martedì 25 maggio 2021

Gente di poca fede - Articolo di Irma Galgano

 

In una recente intervista apparsa su La Repubblica Franco Garelli alla domanda se la vicenda pandemica ha in una qualche misura modificato l’atteggiamento verso la religione risponde che non sembrano essere intervenute variazioni di fondo significative. A suo avviso restano pertanto  valide le considerazioni, presentate nel suo saggio del 2020 “Gente di poca fede”, elaborate sulla base di una accurata indagine statistica. Vista la rilevanza, culturale e sociale, del tema ci è sembrato quindi interessante recuperarle, almeno in linea generale, affidandoci al seguente articolo di Irma Galgano – sito online Articolo 21

Cosa è cambiato nella religiosità e, soprattutto, nella spiritualità degli italiani del nuovo millennio? Quanto contano oggi i valori di fede ed etica? Il multiculturalismo ha inciso anche sugli aspetti più intimi della spiritualità? Questi e tanti altri interrogativi trovano una valida ed esaustiva risposta nel saggio pubblicato dalla Società Editrice il Mulino Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio. Un testo nel quale il professor Franco Garelli raccoglie e analizza i risultati di un’ampia indagine, quantitativa e qualitativa, su religiosità e spiritualità oggi in Italia. Uno studio accurato che riporta al lettore un dettagliato resoconto e una approfondita analisi della società italiana, indagata attraverso la spiritualità e la religiosità ma elaborata nel suo vivere “civile” e quotidiano.

«Viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità: la religione non fa eccezione.»

Franco Garelli è stato ordinario di Sociologia dei processi culturali e di Sociologia delle religioni all’Università di Torino ed è membro dell’International Society for the Sociology of Religion. Ha svolto l’indagine con il supporto dell’Apsor (Associazione piemontese di sociologia delle religioni), dell’Ipsos, dell’Università di Torino, della Cei. Uno studio che si rivela fin da subito interessante per il lettore. Per la capacità di aver abbracciato, inglobato e indagato tutti, o quasi, i temi di fede, spiritualità, etica e bioetica i quali, spesso, sono al centro del dibattito pubblico ma solo perché riferiti o conseguenza di eclatanti fatti di cronaca. Nel libro di Garelli invece, sono sviscerati con occhio critico sì ma obiettivo e, dalla attenta lettura dei dati e delle riflessioni riportate, il lettore riesce davvero a prendere coscienza di dove stanno andando Italia e italiani in questo Terzo Millennio ormai rodato. Da alcuni anni a questa parte, l’Italia religiosa è in grande movimento: per la crescita dell’ateismo e dell’agnosticismo tra i giovani, per l’aumento di fedi diverse da quelle della tradizione, per la ricorrente domanda di forme nuove o alternative di spiritualità. A farne le spese sembra essere “quel cattolicesimo che per molto tempo ha rappresentato la cultura comune della nazione, ma che appare in difficoltà a raccordarsi con la coscienza moderna, nonostante la presenza a Roma di papa Francesco”. In Italia non sta avvenendo quello che alcuni definiscono rottura silenziosa della tradizione religiosa, cosa che starebbe accadendo in altri paesi del Centro-Nord Europa, tuttavia “su tutto il discorso c’è un warning generazionale, che getta una luce sinistra sulle sorti del cristianesimo, ma fors’anche sul futuro della religione. Gli indici di religiosità presentano un andamento a scalare direttamente proporzionale al diminuire dell’età. Inoltre, tutti oggi – credenti e non credenti – interpretano e vivono la loro condizione in modo più libero e aperto rispetto al passato. È il lato soggettivo della vita umana che prende il sopravvento anche sulle questioni religiose e informa il modo in cui le persone si definiscono e percepiscono in questa sfera della vita”. Oltre ad essere più incerto, il credente di oggi sembra anche più solitario. Affronta in solitudine le vicende della vita, ma anche le sfide che l’epoca attuale pone alla fede religiosa. Sfide che derivano, ad esempio, dal contatto con quanti professano altre fedi o credono laicamente. Oppure dalla difficoltà di orientarsi in una sfera etica e bioetica in continua evoluzione. Oppure ancora dal vivere in un mondo globale, “ricco di inquietudini e paure, di disuguaglianze e di squilibri, di spettacoli del dolore”. Garelli ricorda ai lettori che, fin dagli anni della contestazione – ’68 e dintorni – , alcuni studiosi evocano l’idea che nella chiesa sia in atto uno scisma sommerso”, per la distanza di molti cattolici dalla dottrina ufficiale nella sfera dei comportamenti sessuali e famigliari. Ora l’autore si domanda se si stia delineando uno scisma analogo attinente la dottrina sociale della chiesa. Al di là del differente giudizio sul pluralismo religioso, che si snoda tra coloro che quasi auspicano un allineamento al “mondo globale” e chi, invece, si dichiara preoccupato per l’aumento di simboli religiosi che modificano il paesaggio abituale e sfidano le certezze consolidate, si osserva negli italiani una preoccupazione diffusa: la difficoltà di far convivere nella stessa società gruppi che esprimono credenze e culture diverse, portatori di domande – religiose e sociali – non facilmente componibili in un quadro unitario”. Le riserve maggiori sono rivolte all’islam e quello con i musulmani resta un rapporto scomodo”, perché sovente connesso al discusso fenomeno dell’immigrazione nonché per le tensioni che accompagnano la presenza dell’islam in tutto l’Occidente. Diverso approccio invece si denota nei confronti del cristianesimo ortodosso e delle fedi orientali, verso le quali si ritiene svilupparsi un interesse culturale e spirituale che tende ad arricchire la nazione. Pur non mettendo in discussione l’idea di una “verità religiosa”, si attenua, rispetto al passato, la convinzione che vi sia una verità assoluta, custodita da una sola confessione religiosa, mentre tutte le altre sarebbero portatrici di mezze verità o di verità parziali o false, in un contesto in cui molti ritengono che tutte le religioni esprimano delle verità importanti per la condizione umana, e che ognuna di esse offra un percorso di avvicinamento a quella verità ultima che tutti ci sovrasta”. In poco più di due decenni, il gruppo dei non credenti è aumentato di circa un terzo, a fronte di una riduzione di circa l’8% dei credenti. I più coinvolti nel fenomeno dell’ateismo sono i giovani. Inoltre, la non credenza aumenta anche in maniera inversamente proporzionale al livello di scolarizzazione, passando da un 13% per le persone con licenza elementare o prive di titolo, a un 35% per i laureati. I maggiori ostacoli al credere derivano, per atei e agnostici, dalla presenza del male nel mondo e dal dissidio tra scienza e fede, ragione e religione. Una parte dei “senza religione” sembra farsi carico di una particolare missione: contrastare la pretesa della chiesa di rappresentare i sentimenti più autentici della popolazione”, ovvero uscire dall’equivoco di identificare l’Italia tout court con l’Italia cattolica e rivendicare pari dignità di considerazione sia per le idee dei credenti sia per quelle dei non credenti. E ciò, specificatamente, sulle questioni calde oggi al centro del dibattito pubblico: i temi di vita, famiglia, bioetica, gender, diritti degli omosessuali, laicità dello stato… Oltre il 70% degli italiani condanna, almeno come dichiarazione di principio: evasione, sfruttamento della manodopera, lavoro nero, favoritismi, assenteismo, infrazioni e via discorrendo. Una percentuale che però scende notevolmente tra i 18-34enni, tra i quali vi è una più elevata percentuale di accettazione di tali comportamenti che dovrebbero essere anomali. E stupisce un ulteriore gruppo sociale per cui risulta egualmente difficile l’accettazione e il rispetto delle regole base della convivenza civile: i divorziati e separati. In situazioni di forte disagio, sia esso generazionale o personale, sembra quindi svilupparsi una maggiore sfiducia istituzionale e marginalizzazione che porta a una disaffezione rispetto alle regole e a minori aspettative e speranze per il futuro, nonché alla rarefazione della volontà di impegnarsi per la realizzazione di progetti e per il raggiungimento di obiettivi. Negli ultimi decenni si è sensibilmente ridotto lo stigma nazionale nei confronti della pratica dell’omosessualità e si è anche attenuato il giudizio negativo sul consumo delle droghe leggere. Ieri come oggi, invece, è rimasto pressoché invariato il numero di italiani (circa un quinto) che negano la liceità dell’aborto. Largo consenso riscuotono le pratiche della riproduzione assistita, sia omologa che eterologa, mentre dividono ancora l’utero in affitto, la maternità oltre l’età feconda, gli esperimenti su embrioni umani a fini terapeutici e gli interventi sulle cellule umane per determinare alcune caratteristiche (statura, colore degli occhi…) su cui si registra il dissenso dei due terzi degli italiani. Garelli sottolinea che non tutti gli aderenti alle principali fedi si comportano e la pensano allo stesso modo ma ciò è ancora più vero all’interno dell’appartenenza cattolica, differenze di “stile religioso” che delineano diversi e plurimi modi di interpretare l’identità cristiana o cattolica. Inoltre, va ricordato, che da società a monopolio cattolico l’Italia si sta trasformando in una società permeata dalla varietà di fedi. Il pluralismo culturale e religioso, non dovuto meramente al fenomeno migratorio, sembra porre ai credenti di ogni fede una sfida più sottile e destabilizzante di quella della secolarizzazione”. Una sfida che introduce nella mente degli individui l’idea che vi sono diversi modi di credere – e di rispondere ai quesiti dell’esistenza -, che ogni società e cultura ha le sue forme del sacro, che è difficile ritenere vi sia un’unica fede depositaria della “verità”. Il confronto con la diversità religiosa rende dunque più incerto e precario il credere di molti, mette in discussione la fede abituale, erode l’assunto (comune a molte religioni) che vi sia una forma superiore di conoscenza, che esista una “verità cognitiva e normativa assoluta”. Circa metà della popolazione italiana si riconosce nell’idea – assai enfatizzata nell’attuale clima politico – che la presenza di fedi e culture diverse da quelle della tradizione costituisca una minaccia per l’identità culturale, a dire il vero già un po’ incerta, della nazione. L’altra metà invece ritiene sia o possa rappresentare una fonte di arricchimento culturale. Pressoché universale è la condanna dell’estremismo religioso, che in tanti riconducono direttamente alla radicalizzazione e al terrorismo di matrice islamica. Altri, invece, si soffermano a pensarlo come esistente o possibile per qualsiasi fede religiosa, riportando l’attenzione, per esempio, ai guasti provocati dalle crociate”. Concludendo si può affermare con Garelli che questa è un’epoca che, anche nel campo religioso, è più segnata da flussi che da blocchi, caratterizzata da una ricerca di senso ondivaga, che si spinge sovente oltre i confini e fatica a riconoscersi nelle definizioni convenzionali. Incerto e solitario, il credente di oggi sembra affidarsi a un Dio più sperato che creduto. La poca fede, la fede debole può anche rappresentare, secondo Garelli, un tratto che accomuna i credenti di ogni confessione religiosa, che esprime la perenne difficoltà della condizione umana a rapportarsi con un grande messaggio religioso”. Un tratto comune che, forse, potrebbe anche arrivare a diventare un tratto caratteristico e caratterizzante delle nuove forme, ora embrionali, di società multietniche, multiculturali e plurireligiose.


mercoledì 19 maggio 2021

Video della conferenza di Gianni Colombo del 12 Maggio 2021

 Pubblichiamo il seguente link che permette di visionare il video della conferenza tenuta da Gianni Colombo in data 12 Maggio 2021 con titolo

"Sostenibilità e centri minori, una proposta per le sfide di oggi. Un esercizio tra filosofia, indizi sociali e interpretazioni tecnologiche"

 per accedere cliccare qui = Conferenza Gianni Colombo


sabato 15 maggio 2021

Il "Saggio" del mese - Maggio 2021

Il “Saggio” del mese

 MAGGIO 2021

 

dal retro di copertina:noi abitiamo ancora la Terra o unicamente la tecnica? Oggi la tecnica è molto di più che uno strumento nelle mani dell’uomo: è l’ambiente in cui l’uomo vive, al tempo di Heidegger la tecnica poteva ancora essere considerata uno strumento nelle mani dell’uomo. Oggi non lo è più: è diventata l’ambiente in cui l’uomo vive, e l’uomo stesso è diventato un funzionario della tecnica

dal risvolto di copertina: la metafisica, inaugurata da Platone, secondo Martin Heidegger ha messo in circolazione un’unica forma di pensiero: il pensiero calcolante, che ha trovato nell’economia e nella tecnica l’espressione più alta e organizzata. “Tutto funziona,” scrive Heidegger, e “questo è appunto l’inquietante.” La tecnica è infatti la realizzazione compiuta dell’intenzione segreta della metafisica, la più idonea a garantire non solo la disponibilità di tutte le cose, ma anche la loro riproducibilità. Eppure, la razionalità imposta dalla tecnica, che esige di raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi, finisce per mettere fuori gioco la condizione umana. Ciò che fuoriesce da questa razionalità, per la tecnica è solo un elemento di disturbo e dunque deve essere eliminato. Accade però che l’uomo non sia solo razionalità, ma anche irrazionalità. Infatti irrazionale è la fantasia, l’immaginazione, l’ideazione, il desiderio, il sogno. E se questi aspetti vengono ridotti o soppressi, abbiamo ancora a che fare con l’uomo?

ancora dal risvolto di copertina:. “Questo libro,” scrive Galimberti,

“è una guida alla lettura di Heidegger e, come ogni guida, conduce da un ‘primo inizio’ a un ‘altro inizio’, come lo chiama Heidegger, per giungere al quale occorre attraversare l’intero pensiero occidentale, che è stato governato dalla metafisica inaugurata da Platone.”. Una nuova guida alla lettura di Heidegger, la cui opera arriva fino a oggi e illumina il mondo contemporaneo

In questo post non attraverseremo l’intero pensiero occidentale così come richiamato da Galimberti, ma molto più modestamente cercheremo di offrire una sintesi del suo saggio finalizzata a recuperare altri elementi di riflessione su un tema “il rapporto tra uomo e tecnica” che, unitamente ai concetti di “progresso” e di “modello di sviluppo”, abbiamo da tempo posto al centro della nostra attenzione. L’impressionante crescita del peso della tecnologia in tutti gli aspetti del nostro vivere, i dubbi connessi a molte delle possibili ulteriori evoluzioni, la necessità di ridefinire, nella fase di ripresa post pandemica, un diverso modello di sviluppo finalizzato a sostenibilità ambientale e giustizia sociale, sono infatti elementi, sui quali da tempo come CircolarMente stiamo riflettendo. Di ciò convinti abbiamo pertanto concentrato questa sintesi sulle parti del saggio che più strettamente sono connesse al tema rinunciando, ad entrare nel merito del complesso delle elaborazioni filosofiche di Heidegger. Lo stesso saggio di Galimberti non ha questa ambizione, essendo a sua volta concentrato sul tema della tecnica, ed evita di inserirsi più di tanto nell’acceso dibattito che da tempo, con opinioni fortemente contrastanti, si agita attorno alla filosofia heideggeriana. Così come sul rapporto tra di essa e la sua adesione al nazismo, un fatto tanto innegabile quanto oggetto di differenti interpretazioni. Del saggio di Galimberti recupereremo quindi per sommi capi alcuni capitoli (Parte Prima = La vita di Heidegger – Parte seconda = Le opere di Heidegger – Parte Quarta = La critica – Parte Quinta = Bibliografia ragionata) per concentrarci sulla Parte Terza = Il pensiero di Heidegger, temi e motivi.

Parte Prima = la vita di Heidegger

1889 = Martin Heidegger nasce in una cittadina del Baden tedesco da una famiglia cattolica tutt’altro che benestante, ma che gli consente di studiare al ginnasio e di iscriversi a Filosofia

1913 = Si laurea in filosofia a Friburgo con la tesi “La dottrina del giudizio nello psicologismo” che, data alle stampe nell’anno successivo, gli fa ottenere già nel 1915 una libera docenza 1915-16 = presta servizio militare durante la Prima Guerra ma, per sua fortuna, in una tranquilla postazione nelle retrovie,

1917 = si sposa con Elfride Petri. Ha due figli maschi, il secondo frutto di una relazione extramatrimoniale di Elfride ma riconosciuto come legittimo da Heidegger

1919 = diventa assistente di Husserl (Edmund Husserl, 1859-1938, filosofo e matematico, fondatore della corrente filosofica della fenomenologia) presso l’Università di Friburgo, dove tiene corsi e seminari su tematiche teologiche. Husserl non esita a dichiarare che “la fenomenologia siamo io e Heidegger e nessun altro”

1920 = conosce Jasper (Karl Jasper, 1883-1969, filosofo e psichiatra) con cui manterrà un rapporto, anche conflittuale, per tutta la vita

1923-1928 = E’ professore incaricato di filosofia all’Università di Marburgo. Inizia ad essere conosciuto e stimato in ambito culturale tedesco. Sono rimaste famose le sua lezioni tenute con metodi innovativi e molto coinvolgenti

1925 = Conosce Hannah Arendt (1906-1975, filosofa e politologa, anch’essa costretta, in quanto ebrea,  a fuggire dalla Germania negli Stati Uniti) con la quale vive una importante relazione amorosa e passionale

1927 = Pubblica “Essere e tempo”, l’opera che lo impone come astro nascente della filosofia tedesca e che segna la rottura con Husserl e la fenomenologia

1928 = nonostante la rottura succede allo stesso Husserl nella cattedra di filosofia all’Università di Friburgo

1929 = Contribuisce al suo crescente successo la celebre disputa con Cassirer (Ernst Cassirer, 1874-1945, filosofo e storico della filosofia, costretto all’esilio dal nazismo) sul tema “Kant e il problema della metafisica” dalla quale esce “vincitore” soprattutto per l’irruenza della sua esposizione

1933 = Viene eletto rettore di Friburgo su proposta di un gruppo di docenti nazionalsocialisti, subito dopo Heidegger aderisce al Partito Nazista.

1945 = nella Germania distrutta Heidegger, di fatto culturalmente ed umanamente emarginato  per la sua adesione al nazismo, cade in una grave crisi psicologica e deve seguire una terapia psichiatrica

1946 = riprende contatti con l’ambiente filosofico, seppure in posizione defilata, in particolare avvia una corrispondenza con Sartre (Jean-Paul Sartre, 1905-1980, filosofo e scrittore), sui temi dell’esistenzialismo e dell’umanesimo

1952 = Rivede la Arendt e lentamente, anche grazie ai nuovi rapporti con l’esistenzialismo francese, esce dall’isolamento culturale

1955 – 1973 = Si ritira in una sorta di baita rifugio nella Foresta Nera dove revisiona e approfondisce tutte le sue opere. Il suo autoisolamento è interrotto solamente per alcune conferenze e brevi viaggi in Grecia e Francia

1976 = Muore a Friburgo

(per chi fosse interessato ad approfondire accanto a quelli culturali gli aspetti  più esistenziali è consigliato un bel libro “Il tempo degli stregoni” di Eilenberger Volfarm, ed. Feltrinelli, che ripercorre le vite intrecciate di Heidegger, di Cassirer, di Walter Benjamin e di Ludvig Wittgenstein)

Parte Seconda = Le opere di Heidegger

(recuperiamo qui la sintesi di alcuni passaggi contenuti nella Parte Prima relativi alla “atmosfera culturale del suo tempo”. Si tenga poi conto che in questa parte seconda Galimberti si limita a ripercorrere l’evoluzione del pensiero di Heidegger attraverso le sue opere più rilevanti delle quali evidenzia solo i concetti cardine)

Opere giovanili = in prevalenza articoli su riviste filosofiche, e traduzioni scritte di alcuni seminari, sono tutte quelle che precedono la pubblicazione di “Essere e tempo”. Spicca “Il concetto di tempo nelle scienze storiche” un’opera che consente di mettere a fuoco la maturazione del pensiero fin lì caratterizzato da due aspetti: la critica a Kant e l’adesione alla fenomenologia di Husserl, un tratto che accompagnerà, anche nella sua evoluzione in una netta critica, l’intera sua opera filosofica. L’adesione alla fenomenologia, è basata soprattutto dalla condivisione del metodo di indagine filosofica che  deve puntare a conoscere i fenomeni esterni che si pongono alla coscienza del soggetto non nella loro veste empirica ma nel loro essere espressione dell’esperienza che li ha prodotti. Ne discende la critica all’idea kantiana che alla base della conoscenza vi sia un soggetto puro, trascendentale (l’IO penso) e non, come in effetti è, un soggetto storico

Essere e tempo = E’ l’opera per eccellenza di Heidegger che - per quanto incompiuta, dei tre volumi previsti Heidegger ha dato alle stampe solo la prima parte - ha segnato buona parte del dibattito filosofico novecentesco. Rappresenta l’avvio di un percorso filosofico assolutamente originale, e come tale oggetto di discussioni e controversie, che Heidegger non ha mai definito compiutamente, ma che ha arricchito con chiarimenti, agganci e passaggi collegati, lungo tutta la sua produzione filosofica.  “Essere e tempo” nasce dalla radicale critica che Heidegger muove all’intera filosofia occidentale da Platone in poi. A suo avviso infatti essa ha totalmente trascurato il tema della vera essenza della “Physis”, che la cultura romana ha inteso tradurre con “natura” e che egli invece rende con il termine “essere”, il quale si manifesta in varie forme, vegetali ed animali, da Heidegger denominate “enti”. L’errore della filosofia, e più in generale di tutta la cultura occidentale, sfociato nel contemporaneo nichilismo, evidenziato in questa sua opera consiste nel considerare di fatto “l’essere” come un nulla e nel ritenere “l’ente” come il tutto. Una dimenticanza tutt’altro che trascurabile essendo il tratto essenziale della cultura dell’Occidente, è infatti a partire da essa che si costituiscono le scienze, i saperi e le pratiche economiche e sociali. Alla sua base sta un atteggiamento definibile come “ontico”, ossia che si limita alle forme, ai caratteri, degli enti, che ha usurpato quello “ontologico”, quello che guarda alla loro vera essenza e proprio di una corretta dottrina dell’essere che miri alla ricerca del suo senso ultimo. (ricordiamo che “ontico” e “ontologico” sono stati i termini della “Parola” di questo mese). Le forme che l’essere assume rappresentano “l’esser-ci”, la manifestazione dell’essere nel mondo, e creano una coppia di concetti, parallela a quella ontico-ontologico, che divide la physis tra ciò che è “esistentivo”, la forma, e ciò che è “esistenziale”, ossia il vero “ex-sistere”, “stare fuori” la vera l’estensione nel mondo dell’essere. Lo stesso esser-ci umano corrisponde a questo vero esistere, e individua l’unico ente che può aspirare alla comprensione dell’essere mediante un processo che chiama in causa tre aspetti: “ciò che si domanda – ciò al quale di domanda – ciò che si trova domandando”. Ma la prevalenza dell’approccio ontico ha inesorabilmente falsato questo processo impedendo all’esser-ci uomo di raggiungere gli altri enti come sono “in sé”,  ed ha posto, così facendo,  le condizioni per l’affermarsi dell’oggettività della scienza che riduce la valutazione degli enti, dell’intera physis, unicamente alla loro “utilizzabilità”, alla loro appropriazione e riproducibilità. L’esistenza autentica dell’uomo, grazie ad un approccio ontologico, dovrebbe invece consistere in una comprensione genuina dell’esser-ci del mondo. Questo diverso rapportarsi Heidegger lo chiama “cura”, e consiste nella “responsabilità(ritorna qui in una diversa veste la nostra  “parola” del mese scorso) nel concreto porsi verso gli altri enti, nel giusto modo in cui ad essi “si risponde”. Nel realizzare questa “ex-sistenza” autentica l’uomo si imbatte inevitabilmente nella sua finitezza, nella mancanza di certezza del futuro, nell’insormontabilità della morte, così maturando un senso costitutivo di “angoscia” di fronte al peso ineludibile della sua temporalità, il suo essere strettamente collegato al “tempo”. Galimberti approfondirà  nella Parte Terza i concetti presenti in “Essere e tempo” più connessi al rapporto uomo-tecnica, limitandosi in questa parte a tracciare le sue linee guida, quelle che però trovano solo qui forma compiuta. La cesura con le previste due parti successive non è dovuta ad impedimenti particolari, ma alla difficoltà che Heidegger troverà nel passare in ispecie alla parte terza, che non a caso avrebbe dovuto avere titolo “Tempo ed essere(la seconda doveva consistere nella ricostruzione storica dello sviluppo del pensiero filosofico ontico, in parte rintracciabile in altre sue opera minori), dallo stesso Heidegger spiegata con la mancanza di un “linguaggio” adatto ad esprimerla, intendendo con questo non solo il problema di disporre di un vocabolario diverso da quello della filosofia classica, ma soprattutto quello di dare forma compiuta ad una “parola” che altro non è che “la parola dell’essere stesso”. Il tema del linguaggio mancante spiega pertanto la ragione per cui l’intera attività filosofica di Heidegger successiva alla pubblicazione di “Essere e tempo”, di fatto una costante riflessione sui temi che sarebbero dovuti confluire in forma organica in “Tempo ed essere”, non abbia trovato veste compiuta

Attorno alla metafisica = L’attenzione nata attorno ai temi sollevati da “Essere e tempo” si tramuta quindi per Heidegger in un impegno ad approfondire e chiarire le considerazioni in esso svolte. Un primo passaggio è consistito nell’indicare quale “metafisica”, quale “andare oltre (meta) la fisica”, oltre la centralità degli enti, può essere sviluppata dalle riflessioni di “Essere e tempo”. Heidegger si misura con questo impegno lungo tutto il ventennio successivo alla sua pubblicazione, e produce una serie di opere, fra di loro strettamente connesse, che in qualche modo, seppure mai risistemate in un corpo unico, possono essere viste come la seconda parte di “Essere e tempo”: “Dell’essenza del fondamento” – “Che cos’è la metafisica” – “Dell’essenza della verità” – “Introduzione alla metafisica” – “Nietzsche” – “Lettera sull’umanesimo” sono i titoli di queste opere. Ancora una volta il punto di partenza è rappresentato dall’errore originario di aver concentrato l’attenzione unicamente sull’ente. Un errore che Heidegger imputa in primo luogo alla filosofia, ma dal quale non sono indenni tutte le scienze, che oltretutto non possono che interrogare partendo dal loro specifico interesse. Succede così che lo stesso ente sia indagato in modo diverso a seconda se interrogato  dalla chimica, dalla fisica, dalla biologia e via discorrendo. L’insieme delle risposte però non potrà mai fornire mai una visione completa, essendo l’essenza di fondo conoscibile solo con un approccio ontologico che guardi al suo “essere”. E’ in questa impossibilità di pervenire alla vera conoscenza che si amplifica quel sentimento di “angoscia” già determinata dall consapevolezza della temporalità dell’esperienza umana. A differenza della paura, che è il temere un determinato ente, l’angoscia rappresenta quindi il sentimento che rivela il “niente” che si manifesta quando si rende evidente la nostra incapacità di cogliere la vera essenza dell’essere. Ma al tempo stesso è solo dall’angoscia, dallo sforzo di affrontarla, che può nascere la spinta ad un diverso modo di interrogare l’essere e l’ente. Ed è proprio questa spinta che apre la strada per una nuova metafisica, la quale deve conseguentemente misurarsi con la domanda che riporta l’essere al centro della ricerca: “perché c’è l’ente e non il nulla? Che senso ha che ad “essere” sia l’ente e non il nulla?’”. Segue immediatamente, come secondo irrinunciabile passo, la forza di rinunciare ad una spiegazione solamente “causalistica”, ciò che infatti deve essere indagato non è la causa dell’esser-ci dell’ente ma il senso ultimo del manifestarsi in esso dell’essere. Ma la scienza è in grado di rispondere, concentrandosi solo su causa e modalità, solo alla prima parte della domanda: “perché c’è l’ente’”. Deve allora essere compito della filosofia, nella veste di una nuova metafisica, porsi di fronte alla seconda parte: “e non il nulla”, avendo l’ardore, che sgorga dall’angoscia, di “pensare l’impensato”, ossia di porsi finalmente le giuste domande ontologiche sull’essere degli enti, evitando inoltre di ricorrere, in assenza di risposte, ad un “Ente che spieghi tutti gli enti”. La proclamazione nietzschiana della “morte di Dio” altro non è che la denunzia dell’impossibilità di tale tentativo che, avendo buona parte della sua consistenza nell’originaria idea platonica di “bene”, la trascina con sé nel fallimento sancito dall’attuale nichilismo. Dal quale però è impossibile uscire se si resta nella metafisica classica la quale in fondo è la sua stessa matrigna. E’ allora tempo della “svolta”, di recuperare l’impensato, per tentare di rispondere a “e non il nulla”. La verità per Heidegger altro non può essere che “alétheia”, ovvero “ciò che non è nascosto”, il vero “svelamento” degli enti, ciò che non può venire dalla scienza, ma solo da una nuova metafisica intesa come un “nuovo inizio”, come “evento dell’essere

Contributi alla filosofia (Dall’Evento) = Non sono rintracciabili in questa ultima parte della produzione filosofica di Heidegger altre opere compiute, ma solo brevi saggi non lineari e di complessa relazione tra di loro. Diverse note a margine della raccolta “Contributi alla filosofia” confermano il rafforzarsi della sua convinzione a non affidare ogni eventuale passo in avanti nella ricerca sulla verità, inteso come un emergere, come un “E-vento” del rinnovato rapporto con l’essere, al linguaggio della vecchia filosofia. Quello usato in molti di questi saggi diventa però molto complesso e tale da rendere problematica l’interpretazione di molti passaggi. Heidegger è consapevole di questa difficoltà linguistica, e della frammentarietà della sua elaborazione, tanto da non pubblicare in vita i Contributi (lo saranno nella originaria caotica forma solo nel 1989), fino a riconoscere in una nota a margine che “la parola manca e nessuna cosa è dove la parola manca

I quaderni neri = Sono trentatré taccuini, dalla copertina nera, che contengono sparsi appunti filosofici redatti in modo saltuario dal 1931 al 1969. Pubblicati a partire dal 2014 sono divenuti, per il loro tono intimo e libero da finalità specifiche, gli scritti di Heidegger che di più hanno alimentato l’acceso dibattito sul rapporto, suo personale e delle sue idee filosofiche, con l’ideologia nazista. Esula dalla finalità di questa sintesi entrare nel merito, e lo stesso Galimberti non si pronuncia apertamente; per dare una idea di quanto la questione abbia coinvolto il mondo accademico, diviso fra chi sostiene l’evidenza di uno stretto rapporto e chi lo nega o quantomeno lo minimizza, ricordiamo, fra i tanti citati nel saggio, i nomi di Victor Farìas, filosofo cileno, di Maurizio Ferraris, di Donatella Di Cesare, nella fila dei primi, ed in quella dei secondi Hans-Georg Gadamer, a lungo vicino ad Heidegger, Gianni Vattimo.

Parte terza: Il pensiero di Heidegger: temi e motivi

Le parole del pensiero aurorale, il primo inizio = Per meglio comprendere il giudizio di Heidegger l’attuale predominio della tecnica sull’uomo è opportuno riprendere alcune delle sue considerazioni sul ruolo giocato in questo senso dall’errato sviluppo della filosofia occidentale. Non diversamente da Hegel e Nietzsche, ma per diverse motivazioni, è molto forte il rapporto di Heidegger con la filosofia presocratica greca da lui giudicata come la forma corretta di pensiero, il “primo inizio” di una metafisica poi tragicamente soffocata dall’avvento del platonismo. In stretta coerenza con la sua attenzione al “linguaggio” Heidegger recupera le riflessioni del “primo inizio” con un attento recupero etimologico del significato delle  parole che hanno caratterizzato questa originaria filosofia occidentale. La prima è proprio “physis”, non correttamente tradotta dalla cultura romana nella sua generica accezione di “natura”, che Heidegger restituisce al suo più profondo significato di “ciò che sboccia da sé stesso”. In questa lettura, persino poetica, è racchiuso ciò che deve essere inteso per “essere” e, per estensione, per “differenza ontologica”. Ciò che sboccia da sé stesso non necessita per manifestarsi della presenza umana, il suo apparire è un tratto a sé costitutivo dell’essere, ed è quindi possibile dire che “physis significa il dispiegarsi aprendosi”. Gli enti, tutti gli enti, altro non sono ciò che si manifesta in questo aprirsi. Ancora meglio si può quindi affermare che “physis significa l’apparire in tale dispiegamento”, e ritenere di conseguenza che solo “l’ente è” perché dell’essere si deve invece dire che “si dà”, ed è in questo suo darsi che l’essere appare. Ma se l’ente non è l’essere ma solo ciò che l’essere, lasciandosi accadere, fa apparire diventa lecito sostenere che “physis significa il tenersi in questo apparire e il dimorarvi” e che l’ente è tale solo “finché” in esso l’essere si dà. Questo “finché” fissa in modo inesorabile la temporalità dell’ente e lega indissolubilmente l’essere con il “tempo”, ma allora “physis significa il dominare che sbocciando perdura”. Poggia su questa successione di definizioni di physis la domanda che tutte racchiude: “ma se l’essere è il dominare ed il perdurare come è potuto accadere il suo assentarsi lungo tutto il corso della filosofia dell’Occidente?” La risposta è in Platone e nel suo identificare l’essere di ogni ente con “l’idea di…”, con il “logos” umano che entra con esso in relazione, il quale ha però in questo modo compresso l’essere nel suo manifestarsi nell’ente, lo ha interamente assorbito in esso e, affidandosi al solo approccio ontico, ha creato le condizioni per ridurre l’ente a  mero oggetto. Ma così non era prima di Platone quando “lògos” non indicava solo il “pensiero che raccoglie ciò che si mostra” ma anche “parlare”, e parlare significa “far comparire”. Essere e pensiero nella visione del “primo inizio” coincidono quindi e si completano nella “presenza”. Non è quindi, come sostiene Platone, l’uomo che possiede l’essere nella forma di “idea di….”, ma è l’essere, inteso come physis e come essere del pensiero, ad avere l’uomo. Poggia su questo decisivo fraintendimento l’idea, che da Platone in poi ha ispirato scienza e filosofia, dell’ “l’uomo che possiede il logos, il pensiero”, e quindi l’essere nella sua forma di “idea di…” che la verità si riduca ad essere conoscenza dell’ente. Raggiunta la quale e fatto quindi rientrare l’ente nell’orizzonte dell’uomo – che si è via via manifestato nella aristotelica “dianoia” (l’attività del conoscere), nell’ “’intellectus” romano e poi medioevale, nel “cogito” cartesiano ed infine nella “volontà di potenza” nietzschiana -  questi ne acquisisce la piena disponibilità ed il totale dominio.

L’epoca del dominio tecnico =

Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca

Heidegger, “L’abbandono” (1959)

La dimenticanza dell’essere che dalla filosofia platonica in poi si è inverata,  e la conseguente piena acquisizione della physis, mediante la sua oggettivazione, nella sfera della disponibilità umana, sono esattamente i presupposti che hanno determinato l’avvento del dominio tecnico. L’“essenza della tecnica non è nulla di tecnicoè infatti la dichiarata convinzione di Heidegger, che nega la presunta contrapposizione tra scienza, e tecnica, e pensiero umanistico per sostenere che, esattamente al contrario, ambedue sono in effetti il compimento della metafisica occidentale subentrata al “primo inizio”. La quale, dimentica dell’essere, affida quindi al logos umano il predominio sugli enti il cui “essere” viene da questo stesso onticamente determinato.  L’essere degli enti si identifica allora con il ruolo e la funzione che vengono loro assegnati all’interno del sistema della tecnica. “Oblio dell’essere” e “”primato della tecnica” sono pertanto per Heidegger gli aspetti di un’unica vicenda culturale.  A questo presupposto iniziale, su cui però poggia l’intera storia del pensiero scientifico e tecnologico, cosa si è poi aggiunto e completato affinché il dominio tecnico si realizzasse pienamente? Per Heidegger la risposta consiste nel costituirsi, a partire dalla Modernità, della scienza come “anticipazione matematica”, vale a dire nel procedere della conoscenza degli enti mediante ipotesi, “anticipazione”, controllate con il calcolo, “matematica”, che si muovono in una visione della physis via via confermata, precisata, ampliata proprio grazie alle risposte fornite dalla physis stessa all’essere in tal modo interrogata, indagata. Kant, nella sua “Critica della ragion pura” menzionando gli esperimenti di Galileo e Toriicelli, attesta definitivamente la centralità dell’uomo che progetta e dispone dell’ente avendolo tradotto in oggetto matematico. Scienza e tecnica prendono corpo partendo da questo comune presupposto, con la prima che oggettiva gli enti e la seconda che li rende disponibili all’uso reso possibile da questa oggettivazione. Ambedue, grazie alla separazione dell’ente dall’essere sancito dalla metafisica platonica, possono così agire nell’ottica della “poiesis”, “il far venire qualcosa dal nulla”, ossia della “produzione”. La produzione tecnica in particolare mira a condurre la physis a nuove funzioni diverse da quelle previste dal sua condizione naturale, operando così una sorta di “alètheia”, di “svelamento”, ma artificiale,  di quanto nell’ente già albergava ma celato, nascosto. L’essenza della tecnica per Heidegger non risiede tanto nel manipolare, nel produrre, quanto nello svelare ciò che sta nell’ente. Le condizioni per il dominio dell’uomo sulla physis poggiano proprio su questo svelamento. Esiste poi a suo avviso una differenza fondamentale tra la “téchne” antica e la tecnica moderna basata sulla anticipazione matematica. Se la prima chiedeva alla natura di produrre qualcosa usando particolari accorgimenti, inducendola quindi a liberare da sé stessa il prodotto, la seconda punta invece ad estrarre, a possedere e ad accumulare, tutta la forza genetica presente negli enti. La téchne dispiegava la forza della natura in direzioni volute, la tecnica moderna la accumula per disporne in base ai propri piani, tratta cioè la physis come un fondo a disposizione: “l’aria non è più vento in poppa, ma ossigeno ed altri gas, il suolo non è più fecondità naturale, ma agricoltura meccanizzata e programmata, i monti sono cave, il sottosuolo serbatoio di petrolio e minerali”.  Se la téchne ancora stava nell’abbraccio della physis e nel suo naturale, ancorchè sollecitato, svelarsi, la tecnica decide in modo autonomo ciò che deve essere svelato e le modalità dello svelamento. Il vero obiettivo, la vera essenza, della tecnica, un carattere costitutivo al quale non pare poter finora sfuggire, consiste in effetti nel realizzare la piena e definitiva disponibilità dell’intera natura, di tutti gli enti. Così facendo, e così essendo divenuta, la tecnica ha dissolto la stessa oggettività scientifica ed ha convertito l’iniziale domanda alla base della scienza, “che cos’è la natura?”, nella domanda “che cos’è la conoscenza?”. La microfisica, resa possibile solo dalla perfezione degli strumenti tecnologici, non indaga più “ciò che è e dove è” ma “ciò che si vede”. Nei fantascientifici laboratori sotterranei ciò che si vuole vedere è la luce di collisioni provocate ad arte. La conoscenza è divenuta quindi per certi versi un artifizio tecnologico che rende problematico lo stesso poter dire se le leggi che si stabiliscono per gli osservabili possano valere anche per gli inosservabili. Ed allora con il superamento della oggettività uomo e physis non si fronteggiano più come soggetto ed oggetto, “che cos’è la natura?”, ma sono divenuti i protagonisti di una conoscenza, “che cos’è la conoscenza?”, condizionata dal loro reciproco disporsi. Lo stesso svelamento dell’ente ha evidentemente, con il crescere del dominio della tecnica, assunto altre forme. Per Heidegger infatti è bene non dimenticare che l’ambizione umana di svelamento della natura, affidato per l’appunto a scienza e tecnica, è espressione della stessa “natura” dell’uomo, del suo primordiale “esser-ci” in questo mondo. Ed allora si può comprendere che non in questo “istinto” consiste l’errore dell’approccio ontico agli enti, ma nella presunzione dell’uomo, alimentata dallo sviluppo impetuoso della tecnica,  di poter essere dispensato da questa sua co-appartenenza alla physis, nel poter fare conseguentemente affidamento sul solo “pensiero calcolante della anticipazione matematica”.  Un presuntuoso affidarsi che non solo ha implicato l’incompleta comprensione dello svelamento, ma che, con il ruolo ormai determinante della tecnica nel suo rapporto con physis, ha creato le condizioni del rischio che l’uomo stesso sia ridotto a semplice strumento della tecnica stessa ormai assurta a valore in sè. Per Heidegger l’unica possibilità di sfuggire a questo pericolo è quella di affiancare al “pensiero puramente calcolante” un “pensiero meditante” in grado di far emergere l’esistenza di questo rischio, di darne contezza, e di avviare di conseguenza un percorso di ricongiungimento alla originaria unione di pensiero ed essere, e di re-inserire la tecnica in un rinnovato rapporto equilibrato tra uomo e physis. “Il pericolo è nella perdita del senso a cui ogni cosa va soggetta quando la sua essenza non rinvia più all’essere ma al progetto che, calcolandola, l’ha posta in essere”. Il richiamo di Heidegger al ruolo di un “pensiero meditante” non sembra però che sia stato raccolto dall’umanità contemporanea. Già nel 1966 lo stesso Heidegger lo riconosceva sconsolato. E di fronte a sé non aveva che i primi segnali dell’ulteriore incredibile incremento “quantitativo” della tecnica che ha trascinato con sè, un radicale cambiamento “qualitativo”. Incremento e cambiamento che Galimberti, in luogo di Heidegger, valuta e giudica in prima persona usando le sue categorie analitiche. “oggi la tecnica, per effetto del suo incremento e della sua diffusione, non è più uno strumento nelle mani dell’uomo, ma il suo ambiente, la sua dimora. La tecnica ha ormai ridotto l’uomo a suo funzionario”. Come aveva intuito Heidegger nel sostenere che “la tecnica ha come scopo l’assenza di scopo”, essa ormai mira esclusivamente al proprio potenziamento, al proprio imporsi come unico ordine del mondo, in cui “l’efficacia” è divenuta l’unico criterio di verità. Un ordine entro il quale Gùnther Anders (1902-1992, filosofo tedesco allievo di Heidegger) ritiene che ormai ”la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla nostra capacità di prevederne gli effetti”. Si è fatto ormai urgentemente indispensabile Il ripristino di un pensiero meditante, che potrà però darsi solo se a fronteggiare la tecnica si porrà una nuova metafisica, una nuova filosofia ed una diversa ontologia, davvero capaci di dare forma ad “nuovo inizio

L’opera d’arte e la produzione poetica = Si è già detto della pressante ricerca che Heidegger fa, nell’ultima parte della sua ricerca filosofica, di un linguaggio in grado di esprimere il questo “nuovo inizio”. Questa ricerca non sembra essere stata completata,  non a caso è lo stesso Heidegger a spiegare la mancata stesura della Parte Terza di “Essere e tempo” proprio per l’indisponibilità di un linguaggio, filosofico, per la “mancanza della parola adatta”. Nasce da questo fallimento la sua ammirazione per l’arte, e per la poesia in particolare. Per la loro dote di usare cose, e parole, al fine di raggiungere la “verità”, lo “svelamento” dell’essere distorto dalla tecnica. Ogni opera d’arte diventa allora per Heidegger “poesia”, diventa il riappropriarsi del linguaggio poetico che “non si manifesta nell’aperto, ma apre l’apertura

L’altro inizio: una regione totalmente diversa = L’ultima fase della sua produzione filosofica ruota attorno ad una riflessione (auto)definita “esercizio ermeneutico”, sempre basato sul costante misurarsi con l’interpretazione della “parola”, che Heidegger sposta dalla pura interpretazione, l’ermeneutica, all’ “ascolto”. Si tratta di una riflessione complessa, di cui non possibile dare conto sinteticamente in questo post, che lo porta ad un impressionante lavro di ricostruzione etimologica di tutte le parole che di più, a suo avviso, si connettono all’essere (nel precedente paragrafo sono riportate alcune limitatissime testimonianze di questo lavorio attorno al significato originario di alcune parole). E che costituisce per Heidegger l’ulteriore conferma che il “passaggio dalla scienza al pensiero” non può essere un percorso lineare, ma un vero e proprio “salto” in una “regione diversa”. Nella quale dimora un pensiero completamente diverso da quello che da Platone in poi ha ridotto il pensare umano alla conoscenza ontica degli enti finalizzata al loro controllo. Un pensiero quindi che non ha le finalità “prensili” della civiltà occidentale che su di esse si è costruita, ma che, con un salto “all’indietro”, torni al “primo inizio” allo stupore ed alla curiosità verso l’essere del pensiero presocratico. Consiste in questo primo passo quell’e-vento che costituisce il presupposto inziale dell’irrinunciabile avvio del “pensiero meditante”.

Parte quarta: la critica + Parte quinta: bibliografia ragionata

Per non appesantire questa sintesi, che temiamo possa già così essere  comunque complessa, non riassumiamo queste ultime due parti del saggio di Galimberti dedicate a ripercorrere i filoni interpretativi dell’opera di Heidegger – sostanzialmente suddivisi tra l’interpretazione esistenzialista (Sartre ed altri), quella ontologica (Emmanuel Levinas ed altri), quella ermeneutica (Hans-Georg Gadamer, Gianni Vattimo ed altri) – e una proposta di testi scelti nella sterminata bibliografia che da decenni, senza sosta, riprende e approfondisce i temi della riflessione filosofica heideggeriana.

 



sabato 1 maggio 2021

La Parola del mese

 

La parola del mese

 A turno si propone una parola 

 evocativa di pensieri fra di loro collegabili 

in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

MAGGIO 2021

Anche per questo Maggio 2021, come in occasioni precedenti, esiste un collegamento tra “Parola” e “Saggio” del mese, sollecitato in questo caso da quest’ultimo, ma al tempo stesso ridando fiato all’idea, già presente, di condividere una migliore conoscenza di un termine (il primo della coppia che compone la “Parola” di questo mese) che compare con buona frequenza in molti testi che troppo spesso danno però per scontata la sua esatta conoscenza. Indice del brutto vizio di molti autori che, per comodità sintetica, ricorrono all’uso di termini “tecnici” senza preoccuparsi più di tanto della loro reale condivisione. Il prossimo “Saggio” ha poi sollecitato l’opportunità di presentarla con un gioco di termini che si fronteggiano, e al tempo stesso si completano, chiamando in causa addirittura una terza parola che, non diversamente dai primi due, avrà un suo importante spazio nel prossimo “Saggio”. E’ ora di uscire da questo piccolo alone di mistero la “parola del mese” di Maggio 2021 è, anzi sono:

Ontologico vs Ontico

con in mezzo la Metafisica

Tutte due i termini derivano dal greco “òntos” participio presente del verbo èinai ossia “essere” e formano una coppia di concetti risalenti alla filosofia greca. Ontologico, che ad ontos aggiunge “logos”, altro termine greco che in questo caso significa discorso, sta quindi ad indicare un “discorso sull’essere”. Ontico si limita al contrario ad indicare l’essere nella sua essenza concreta, empirica, e si riferisce quindi ad un “ente, un organismo vivente, definendolo in ciò che è e per come è”. Ontologico, guardando non solo alla concretezza dell’ente, ma considerando le sue potenzialità, i suoi significati di fondo, ne definisce l“essenza”. Si può pertanto ritenere che il salto dall’aspetto ontico dell’ente al discorso ontologico sulla sua essenza rappresenti l’entrata in scena della Metafisica, ossia quella parte della filosofia (aristotelica) che, venendo dopo (metà, altro termine greco che può indicare anche oltre, sopra) la trattazione della natura nel suo aspetto fisico, rifletteva sull’ “ente in quanto ente”. Non a caso il termineontologia”, nell’ambito della filosofia moderna, viene utilizzato per indicare lo studio dell’essere, in senso lato, in quanto tale. Il connubio tra questi due termini può da un certo punto di vista definire in generale lo stesso rapporto tra scienza e filosofia, con la prima più connessa ad un approccio ontico e la seconda più orientata ad uno ontologico, entrambi però, per mirare ad una complessiva conoscenza, devono mantenere una costante reciprocità di influenza e sollecitazione. A conferire una significativa importanza a questo connubio è stato il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976) che, in particolare in quella che viene considerata la sua opera più rilevante “Essere e tempo” del 1927, lo ha assunto come elemento fondamentale per il suo ripensamento dell’intera ricerca filosofica occidentale fino a tentare di delineare una nuova metafisica all’interno della quale l’ontologia riveste un ruolo centrale. E sarà proprio Martin Heidegger il tema del prossimo “saggio” del mese, che recupererà (va da sé sinteticamente) parte delle sue idee, in particolare quelle più in relazione con il ruolo della “tecnica” nella realtà concreta e nel  pensiero occidentale contemporanei