martedì 29 ottobre 2019

Come abbiamo creato l'Antropocene - Articolo di Alessio Giacometti


Forse sorprende un poco scoprire che i temi della sostenibilità ambientale, al centro del dibattito politico e culturale, siano studiati dalla scienza anche come dati oggettivi per modificare la classificazione delle ere geologiche. Ma in effetti è anche questa una prova in più dell’incredibile impatto che Homo sapiens ha avuto sulla vita del nostro pianeta. Se quindi ida una parte è nteressante conoscere il dibattitto scientifico attorno al rapporto tra Olocene e Antropocene, ossia quanto abbia ormai pesato anche in termini geologici “l’epoca umana”, dall’altra si accentuano legittime preoccupazioni sulla nostra vera consapevolezza del peso delle nostre azioni sul pianeta che ci ospita. Non solo per scrupolo scientifico, ma per capire in che direzione andrà il nostro futuro…….se futuro ci sarà!

Come abbiamo creato l’Antropocene

Le discussioni scientifiche, storiche e politiche

 attorno alla nascita e alla definizione dell’epoca umana.

Articolo di Alesio Giacometti – dal sito on-line “La Tascabile”

Nel corso dell’ultimo secolo la scoperta di nuovi metodi di datazione ha spinto indietro l’origine del pianeta Terra fino a 4,54 miliardi di anni fa, un tempo molto più antico e remoto di quanto credessero i primi geologi e naturalisti. “Se condensassimo tutta la storia inconcepibilmente lunga della Terra in un solo giorno”, scrivono Simon Lewis e Mark Maslin in “Il pianeta umano” (Einaudi, 2019), “i primi esseri simili a noi comparirebbero a meno di quattro secondi dalla mezzanotte”. Commensurato allo sterminato silenzio che l’ha preceduto, il recente clangore della civiltà umana è come lo stridulare di una formica nell’universo. Eppure da quando abbiamo iniziato a mettere assieme i pezzi – età della Terra, comparsa di Homo sapiens, danni agli ecosistemi – ci siamo presto resi conto di quanto fosse pesante l’impronta impressa dalla nostra specie. Come notano Lewis e Maslin, “già nell’Ottocento i geologi e gli studiosi di geologia discutevano del periodo ecologico più recente come dell’epoca umana”. Oggi le prove dell’impatto umano sul sistema Terra abbondano. Come le placche tettoniche, le eruzioni vulcaniche e gli impatti di meteoriti, secondo molti scienziati noi umani siamo diventati un agente geologico, una forza tellurica e straripante, capaci di modificare l’evoluzione del pianeta. Per questo, dicono, è arrivato il momento di introdurre l’Antropocene nella scala dei tempi geologici: viviamo in una nuova epoca geologica, l’epoca umana. La definizione formale di Antropocene e della sua data di inizio rimangono controversi, però, e il dibattito che si è creato attorno a questo termine è una discussione non solo scientifica, ma anche, inevitabilmente, storica e politica. 

Tempo profondo

Tra i libri che il giovane Darwin portò con sé nel suo viaggio da naturalista intorno al mondo spiccava “Principi di geologia”, di Charles Lyell (1832). Quanto era vecchia la Terra?, si domandava Darwin leggendo Lyell. Quanto tempo aveva avuto la vita per diversificarsi nel visibilio di forme esistenti, osservabili in natura, e di forme estinte, fossili senza nome incastonati nella roccia? Il primo tentativo di calcolare sperimentalmente l’età della Terra era stato condotto soltanto mezzo secolo prima dal conte di Buffon, il quale si era persuaso che i pianeti fossero in origine blocchi di materia incandescente che si staccarono dal Sole e raffreddarono in migliaia, forse milioni di anni. Cercando di riprodurre in laboratorio un simile processo di raffreddamento con piccole sfere di metallo fuso, Buffon calcolò che la Terra si fosse formata esattamente 74.832 anni prima del suo esperimento. In Les Époques de la nature (1778), il conte arrivò addirittura a ipotizzare che una Terra così vecchia avesse attraversato almeno sette diverse epoche geologiche, ultima delle quali si ardì profeticamente a chiamare l’Epoca dell’Uomo, quella in cui “l’intera faccia della Terra reca l’impronta del potere umano”. Nel corso dell’Ottocento la scienza delle rocce progredì enormemente rispetto i rudimentali esperimenti di Buffon, e con essa le stime sull’età della Terra si fecero di gran lunga più profonde, ma rimase intatta l’idea che nell’ultima epoca geologica le azioni antropiche fossero diventate la causa primaria di cambiamenti permanenti. In Europa, i geologi Thomas Jenkyn, Samuel Haughton e Antonio Stoppani suggerirono di chiamare l’epoca in corso “antropozoica”, mentre negli Stati Uniti il coevo James Dwight Dana propose l’etichetta di “età della mente” o, in alternativa, di “era dell’uomo”. Alla fine però, fu Lyell a spuntarla e ad imporsi sulla nomenclatura geologica coniando il termine Olocene, ossia “del tutto recente”, per designare i dieci millenni di storia che dalla fine dell’ultima grande glaciazione (detta würmiana) portano alla scoperta dell’agricoltura e da lì alla civiltà moderna. Secondo Lyell la Terra era vecchia di milioni di anni, un tempo sufficiente a validare la teoria dell’evoluzione delle specie di Darwin. Di converso, fu proprio la comparsa di una nuova specie fossilizzata negli archivi stratigrafici – assieme a un cambiamento repentino nella chimica delle rocce – a diventare il principale marcatore per la suddivisione dei tempi geologici: ai mutamenti dell’ambiente corrispondono sempre fluttuazioni della vita, storia delle rocce ed evoluzione delle specie sono intrecci di una fabula medesima. Il passaggio dall’Adeano all’Archeano, avvenuto grosso modo 4 miliardi di anni fa, è ad esempio segnato dalla comparsa dei primi esseri viventi sul pianeta Terra, batteri e archei. Dall’Archeano al Proterozoico, 2 miliardi e mezzo di anni fa, entrano in scena i cianobatteri, organismi multicellulari all’origine del cosiddetto “grande evento ossidativo” che liberò ossigeno nell’atmosfera e creò le premesse per la comparsa di esseri in grado di utilizzarlo come principale fonte di energia, gli eucarioti. Il passaggio al successivo Fanerozoico ha invece origine con l’esplosione cambriana e la comparsa sulla terra di un tripudio di forme complesse di vita animale, come i vermi priapulidi che a partire da 541 milioni di anni fa lasceranno impressa negli archivi geologici la tipica forma a “U” della loro tana.
Leggendo Darwin, Lyell si convinse a sua volta che l’Olocene avesse avuto origine con la comparsa di una specie animale inedita, uno scherzo della natura destinato a cambiare irreversibilmente il profilo geologico del pianeta: noi stessi, gli umani. Oggi sappiamo che si sbagliava, è oramai comprovato che Homo sapiens si separò dalle altre specie del genere Homo circa 200.000 anni fa, e non all’inizio dell’Olocene.  Soltanto nel 2008 l’Olocene, con ratifica ufficiale dell’Unione Internazionale di Scienze Geologiche, venne riconosciuto formalmente quale epoca geologica iniziata 11.650 anni BP (before present) e tuttora in corso. Il suo chiodo d’oro, il marcatore che ne segna l’inizio, non è la comparsa nei sedimenti di una nuova forma di vita ma una firma chimica, un cambiamento della concentrazione di deuterio in una carota di ghiaccio della Groenlandia settentrionale. Inaspettatamente la definizione scientifica dell’Olocene non fu controversa, i cambiamenti nei sedimenti terrestri nel passaggio dall’ultima grande glaciazione a condizioni temperate interglaciali erano evidenti, e tuttavia l’originaria connotazione semantica di “epoca umana” finì per smarrirsi.
Antropocene o no?
Negli ultimi secoli abbiamo introdotto in natura più di duecento minerali prima inesistenti, disperso particelle carboniose sferoidali e polimeri plastici dalla cima dell’Everest alla Fossa delle Marianne, rivestito la superfice terrestre con una tecnosfera da 30 trilioni di tonnellate di cemento e metallo. Abbiamo condotto all’estinzione l’83% delle specie animali viventi e dimezzato la popolazione di alberi del 50%. Abbiamo anche riversato in aria oltre duemila miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il cui livello di concentrazione nell’atmosfera è oggi il più alto degli ultimi tre milioni di anni. Se dovessimo estinguerci domani, i nostri prodotti materiali sparirebbero in meno di diecimila anni, ma le alterazioni biogeochimiche dei cicli del carbonio, del fosforo e dell’azoto rimarrebbero per milioni di anni, dopo di noi. “Questo cambiamento permanente del sistema Terra”, commentano laconici Lewis e Maslin, “resterà nei sedimenti geologici per sempre”. Perché, allora, per designare l’epoca geologica in corso – l’epoca umana, appunto – nel 2008 l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche propese per il termine Olocene, che non cita esplicitamente gli esseri umani quali causa importante del cambiamento geologico e climatico? Del resto, nei primi anni Duemila l’etichetta Antropocene era senza dubbio già nota alla comunità scientifica. Dopo alcuni usi del termine in contesti informali sin dagli anni ’80, furono il Nobel per la chimica Paul Crutzen e il limnologo Eugene Stoermer a recuperare dall’oblio il concetto di “epoca umana”, introducendo per primi la parola Antropocene in un documento con finalità scientifiche, la newsletter dell’International Geosphere-Biosphere Programme (IGBP). E tuttavia, con la scelta di ratificare l’ingresso dell’Olocene nella scala dei tempi geologici, l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche scelse di minimizzare e marginalizzare le preoccupazioni ambientali, optando per un termine che Lewis e Maslin dicono più ovvio, e molto meno controverso, di Antropocene come nome geologico dell’epoca attuale. “Olocene era il termine che un accademico che preparava i futuri geologi a vivere nell’industria petrolifera o mineraria avrebbe scelto per quieto vivere”. Fu una decisione codarda, quindi, cautelosa e distorsiva? La comunità dei geologi provò a correggere il tiro solo un anno più tardi, nel 2009, con l’istituzione formale dell’Anthropocene Working Group (AWG), un manipolo di esperti incaricati dalla Sottocommissione Internazionale di Stratigrafia Quaternaria di raccogliere evidenze al fine di determinare se l’Antropocene fosse una realtà accertata o, al contrario, lo si potesse escludere dal dibattito scientifico. Tuttavia, per Lewis e Maslin l’equivoco rimane: “l’Olocene potrebbe sopravvivere alla decisione di definire formalmente l’Antropocene? E quindi difendere l’Olocene porta a opporsi alla definizione formale dell’Antropocene?”. Le ultime trentatré epoche geologiche hanno una durata media diciassette milioni di anni, con un minimo di qualche milione. Dovesse essere fissato ufficialmente l’inizio della nuova epoca, l’Antropocene, i soli 11.650 anni dell’Olocene rappresenterebbero un’anomalia, un’eccezione senza precedenti nella scala dei tempi geologici.
Come lavorano i geologi
A differenza di quanto avvenne per l’Olocene, in genere le dispute geocronologiche sono lunghe e conflittuali, con la scala dei tempi geologici che rimane giocoforza sempre aperta alla scoperta di nuovi marcatori e dunque a possibili rettifiche, talvolta spiazzanti. Nel loro libro, Lewis e Maslin ci portano dentro la “storia nascosta dell’Antropocene”, il complesso meccanismo decisionale con cui la comunità scientifica arriva a deliberare l’adozione formale di una nuova epoca geologica, secondo un farraginoso processo a quattro stadi. “Finora i geologi hanno fatto un buon lavoro applicando sistematicamente i medesimi criteri a centinaia di milioni di anni, - scrivono Lewis e Maslin - ma quando si arriva al periodo e all’epoca finali che comprendono il nostro tempo questo sistema smette di funzionare”.
Nel 2015, con una dichiarazione collettiva pubblicata sul Quaternary International, l’AWG indicò quale data di inizio della nuova epoca il 16 luglio 1945, giorno in cui la detonazione a scopo dimostrativo del primo ordigno nucleare della storia sparse nel mondo dei radionuclidi mai visti prima di allora. Dopo meno di un anno, però, l’AWG pubblicò su Science una nuova dichiarazione collettiva con cui metteva in discussione la necessità stessa di una definizione formale dell’Antropocene. Sei mesi dopo ancora, ad agosto del 2016, l’AWG ritrattò nuovamente dichiarando che avrebbe dedicato gli anni successivi all’elaborazione di una proposta condivisa e perentoria. Gli anni sono passati, a maggio di quest’anno si è tenuta una votazione forse dirimente, e pare che presto l’AWG si pronuncerà presto, definitivamente, sulla nuova epoca geologica. Il presidente del Gruppo, il geologo del tempo profondo Jan Zalasiewicz, ha già annunciato che il prossimo 21 novembre terrà assieme alla storica dell’età moderna Julia Adeney Thomas una tandem lecture al Rachel Carson Center di Monaco, e in quell’occasione potrebbe presentare il suo “libro-verità” sull’epoca umana, The Anthropocene, in uscita per Polity Press.
Fissare un inizio
Pur non facendo parte dell’AWG ed essendo oramai ravvicinata la pronunciazione definitiva sull’Antropocene, in Il pianeta umano Lewis e Maslin suggeriscono un loro “schema in tre parti” (“l’unico pubblicato nella letteratura scientifica”) per il riconoscimento formale dell’Antropocene quale epoca geologica distinta dal precedente Olocene. Primo: “esaminare le prove del fatto che l’attività umana ha iniziato a far cambiare lo stato della Terra”; secondo: “valutare se questo nuovo stato sia visibile nei depositi geologici”; terzo: “decidere quando avvenne il cambiamento nella transizione della Terra da uno stato preantropocenico a quello antropocenico”. Passando al setaccio del loro metodo a tre stadi i possibili punti di rottura con l’Olocene – diffusione dell’agricoltura 10.000 anni fa, prima globalizzazione successiva al 1492, Rivoluzione industriale a metà Ottocento, “grande accelerazione” susseguente al 1950 o picco del fall-out nucleare nel 1964/65 – Lewis e Maslin suggeriscono di considerare come data d’inizio dell’Antropocene l’anno 1610. Nel secolo precedente, le malattie globalizzate dallo scambio colombiano che seguì la colonizzazione europea delle Americhe portarono alla morte di circa 50 milioni di nativi e al crollo delle attività agricole in tutto il Nuovo Mondo. Le foreste riconquistarono i terreni e i pascoli abbandonati nel giro di qualche decennio, arrivando a sequestrare dall’atmosfera la bellezza di 12 miliardi di tonnellate in più di anidride carbonica: la concentrazione di quest’ultima diminuì di circa 6 parti per milione, fino al valore minimo di 275 parti per milione del 1610, rilevato in una carota di ghiaccio di Law Dome, in Antartide. La diminuzione dell’anidride carbonica determinò a sua volta un raffreddamento della temperatura globale che coincise con la parte più fredda della cosiddetta “piccola era glaciale”, “l’ultimo periodo globalmente freddo prima del calore a lungo termine dell’Antropocene”. Il placido e temperato Olocene cominciò dunque con la fine dell’ultima, grande era glaciale; l’ignoto e surriscaldato Antropocene in corrispondenza della piccola era glaciale che precedette il mondo moderno. Ma non si tratta di sole temperature: lo scambio di specie animali e vegetali tra il Nuovo e il Vecchio Mondo rappresentò anche il “momento cruciale dopo il quale i biota della Terra diventano globalmente sempre più omogenei, creando una nuova Pangea e quindi ponendo la Terra su una nuova traiettoria evolutiva”. Questo point-break storico ed ecologico, ricordano Lewis e Maslin, “è stato chiamato Orbis spike perché l’emisfero orientale e quello occidentale dell’umanità si riunirono dopo più di 12.000 anni di separazione e si creò un unico sistema economico mondiale globale (orbis in latino vuol dire mondo)”. In termini geologici, mezzo millennio di navigazione transoceanica e un secolo scarso di aviazione intercontinentale hanno annullato l’azione della tettonica a placche e omogeneizzato la diversità biologica della Terra, introducendo in ogni ecosistema possibile le specie alloctone e quelle domesticate per l’alimentazione umana. È come se avessimo riunito le terre emerse, “la tendenza opposta a quella che negli ultimi 200 milioni di anni ha portato alla separazione dei continenti”.
Riconosciuta la fondatezza scientifica dell’Antropocene e fissato il suo punto d’inizio in corrispondenza dell’Orbis spike, l’Olocene diventerebbe euristicamente superfluo, uno qualunque dei tanti interglaciali tipici. Per Lewis e Maslin le alternative logiche sono due: “eliminare del tutto l’epoca dell’Olocene dalla scala dei tempi geologici e usarlo come nome informale, oppure farlo retrocedere a livello inferiore – definirlo come un’età – all’interno della precedente epoca del Pleistocene. Nel secondo caso, lo chiameremmo Oloceniano, poiché tutte le età definite formalmente hanno il suffisso -iano”. Ma questo è solo un vezzo da scienziati, le conseguenze del riconoscimento formale dell’Antropocene e della sua data d’inizio non si fermano certo qui.
Immaginari dell’Antropocene
Qualcuno potrebbe giudicare di scarso interesse scientifico questo dibattito sulla definizione dell’Antropocene”, riconoscono Lewis e Maslin. Il fatto è che il concetto di “epoca umana” ha oramai scavalcato gli steccati accademici che lo vorrebbero circoscritto alle tenzoni di geologi e stratigrafi, diventando terreno di incontro speculativo tra filosofi della scienza, storici del clima, giornalisti ambientali, artisti e attivisti. Dall’uso culturale che questi hanno fatto del concetto di Antropocene è scaturito un dibattito mai così fecondo sui cambiamenti climatici, sull’intreccio irrisolto e forse irrisolvibile tra natura e cultura. Secondo Stanley Finney, presidente della Commissione Internazionale di Stratigrafia e acerrimo oppositore all’introduzione dell’Antropocene nella scala dei tempi geologici, tutto questo fermento non-specialistico intorno al concetto di Antropocene non dovrebbe interferire con le deliberazioni della comunità scientifica. L’ecologia politica, sostiene Finney, rimanga pure fuori dalle controversie scientifiche dei geologi. Per Lewis e Maslin è piuttosto vero che “gli scienziati non possono evitare la politica dell’Antropocene”, se non altro perché “la scelta della [sua] data di partenza alimenterà inevitabilmente le storie che narriamo di noi stessi e più in generale dello sviluppo umano”. Per esempio, “agganciare l’inizio dell’epoca umana agli impatti delle prime attività venatorie o agricole dell’umanità potrebbe essere usato politicamente per normalizzare il cambiamento ambientale”, che diventerebbe così una conseguenza ineluttabile della nostra presenza sulla Terra – inutile angustiarsi. Viceversa, optare per la “rottura recente” del fall-out radioattivo nel dopoguerra significherebbe accentuare quelle che Lewis e Maslin chiamano “trappole del progresso”: “quelle situazioni in cui il progresso della tecnologia verso un dato scopo – in questo caso, un’arma letale contro nemici – finisce per creare la possibilità di arrestare il progresso dell’umanità”. Che storia ci racconta un’epoca umana cominciata nel 1610? Secondo i due autori de Il pianeta umano, “se l’Antropocene è associato allo scambio colombiano, alla morte di 50 milioni di persone e agli inizi del mondo moderno, allora è una storia profondamente imbarazzante di colonialismo e schiavismo”. Ma è anche la storia dell’ascesa del modo capitalistico di vivere e della rivoluzione scientifica: “l’emergere del metodo scientifico e l’idea di progresso sono strettamente legati al progetto europeo di colonizzazione – un nuovo tipo di impero – e al desiderio di un elevato rendimento degli investimenti”. L’epoca moderna ebbe inizio con quella che Yuval Noah Harari, hapax legomenon dell’opera di Lewis e Maslin, definisce in Sapiens (2011) la “scoperta dell’ignoranza”: “pian piano diventò evidente che non tutta la conoscenza derivava dallo studio di antichi testi” ma che stava lì fuori, a portata delle capacità di comprensione degli esseri umani. Colonizzazione, sfruttamento delle risorse e studio scientifico del mondo si saldarono rapidamente insieme e divennero gli architravi di una nuova forma di organizzazione sociale, il capitalismo “mercantile”, divenuto poi “industriale” con lo sfruttamento dei combustibili fossili e infine “consumistico”, con la grande accelerazione del dopoguerra. Al centro del modo di vivere moderno, e dunque dell’Antropocene, convergono le spinte ad aumentare la produttività del lavoro, ad incrementare lo sfruttamento delle risorse naturali e la dominanza finanziaria, a potenziare oltre ogni misura la razionalità utilitaristica e strumentale che rende obsoleti tutti i modi tradizionali di vivere e pensare. Chiuse le dissertazioni scientifiche sull’Antropocene e sul suo possibile inizio, Lewis e Maslin si appoggiano a Capitalism in the Web of Life di Jason Moore (2015) per tracciare una loro teoria politica generale dell’epoca geologica in cui viviamo: “secondo la proposta di Moore, l’Antropocene iniziò insieme al sistema-mondo moderno cinquecento anni fa, quando un nuovo modo di organizzare le persone e la natura si diffuse in tutto il mondo. Questo nuovo sistema-mondo dà priorità alla produttività, mentre la natura è considerata poco più di una materia prima”. Possibile che questo modo di vivere e pensare, vecchio ormai di cinque secoli, possa durare ancora a lungo?
Come batteri in una piastra di Petri
Per descrivere quel che accade a una specie che cresce infinitamente in un ambiente finito Lewis e Maslin scelgono la metafora dei batteri in una piastra di Petri: “si moltiplicano fino a consumare le risorse disponibili e poi muoiono quasi tutti”. Tutto sembra andare per il meglio ma poi, all’improvviso, il meccanismo della crescita si arresta e implode, e questo vale anche per gli esseri umani. Come racconta Jared Diamond in Collasso (2005), molte civiltà del passato – rapanui, anasazi, maya, vichinghi – sono crollate immediatamente dopo aver raggiunto l’apice del loro sviluppo. Che cosa succederà a noi, figli dell’Antropocene? Siamo come batteri in una piastra di Petri oppure il nostro attuale modo di vivere verrà soppiantato da qualcosa di nuovo? Secondo Lewis e Maslin, i cambiamenti del modo di vivere sono rari. “Stando a quanto è avvenuto in passato, […] sono più probabili quando si instaurano circuiti di feedback positivo, associati a nuove forme di energia, a nuove informazioni e a una maggiore agentività umana collettiva”. Risalendo la storia dell’umanità fino all’Antropocene, i due autori de Il pianeta umano individuano quattro transizioni principali, due legate alle forme d’uso dell’energia e due alla scala dell’organizzazione sociale, che modificarono in modo fondamentale sia le società umane sia il loro impatto sul pianeta Terra: la cattura di una quantità maggiore di energia solare con l’invenzione dell’agricoltura, la “globalizzazione 1.0” del modo capitalistico di vivere, l’impiego dei combustibili fossili nella rivoluzione industriale e la “globalizzazione 2.0” della grande accelerazione. Nel corso di questo “two-step doppio” dello sviluppo umano si sono avvicendati cinque diversi idealtipi di società, dall’impronta ecologica crescente: società di caccia e raccolta, società agricole, capitalistiche mercantili, capitalistiche industriali e capitalistiche consumistiche. “Quanti altri stati esistano oltre a questi non è noto”. Quel che è certo, però, è che “una volta costruito un circuito di feedback positivo, non si torna più indietro”, e che “ogni nuovo modo [di vivere] dura meno del precedente”. Le comunità ancestrali di caccia e raccolta hanno abitato la Terra per milioni di anni, quelle agricole per decine di migliaia, il capitalismo ha solo mezzo millennio di vita e tuttavia potrebbe non traguardare la fine del Ventunesimo secolo. Guardando al futuro, il nostro attuale modo di vivere basato sulla crescita infinita sembra il meno probabile. Ma cosa seguirà? 
Per alcuni siamo davvero come batteri in una piastra di Petri, decretati al collasso e alla regressione a forme più sostenibili di organizzazione sociale, come la vita agricola e organica del periodo preantropocenico. Per altri, invece, l’Antropocene rappresenta la vertiginosa opportunità di un definitivo controllo antropico dei regimi ambientali e climatici, magari per mezzo della geoingegneria (nostra “Parola del mese” di Giugno 2019), che attende soltanto di essere scatenata. “Forse la nostra specie”, scrivono Lewis e Maslin citando di nuovo Harari, “è diventata una “specie divina”, Homo deus, capace di utilizzare in modo intelligente tecnologie che risolvono i nostri problemi”. Sarà davvero così? Ci ergeremo al rango di eoni o finiremo soltanto per salvare il mondo distruggendolo in modo diverso, sostituendo un disastro con uno ancora più grande? La cauta risposta di Lewis e Maslin è che noi non siamo come batteri in una piastra di Petri: in fondo, il nostro potere è riflessivo, siamo saggi abbastanza da “non continua[re] a crescere fino all’esaurimento delle risorse alimentari o di qualche altro fattore limitante”. Nelle ultime pagine del loro libro, i due si limitano a constatare che i fattori determinanti lo stato di una società – energia utilizzata, quantità di informazioni e agentività collettiva – sembrano essere in aumento, “suggerendo una potenziale quinta transizione a un sesto modo di vivere”. Costo delle energie rinnovabili in rapida diminuzione, aumento esponenziale delle reti di connessione, progressi entusiasmanti nel campo dell’automazione: tutto sembra disporsi verso una nuova forma di organizzazione sociale. Questa dipenderà da quale storia sull’Antropocene riuscirà a imporsi nei prossimi anni, da quale immaginario sceglieremo di adottare contro la fine del mondo. È una battaglia aperta, immensa, capitale. Formalizzato l’ingresso dell’epoca umana nella scala dei tempi geologici, non ci troveremo a scrivere d’altro che di storie su come viverci dentro e, più in là, su come provare ad uscirne.
Tutte le immagini sono tratte dal progetto Images of Change della NASA.
1. Il lago Aculeo, in Cile, nel 2014 e nel 2019 
2. L’isola di East Island, scomparsa dopo l’uragano Walaka, nell’ottobre 2018 
3. Il ghiacciaio sopra il vulcano Ok, in Islanda, nel 1986 e nel 2019.
4. La crescita del porto di Busan, in Corea del Sud, tra 1988 e 2017.




lunedì 21 ottobre 2019

Rassegna d'arte 2019/2020 - a cura di Valter Alovisio


Segnaliamo con piacere ed interesse la nuova iniziativa del nostro socio e collaboratore Valter Alovisio


MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 2019

ore 20.30

CINEMA SAN LORENZO

Giaveno
Presentazione del Prof. Valter Alovisio

Nell’ambito del programma 2019/2020

domenica 20 ottobre 2019

Sisifo, Prometeo e l'alpinismo. I miti e qualche idea - di Elvio Balboni

In qualche modo sollecitato da nostri preceenti post, ed in particolare da quello sulla "Piccola stioria del paesaggio", il nostro amico e collaboratore Elvio Balboni ci invia questo suo contributo, elaborato qualche anno addietro, in cui coniuga la sue "passionacce" per l'alpinismo e la filosofia, collegandole con il richiano ad alcuni sempiterni miti. Lo pubblichiamo volentieri, ovviamente in forma di post a sè stante vista la sua lunghezza, raccomandandolo a tutti, ed in particolare a chi guardando ai quelli montani prova, così come evvidenziato nel saggio "Piccola storia del paesaggio", le stesse emozioni vissute dal Petrarca in cima al Mont Ventoux

SISIFO, PROMETEO e L'ALPINISMO,
I MITI E QUALCHE IDEA

"O anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del possibile."
Pindaro.
Gli alpinisti sono degli eroi assurdi, come Sisifo, l'eroe proletario degli Dei, e rivoltosi, come Prometeo,  spirito ribelle, malizioso e indisciplinato, infatti essi sono sempre pronti a criticare. Come Sisifo rimangono però dei ribelli sconfitti, si rivoltano contro l'assurdità della vita che mai approda ad una meta stabile e perciò sempre vuole di nuovo se stessa, l'eterno ritorno dell'identico, tutto il loro essere si adopera per il raggiungimento di un fine, che mai riusciranno a portare a termine. Arrivati in cima, conquistata la vetta, la felicità raggiunta sul finire dell'immane fatica si trasforma, subito dilegua, il senso di pienezza che aveva riempito il loro io cavo svanisce e man mano il sentimento gaio si fa triste.  Subentra allora un nuovo tormento, la necessità di colmare il vuoto interiore, cresce l'esigenza di una nuova impresa da compiere, un nuovo fardello che ritroveranno ai piedi della prossima montagna da affrontare. Sulla cima non si può rimanere, solo agli esseri divini è concessa una perpetua condizione di godimento; per i comuni mortali, la felicità e la gioia non sono che attimi che per essere assaporati nella loro pienezza necessitano sempre di uno sforzo iniziale e successivamente, di una rinnovata fatica: non si sfugge alla finitudine della condizione umana, questo è il messaggio che ci consegnano Sisifo e Prometeo. Alla base della parete, giace da sempre l'enorme macigno roccioso da spingere e riportare sulla cima: la nuova via da tempo sognata ora si presenta in tutta la sua difficoltà, la nuova impresa sarà ancora più ardua, l'esito sarà necessariamente incerto. Il destino degli alpinisti è legato alla roccia, il loro sì è il sì alla vita, la loro è una fedeltà alle "passioni umane, troppo umane", passioni legate alla Terra.  Da "6.000 piedi, al di là dell'uomo e del tempo" proviene la brezza dionisiaca che ravviva il fuoco rubato da Prometeo agli Dei e donato agli uomini insieme alle cieche speranze. Tecnica e potenza dei miti danno forma alle azioni e alle passioni degli umani.
 Il mito di Sisifo
 Sisifo apparteneva a quegli abitanti primordiali della Terra che avevano ancora potuto osservare le azioni iniziali degli Dei, viveva a Efira ed alcuni lo ritenevano il fondatore della città di Corinto, mentre per altri pare avesse ricevuto il potere sulla città direttamente da Medea. Quando Zeus rapì la splendida Egina, figlia del fiume Asopo, il padre passò da Corinto, cercandola con febbrile collera e fu allora che Sisifo si rivelò come il più scaltro e il meno scrupoloso tra i mortali. Non esitò a denunciare Zeus, il Re degli Dei, come l'autore del rapimento, ad una condizione però, che Asopo facesse sgorgare una sorgente d'acqua limpida per la sua città, è così fu.Zeus naturalmente non sopportò simile oltraggio e non si accontentò di fulminare Sisifo con una delle sua proverbiali saette, ma inviò Thanatos, la personificazione della morte, per condurlo agli inferi.Sisifo, lo scaltro, non si diede per vinto, le tese una trappola riuscendo ad immobilizzarla la legò con salde corde e la nascose in un armadio. Forse non si rese conto di quel che stava per accadere, la sua hybris (tracotanza) mise letteralmente in pericolo l'ordine dell'universo, con Thanatos imprigionata non moriva più nessuno. Ade il più ricco degli Dei smise di guadagnare, il denaro che riceveva per la sepoltura dei defunti non arrivava più ed il pianeta di conseguenza divenne sovraffollato ed invivibile. Zeus allora fu costretto nuovamente ad intervenire inviando Ares, il Dio della guerra, il quale era particolarmente motivato dal fatto che non moriva più nessuno: a che pro allora combattere la guerra? Thanatos venne liberata e Sisifo spedito negli inferi, ma la vicenda non si concluse qui, egli si inventò un nuovo stratagemma, raccomandò alla moglie Merope di non organizzargli alcuna onoranza funebre, come ogni sposa dovrebbe fare nel giorno della morte del marito, dicendole: "Non chiedermi perché, te lo spiegherò poi". 
Giunto negli inferi si rivolse ad Ade chiedendogli di poter tornare sulla Terra allo scopo di punire Merope di una così grave mancanza. Ade, a sua volta colpito da questa mancanza di buone maniere, acconsente con la promessa del suo immediato ritorno, ma una volta giunto alla Terra, lì  vi rimase con la moglie, fecero molti figli e morì solo in tarda età. Così, grazie all'inganno, riuscì a ritardare il più possibile il supplizio al quale Ade lo aveva condannato, la perpetua fatica di spingere l'enorme macigno in cima al monte per poi vederlo rotolare nuovamente giù e dover ricominciare da capo l'ennesima fatica. Purtroppo non sappiamo come Sisifo abbia ingannato Thanatos, conosciamo però lo stratagemma con il quale riuscì a battere in furbizia Autolico (il cui nome significa Lupo) figlio di Ermes. Dal messaggero degli Dei, Autolico, ricevette in dono la "capacità del furto e l'abile spergiuro", al punto da riuscire a mutare gli animali bianchi in neri, a togliere le corna a quelli che le avevano per darle a quelli che non le avevano e viceversa, così che il proprio bestiame sempre cresceva di numero, mentre diminuiva quello altrui. Sisifo se ne accorse e iniziò con lo stampare delle lettere sulle zampe degli animali, ma ciò non fu sufficiente data la capacità di Autolico di cambiarli continuamente, allora versò del piombo fuso a forma di lettere nello zoccolo degli animali, in modo tale che lasciassero delle tracce sul terreno facendo apparire la scritta: "Autolico mi ha rubato". Autolico non solo accettò la sconfitta ma apprezzò tale ingegno al punto da acconsentire a Sisifo di possedere sua figlia Anticlea la notte antecedente le nozze con Laerte così, secondo questa leggenda, Ulisse, il Re di Itaca, vincitore di Troia con la macchinazione del dono del cavallo, avrebbe ricevuto i geni dell'astuzia direttamente dallo scaltro Sisifo e non, come sostiene Omero nell'Odissea, da Laerte.

Affinità e divergenze tra Sisifo e l'alpinista
Cosa unisce Sisifo al moderno alpinista? L'odio per la morte e la forte passione per la vita, il disprezzo per gli Dei, l'elogio dei gesti inutili a discapito di una vita consumata unicamente per l'utile e per la sovrabbondanza economica, la fedeltà superiore alla loro condizione umana, continuamente tesa verso l'infinita ascesi e nuovamente accettata nella sua precarietà. La loro è una forma estrema di hybris, di tracotanza, una perpetua ed inutile azione che sfida la dimora naturale degli Dei, il monte Olimpo. Le montagne, gli sconfinati mari, i deserti infiniti e le desolate lande ghiacciate sono tutti luoghi sublimi e selvaggi per eccellenza che suscitano contemporaneamente attrazione e repulsione, così le alte e innevate vette, sono avvolte da un'aura e da una tenebra di inaccessibilità con comuni mezzi. Le montagne sono i lunghi dove si cerca Dio  e dove si nascondono i demoni, immortalate innumerevoli volte nelle raffigurazioni artistiche come repulsive e irraggiungibili, frequentate da mostri e spiriti. Quando Artemide (la dea della caccia che dona la morte scagliando silenziose frecce) si rende visibile agli occhi degli umani, lo fa mostrandosi di notte, al chiaro di luna, in cima ai monti dell'antica Grecia sull'Epiro: il non misurabile. Stampe settecentesche rappresentano lo snodarsi a valle dei ghiacciai con la forma di un immenso serpente, che si accanisce contro coloro che osano sfidarle e sarà solo con il nuovo spirito dei lumi, alla fine del XVIII secolo, che l'uomo moderno oserà scalare quei luoghi impervi e inaccessibili, dove ogni identità può essere perduta e dove paradossalmente, ognuno di noi può ritrovare se stesso. Nella lotta per vetta o per le traversate ad alta quota, la morte viene continuamente sfidata, ma per sconfiggerla, per poter ricominciare una nuova e appassionata azione, il supplizio di Sisifo consiste proprio nella volontà assurda di volerlo nuovamente ripetere, senza tregua. Il continuo alternarsi della discesa Katabasi e della risalita Anabasi rappresenta la condizione umani nell'estremo dei suoi due opposti poli: la inevitabile ricaduta nella dimensione tragica e miserevole ed il rinnovato tentativo di rivoltarsi e liberarsi da essa, la consapevole accettazione dell'assurdo, secondo il filosofo esistenzialista francese Albert Camus, è ciò che ci permette di trasformare il supplizio di Sisifo in un processo di liberazione, dando così senso e pienezza alla nostra vita. Nella discesa si affaccia la tristezza che assume il volto della pietra, "è la vittoria della pietra, è la pietra stessa" che va nuovamente riportata in cima, il macigno è metafora dell'insostenibile ed inevitabile pesantezza dell'essere, in quanto nulla riesce a condurre a termine e tutto deve nuovamente ricominciare da capo, "è il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra", lo sforzo però viene compensato non dall'illusione di poter trovare sulla vetta le divinità mitologiche o una forma di umanità superiore, ma dall'aver scelto una modalità dell'agire che ci allontana da una quotidianità spesso frustrata e insensata. "Se Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli Dei e solleva i macigni, l'alpinista afferma che la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo". L'alpinista non rinnega e non abolisce il supplizio, ma alla perpetua fatica, affianca un processo di liberazione individuale, anche se mai definitivamente raggiunto e posseduto una volta per tutte.
La prassi dell'alpinismo
Non appena tornati nel mondo civile un'altra parete li aspetta, un nuovo obiettivo da raggiungere, fatica e rischio detteranno il ritmo alla nuova avventura. L'intera settimana è segnata dall'attesa, il nuovo desiderio li possiede, "il macigno è cosa loro". Una attesa molto attiva: bisogna prepararsi bene, allenamenti costanti e metodici, interminabili serie di trazioni, prima si aumenta la forza pura, poi quella resistente, tre settimane di carico una di scarico, ripetute in serie poi piramidali, si fa attenzione a che tutti i muscoli del corpo siano egualmente bilanciati, privilegiando avambracci e flessori delle dita, senza assolutamente dimenticare gli addominali, fondamentali per gli strapiombi, il tutto si svolge indoor, i più fortunati dispongono di un PanGullich (un pannello strapiombante con liste di legno di differenti spessori) gli altri di un Totem che avranno infisso sopra la porta di una stanza e sul quale possono torturare meglio i loro tendini, facendo trazioni. 

Tutto ciò per almeno due sedute settimanali, tre per i falesisti, quattro per i sassisti (Boulder-climber) con due uscite all'aperto per curare la resistenza aerobica, camminate veloci in montagna, corsa, bici, ecc. per garantirsi un avvicinamento all'attacco della via rapido e una condizione fisica in fiato. Infine lo stretching, una palla per tutti, ma se si salta sarà probabile che salteranno fasce muscolari e tendinee con conseguente stop di lunghi periodi. Insomma una settimana non proprio all'insegna del divertimento, spesso si arriva al week-end già stanchi, allo stress della settimana lavorativa si aggiunge quello  dall'ossessione per l'allenamento, così il fascino mitologico viene scalzato dalla paranoia per la prestazione. Forse risulterebbe più divertente allenarsi su un muro di casa, proponendo al condominio di fissare delle prese sulla parete priva di finestre, passare dall'abbaino in spaccata, fare delle dülfer sui comignoli, per poi calarsi in doppia dalla finestra o dal balcone. Questo è l'allenamento che anticipa lo Street Boulder e descritto da René Daumal nel bel romanzo Il Monte Analogo sul cui significato simbolico torneremo in chiusura. L'alpinista appena può, abbandona la metropoli e la pianura e si lancia in una nuova impresa; sceglie la meta, prepara lo zaino la sera prima, come da manuale CAI (e non la mattina stessa finendo inevitabilmente per dimenticare qualcosa), specialmente se la via è impegnativa, per non scordarsi ciò che serve. Giunto alla base della parete si prepara, svolge le corde, posiziona i rinvii e il materiale in preciso ordine, per poter poi scegliere la protezione corretta da piazzare nel più breve tempo possibile. Rapido sguardo sulla parete per capire la morfologia dei primi metri d roccia, immerge le mani nel sacchetto della magnesite appeso all'imbrago, spesso gesto non necessario ma scaramantico, individua l'appiglio e lo strizza con la punta delle dita, carica al meglio il proprio peso sull'appoggio, ruota il corpo per posizionare il baricentro il più vicino possibile alla parete e se questa è strapiombante, inclina il ginocchio verso il basso (in gergo lolotta, la retorica della "lotta con l'alpe" è stata lasciata alle spalle) spinge con le gambe verso l'alto, non prima di aver prefigurato nella sua mente le movenze del gesto ed aver individuato un paio di altri appigli e appoggi al fine di trovare la successiva posizione di equilibrio Egli trae piacere dal proprio movimento, è una festa per i muscoli del suo corpo, accanto alla fatica di Sisifo, vede l'immagine di se stesso riflessa nella parete, come Narciso scorgeva il proprio volto riflesso sulla superficie dell'acqua e se ne innamora, così egli gode dei propri gesti, del suo movimento sinuoso e si immagina attraente come un Narciso e audace come un Prometeo. Presunzione e vanità non gli mancano. Si affatica, si sforza, lotta contro la gravità che al suolo vorrebbe trattenerlo ed ingabbiarlo, volge lo sguardo verso il cielo, scala la parete e progredisce, centimetro dopo centimetro, vede una fessura e li incastra le dita; se la fessura è un po' umida e tende a farlo scivolare, iniziano a prendere forma nella sua mente un mix di deliranti paure e fantasie erotiche, le mani iniziano a sudare, i brividi percorrono tutto il corpo, la pelle si fa d'oca e sogna altre fessure, quelle calde e umide, immaginazioni che servono ad allontanare i timori e a controllare le emozioni, l'adrenalina va a mille, però la paura non degenera in panico. Nel momento del pericolo sa che difficilmente potrà appellarsi al detto del filosofo Heidegger: "solo un Dio potrà salvarci" e le figure servo/signore della fenomenologia hegeliana si fanno dialettica realmente vissuta, si è difronte ad un aut-aut: o servo o signore, "occorre presenza di spirito" per padroneggiare le emozioni, la sola ragione non basta. Molti sono i gesti che verranno ripetuti lungo la linea ascensionale, ma pochi risulteranno scontati, specialmente se la via la si affronta per la prima volta, ed ancor più se la via non è ancora stata aperta. In alpinismo, sopratutto nelle vie non protette con i sicuri e moderni SPIT (tasselli d'acciaio) è meglio non cadere, decisamente meglio, raramente si prova e riprova lo stesso passaggio. Non siamo in falesia, su un mono-tiro con protezioni sicure e le vie possono essere lunghe anche centinaia e centinaia di metri di dislivello e svolgersi su differenti terreni: le solari vie di roccia, quelle di ghiaccio e neve i terreni di misto, diversi tipi di roccia, granito, calcare, quarzite, conglomerato, ciò che conta non è uno sguardo geologico, ma capire grazie all'esperienza se è roccia buona o marcia, se vi sono tratti con maggiore aderenza oppure scivolosi, se è salda oppure si sgretola e viene via. La sicurezza è data dalla preparazione, dalla prudenza, dal rimanere un poco al di sotto delle proprie capacità, dall'affidabilità delle protezioni; quelle trovate in posto vanno verificate se sono in buone condizioni o se andranno sostituite e/o integrate.  Per affrontare la scalata trad, cioè autoproteggendosi con chiodi, friend, nut, si dovrà imparare a piazzarli correttamente solo facendolo, teoria e prassi necessariamente si incontrano. Infine per la sicurezza determinante è la capacità di riconoscere i pericoli oggettivi costituiti dalle condizioni della montagna e dalle condizioni climatiche.Una via interamente protetta a spit è molto diversa da una trad, dove tutte le protezioni, comprese le soste, che rappresentano il punto più importante della catena di sicurezza, vengono piazzate dal primo di cordata e le sensazioni che si provano dipendono anche dalla distanza tra una protezione e l'altra, sono due viaggi differenti, e in caso di volo le conseguenze possono essere gravi. Il rischio non è eliminabile, e se ciò avvenisse rappresenterebbe la morte dell'alpinismo, la riduzione di questa magnifica attività che è mentale e pratica, fatica e gioco, che è anche filosofia di vita, per una vita attiva e avventurosa, ad una normale disciplina sportiva, che rimarrà sempre piacevole e divertente ma è  ben altra cosa. L'essenza dell'alpinismo non risiede in una ossessiva ed inconscia pulsione di morte, la meta non è il Valhalla  dei Nibelunghi dove riposano i morti gloriosi caduti in battaglia, probabile radice culturale dell'alpinismo eroico tra le due guerre mondiali, inevitabilmente tragico perché portato alla massima esaltazione, la corsa sprezzante del pericolo di morte al fine di conquistare per primi le ghiacciate e spettrali pareti nord delle Alpi, la nord delle Grand Jorasses sul Monte Bianco, la nord del Cervino e la Nord dell' Eiger.
 Origini e principali tappe della storia dell'alpinismo 

Procediamo con ordine, la data di nascita dell'alpinismo moderno coincide, con la conquista della sommità del massiccio del Monte Bianco mt. 4810 la montagna europea più alta, alle ore 18 del 8 agosto del 1786 il valligiano Jacques Balmat e il medico Michel Gabriel Pacard calcano la vetta, da Chamonix l'ascensione è seguita con trepidazione, tutti i cannocchiali sono orientati sui due puntini che risalgono la cresta e il panettone finale, Il colto ed entusiasta Pacard, pianta nella neve il barometro e esegue alcuni esperimenti scientifici, siamo in piena età dei lumi, da lì a poco scoppierà la rivoluzione francese. La storia dell'alpinismo è inevitabilmente condizionata dalla cultura dell'epoca nella quale si svolge, il rischiaramento della ragione è il detonatore, l'impeto del romanticismo farà da propellente, tutte le principali vette dell'arco alpino cadranno nei decenni successivi. Ci furono precedentemente diversi tentativi, sulla spinta delle onde del pensiero illuminista e il fiorire della ricerca scientifica, spesso un paravento per mettersi al riparo dalla accusa di essere dei perdi-giorno, ed anzi, coloro che per le prime volte osarono sfidare la montagna maledetta "la Mont Maudite" in patois, venivano accusati di essere degli infedeli o degli alchimisti. Nei passati periodi vi furono alcune salite rimaste famose e documentate, come quella sull'Etna dell'imperatore Adriano, ma non diedero vita ad alcuna specifica attività alpinistica. La celebre ascensione al Mont Ventoux del Petrarca del 1336 rappresenterà simbolicamente il distacco dal medio evo, sappiamo che portò con se Le Confessioni di Agostino il berbero, contenenti la scelta di conversione verso il bene e la castità e la splendida riflessione sul tempo  "se non me lo chiedi so cos'è, se me lo chiedi non lo so più" cioè il tempo viene scandito dalla discesa (katabasi) nella nostra riflessione interiore, preceduta dalla ascesa (Anabasi) verso l'Olimpo. Seguirà nel 1.358 la salita di Bonifacio Rotario, vescovo di Asti, al Rocciamelone  (allora ritenuta la montagna più alta d'Italia mt. 3.538, in effetti da Susa il dislivello è di ben 3.000 metri, pertanto era difficile trovare una simile distanza in altre zone delle Alpi e fare dei paragoni tra le cime quando non vi erano ancora i moderni sistemi di misurazione che portarono a cartine geografiche precise, o i GPS satellitari, pertanto non stupisce che gli antichi greci chiamassero le montagne Epiro il non misurabile. Queste ascensioni si svolgono ancora su un terreno escursionistico e agreable, la vita non è messa in pericolo, però il duplice movimento esteriore verso l'alto e interiore verso il nostro io, è sufficiente, al letterato toscano a fargli scardinare le rigide certezze medioevali e ad aprire la strada alla rinascimentale dignità dell'uomo sulla quale Pico della Mirandola poggerà la costruzione del nostro destino. La prima conquista ardimentosa coincise con l'anno della scoperta dell'America 1492 al Mont Aiguille mt. 2097 nel Vercors, regione Delfinato, avvenuta però con mezzi completamente artificiali, arpioni militari, corde lanciate sulle quali ci si issava, la stessa tecnica utilizzata per conquistare le fortezze, la realizzò il capitano Antoine de Ville su preciso ordina del Re di Francia. Sono ormai stati scritti innumerevoli libri sulla storia dell'alpinismo e comprendono tutte le montagne del pianeta, qui espongo le principali tappe al solo fine di offrire una miglior comprensione del pathos che lega l'alpinismo alla natura umana ed alla mitologia. Nella prima metà dell'Ottocento cadono tutte le vette dotate di quella che viene definita "la via normale", cioè la via più facile di accesso alla vetta, nella seconda metà verranno violate le montagne che richiedono non solo maggior impegno ed il pericolo è più elevato, simili imprese sono sopratutto gli inglesi a realizzare con l'aiuto delle guide locali, personaggi colti, bramosi d'avventura e dotati di forza spirituale, molti dei quali ecclesiastici, e comunque con tempo libero e dotati di mezzi economici. Nomi mitici come John Ball che per primo esplorò le Dolomiti, il reverendo Coolidge, Walker, Leslie Stephen, grande scrittore, Tyndall, Dent, Moore, nomi che denotano vie alpinistiche divenute classiche, che raggiungono la cima dalla via normale cioè la più facile via di accesso alla vetta, oppure percorrendo ardite creste, come fece Edward Whymper che nel 1865 legò il suo nome alla più bella vetta delle Alpi, il Cervino, salendo la cresta di Hörnli e precedendo di poche ore il rivale italiano Jean Antoine Carrel, il quale vi giunse dalla più difficile cresta Leone. Nella discesa morirono precipitando quattro componenti la cordata inglese, una delle tante tragedia dell'alpinismo, l’epoca pionieristica rinominata anche l'epoca d'oro: i primi lunghi alpen-stock, le scarpe chiodate, le corde di canapa direttamente legate in vita e assicurazioni a spalla. Le protezioni erano approssimative e il concetto di “catena di sicurezza” sconosciuto, cadere in quelle condizioni era morte pressoché certa, eppure si superarono difficoltà davvero ragguardevoli,  la fessura Mummery al Grepon sul Monte Bianco realizzata nel 1881 venne classificata di 4 grado che quarto, ancora oggi suscita lo stupore dei ripetitori. La seconda tappa, a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, si caratterizza per le difficili salite lungo le pareti, dalle solari sud di miglior roccia, alle nord innevate e con maggiori pericoli oggettivi, migliorano i mezzi tecnici: i ramponi da ghiaccio, i primi chiodi e moschettoni ad opera dei monachesi Fiechtl e Herzog, nuove tecniche di arrampicata, Dülfer inventò l'opposizione braccia/gambe con un arco tra loro di 90 gradi per salire le fessure verticali. Il quinto grado fu appannaggio del principe della libera, il viennese Paul Press, per lo più in solitaria e riservando di assicurarsi con chiodi solo se fosse stato indispensabile, così pure l'uso della corda  doveva ritenersi semplice ausilio, si dice che non arrampicasse, saliva accarezzando e sfiorando la roccia, per lui contava la purezza dello stile.

 Le vie vennero sempre più frequentemente ripetute e senza l'accompagnamento delle guide. Si arrivò così con gli anni venti al sesto grado, la prima via di sesto la nord-ovest alla Civetta, mille metri di dislivello con soli 12 chiodi e un Cuneo di legno, usati non solo come protezione della eventuale caduta ma anche come mezzo di progressione, quindi fu una salita con passi in artificiale, realizzata da Emil Solleder, anche egli di Monaco. Il sesto grado viene definito il massimo della difficoltà umanamente raggiungibile, dalla scala Welzenbach, scala quindi chiusa, così che si dovette nei decenni successivi, fino agli anni 70, svalutare le salite precedenti perché l'ultima realizzazione risultava più difficile di quella precedente, la contraddizione era insita nella stessa definizione. Ricordo solo i nomi di alcuni protagonisti del sesto grado, come Emilio Comici che si destreggia ai massimi livelli sia in libera sia in artificiale, con capolavori come la parete nord della Cima Grande Di Lavaredo e lo Spigolo Giallo, o come il fuoriclasse  Alvise  Andrich che a soli 19 anni supera lo spigolo sud-ovest della Torre Venezia e la nord-ovest della Punta Civetta, 800 metri di parete verticale, compatta e grigia, solcata a sinistra da una sottile fessura, Andrich supera una placca liscia e levigata, riuscendo a piantare un chiodo di protezione appoggiandosi alla parete con l'anca, "sulla tasca dei pantaloni" appena in tempo prima di cadere, volerà per tre volte prima di riuscire a vincere il difficile passaggio. Altri nomi che diventeranno celebri si aggiungono agli apritori di vie di quinto superiore e sesto grado, Detassis, Castiglioni, Gervasutti, Carlesso, Cassin, Vinatzer della Val Gardena si impone all'attenzione di tutti aprendo una variante diretta alla cima, gli ultimi 200 metri, della via Solleder, superando difficoltà ritenute allucinanti e tutte in libera. Arriviamo così alla  super-sfida, con tanto di retorica nazionalistica, per la conquista delle tre grandi pareti Nord delle Alpi, ancora inviolate. La prima a cadere delle tre Nord fu quella del Cervino, la meno difficile, che però vista da vicino già fa un certo effetto, si presenta come un gigantesco ammasso di pietre instabili, tenute insieme da gelo e ghiaccio, il tipico terreno di misto dove tutto rimane precario e l'assicurazione è più che altro un aiuto morale. I fratelli austriaci, Franz e Tony Schmid, vi giunsero nel 1931, in bicicletta da Monaco di Baviera, carichi di tutta l'attrezzatura e zaino in spalla, la salita non presenta difficoltà singole rilevanti, è però tutta impegnativa, non avrebbe consentito distrazioni o sbagli. Le Grandes Jorasses, viste da Montenvers, dove si può giungere con il trenino da Chamonix, sono imponenti, 1.200 metri di ghiaccio e roccia, suddivisi da sei speroni, due, i più compatti e noti Walker e Croz, torri granitiche interrotte da sottili strisce di ghiaccio, un poco più discontinuo il Croz. Famose cordate si alternano in più tentativi, tra le quali, il torinese adottivo Giusto Gervasutti con lo storico valdostano Renato Chabod, i ginevrini Raymond Lambert e la forte alpinista Loulou Boulaz, il francese Charlet, ottimo ghiacciatore ligio alla tradizione, si rifiutava di usare chiodi e intagliava migliaia di scalini sui ripidi pendii ghiacciati, infine cordate austriache, Haringer perì in discesa per il brutto tempo. Finalmente nel 1935 lo sperone Croz fu vinto dalla cordata Rudolf Peters e Martin Meier, precedendo di pochissimo Gervasutti-Chabod e Lambert-Boulaz. Non fu certo una competizione paragonabile ad una odierna gara sportiva, Gervasutti e Chabod scriveranno pagine tra le più belle della letteratura alpinistica, nel leggerle oggi evocano a chiunque emozioni ormai difficilmente eguagliabili . Nel 1938 il capolavoro di Riccardo Cassin con Esposito e Tizzoni, lo sperone Walker, sicuramente la via tecnicamente più difficile e impegnativa prima della seconda guerra mondiale, Eiger compresa. La Walker alle Jorasses rimane tutt'ora una delle vie più impegnative delle Alpi, ha dell'incredibile che i forti lecchesi non avessero mai visto prima di giungervi, né lo sperone, né il Monte Bianco. Lo stesso anno, dopo innumerevoli tentativi molti dei quali finiti tragicamente, cade anche l'ultima grande è terribile Nord: l'Eiger, nell'Oberland Bernese. 1.600 metri di nevai pensili incastonati su una roccia calcarea e mediocre, tagliati a metà parete dalla traversata Hinterstoisser, colui che la individuò, tutte le cordate si sfinirono su questa immane parete, terrificante e repulsiva, divenne il volto di Medusa, colei che con lo sguardo pietrifica chi osa sfidarla guardandola direttamente negli occhi, essi non erano dotati come Perseo di uno scudo capace di fargli da specchio e di calzari alati donategli da Ermes, ma solo di una infinita tenacia, di fortissime capacità di resistenza ed anche di una buona dose di fede che davvero stupisce. Caddero tra i migliori alpinisti, Sedmayer e Mehringer giunsero fino al famoso "bivacco della morte" e li rimasero, Tony Kurtz morì di sfinimento appeso alla corda a pochi metri dalla salvezza, l,imbocco del tunnel della ferrovia, per non essere riuscito a passare il nodo di giunzione delle corde di una "doppia" prolungata;  perirono anche gli italiani Sandri e Menti; si salvò invece dopo centinai di ore di lotta per la vita, il forte alpinista tedesco Mathias Rebitsch, ritirandosi dopo aver individuato il passaggio chiave per risolvere la scalata. L'impresa riuscì ai tedeschi Anderl Heckmair e Vörg e gli austriaci Kasparek e Harrer, poi noto per i racconti dei suoi viaggi in Tibet. Vale la pena riportare la descrizione della scalata della forte cordata tedesca fatta da Harrer: "Guardai giù lungo la nostra interminabile fila di gradini e vidi la nuova era che sopraggiungeva a velocità sbalorditiva. Due uomini correvano non scalavano lungo il nevaio verso di noi. Era sorprendente pensare che, attaccando quel mattino, avessero potuto fare tutto quel cammino; erano di certo i migliori candidati all'Eiger. Si trattava di Heckmair e Vörg (attrezzati con ramponi a 12 punte) improvvisamente mi sentii vecchio e sorpassato". Innovazione tecnica e sfida all'impossibile, nella storia dell'alpinismo si affiancano, si intrecciano, si scambiano di posizione, prima l'una e poi l'altra e viceversa ancora, fu così anche per la conquista del sesto grado, lo sarà negli anni 50/60 per rompere il muro del sesto grado della scala chiusa, e  della mitragliata di chiodi a pressione sui muri privi di appigli per spingersi oltre la verticale ed anche per ritornare alla purezza dello stile di Preuss con pochissimi chiodi di protezione, fino all'invenzione delle moderne protezioni rimovibili. Ma cosa spinse quegli arditi, per usare termini della cultura fascista dell'epoca, a quelle imprese oltre l'umanamente possibile? Erano solo dei pazzi fanatici? È sufficiente darne una spiegazione  della loro azione definendola esaltazione eroica?  Perché certi alpinisti amano arrampicare su roccia marcia, ghiacciata, sotto le cascate d'acqua, nei colatoi battuti dalle slavine, sotto la minaccia costante delle scariche di sassi, con la certezza che in caso di venuta di maltempo si è racchiusi in una trappola mortale?" Se lo chiede Gian Piero Motti nella sua bella storia dell'alpinismo, e risponde: "la realtà va studiata!" A che serve farsi impressionare dagli aspetti tragici e funesti che purtroppo ci furono, troppo banale dividere l'alpinismo buono da quello cattivo, occorre saper cogliere lo zeitgeist, lo spirito dell'epoca. Lo spirito romantico aveva lasciato il posto al decadentismo, la competizione nazionale veniva esaltata dai regimi nazista e fascista, anzi inculcata con la propaganda, Hitler incitò con premi la conquista dell'Eiger, in quel clima culturale l'uomo divenne nuovamente lupo, la morte tornò a farsi sentire come pulsione superiore così che la crescente e inaudita aggressività, finì per scaricarsi contro la natura e contro se stessi, pur non avendo nulla da guadagnare e tutto da perdere, l'Eiger divenne il drago da uccidere, la parete da conquistare ad ogni costo, un dovere, il nuovo imperativo categorico. La corsa alla conquista dell'Eiger fu preludio di quel che si sarebbe scatenato in dimensioni infinitamente più tragiche per l'intera umanità da lì a poco. Dal punto di vista della tecnica di scalata, si può osservare che tutte le nuove grandi imprese, sia i vincitori sia i secondi arrivati provenivano dalla " scuola orientalista" dolomitica e non da quella occidentale, morale: è più facile per un buon scalatore su roccia diventare anche un bravo ghiacciatore che non viceversa. Dopo la guerra l'alpinismo raggiunse difficoltà più elevate, il rischio rimase al centro dell'attività, ma non più ad ogni costo! Gervasutti realizza con Gagliardone nel 1946 il suo capolavoro, la Est delle Jorasses via di un'eleganza con pochi paragoni, Gian Piero Motti definisce Gervasutti il Michelangelo dell'alpinismo, non ha torto, la via verrà ripetuta poche volte, in solitaria da Marco Bernardi nell'ottanta e più recentemente, da Andrea Giorda e Massimo Giuliberti, accademici e istruttori della scuola di alpinismo Gervasutti di Torino. Gervasutti cadde nello stesso anno nel tentativo di liberare una doppia incastrata sul Pillier del Monte Bianco che ora porta il suo nome. Molte altre sono le imprese che si sono succedute e le figure di ottimi alpinisti, che non riporto, merita però tratteggiare con pochi cenni quella dell'ultimo alpinista definibile, forse, con il termine, eroico, Walter Bonatti, colui che è andato davvero oltre ciò che era ritenuto l'impossibile. Formatosi nell'ambiente dei "pel e oss" sulle vicine pareti della Grigna e dopo aver ripetuto tutte le vie più difficili esistenti a vent'anni, realizza di tutto e di più, vie difficili e spettacolari, come quella sula Est del gran Capucin nel 1951 con molti chiodi, nel 53 partecipa, il più giovane, alla vittoriosa spedizione sul K2 la seconda montagna più alta al mondo e pur non arrivando in cima è costretto a bivaccare senza tenda e sacco a pelo a quota 8.000 dando prova di possedere una tempra incredibile, nel 55 compie un impresa che lo renderà eroe nazionale della Francia, più ancora che dell'Italia, la salita in solitaria rimanendo in parete 5 giorni dello spigolo Sud-ovest del Petit Dru, con il celebre lancio della corda, diventata lazo, su una affilatissima guglia e facendosi pendolare nel vuoto per raggiungere la parete opposta. Bonatti osa l'incredibile, esaspera l'individualismo di Gervasutti, nel 1965 compie l'impresa che per  molti rappresenta l'apice, il compimento dell'alpinismo autentico, suggella l'ideale, il sogno di un alpinista: apre una nuova via su una temibile parete nord, in inverno e in solitaria, la Nord del Cervino, nessuno prima mise insieme tutti e tre questi aspetti. Nei 50 anni che ci separano dall'impresa di Bonatti, moltissime sono state le evoluzioni per poter superare difficoltà crescenti, sia nella preparazione atletica e tecnica del gesto sia nella invenzione di nuovi attrezzi e materiali, che hanno consentito record sbalorditivi. Con i ramponi ad attacco rapido e persino a monopunta, si salgono non soltanto le nord ma anche i ripidissimi couloire e le cascate di ghiaccio salite in piolet-tration. Sulle pareti di roccia verticali e strapiombanti vengono superati passaggi estremi, come  in Yosemite, muri infiniti di granito aperti usando centinaia di chiodi d'acciaio prima in artificiale e successivamente in libera. Al Camp Four si prepara con cura il materiale, dai chiodi a u in acciaio, ai rurp (realized ultimate reality piton) chiodi a lametta ultra-sottili, ai bong cunei di metallo da incastrare nelle fessure al posto dei vecchi e deteriorabili cunei di legno, agli skyhooks per agganciare micro tacche, ai copperheads dei piccoli cilindri di morbido piombo, spalmabili come chewing-gum, nelle increspature della roccia, l'artificiale estremo, brividi lungo la schiena.

 Sono giorni e giorni passati in parete e mesi al camp IV dove si continuano a vivere le atmosfere delle comunità hyppies, con le musiche degli anni 60 e 70 i Velvet Underground ed i Led Zeppelin, i Doors di Jim Morrison, la voce nera della bianca Janis Joplin's e le vibrazioni della Fender del nero Jimi Hendrix, le tre J dei movimenti giovanili contrapposti ai giovani integrati delle tre M (macchina, moglie, mestiere) al loro ritmo vengono ripetute vie che passeranno alla storia come il Nose e la Salathé al Capitan, aperte qualche anno prima da personaggi divenuti leggendari come Royal Robbins, il quale passò fino a 17 giorni da solo in parete, non c'è da stupirsi se per lui il concetto che meglio definisce l'alpinismo sia la Visione, la costruzione di un realtà altra, parallela, che si raggiunge penetrando l'oggetto osservato, molti iniziarono ad affiancare alle tecniche tradizionali di allenamento, quelle orientali, come lo Zen e lo Yoga, così da poter ampliare la percezione delle cose prefigurando nuove possibilità per la mente, una condizione spirituale raggiungibile anche con l'uso di sostanze naturali, come il Peyote un fungo dagli effetti allucinogeni o come la marijuana capace di rilassare l'emotività senza reprimere il desiderio. Fu proprio la liberazione del desiderio a far da detonatore la rivolta studentesca del 68, la potenza immaginifica della fantasia al potere contro la repressione e l'autoritarismo delle istituzioni, le gerarchie familiari ed una scuola nozionistica e classista, contro una società che sempre più barattava la libertà e l'emancipazione con il consumismo, una ribellione collettiva, nei cortei e nelle assemblee, in ogni parte del mondo, da Barkley nel 66 al Maggio parigino nel 68, da Francoforte a Praga, in ogni ateneo italiano, per il Vietnam e contro tutte le forme di imperialismo, fu in questo clima, certo in maniera più individualistica, che si aprirono nuovi orizzonti e nuove esperienze per l'alpinismo nostrano, il Nuovo Mattino così definito da Gian Piero Motti. 

 Fu proprio con la stagione del nuovo mattino, sul gneis-granitioide della Val dell'Orco al ghiandone della Val di Mello, che meglio di altre ricordano le pareti granitiche della Yosemite, nella prima parte degli anni 70 che furono aperti itinerari i cui nomi evocano la rivoluzione californiana e la tradizione millenaria dell'Oriente, nella prima parte degli anni 70 che furono aperti itinerari i cui nomi evocano la rivoluzione californiana e la tradizione millenaria dell'Oriente, le rivolte e i genocidi dei pellerossa in America, dando autonoma dignità a strutture di media montagna senza giungere ad alcuna cima. Nella bella raccolta curata da Enrico Camanni, Nuovi Mattini, vengono riportate le parole di Fernanda Pivano "La vita del desiderio sprigionata in un annullamento totale del super-io ...Unica legge l'energia vitale, unico stimolo l'amore per la vita, unica realtà l'ansia di sopravvivenza" (Da c'era una volta un beat).  La prima fu Tempi Moderni nel 1972 al Caporal, così battezzato per richiamare la più prestigiosa parete del Capitan, aperta dalle cordate Motti-Boreatti e Manera-Leone, Ugo Manera il bravo alpinista della generazione precedente, poi vennero nomi come: Itaca nel Sole, il Lungo Camino dei Comanches, Sole nascente, via della Rivoluzione, ll diedro Nanchez, la Cannabis e in Val di Mello e Masino Luna Nascente, il risveglio di Kundalini, l'alba del Nirvana, Oceano Irrazionale, la dimensione per eccellenza rimane, il viaggio, la scoperta, l'avventura, non la mera prestazione sportiva. Il via libera ai freni inibitori per far accettare i nuovi mezzi di protezione avviene anche con l'allegria canzonatoria e scherzi audaci, all'apertura di una nuova via alla Torre di Aimonin, quando la seconda cordata, guidata da "Pan e Pera" il nomignolo nel frattempo affibbiato a Manera, si trova a dover superare un difficile passaggio, una dülfer frontale, si accorge che non vi è in posto alcuna protezione lasciata dalla cordata precedente, un chiodo si vede diamine, allora il nostro si decide a procedere senza protezione, arrivato poi al termine della via, si vede sventolare sotto il naso un nut che Motti e lo scozzese Kosterlitz avevano incastrato nella fessura e poi tolto, dicendogli: "Pesce d'Aprile" in effetti era il primo di aprile del 1973 e così la via fu chiamata, probabilmente Manera si sfogò del pericolo corso gratificandoli con titoli adeguati. 

Queste strane nocciole non erano ancora conosciute in Italia, i primi nut furono inventati dai trasgressivi inglesi, bulloni rubati e tolti dalle traversine della linea ferroviaria passandoci nel buco una fettuccia, diventano così un blocchetto da incastrare nella fessura e facilmente asportabile. La rivolta di una generazione per liberare l'energia repressa dalla società borghese diventa, per i protagonisti del Nuovo Mattino, ripudio della vecchia società alpinistica, con i suoi riti da caserma e sagrestie, rifiutando gli obblighi sacrificali della lotta all'Alpe (a Reggio Emilia viene fondato il gruppo pace con l'Alpe) l'espiazione su cime piene di croci, i pantaloni alla zuava e gli abiti grigi per la carriera e per la domenica, le gerarchie, i distintivi, le accademie, per sostituirli con abiti colorati, fasce nei capelli, orari rilassati, allegri bivacchi sugli altopiani allietati dalla voce di giovani fanciulle, pareti solari e cielo stellato.

Il decennio che si era aperto all'insegna di una rivolta, anche ambigua, come lo slogan vietato vietare ma sostanzialmente pacifica, si chiuderà nel 77 con i cupi "anni di piombo" e la degenerazione nel terrorismo, nel periodo seguente, quello definito del riflusso, anche l'arrampicata finirà per adeguarsi all'unica virtù richiesta dall'esasperazione del mercato, dare sempre il massimo, ciò che conta è la prestazione, il risultato, il record. In ogni parte del mondo si superano pareti di mille metri su difficoltà ben oltre il settimo grado, nei mono-tiri si è arrivati al 9c in scala francese, distinguendo se lavorati (più tentativi) oppure on sight (a vista), nella stessa giornata sono state salite le tre grandi Nord in pochissime ore, tutti i 14 ottomila sono stati raggiunti da più versanti e dalla medesima persona, Messner fu il primo. (sopra Reinold Messner sul Nanga Parbat). La prima gara di arrampicata sportiva si tenne nel 1985 a Bardonecchia (vinta da Stefen Glowacz, nella foto a fianco) ed i record, inseguiti e battuti uno dopo l'altro, sembrano aver soppiantato lo spirito dell'alpinismo, ma l'alpinismo non è morto, anche se le condizioni nelle quali lo si esercita oggi, non sono certo paragonabili a quelle nelle quali si compì l'ultima grande impresa di Walter Bonatti.
 L'alpinismo non è morto
L'essenza dell'alpinismo consiste nel mettersi in gioco, affrontando e calcolando il rischio, il pericolo è sempre presente e l'imprevedibile non scompare, questo l'alpinista cerca nei luoghi sublimi, affascinanti perché terribilmente belli, attraenti e repulsivi al tempo stesso, anche se rispetto all'alpinismo classico il "non conosciuto" è ormai quasi del tutto scomparso. La montagna, la natura, non va addomesticata, o resa artificialmente accessibile a tutti, ci sono luoghi e vie che per scelta etica devono essere lasciati come li hanno trovati e saliti i primi scopritori, perché così come sono state aperte possano ripeterle le generazioni future, perché si continui ad ispirarsi ad un alpinismo di ricerca, come sostiene Alessandro Gogna, perché ognuno di noi abbia la possibilità di dire "ho fatto questa via", l'ho ripetuta quasi nelle medesime condizioni di un Mammery o di un Bonatti. Difficilmente si sente dire da un alpinista, ho percorso quella via, ma "ho fatto quella via", il fare e il conoscere si uniscono come afferma la filosofia di Gian Battista Vico, conosciamo veramente solo ciò che facciamo, che inventiamo, come la matematica e la storia, in questo senso l'alpinismo è un' arte, cioè la realizzazione di un "sapere in azione", lo ricorda molto bene Massimo Mila, critico musicale e accademico del CAI, in scritti di montagna. Certo non è più possibile e forse neppure auspicabile, affrontare le montagne con il medesimo grado di rischio e lo stesso livello del non conosciuto degli anni dell'alpinismo classico. L'attrezzatura di oggi non è neppure paragonabile a quella dei due secoli passati, la sua elevata affidabilità tecnica potrebbe davvero suscitare in ognuno di noi,  anche se non filosofi approdati al principio disperazione  che anima le analisi di Günter Anders, a quella "vergogna prometeica" da lui individuata, che ci fa sentire esseri umani antiquati al cospetto della perfezione raggiunta da quei prodotti altamente tecnologici realizzati con la moderna produzione. Per l'alpinista però, il dislivello psicologico nei confronti del "muro invalicabile" permane, nonostante i progressi delle tecniche di allenamento in grado di costruire muscoli più potenti ed una maggiore resistenza aerobica; la leggerezza dei materiali, del cibo e dell'abbigliamento da mettere nello zaino, che diminuisce sensibilmente il peso del macigno da portare, come  la conoscenza del terreno da percorrere, ormai studiata con occhio satellitare; si arriverà alla perlustrazione della via da percorrere con i droni? Vi sarà la pianificazione totale? Ad anticipare con video sull'i-phone la scalata che si sta per compiere? Troppe sono le vie intasate da una sovrabbondanza di protezioni, snaturandone così il tracciato, deformando e rovinando la roccia e spesso, data la confusione, diminuendo anche la stessa sicurezza, i meno esperti rischiano di scegliere paradossalmente le protezioni meno affidabili. Dove è possibile scegliere di proteggersi con mezzi amovibili, come quelli inventati in California nei primi anni 70, diventa una scelta di etica coerente nei confronti di una natura perché rimanga nelle medesime condizioni di come è stata trovata al primo passaggio e torni la via pulita come prima per coloro che vorranno ripeterla, l'ultimo di cordata recupera il materiale lasciando in posto il meno possibile. Ripetere una via classica o comunque proteggibile, trovandovi una mitragliata di spit, riducendo l'arrampicata a mero esercizio ginnico, è la morte dell'alpinismo, vera e propria degenerazione, Messner lo definisce: l'assassinio dell'impossibile. Il cerchio si compie, il ritorno al futuro è sul cammino intrapreso da Preuss e si realizzerà ogni volta che un arrampicatore solitario, un elfo, ripeterà vie che prima furono realizzate con mezzi artificiali o di protezione, Alexander Huber, ad esempio, ripeterà la Hasse-Brandler alla cima grande di Lavaredo in free solo cioè: in libera, in solitaria e senza corda; difficoltà fino al 7a+ nel 2002. Capostipite fu Christophe Profit che a 21 anni, nel 1982, in tre ore e dieci minuti, scala i 1.100 metri della diretta americana al Petit Dru in free solo, difficoltà fino a 6c. Poi nel 1986, il grandissimo Wolfgang Gullich scalò ad incastro una fessura su un tetto orizzontale in Yosemite, aperta da Ron Kauk, di 7a+ sempre in free solo, con 350 metri di vuoto sotto il culo, la celeberrima Separate Realty, che riprende il titolo del romanzo cult del 68 di Castaneda, chissà se per  prepararsi  "al viaggio", la sera prima, contravvenendo alla rigida morale luterana, si cucinò un bel piatto a base di Peyote. Gullich fu anche il primo a portare il limite delle difficoltà al 9a con Action Directe nel 1991 dopo aver raggiunto, 8b con Kanal um Rucken e 8c con Wall Street, tutti in Frankejura, perse la vita a fine agosto del 1992 per un banale colpo di sonno guidando l'auto mentre si recava ad una trasmissione radiofonica di mattino presto. 

Troppi sarebbero i nomi da ricordare che hanno dato un contributo di prestazioni nell'affermazione del settimo grado, da Kurt Albert, il primo settimo grado riconosciuto a Cozzolino, allo stesso Messner, che fece un passaggio al sass Maor perfino superiore al settimo. leegati all'immaginario della generazione che iniziò a scalare nei primi anni ottanta e che mi fa particolarmente piacere ricordare, sono i grimpeur francesi, come Patrick Bérhault, Patrick Edlinger e Catherine Destivelle, autentici danzatori sulla roccia, con relativi filmati, dalle falesie della Provenza, alle esibizioni nelle meteore in Grecia, alle imprese a piedi nudi (altro che "la montagna a mani nude" di Desmaison, espressione che stupiva il pubblico inesperto ) nel verticalissimo Canyon du Verdon, dove anche i nomi delle vie richiamano la ricerca  filosofica, da sorvegliare e punire titolo di un libro di Foucault che indaga la governamentalità e la bio-politica, alla Demande, la prima via aperta in quella falesia alta 300 metri la cui peculiarità risiede nel fatto che per moltissime vie prima ci si cala e poi si arriva in cima, sempre che si riesca a passare in libera la difficoltà obbligatoria. È il concetto di libera che caratterizza l'arrampicata e l'alpinismo. Paul Preuss non era un improvvido, uno scriteriato, niente affatto, egli individuò sei regole che definivano l'etica dell'alpinismo:  
1)     non solo si deve essere all'altezza delle difficoltà, ma nettamente superiori ad esse.
2)     I passaggi che si scalano in salita, si devono saper fare anche in discesa senza uso di corda.
3)     I mezzi artificiali sono giustificati solo in caso di pericolo.
4)     Le protezioni non devono costituire il fondamento della scalata, vanno usate solo in caso di necessità.
5)     La corda deve rimanere una facilitazione, non un mezzo indispensabile.
6)     Su tutto deve prevalere il principio di sicurezza, che si basa sull'azione preventiva, sul giusto apprezzamento delle proprie forze, non l'utilizzo forzato dei mezzi artificiali.
La definizione di alpinismo diventa così esprimibile in un postulato apparentemente paradossale: "il massimo di pericolo, affrontato con il massimo di prudenza". È sufficiente questa definizione a contrastare giudizi assoluti e infondati quali: "fare alpinismo per chi ha responsabilità familiari è egoismo puro". Ad ogni modo non si tratta di stabilire una divisione tra buoni e cattivi, differenti etiche possano coesistere (vie interamente proteggibili , vie protette a split)  ma nel rispetto di come sono state aperte e preservando un terreno di avventura la dove la conformazione della roccia lo consenta, che senso avrebbe raggiungere una meta aggredendola? Barando? Snaturando la roccia?Così pure non ha senso contrapporre purezza a profanazione, vie moderne con forti difficoltà su meri verticali e strapiombanti, di roccia compatta, sono proteggibili solo con l'uso degli spit, ma la montagna non deve diventare un unico parco giochi così come non si deve adeguare alla sola logica economica e professionale del business delle guide e dei gestori dei rifugi che alle volte prevale in modo eccessivo dietro la parvenza della sicurezza.Minor uso possibile degli strumenti tecnici non significa affatto diventare temerari ed imprudenti, nulla di irragionevole, un atteggiamento responsabile, come conoscere le previsioni del tempo e le condizioni climatiche, oggi possibile con alta probabilità, è segno di previdenza, specialmente per quelle salite dalle quali è difficile intraprendere una via di fuga da metà parete, atteggiamento consigliabile per la propria salvaguardia e per quella di altri che metterebbero in pericolo la propria esistenza per organizzare il soccorso.
Cosa cerca, l'uomo moderno, con l'alpinismo? 
Quale bisogno spinge Sisifo a ripetere ad infinitum la sua salita? E noi uomini che viviamo nell'età della tecnica a lasciare le comodità e gli agi della vita nelle moderne metropoli ed a spingerci in luoghi relativamente selvaggi e poco conosciuti? Cosa ci spinge alle volte, a cercare di mangiare un frutto coltivato da noi personalmente, il bisogno di raggiungere una meta con le proprie gambe, ad adoperare un tavolo costruito con le nostre mani?
Forse, proprio il rifiuto di adeguarci ad un mondo artefatto, addomesticato e servito a domicilio, il desiderio di uscire nel mondo, la brama di andare in luoghi sconosciuti, di trovare una resistenza e di far fatica nel vincerla, un desiderio di liberazione e di autenticità. Resistenza e liberazione, sono anche i termini che hanno espresso le migliori pagine scritte con il sangue nella storia per la libertà e la pace del nostro paese, nel sacrificio della lotta partigiana contro il nazifascismo e per la democrazia, lotta condotta prevalentemente sui monti per colpire le retrovie delle truppe occupanti e per sfuggire ai rastrellamenti, quanti chilometri percorsero le staffette partigiane sui sentieri di montagna, dal colle del Lys all'inizio della Val Susa all'attuale rifugio Stellina, nome della famosa brigata del comandante Guido Bolaffi, per ricordare un percorso classico vicino a Torino. L'alpinista, innanzi tutto, ha un cuore indomito che non può trovare soddisfazioni nelle normali e scontate azioni della vita quotidiana. Cerca l'imprevedibile, vuole l'avventura, brama l'impossibile per poterlo sfidare.
Come Ishmael, nel Moby Dick di Herman Melville (il romanzo preferito da Giusto Gervasutti) gli alpinisti, non solo loro, vogliono scacciare lo spleen, lasciare alle loro spalle la tristezza e la noia, la scalata "è la loro alternativa a una palla di pistola". La vita quotidiana risulta loro insopportabile, sempre le stesse cose, gli stessi gesti, la medesima monotonia, tutto è scontato, ripetitivo e banale; come i gesti degli addetti alla catena di montaggio, della fabbrica fordista, gesti che all'inizio gli operai fanno fatica ad acquisire e che poi continueranno a ripetere per il resto della loro vita, anche quando avranno finito il loro turno di lavoro, come si vede in tempi moderni di Chaplin. "Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini, che penano rinchiusi nel recinto sociale che sono riusciti a costruirsi contro il libero cielo e che non sanno e non sentono ciò che io sono e sento in questo momento. Ieri ero come loro, tra qualche giorno ritornerò come loro".  Così scrive il fortissimo dopo la salita in solitaria al Cervino compiuta nel giorno della vigilia di Natale, appellativo che Gervasutti si era meritato per le sue prestazioni atletiche con lo sci-alpinismo, al trofeo Mezzalama sul Monte Rosa. È la storia stessa dell'alpinismo, come abbiamo visto, che trasforma e supera le frasi retoriche indicative dei condizionamenti culturali di ogni epoca, come lo stesso motto di Gervasutti : "osa, osa sempre e sarai simile ha un Dio" o di Guido Rey " credi e credetti la lotta con l'alpe, utile come il lavoro, bella come la fede, nobile con un arte" scritta apparsa per decenni sulle tessere del CAI. Alla ricerca di un processo di liberazione, un tempo di vita liberato, seppur momentaneamente, dalle costrizioni per la sopravvivenza, dalla stretta lavoro-consumo, da un lavoro spesso alienato e alienante, finalizzato esclusivamente all'utile economico; le passioni e gli interessi, nella società borghese, finiscono, troppo spesso per ridursi ad un unico interesse: l'accumulo di ricchezze, spropositato per pochi e inseguito dai più. Una vita consumata solo per il lavoro e dal lavoro, allo scopo di possedere il maggior numero possibile di oggetti  finisce per diventare una vita asservita, non vissuta, vuota; ad essa si contrappone non il diritto all'ozio, l’otium latino contrapposto al negotium, dal significato meramente negativo di inedia, ma la scholè degli antichi greci, un’attività priva di scopo, tempo di vita liberato, Vita Activa. L'alpinismo, come anche la libera frequentazione della montagna, può rappresentare un antidoto che si contrappone ad una vita scontata e unidimensionale, la conquista dell'inutile come ricorda il bel titolo del libro della guida francese Lionel Terrey, riapre tutto il ventaglio dei colori delle passioni che animano lo spirito umano, se per Sisifo la felicità occorre immaginarla come consapevole accettazione della sua condizione, per l'alpinista, se pur condensata in pochi attimi, è il risultato che si dispiega nell'intero sviluppo della scalata; dalla meta sognata, alla preparazione  della salita, alla conclusione della via, che non sempre coincide con il raggiungimento della cima, l'alpinismo moderno privilegia la scelta dell'itinerario in base alle difficoltà e alla eleganza estetica, il percorso scelto risulta ancora più faticoso. Il filosofo Hyppolite illustra la fatica del concetto in Hegel con la metafora della scalata alpinistica, racchiusa nello sguardo dell'alpinista che una volta giunto ad un solo ultimo passo dalla vetta si volta indietro e ripercorre l'intero tragitto, dalla base della parete, al susseguirsi delle lunghezze e delle soste, al superamento del passaggio chiave, la fatica e l’ascesi sono l'insieme del percorso, questo da consistenza al concetto stesso, e valore alla scalata, peccato che il grande filosofo tedesco definisse le montagne delle masse informi, altre menti invece, vedranno in esse la raffigurazione dello slancio e della bellezza architettonica delle cattedrali gotiche. Come la meta non è mai raggiunta una volta per tutte e la felicità si presenta sempre nella contrazione di attimi temporali, lo stesso processo di liberazione non è mai definitivamente acquisito, si ricade immediatamente nell'abulimia non appena si riaffacciano le frustrazioni e le contraddizioni della quotidianità, come la competizione esasperata e fine a se stessa, alla gioia subentra nuovamente lo stress, e la schiavitù si ripresenta nella forma di una completa subordinazione al risultato da raggiungere a tutti i costi. In aria sottile il bravo alpinista e giornalista statunitense Krakauer, descrive l'esasperazione del business al campo base dell'Everest, 100.000 dollari per essere trascinati sulla più alta montagna del pianeta, a quel fine si sacrifica tutto e non ci si ferma per alcuna ragione al mondo, neppure per tenere la mano, per pochi minuto, di un uomo morente, qualche metro sotto la  vetta, la giustificazione è pronta "ognuno sa che lì si rischia la vita, dalla morte non lo salverò, tanto vale che io prosegua verso la cima" quello che non sa è che così facendo quell'uomo perde ciò che è più proprio della sua condizione umana, perde la sua umanità. L'ascensione non ha più nulla a che fare con l'ascesi, il percorso che avrebbe dovuto innescare un processo liberatorio per una vita vissuta in tutta la sua pienezza diventa fasullo, pura illusione, un fallimento che finisce per vedere solo più l'alpinismo e niente altro. "L'alpinismo diventa una droga, ti crei l'infelicita con le tue stesse mani, andavi ad arrampicare quando lo desideravi, quando dentro di te sentivi il sangue fremere e friggere, quando avevi desiderio di sole e di vento, di cielo e di libertà" così si esprime Gian Piero Motti nel celebre articolo i falliti nel mensile della rivista del CAI apparso nel 1972, uno scritto che farà di Motti un personaggio simbolo di tutta una generazione, e prosegue "incontrerò una sera di inverno Guido Rossa, il quale, fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l'anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo". "Mi dirà che l'errore più grande è di vedere nella vita solo l'alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna e perché? No; ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l'avventura e per stare in allegria insieme agli amici". Guido Rossa meriterebbe un capitolo a parte, diversi libri sono stati scritti su di lui, inizia ad arrampicare giovanissimo, alla fine degli anni 40, anche lui come Gervasutti arriva a Torino dall'est, lo contraddistingue un carattere anarchico e ribelle, in netto contrasto con la severità ed il grigiore dell'ambiente alpinistico torinese, si scatena silenziosamente ripetendo da solo vie come la sud della Noire, aprendone alla parete dei militi dopo esservi arrivato in bicicletta, inventando dei rudimentali spit e cliff-hanger con i quali apre la via sulle placche Gialle alla Sbarüa che porta il suo nome, la capacità manuale gli deriva dall'essere operaio prima alla FIAT poi all'italsider di Genova, la sua figura di alpinista sfugge ad ogni definizione, è trasgressivo e dissacrante come quando sale in solitaria, in giacca e cravatta e scarpe con suole di para la Gervasutti alla Sbarua, anticipa il Nuovo Mattino di Motti e degli anni 70. 

 Guido Rossa non è solo un bravo alpinista, è un operaio sindacalizzato, anche in questo ambiente è duro e tenace, capace di essere primo di cordata e di chiudere gli accordi in fabbrica, aderisce al partito comunista di Berlinguer, ha le qualità del leader sindacale ma vuole rimanere un delegato operaio di base; l'esperienza in fabbrica, con la gestione delle lotte e la lettura di buoni libri  fanno di Guido Rossa un uomo dalla mente colorata e poliedrica come fu quella di Ulisse.  È un operaio colto, studia il pensiero analitico di Wittghestein e negli avvicinamenti racconta ai compagni la critica di Marcuse alla società appiattita in un unica dimensione. La sua coerenza etica e politica lo condurrà alla morte, verrà assassinato dalle B.R. Il 24 gennaio del 1979 quattro colpi alle gambe ed uno al cuore, quello mortale, pare non previsto, sparato da Riccardo Dura, per aver tempo prima denunciato l'operaio Berardi, postino delle B.R. in Italsider. Dura perirà in uno scontro a fuoco con i carabinieri di Dalla Chiesa, Berardi si impiccherà nel carcere di Cuneo e il suo avvocato difensore Arnaldi si sparerà all'arrivo della polizia, una tragedia. La vicenda Guido Rossa è emblematica sia del ritardo nella lotta al terrorismo, fu lasciato solo unico firmatario della denuncia, sia dell'implosione del terrorismo e della sua sconfitta, con quell'attentato le B.R. compirono il loro suicidio politico, oltre centomila lavoratori e persone parteciparono, sotto la pioggia, al suo funerale, sentirono le accorate parole di Lama segretario generale della C.G.I.L. e la commozione di Pertini presidente della Repubblica, compresero che non vi era più spazio per slogans ambigui come "né con lo stato né con le B.R." Questa volta non era più plausibile indugiare, era stato ucciso uno di loro, il più coerente. Franco Ribetti ricorderà come pochi mesi prima, al convegno dell'accademico del CAI a Torino Rossa gli disse: "T sas ch'a veulo feme fòra? E prosegue sempre in piemontese, va a finire che ho rinunciato a far carriera in fabbrica per il sindacato è adesso quegli altri mi fanno fuori". Il monito di Motti e di Rossa, affatto dissimile dal significato dei miti di Sisifo e di Prometeo è di fare qualcosa per gli altri, di superare la ristretta visione delle cose, l'ignoranza e il disprezzo per i comuni mortali, cioè quella mentalità superba e presuntuosa di chi si crede importante, di chi vive solo per la difficoltà, per primeggiare e per realizzare la grande impresa che faccia notizia, così facendo finirà per smarrire se stesso e la riappropriazione di senso e di liberazione che nella pratica dell'alpinismo possiamo riscoprire. Un grande scrittore della resistenza e della lotta di liberazione, Beppe Fenoglio, nel partigiano Johnny ci ricorda "quant'è grande un uomo nella sua normale dimensione umana." La condizione umana, proprio perché assurda, sceglie la rivolta di Prometeo, non per sentirsi dei super-eroi o super-uomini, semmai un "oltre-uomo", che osa ribellarsi e sfidare gli Dei perché sa che deve contare su se stesso, nella relazione con gli altri, per dare un senso alla propria esistenza.
Prometeo e il fare per altri
Secondo Esiodo, gli uomini e gli dei hanno la stessa origine, all'inizio fu voragine o Caos un tutto indistinto, primordiale, Gea, la madre Terra, faceva da pavimento ad Urano, non ancora divenuto cielo stellato, il quale la sovrastava costantemente non smettendo mai di fare l'amore, tanto che essa non riusciva neppure a partorire, finalmente nacque il Titano, Kronos, che riuscì, con un falcetto d'acciaio, fabbricato da Gea, a tagliare in un sol colpo gli organi genitali e il membro virile di suo padre, Urano lanciò un urlo incredibile, si staccò da Gea e si formò per sempre Il cosmo così come lo conosciamo, lo spazio e il tempo nel medesimo istante.  Spiegazione meno scientifica ma più affascinante del Big-Ben. Gocce del sangue di Urano caddero sulla Terra, nacquero i Giganti, i Centobraccia, le Meliadi, (le Ninfe dei frassini), tutte generazioni dell'età del bronzo e dalla speme marina, nacque la Dea Afrodite. Zeus, nacque da Kronos e Rea ed anche egli dovette rivoltarsi al padre, ma questa è un altra storia e dovette combattere a lungo per diventare Re degli Dei. L'uomo primordiale, nacque direttamente dalla terra, quando essi non erano ancora mortali e neppure divisi nei due generi, maschio e femmina e potevano partecipare ai banchetti insieme ai divini. Il primo dei tre episodi che caratterizzano il mito di Prometeo, avviene proprio in un banchetto, nel quale Zeus invita Prometeo a predisporre la divisione del cibo tra gli dei e gli uomini primordiali. Allora Prometeo prese un grosso toro, lo tagliò in due parti e accuratamente spolpato, avvolse le bianche ossa nel lucido e succulento grasso in modo che non si potessero vedere, sminuzzata la carne mista a frattaglie la mise in altro lenzuolo, nessuno dei due contenuti interni era visibile, a questo punto Zeus disse: " figlio di Giapeto, che parti disuguali hai fatto" e Prometeo allora rispose: "Zeus, celeberrimo e massimo tra gli Dei eterni, scegli  tu la parte che ti aggrada".  Zeus scelse la parte più appetitosa alla vista, bianca e grassa, accortosi dell'inganno tesogli si adirò, ma non se la prese direttamente con Prometeo, del quale aveva riconoscenza perché mai lotto contro di lui, ma se la prese con gli uomini, che Prometeo visibilmente volle aiutare con l'inganno, allora Zeus nascose loro il fuoco, che prima era disponibile a tutti, sugli alberi, quando venivano colpiti dai fulmini. Zeus e Prometeo hanno in comune la temerarietà, entrambi discendono da Titani. Prometeo è "colui che vede in anticipo" metis significa prudenza, veggenza, è astuto, cioè  agisce in modo tale che gli avvenimenti vadano nella direzione precedentemente auspicata. Epimeteo “colui che impara da solo” il fratello, è il suo opposto, prima agisce e poi riflette su cosa fa, è l'improvvido.  Entrambi i significati sono contestualmente i due aspetti che ritroveremo in tutti i mortali, in coloro che sempre saranno famelici, che avranno costantemente bisogno di cibo e di energie per sopravvivere, proprio perché privati del dono divino dell'eternità, cioè di quella sostanza contenuta nelle bianche ossa, il midollo osseo, che è simbolo portatore di vita eterna, a questo punto si comprende  come la metafora della spartizione, rappresenti la falsa sconfitta di Zeus, anch'egli dotato di astuzia (ingoiò Metis l'astuzia) e ingannatore, una bella lotta con Prometeo "dal pensiero tortuoso". Quando poi gli Dei formarono sotto terra gli uomini e vollero portarli alla luce incaricarono Prometeo e Epimeteo di distribuire a tutti gli esseri della Terra le capacità secondo ciò che aspettava a ciascuno. Epimeteo ottenne da Prometeo di procedere da solo alla distribuzione. L'imprudente distribuì tutto agli animali, dotandoli di mezzi adatti e di istinto naturale, in grado di essere auto-sufficienti e non rimase niente per gli uomini, nudi ed indifesi. Fu allora che Prometeo dovette nuovamente intervenire e sfidare gli Dei, rubare loro il fuoco di Efesto, che Zeus nascose in cielo. Anche in questa impresa Prometeo ricorse ad uno stratagemma, prese una pianta di ferola che ha la proprietà di essere verde esternamente e secca internamente, in modo tale che poté nascondere il fuoco, sperma pyros, nell'incavo, così da sembrare una passeggiata protetta da un parasole di ferola.

 Così Prometeo riporta agli uomini il fuoco tecnico, che consente loro di scaldarsi e di mangiare cibi cotti, il fuoco è il simbolo della capacità tecnica e della cultura umana, ciò che li differenzia dagli animali e li costituisce come creature civilizzate. Insieme al fuoco Zeus nascose loro anche il bios la vita, i germi di grano, orzo, cereali, che ora grazie a Prometeo, e alla capacità di opporre il pollice alle altre dita della mano, potranno coltivare arando la terra, con la fatica e potranno conservarli, a loro non è dato di nutrirsi di nettare e ambrosia, così scesero dagli alberi e si incamminarono nella savana alzando lo sguardo al cielo. Il fuoco umano deve però anch'esso continuamente alimentarsi, non è fiamma divina, e proprio in questo ricorda l'aspetto di una belva che quando si scatena non può più fermarsi, forse fino a provocare un giorno una una reazione a catena  in grado di distruggere, anche più volte, il nostro pianeta. Questo è il rischio insito nel concetto di progresso tecnico, il fuoco sottolinea la specificità umana, che da un lato ricorda continuamente la sua origine divina, dall'altro la sua impronta ferina. L'empio Prometeo profanando la dimora dei divini non si è limitato ad una temporanea rivolta di maggio, egli ha svelato ai mortali tutte le tecniche, rendendoli consapevoli della loro strategica potenza, essi però da artefici del proprio destino, possono ridursi a semplici funzionari al servizio della tecnica, incapaci di governarla, anzi trasformarsi in belve feroci che divorano e distruggono la natura ed ogni forma di vita. Non sfugge a questa natura ambivalente anche il miglior alpinista, la sua azione può essere caratterizzata da Metis, cioè da quella particolare forma d'intelligenza capace di escogitare con ampio anticipo gli espedienti necessari per riuscire nell'impresa, quella prontezza di spirito e scaltrezza che permette di piegare gli eventi a proprio favore, anche e sopratutto quando la situazione tende a peggiorare, nel momento del pericolo; oppure può o perdere il controllo di se stesso e sottomettersi al panico, rischiando la catastrofe, oppure anch'egli ridursi a barare, con la natura e con se stesso, trasgredendo il principio etico che si è dato e trasformando il libero gesto dell'arrampicata in misero valore, cioè tira il chiodo, e quel che è peggio nega di averlo fatto, la tentazione quando si sta per volare è forte e comunque è difficile, quando si è in difficoltà, rinunciare all'aiuto tecnico per riuscire nella progressione, la scalata rischia in ogni momento di diventare un scala a pioli, perdendo così la sua essenza. In ogni attività umana la difficoltà sta nel darsi un limite, oltre al quale non si deve andare, per gli antichi Ananke, la necessità, era più forte della tecnica e per millenni prima le divinità e poi il Dio monoteista, hanno imposto il limite, funzionavano da Katechon, da freno, oggi sappiamo che solo noi possiamo darci un limite, ma abbiamo constatato che grazie al progresso tecnico successivamente sono accresciute nuove capacità umane, da un lato la volontà spinge per superare tutti i limiti, dall'altro la consapevolezza ci dice che potremmo oltrepassarlo fino ad un punto di non ritorno. Nel Prometeo incatenato Eschilo lo rimprovera e mette in guardia, "nei doni concessi non sei andato troppo oltre? _ Si, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale _ Che tipo di Pharmaco hai scovato per questa malattia? _ Ho posto in loro cieche speranze. Senza la tecnica e la speranza di sopravvivere e vincere la morte, l'uomo non potrebbe esistere, date le sue carenze biologiche e privo di istinto naturale, non avrebbe potuto sopravvivere. Invece, grazie ai doni di Prometeo, gli umani sono riusciti a sviluppare una capacità simbolica di scrittura e di linguaggio, la facoltà di discernere e una memoria a lungo raggio, la possibilità di costruire un mondo per noi vivibile trasformando la natura, piegandola per supplire alle nostre carenze, ma noi oggi ci stiamo comportando come un Prometeo scatenato che sta mettendo in serio pericolo la salute del pianeta, la sua biodiversità e la sua bellezza.
Anche in questo l'alpinismo e lo spirito d'avventura, possono costituire un moderno Pharmaco, un antidoto all'eccesso di potenza e di astratta razionalità, ricorrendo al lascito di Prometeo: il calcolo, la misura e il retto consiglio. Il retto consiglio, come sappiamo, non fece breccia in suo fratello Epimeteo, che pure da Prometeo fu avvisato di non accettare un eventuale dono da Zeus. Zeus quando si accorse che gli uomini erano tornati in possesso del fuoco, decise una doppia punizione, una rivolta contro colui che compì l'oltraggio, l'altra direttamente inflitta ai mortali. Prometeo fu condannato ad essere incatenato alla rupe del Caucaso per trentamila anni, di giorno un aquila gli mangiava il fegato, che poi di notte tornava a crescere, un atroce supplizio, fu liberato dopo 13 generazioni da Eracle, il quale abbatté il rapace torturatore con una freccia, punito per la sua amicizia per gli umani fu salvato perché di stirpe divina. Agli uomini invece tocco un supplizio ben più subdolo, poiché ammantato di una bellezza folgorante che non avrà fine: la creazione della donna. Zeus incarica Efesto, abile con il fuoco a forgiare armi, di costruire un statua di straordinaria bellezza, costruì una specie di manichino bagnando con acqua la creta e dandole forma graziosa di fanciulla vergine, una Lolita mitica, che avvolta in splendidi vesta e adornata da meravigliosi gioielli da Atena e Afrodite, andò a bussare alla porta di Epimeteo. Alla visione di Pandora,  figura affascinante e seduttrice, Epimeteo rimase folgorato, stupefatto,  una "meraviglia che innamora" non seppe resisterle, gli aprì la porta ed il giorno dopo lei già lo volle in sposo. Due sessi differenti, entrambi necessari alla discendenza degli umani, le une con temperamento umido, fatte di acqua e fango, gli altri legati al caldo, al secco. L'incanto esteriore nascondeva la vera intenzione di Zeus, il quale la volle dotata di spirito da cagna e sentimento da ladro, mentitrice, continuamente insoddisfatta, spesso collerica e vendicatrice, creatura che vuole il granaio tutto per se ed è anche caratterizzata da un appetito sessuale insaziabile, lo spirito da cagna allude anche al carattere erotico, Pandora è il fuoco divorante, che brucia il marito senza sosta e lo fa invecchiare prima del tempo. Imbeccata da Zeus apre il coperchio della giara più grande, il mondo fu così invaso da tutti i mali, al suo interno, in fondo al vaso, rimase solo Elpis: la speranza. Si instaura così la forte opposizione tra apparenza e realtà, alla dolce e piacevole visione di Pandora, si contrappongono i mali invisibili, silenziosi e privi di forma, come la fatica, le disgrazie, gli incidenti, le malattie e la morte. La figura femminile è la personificazione dei mali e delle tentazioni nella mitologia Greca, come Eva nella tradizione biblica, questa concezione, indubbiamente maschilista, non fa eccezione nella storia dell'alpinismo, Chabod racconta di una splendida fanciulla, innamorata di Giusto Gervasutti, che lo raggiunse ad un rifugio sul Monte Bianco, Gervasutti la accolse gelidamente, lui doveva concentrarsi per la scalata del giorno dopo, lei offesa e sconsolata si precipitò a valle. Si sa, "la donna distrae dalla lotta all'alpe"! Negli ultimi decenni si sono fatti sentire gli effetti del movimento femminista anche in alpinismo, la frase maschilista assume nuovo significato, i maschi si "distraggono" perché ormai patiscono la competizione da parte del Secondo Sesso che sempre più si manifesta come il "sesso forte", nel senso che rimangono incantati nel vedere prestazioni superbe, ai massimi livelli, sia in arrampicata sia in alpinismo, come la prestazione di Lynn Hill, sul Capitan, prima donna e primo essere umano a scalare in libera la via del Nose nel 1993, le sue qualità di  ginnasta artistica le consentono la spaccata e le dita sottili sono le armi vincenti per affrontare il diedro molto aperto e con una piccolissima fessura sul fondo, impossibile per mani grosse e dita spesse, la sola forza pura non basta, nemesi della storia, la capacità tecnica si esprime anche nella morfologia del corpo femminile, l'astuto Prometeo ancora una volta si prende la rivincita su Zeus e in questo caso anche sul genere maschile.
Oltre l'orizzonte planetario
Gaia, La Terra non soddisfa più la sete di conoscenza e di avventura degli alpinisti, è ormai evidente che le nuove vie che verranno aperte, pur rispettando l'etica dell'arrampicata libera, non produrranno più la conquista di montagne mai raggiunte e sconosciute. Che fare? Alzeremo lo sguardo per individuare nuove vette oltre l'atmosfera terrestre? Agli inizi fu alpinismo, poi hymalaismo, andismo e via via le altre catene montuose, tra poco i pianeti del sistema solare? Evolverà così il corso di questa meravigliosa attività ludica? Gli astronomi con le loro osservazioni e le varie sonde lanciate nello spazio ci dicono che nuove mete sono effettivamente scalabili, chissà se la brava astrofisica Margherita Hack ed ex atleta ci avesse mai pensato? Il Monte Bianco sarà la nuova meta. No non quello sulle Alpi, questo è più basso mt. 3.600  e si trova sul nostro satellite, non si creda che potrà trattarsi di un ascensione molto facile per il solo fatto che la gravità lunare e di circa sei volte inferiore a quella terrestre, si dovrà tener conto del peso della tuta spaziale nel percorrere gli 8 Km che separano la base dalla vetta, ciò nonostante qualche bel lancio dovrebbe riuscirci, una scalata fattibile in giornata, dal campo base ovviamente. La preparazione delle salite alle vie planetarie dovrà tener conto delle distanze dalla Terra e del ritorno; giorni, mesi, anni, per la Luna non molto, Km. 384.000 possiamo programmare anche una seconda escursione, così ammortizzeremo meglio prestazioni con tempi e costi, sul monte Pico mt. 3715 la vetta lunare più alta. Tutto ciò vi sembra assurdo? Lo è forse di più sapere che il debito sovrano di un paese europeo, ad esempio l'Italia, 2.100 MML di euro, se si volesse tradurlo in banconote da € 100 cadauna e metterle in fila, coprirebbero la distanza che ci separa dalla luna di ben sei volte. Denaro, debiti, interessi, anatocismo, future, derivati, miliardi di miliardi di pagherò, che finiranno nelle tasche di pochissime persone, le 88 persone più ricche al mondo dispongono di un reddito pari a poco meno del 40% della popolazione mondiale più povera, neppure un dollaro al giorno a testa per quasi tre miliardi di persone contro 630.000 dollari tutti i giorni per ciascuno degli 88 super-ricchi, (ricerca del centro studi del Credit Suisse del 2012) un assurdo inaccettabile. I futuri alpinisti saranno i miliardari? Non più accompagnati dalle guide ma da astronauti, o se preferite dai cosmonauti, non basterà la disponibilità di tempo libero dei già agiati pionieri inglesi del periodo romantico, ci vorranno ingenti somme finanziarie. Con tali patrimoni si potrà pianificare la conquista della cima più alta del sistema solare, il monte Olympus, di nuovo il cerchio si chiude, finalmente scopriremo la dimora degli Dei dell'universo. Certo la spedizione dovrà essere organizzata in stile militaresco, precisa in tutti i dettagli, ci vorrà un nuovo Ardito Desio, un comandante capace e gerarchico come fu quello della vittoriosa impresa italiana sul K2. Il monte Olympus è alto 21.183 metri, quasi tre volte l'Everest, si trova a nord-ovest della dorsale dell'altopiano di Thirsis, vicino al polo, sul pianeta Marte. 

Sarà decisamente improbabile poter raggiungere la sommità senza le bombole d'ossigeno, come sulle cime hymalaiane, già a quota zero vi è una parte di ossigeno su 250 di quell'atmosfera, e senza una adeguata tuta termica si finirebbe assiderati, di notte la temperatura scende anche a meno 130 gradi e difficilmente supera lo zero di giorno, ci vorranno molti giorni quindi per salire e scendere, almeno un mese. Le difficoltà in arrampicata si trovano solo nella prima parte, un muro di 3.000 metri, aggirabile da altro versante, l'Olympus si presenta comunque in tutta la sua imponenza la base e di circa 800 chilometri, da Genova a Marsiglia ed anche se si percorrerà una via normale, si potranno sempre raccogliere interessanti reperti minerari, è un vulcano sorto circa 800 milioni di anni fa. Insomma per la riuscita nell'impresa non si dovrà essere dei marziani ma dei semplici alpinisti-astronauti.
Alla ricerca del Monte Analogo
In attesa dell'evolversi dei viaggi Inter-planetari, perché arrendersi all'idea che non vi sia più nulla da scoprire sul nostro vecchio pianeta? Perché non unire un alpinismo di ricerca alla dimensione metafisica che sempre accompagna la nostra personale ricerca? I’originale scrittore francese René Daumal nel suo romanzo il Monte Analogo, costruito con un mix di fantasia fiabesca, conoscenza scientifica e geografica, mitologia, psicologia e conoscenza alpinistica, ci offre molteplici dimensioni simboliche di questa montagna. In ogni sua frase è possibile scorgere il tutto del suo pensiero.Il Monte Analogo è quella luce rettilinea che si scorge ad un certo punto del cammino, che tiene legati gli estremi, il cielo e la terra, è l'asse del mondo, il fuoco che attraversa il cielo, il punto di unione della via che unisce i mortali e i divini. Quando si procede nella scalata del Monte Analogo, si sente una forza di attrazione esercitata dall'alto che concorre, insieme alla nostra fatica, a contrastare la gravità che ci vuole inchiodati alla crosta terrestre, una forza che trova alimento anche dalla decisione precedentemente presa: la volontà di voler scendere, di tornare. Ascesa-discesa, anabasi-katabasi, sono metafora della vita, nella modalità alpinistica è scalata e discesa in corda doppia, in quella spirituale, è askesis verso i divini e discesa nella propria dimensione interiore, come se la vetta fosse verso il basso, il cerchio si chiude oltre Montaigne e Petrarca, raggiunge il mito di Er nel libro decimo della Repubblica di Platone, dove Ananke, la personificazione della necessità e i casi della vita si combinano tra loro continuamente nel viaggio che le anime debbono compiere nell'eterno ciclo della metempsicosi, di vita e morte, così rammemorazione, conoscenza e azione diventano tutt'uno, un unità cosmica che riempie il vuoto interiore. Le radici culturali di questi esercizi per pensare e per ascendere, vanno ricercate nei testi sacri e nella tradizione orientale, indù in particolare, nei Vedanta, nelle Upanhisad.

 La progressione fisica alla vetta è graduale, da rifugio a rifugio, sono tappe alpinistiche e allegorie della caverna platonica, con precise regole a cui attenersi, prima di lasciare un rifugio si deve preparare gli esseri che verranno ad occupare il posto che si è lasciato e se arrivi ad un punto insuperabile e pericoloso, devi tornare indietro per cancellare le tracce che hai lasciato, al fine di non confondere coloro che ti seguono, alla catena di sicurezza del manuale dell'alpinismo si affianca così un concatenarsi di anelli che formano l'intero viaggio dell'esistenza umana, non si tratta solamente  della scalata alla vetta della montagna. La progressione per accedere al Monte Analogo, non può basarsi sulla geometria euclidea, necessita di una concezione antichissima e contemporanea nello stesso tempo, si deve affrontare lo spazio-curvo, il rapporto causa-effetto alla base della scienza moderna è insufficiente e fuorviante, il monte analogo è montagna simbolica, ascensione che si svolge in un altra dimensione, parallela e contestuale alla scalata che subisce la gravitazione terrestre, per raggiungere un sapere più elevato, che è l'opposto di imparare a memoria la relazione, le mappe, gli insegnamenti del maestro, non si può rimanere fermi lì, bisogna iniziare il viaggio impossibile con le nostre gambe la nostra testa, un sogno ad occhi aperti. La montagna rimane roccia e ghiaccio, non ha occhi, né orecchie, né cuore, è insensibile; eppure anche per i più razionalisti, realisti e cinici, di noi, passata la porta di accesso al Monte Analogo, possono addentrarsi in quella commedia umana che forse ci salverà la vita, come nella fiaba orientale dei fratelli Mo e Ho che riescono a vincere gli uomini cavi, nascosti sulle montagne e a trovare la rosa-amara perché sono diventati un unica persona, Ho conosce il gesto e Mo conosce la via, "padroni della paura avranno il fiore del discernimento". Il Monte Analogo è la montagna assurda, la sua vetta rimarrà inaccessibile con ordinari mezzi, la sua base però deve essere accessibile a tutti gli esseri umani quali la natura li ha fatti, non tutti raggiungeranno la cima ma nessuno è escluso dall'ascensione, "la porta invisibile deve essere visibile, deve essere unica e deve esistere geograficamente". La scala delle difficoltà al Monte Analogo sarà sempre del grado massimo, sarà sempre una prova del fuoco, susciterà sempre una emozione intensa, una tensione tra la finitudine umana e l'infinito irraggiungibile. Eppure alla cima dobbiamo tendere, questo è il significato etimologico del termine Titano, tendere verso l'alto, come se la potessimo trovare il nettare, la semenza dell'immortalità chiamata Soma negli antichi testi Veda, oppure incontrare Siva e la sua sposa "la figlia della montagna" la cui dimora si trova sulle vette hymalaiane, ed anche Zeus che imperterrito continuerà a lottare con i Giganti e con i Centobraccia scagliando saette al fine di conservare il cosmo, l'ordine dell'universo; vedendoci profanare la sua di dimora, vorrà punirci per l'oltraggio compiuto, come fece con Sisifo e con Prometeo, ma noi amiamo il rischio e desideriamo la pienezza del cuore, non perdiamo altro tempo, anzi andiamo a guadagnar tempo, per noi ciò che conta è cominciare a cercare di raggiungere.
E tu che cosa cerchi?

Rivoli Settembre 2015 Elvio Balboni.