luogo alla fratellanza in cui ci si sente tutti concittadini. Ora, tali valori sono calpestati continuamente dagli establishment occidentali. Da tutti i punti di vista: dov’è questa sovranità eguale? Dov’è il rispetto delle libertà occidentali fino in fondo: pensiamo alla stampa sempre più “embedded”. Purtroppo, l’Occidente è profondamente diviso al suo interno: da un lato c’è chi quei valori prende sul serio e vuole davvero la democrazia radicale portata alla serietà delle sue conseguenze; dall’altro ci sono gli establishment che comunque non vogliono fare altro che ridurli, ingabbiarli, evirarli. Il problema è questo: l’Occidente dei poteri finanziari e politici, sempre più intrecciati fra loro, non è l’Occidente dei valori. Naturalmente, l’islam che combatte i valori dell’Occidente che nascono dal disincanto e dall’illuminismo non fa queste distinzioni: vuole distruggerli entrambi. La debolezza della risposta occidentale è nella divisione tra chi prende sul serio questi valori, in genere sono i movimenti di opposizione, e chi – gli establishment – al massimo retoricamente li riafferma ma poi non li ha a cuore perché non sono il suo interesse. L’interesse del sistema finanziario, ad esempio, non è certo quello dei valori illuministi ma di fare affari». L’intervista a Flores d’Arcais prosegue sul tema della centralità della religione nell’attacco ai valori della modernità illuminista. «E’ una nostra cecità pensare che non conti. Conta in modo essenziale», dice Flores in polemica con il filosofo tedesco Jürgen Habermas. Ciò a cui stiamo assistendo, sostiene il filosofo italiano, «è una dichiarazione di guerra del sacro nella sua forma fondamentalista».

 

Intervista ad Adonis


Adonis: “Il velo sulle donne è un velo sulla ragione”

 
Il poeta siriano risponde alle domande dei lettori de La Stampa e analizza i fatti di Colonia e le cause del terrorismo islamico

 

Il terrorismo è sempre frutto di disperazione e assenza di speranza e futuro?  

Non sono d’accordo. La disperazione può avere un ruolo. Ma per mettere su un esercito di 80 nazioni e fare la guerra in Siria non basta la disperazione: è una storia voluta, intenzionale, ben amministrata e ben finanziata. 

 

Ho lavorato nella Trankgasse per 20 anni e non ho mai assistito a scene simili a quelle di Colonia. Mi rifiuto di credere che sia stata una cosa spontanea. É stato frutto di una vile premeditazione per fomentare l’odio contro gli stranieri e soprattutto contro i profughi, che la maggioranza del popolo tedesco cerca in tutti i modi di aiutarli”  

È possibile. Sfortunatamente oggi tutto è possibile. La politica ha scavato talmente nelle nostre teste che non riusciamo più a distinguere le parole pulite da quelle sporche.  

 

La violenza sulle donne è un atto criminale e viene condannato da ogni Stato e religione. I criminali vanno condannati con o senza religione e gli stranieri devono essere uguali davanti ai giudici, perché la legge è uguale per tutti  

Sono d’accordo. La legge dev’essere uguale per tutti, quelli di Colonia sono criminali. La donna è una chiave di volta per capire il rapporto tra religioni e Stato: il monoteismo non ha cambiato le sue leggi, anche la Chiesa cattolica le mantiene e se una donna vuole seguirle rigidamente non è libera di disporre del suo corpo e della sua volontà. La differenza è che la legge religiosa deve essere estranea a quella civile e che mentre le altre donne possono scegliere tra la sottomissione a Dio e la libertà le musulmane non possono. Il velo è un simbolo: il velo sulle donne è un velo sulla ragione, le rende un’astrazione, un mero luogo di piacere. 

 

Quando si parla di terrorismo si sottintende sempre che c’entri l’Islam, ma Islam deriva dalla parola pace in arabo, il Corano non incita alla violenza. Perché se un musulmano commette reati dicono che l’Islam è violento e quando un cristiano fa le stesse cose dicono che si tratta di persona malate di mente?  

Vero. Il crimine è un crimine e basta. L’aggressione contro le donne è un fenomeno universale. Poi c’è il caso dell’islam che è il caso del monoteismo: tutte le religioni monoteiste mettono la donna in secondo piano, l’uomo è creato da Dio e la donna dall’uomo, è una peccatrice. Questo vale per l’islam, il cristianesimo e l’ebraismo, con la sola eccezione di Gesù, l’unico che ha riscattato la Maddalena ma poi è stato crocefisso. La Chiesa per secoli ha dimenticato il suo esempio. La violenza è in tutti i libri sacri, come spiegava René Girard. Il monoteismo è strutturato in modo tale da permettere ai credenti di essere violenti. Ci sono anche testi “pacifici” ma oggi sul testo prevale la lettura del testo. Nell’islam esistono tante scuole, wahabita, sciita, sufi. Oggi nell’islam prevale la violenza perché domina l’interpretazione wahabita e viene imposta a tutti come pensiero unico istituzionalizzato. Non c’è un islam moderato come non c’è un monoteismo moderato, ci sono le persone moderate: la chiave è la separazione tra religione e Stato.  

 

I fatti accaduti a Colonia hanno diviso tutti. Nessuno vuole più gli stranieri nel proprio Paese, si è creato un odio verso tutte le razze e religioni. Si mettono gli uni contro gli altri. È come se qualcuno volesse scatenare una rivolta mondiale. Chi dice contro chi siamo a per quale motivo?  

I responsabili di Colonia vanno condannati duramente e senza alcuna scusante. Dopo però dobbiamo guardare alla realtà: se un musulmano arriva nella democratica Europa e la vede appoggiare i regimi fondamentalisti non capisce. La maggior parte dei gruppi dell’opposizione siriana non ha mai presentato una petizione per la libertà della donna dalla sharia, non ha mai parlato di laicità. Che cosa possiamo aspettarci da queste premesse? Eppure l’Europa li sostiene sebbene siano legati all’Arabia Saudita. Io davvero non capisco.  

 

Il vero tema per me è: «Ignoranza, come combatterla». Perché di questo si tratta. E l’ignoranza, come l’idiozia, non conosce religione: la usa solo come vestito, pronta a cambiarlo al primo cambio di stagione.  

Dentro lo Stato Islamico non ci sono solo ignoranti. Il problema è la separazione tra società, Stato e religione. La religione deve essere un’esperienza individuale, se resta l’unico referente sociale, politico e culturale si va verso un’ignoranza senza ritorno. L’antidoto allo strapotere della religione è immunizzare la società con la cultura, la scienza, l’educazione. Poi chi vuole preghi pure. 

 

martedì 5 gennaio 2016

Testo sacro e libertà - Libro di Nasr Hamid Abu Zayd (teologo e accademico egiziano)




Per chi fosse interessato ad approfondire la conoscenza dell’interpretazione coranica il testo di

 Nasr Hamid Abu Zayd

 Testo sacro e libertà. Per una lettura critica del Corano,”

 introduzione di Nina zu Fürstenberg

 Marsilio, Venezia 2012

può rappresentare una interessante lettura

Quanto accaduto a Nasr Hamid Abu Zayd è paradigmatico per comprendere il pensiero islamico contemporaneo, sia nei suoi blocchi e nelle sue contraddizioni che nelle sue insospettabili potenzialità. Egli ha dovuto pagare a caro prezzo la propria libertà di pensiero, che gli è costata il blocco della carriera universitaria e una condanna per apostasia, costringendo lui e sua moglie a prendere la via dell’esilio. Ciò che rende la sua vicenda singolare è il campo di studi sul quale si è conquistato, di certo involontariamente, la poco invidiabile palma di un simile “martirio”. Docente di Letteratura Araba all’Università del Cairo, sulla scorta di alcuni illustri predecessori e facendo tesoro delle competenze ermeneutiche acquisite in Occidente, egli ha osato affrontare un tema tra i più delicati: la critica del testo applicata al Corano. E' noto che i musulmani intrattengono col loro Testo sacro un rapporto “sacramentale” e pertanto quella della sua interpretazione è sempre stata una questione delicatissima. La maggior parte dei commentatori del Corano si sono quindi prevalentemente attenuti a un atteggiamento prudente, producendo soprattutto opere di taglio linguistico e lessicologico. N. H. Abû Zayd ha gettato un sasso in questo stagno sforzandosi nel distinguere il senso ultimo del messaggio divino dalla forma storica che esso ha assunto per potersi comunicare agli uomini. Non dunque una rivelazione letterale, ma una ispirazione "tradotta" in linguaggio umano che dunque si può e si deve studiare secondo le più moderne metodologie dell’analisi e della ricerca linguistica. Ne deriva la contestazione di affermazioni precedentemente considerate quasi delle verità dogmatiche: “Sostenere la dottrina del Corano increato e la sovratemporalità della Rivelazione non produce altro risultato se non quello di imbalsamare i testi religiosi sottraendoli a qualsiasi riflessione. Mentre la tesi opposta, situando il testo sacro in una dimensione storica, lo restituisce alla propria vitalità e lo libera, attraverso la rilettura e l'interpretazione, dall'assoggettamento ai propri limiti temporali, aprendolo al tempo stesso alle preoccupazioni e agli interessi degli uomini nel vivo corso della storia”. Questa raccolta di saggi ha il merito di restituirci l'essenza della visione dell'autore, declinata anche su altre tematiche collaterali al suo campo di studi, ma tutte di estrema attualità. Un'acuta introduzione della curatrice e un'intervista rilasciata alla stessa dal grande maestro, purtroppo recentemente scomparso, arricchiscono il volume da un lato di ulteriori spunti di riflessione e dall'altro della freschezza del colloquio con una personalità solare e arguta le cui opere fondamentali attendono ancora di essere tradotte in lingue occidentali e sono note in originale a una ristretta cerchia di specialisti, mentre potrebbero contribuire ad aprire nuovi orizzonti in un settore cruciale sia per l'evoluzione interna del mondo musulmano che per i suoi rapporti con le altre culture e religioni.
 


sabato 2 gennaio 2016

La parola del mese - Gennaio 2016

LA PAROLA DEL MESE
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

Gennaio 2016

Evocata come la soluzione migliore, se non l’unica, per tutti i problemi, invocata nei termini di una rivoluzione ogni qual volta si devono affrontare questioni eternamente aperte (dalla politica all’emergenza ambientale, dai troppi fondamentalismi alla civile convivenza, dal rapporto uomo/donna a quello fra genti e nazioni, tanto per citarne alcuni), tutti la citano come la panacea per ogni male. Ma cosa intendiamo quando la chiamiamo in causa? A quale dei suoi significati facciamo riferimento? Cosa significa rivoluzionarla? E come si realizza questa salvifica rivoluzione? Stiamo parlando di….. 

Cultura

 (estratto dal Vocabolario Treccani)

  Cultura = . dal lat. cultura, der. di colĕre «coltivare», part. pass. Cultus


a. L’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo

b. L’insieme delle conoscenze relative a una particolare disciplina, che riguarda la storia, la civiltà, la letteratura e l’arte dei popoli antichi, soprattutto greci e latini.

c. Nel linguaggio socio-politico, diffondere la cultura nel popolo, nelle masse, frasi che esprimono l’esigenza o il programma di una diffusione a livello popolare di un tipo di cultura medio, standardizzato e uniforme, destinato al consumo nel tempo libero ma concepito anche come mezzo di elevazione sociale. In particolar, cultura di massa, espressione (di origine statunitense) con cui si indica un tipo di cultura medio, diffuso dai moderni mezzi di comunicazione di massa – stampa, radio, televisione, cinema, ecc. – prodotto con scopi prevalentemente commerciali e di intrattenimento, standardizzato e uniforme, destinato al consumo nel tempo libero ma concepito anche come mezzo di innalzamento sociale di larghi strati popolari tradizionalmente esclusi dalla fruizione dei beni culturali.

d. Complesso di conoscenze, competenze o credenze (o anche soltanto particolari elementi e settori di esso), proprie di un’età, di una classe o categoria sociale, di un ambiente: cultura contadina, urbana, industriale; la cultura scritta orale; le due c.ulture quella umanistica e quella scientifica, soprattutto in quanto si voglia (o si volesse in passato) rilevare insensibilità e ignoranza negli scienziati per i problemi umani e negli intellettuali per i concetti e i problemi della scienza.

e. Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche, delle manifestazioni spirituali e religiose, che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico

f. In etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale

g. In archeologia e storia dell’arte, tutti gli aspetti visibili di una cultura e di una civiltà, quali i manufatti urbani, gli utensili della vita quotidiana e gli oggetti artistici.

h. Con ulteriore ampliamento della semantica, e conseguentemente degli usi lessicali, del termine e della connessa fraseologia (ampliamento dovuto principalmente allo sviluppo degli studî di sociologia e al crescente interesse per i problemi sociali), il termine stesso è passato a indicare genericamente, nella letteratura, nella pubblicistica e nella comunicazione di questi ultimi anni, l’idealizzazione, e nello stesso tempo la scelta consapevole, l’adozione pratica di un sistema di vita, di un costume, di un comportamento, o, anche, l’attribuzione di un particolare valore a determinate concezioni o realtà, l’acquisizione di una sensibilità e coscienza collettiva di fronte a problemi umani e sociali che non possono essere ignorati o trascurati.