sabato 26 febbraio 2022

Video della conferenza di Mercoledì 23 Febbraio "Percorsi laici" relatore Tullio Monti

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona,  ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della conferenza tenuta da Tullio Monti, Mercoledì 23 Febbraio presso la Sala Consiliare di Avigliana, con titolo

Percorsi laici

appunti, discorsi e pensieri sulla laicità 


per accedere al video cliccare sul seguente link

Conferenza Tullio Monti

mercoledì 9 febbraio 2022

Il "Saggio" del mese - Febbraio 2022

 

Il “Saggio” del mese

 FEBBRAIO 2022

Il “Saggio” di questo mese è un testo di storia ambientale che ripercorre, con lo sguardo equilibrato della ricostruzione storica ad ampio raggio, i processi globali che hanno indotto a definire l’attuale fase geologica “Antropocene(nostra “Parola del mese” di Ottobre 2021). Questa definizione raccoglie da tempo una condivisione diffusa nel mondo scientifico, il quale al limite si divide, a seconda del criterio adottato, sulla collocazione storica del suo inizio. McNeill ed Engelke, i due autori di questo testo, pur non sottovalutando l’impatto dei periodi precedenti che hanno sicuramente contribuito a creare le basi per un crescente effetto “accumulo”, ritengono che i processi, iniziati perlomeno nel secolo XVIII, abbiano però conosciuto un impressionante incremento a partire dal 1945, come anticipano nel risvolto di copertina:

dalla metà del XX secolo il ritmo crescente di uso di energia, le emissioni di gas serra e la crescita della popolazione hanno spinto il pianeta dentro un gigantesco esperimento incontrollato. I numeri sono impressionanti: più di tre quarti delle emissioni di CO2 nell’atmosfera hanno avuto luogo dal 1945 ad oggi, nello stesso periodo il numero dei veicoli a motore è cresciuto da 40 ad 800 milioni, la popolazione mondiale è triplicata. Un gigantesco terremoto ecologico

che definiscono La grande accelerazione”.  Il pregio di questo saggio consiste nel collocare in un ordinato quadro storico i fenomeni ed i processi che, cresciuti sotto i nostri occhi troppo distratti, ci hanno condotto all’attuale situazione. In questa sintesi ci limitiamo a ripercorrerli a grandi linee, per recuperare un importante sguardo d’insieme su un unicum storico che chiama tutta l’umanità ad una vera svolta.



John Robert McNeill è uno storico ambientale americano, autore e professore alla Georgetown University. È noto soprattutto per "aver fatto da pioniere nello studio della storia ambientale".

Peter Engelke è Senior Fellow presso lo Strategic Foresight Initiative dell'Atlantic Council, Washington

Capitolo primo: Energia e popolazione

A) - energia

Il sistema energetico/organico utilizzato dall’umanità fino al XVIII secolo si limitava a convertire l’energia naturalmente disponibile in tempo reale sul pianeta. Con l’inizio dell’utilizzo spinto dei combustibili fossili il genere umano ha iniziato ad accedere ad una formidabile dote di energia solare, concentrata nel sottosuolo, approssimativamente quantificabile nell’equivalente di 500 milioni di anni di fotosintesi vegetale. Le iniziali tecnologie di sfruttamento di tale fonte energetica erano decisamente inefficaci: i primi motori a vapore sprecavano quasi il 99% dell’energia di alimentazione. I miglioramenti da lì in poi avvenuti sono stati formidabili: è calcolabile che, poco più di un secolo dopo, l’energia prodotta dai combustibili fossili superasse quella creata sul pianeta, al tempo ancora in gran misura formato da superfici boschive e forestali, dai naturali processi di fotosintesi. Fino a giungere ai livelli altamente performanti delle attuali tecnologie …… dal 1945 è stato bruciato l’equivalente di luce solare fossile attestabile tra 50 e 150 milioni di anni …… Questo  sistema energetico ha seguito diverse fasi del combustibile prevalentemente utilizzato: carbone fino al 1965, successivamente petrolio sempre più affiancato da gas naturale. A formare un quadro globale dei consumi geograficamente molto differenziato: ancora nel 1960 Europa, America del Nord e Giappone erano di gran lunga i veri consumatori di tale energia. A partire dal 1965 si sono affacciate sulle scena Cina, India e le nazioni dell’Estremo Oriente, determinando una svolta: gli USA che nel 1965 consumavano più del 30% dell’energia mondiale, pur crescendo fino ai nostri giorni di un ulteriore 40%, è scesa al 20%, mentre la Cina che nel 1965 utilizzava il 5% dell’energia mondiale ha ormai raggiunto e superato la percentuale statunitense. Resta il fatto che questi nostri tempi ….. siano estremamente differenti da tutte le epoche precedenti …. per quanto concerne la quantità e la qualità dell’energia utilizzata per le attività umane

1) - L’energia ricavata da combustibili fossili e l’ambiente

L’impatto di tale sistema sull’ambiente naturale è determinato dalle specifiche attività di: estrazione, trasporto, combustione, principalmente di carbone e petrolio, e nella disponibilità di energia in abbondanza, e a basso costo, per svolgere attività diversamente antieconomiche.

1a) - Estrazione:

E’ in generale un’attività problematica dal punto di vista tecnico, in particolare per quella del carbone da quando si è andati oltre quella “a cielo aperto” (raggiunge strati di carbone fino a 50 metri sotto il livello del suolo. L’impatto sull’ambiente è comunque già importante perché implica di sterrare gli strati di terreno che coprono il carbone distruggendo vegetazione e suolo.). La creazione di miniere – che dal 1945, grazie al miglioramento delle tecnologie, interessa circa settanta paesi in quelle che sono definite “aree carbonifere(alcune gigantesche come quelle del sud del Galles, della Ruhr, del Kentucky, e dello Shaanxi cinese) ha comportato pesanti cambiamenti a terra e acque. Lo svuotamento delle cavità sotterranee produce di frequente piccoli terremoti (fino al caso limite del 2005 in Cina con un’area grande come la Svizzera interessata da un rilevante fenomeno di subsidenza, abbassamento del suolo). I detriti residui dell’estrazione (sempre in Cina nel 2005 i minerali sterili di miniera coprivano complessivamente un’area grande come Israele) non solo deturpano il paesaggio, ma rilasciano acido solforico e metano. Le trivellazioni petrolifere comportano problematiche differenti, ma non meno impattanti. L’enorme aumento della domanda di greggio avvenuta dal 1945 in poi ha comportato una febbrile attività di individuazione di nuove aree di estrazione che, in aggiunta a quelle “classiche” del Medio Oriente, della Siberia, del Mar Caspio, del Texas, interessano ormai l’intero pianeta con trivellazioni sempre più complesse su fondali marini, in acque sempre più profonde, in foreste tropicali e aree polari. Nel 2005 sono stati censiti circa 40.000 campi petroliferi, in gran misura sorti dopo il 1945, nessuno dei quali non presentava gravi problemi di inquinamento spesso causati dall’inevitabile spargimento di greggio, estremamente difficile da rimuovere.

1b) -Trasporto

Questa attività, soprattutto quella del petrolio, impatta su aree molto più vaste di quelle interessate dall’estrazione. Dopo il 1945 quasi tutto il petrolio estratto in un paese viene bruciato, o anche solo raffinato, in un altro. Oleodotti e petroliere, le due principali modalità di trasporto, sono stati frequentemente interessati da incidenti con ricadute ambientali sempre più rilevanti a causa delle dimensioni del greggio trasportato. Nel 1945 le petroliere potevano trasportare un massimo di 20.000 tonnellate, salite a circa 500.000 negli anni Settanta, per arrivare oggi a un milione. Sono mostri galleggianti lunghi 300 metri che richiedono diversi chilometri per rallentare e fermarsi. Piccole perdite di greggio sono la norma, ma la maggior parte dei riversamenti si è concentrata su pochi, gravi se non gravissimi, incidenti. Non meno significative sono le perdite degli oleodotti. Le condotte, specie se corrono in ambienti estremi, si corrodono e spaccano, l’età media di vita di un impianto, calcolata al massimo in 15/20 anni, viene, per ragioni di profitto, allungata di molto.

1c) - Combustione

La ricaduta più tragicamente pesante su ambiente, e salute umana, è però costituita dall’utilizzo mediante combustione. Per avere un’idea dell’entità dell’inquinamento da combustione di carbone si può considerare quello prodotto nel 2010 da una centrale elettrica media negli USA che usa le migliori tecnologie ed è controllata da precise normative (aspetti che non valgono ovunque, anzi). Tale centrale rilascia ogni anno milioni di tonnellate di CO2, migliaia di tonnellate di anidride solforosa, e decine di chilogrammi di piombo, mercurio e arsenico, senza contare l’impatto di cenere e fuliggine. Il petrolio brucia in modo più pulito, rilascia comunque notevoli quantità di piombo, monossido di carbonio, anidride solforosa, ossidi di azoto e composti organici volatili (COV) che, con la luce solare, producono smog fotochimico. Un contributo fortemente negativo di inquinamento, concentrato in particolare nella aree urbane soprattutto delle crescenti megalopoli, proviene dai tubi di scappamento dell’enorme parco autoveicoli globale, cresciuto a dismisura dal 1945 in qua (attualmente calcolato in circa 1,2 miliardi di veicoli e con una previsione di 2 miliardi nel 2035). Nel periodo storico in esame l’entità dell’inquinamento complessivo da combustione fossile è ben testimoniata da quelli,  in miliardi di tonnellate,  della produzione di CO2: nel 1945 erano 4,2 passati a 25,1 nel 2000, nel 2021 sfiorano i 37 (nel 1850 non arrivavano a 0,2 miliardi di Tonnellate)

2) - Lo strano progresso dell’energia nucleare

La fame di energia esplosa dal 1945 in poi, ben più di scrupoli ambientali, non poteva non prendere in considerazione quella da fonte nucleare potenzialmente senza limiti e, teoricamente, di impatto ambientale pressochè inesistente. Già nel 1954 è stata utilizzata come fonte di alimentazione di una prima piccola centrale in Russia, per poi crescere rapidamente ed in modo significativo: dall’1% dell’energia elettrica mondiale nel 1965, al 10% nel 1980, al 13% nel 2013. Nel 2010 copriva la metà del fabbisogno elettrico di Francia, Lituania, Belgio, per un quarto quella di Giappone e Corea del Sud, e per un quinto negli USA. Una crescita che sembrava poter proseguire senza freni ma bruscamente interrotta dalle tragiche, e purtroppo prevedibili, vicende di Cernobyl nel 1986 e di Fukushima nel 2001. L’inquinamento da radiazioni nucleari, che già aveva visto episodi significativi negli USA (1979 USA, Three Mile Island) e in Unione Sovietica (tenuti segreti), ha conosciuto, soprattutto con Chernobyl, prove del suo potenziale effetto devastante su aree vastissime, congelando di fatto, perlomeno fino ad oggi, la sua ulteriore espansione.

3) – Il controverso progresso dell’energia idroelettrica

Ha fornito, e fornisce, una percentuale di energia prodotta pari a quella nucleare, con controversie, e tragedie minori, ma non insignificanti. Piccole centrali idroelettriche, alimentate da dighe a sbarramento di fiumi, sono state lo standard fino al 1945, per poi, specie negli anni Sessanta e Settanta, essere globalmente sostituite da autentici giganti artificiali. Quella di Assuan, quelle cinesi ed indiane (definite da Nehru “i templi dell’India moderna”), quelle nel Sud America, negli USA  e in Turchia raccontano di una vera e propria corsa al loro gigantismo. La mancanza di un inquinamento direttamente collegabile alla modalità tecnologica di produzione, ed il collegato minor ricorso ad altre forme più inquinanti, è però non poco compensata, in aggiunta all’impatto sulla popolazione spesso costretta a spostamenti forzosi, da danni ambientali collaterali quali: sommersione di vastissime aree, modificazione ed erosione del corso naturale dei fiumi e degli ambienti prospicienti, incidenza sull’equilibrio climatico. Il non infrequente verificarsi di gravi incidenti completa un quadro controverso che, per altri impianti di grandi dimensioni, non sembra avere più spazio fisico se non in Africa e in America del Sud.

4) – L’esitante ascesa delle energie alternative

La crescente sensibilità ambientale è riuscita, con molta fatica e con risultati ancora incerti, a creare spazi concreti per forme di produzione energetiche, definite “alternative”, utilizzando combustibili “rinnovabili”. In buona misura tramontate quelle che negli anni Settanta avevano puntato sull’energia ottenibile da biomasse (etanolo usato come combustibile per veicoli) sono le due le fonti “naturali e rinnovabili” prevalenti: vento e sole. Il primo, già sfruttato nell’antichità come strumento per macina e pompaggio acqua, viene catturato e tradotto in energia elettrica grazie alle moderne turbine eoliche. Questa tecnica, che richiede comunque di essere installata in zone con ventilazione costante e sostenuta, ha avuto da subito, anni Ottanta, buon seguito in alcuni paesi (Danimarca, Spagna, e Portogallo) e dal 2008 è in progressiva espansione, nonostante crescenti perplessità sull’impatto paesaggistico, tanto da aver attratto più investimenti di quella idroelettrica. L’energia solare rappresenta un potenziale eccezionale: in una sola ora il Sole fornisce alla Terra più energia di tutta quella consumata in un anno. La modalità tecnica prevalente per “catturarla” è quella dei pannelli fotovoltaici. Come per quella eolica ancora adesso è rilevante il problema del suo immagazzinamento, e non è di poco conto l’impatto ambientale delle dimensioni degli impianti necessari. Malgrado la loro crescita nei decenni a cavallo dei due secoli il loro contributo al fabbisogno energetico non supera al momento il 4% del consumo mondiale ed appare molto problematica una loro estensione ad una scala tale da rappresentare una alternativa risolutiva.

5) – Effetti indiretti dell’abbondanza di energia

Nel considerare l’impatto ambientale dell’energia ricavata da combustibili fossili, in aggiunta a quello legato ad estrazione, trasporto e combustione, occorre considerare quello che, nel periodo in esame, ha avuto la semplice ampia disponibilità di energia. Tutte le attività umane che incidono sull’ambiente sono state incredibilmente potenziate, se non create dal nulla, proprio da questa disponibilità universale ed a bassi costi. Ed è proprio grazie a questa facile disponibilità che, a partire dagli anni Sessanta si è assistito, su scala globale, ad una impressionante impennata della raccolta di legname, ad una radicale modifica dell’agricoltura, dell’attività mineraria, di quelle della pesca, alla rivoluzione delle modalità di trasporto, al mutamento degli stili di vita, di abitazione, dei consumi individuali e collettivi, alla nascita su scale in precedenza inimmaginabili di fenomeni come il turismo di massa. Una ulteriore decisiva spinta è stata poi fornita dallo sviluppo tecnologico in gran misura finalizzato a sostenere il circuito dei consumi e della domanda.  In una sorta di circolo vizioso che appare di difficile inversione la disponibilità di energia ha quindi innescato l’esplosione di attività che hanno a loro volta fatto crescere in modo esponenziale la domanda di energia, fino a farla divenire la chiave di lettura fondamentale per comprendere la nuova epoca dell’Antropocene. L’insieme di queste attività, che investono capillarmente ogni individuo, è la causa principale di  problematiche ambientali mai conosciute in precedenza quali, a puro titolo di  esempio: smaltimento rifiuti, inquinamento atmosferico delle aree urbane e del ciclo dell’acqua, depauperamento dei suoli, esplosione di reti infrastrutturali, corsa all’inurbamento, occupazione commerciale e turistica di ambienti naturali

B) – Popolazione

1) – La bomba demografica

Quanto avvenuto dopo il 1945 non conosce precedenti neppure per il secondo fattore che ha determinato la “Grande Accelerazione”. Il primo miliardo di abitanti sulla Terra è stato raggiunto solo nel 1820, è poi occorso più di un altro secolo per raddoppiarlo nel 1930, ma solo più trent’anni per arrivare a tre miliardi nel 1960. Da lì in poi la crescita è stata esponenziale: nell’arco di una vita umana, dal 1945 al 2015, gli abitanti del pianeta sono triplicati passando da 2,3 a 7,2 miliardi. Nel 1950 l’incremento annuo già raggiungeva la cifra di 50 milioni, è poi salito a 75 milioni negli anni Settanta per toccare il picco massimo, mai più ripetuto, di circa 89 milioni a metà degli anni Ottanta. Un ritmo di crescita incredibile, del tutto insostenibile sui tempi lunghi, che per fortuna da lì in poi ha iniziato a rallentare e a declinare. Sembrerebbe infatti, sulla base delle tendenze attuali, che si sia entrati nella fase declinante dell’episodio più anomalo di tutta la storia demografica umana. A determinarlo su scala globale hanno concorso due componenti: la diminuzione secca del tasso di mortalità, dal 20 per mille del 1945 all’attuale 8,1 per mille – un tasso di natalità progressivamente diminuito, dal 37 per mille del 1945 al 20 per mille del 2015, ma ancora costantemente sempre superiore a quello di mortalità. La migliore e più diffusa nutrizione, con condizioni igienico sanitarie altrettanto migliorate, spiegano il primo fenomeno, e la tendenza a salire del secondo, mentre il suo progressivo rallentamento è dovuto ad un insieme di fattori socio-economici combinato, in alcune decisive situazioni, da politiche mirate al suo contenimento.

2) – I tentativi per frenare la crescita della popolazione

Hanno riguardato alcune nazioni fortemente sottoposte ad un incremento demografico che, partendo da una base storicamente già elevata e procedendo con alti tassi annuali, ha seriamente rischiato di divenire ingestibile. La Cina, in contrasto con precedenti visioni, ha introdotto a partire dal 1970 un severo controllo delle nascite basato sull’uso incentivato di contraccettivi e da politiche forzose di composizione familiare, tanto efficaci (tasso di natalità su mille abitanti sceso dal 44% degli anni sessanta al 13% del 2015) quanto venate da serie problematiche e contraddizioni. Preceduta dall’India che già nel 1952 ha avviato forti iniziative di contenimento, fino a prevedere in alcuni casi la sterilizzazione forzata, che hanno tuttavia avuto meno successo (tasso di natalità su mille abitanti sceso dal 43% degli anni sessanta al 21% del 2015). Analoghe, ma meno severe, politiche di freno delle nascite sono state messe in atto da buona parte dei paesi dell’estremo Oriente. Nel mondo occidentale, nei paesi “più ricchi”, il rallentamento dell’aumento della popolazione ha iniziato, a partire dai decenni a cavallo del nuovo secolo/millennio, ad avere le caratteristiche di una vera decrescita, sempre meno compensata dalle ondate immigratorie, imputabile non a politiche mirate in tal senso, ma ad un mutamento delle condizioni sociali, economiche e culturali, (stili di vita, ritardato e complicato inserimento nel mondo del lavoro, più marcato ruolo donna) tale da incidere fortemente sul tasso di fertilità

3) –Popolazione ed ambiente

L’aumento della popolazione mondiale è stato tale da avere un inevitabile forte impatto sull’ambiente; la logica è semplice …… più persone, più attività umane, più pressione sulla biosfera ……. In primo luogo perché il triplicarsi della popolazione mondiale, per quanto non omogeneo, ha richiesto un’espansione proporzionale della produzione di cibo, realizzata su vasta scala con:

*   l’espansione dei terreni agricoli: a danno dell’ambiente naturale, e l’ottimizzazione spinta delle loro rese grazie a tecnologie e prodotti “industriali” che hanno avuto un impatto pesantissimo sulle condizioni di salute dei suoli agricoli e del ciclo delle acque

*    rapida impennata consumo acqua dolce: passata, in miliardi di metri cubi, dai 1.366 nel 1945 a 3.900 nel 2010, per la maggior parte a scopi di irrigazione e con spaventose diversità fra aree e regioni sempre più colpite da fenomeni opposti di siccità e alluvioni dovuti, come si vedrà in seguito, agli effetti del cambiamento climatico

*   esplosione raccolta ittica marina: quadruplicata su scala mondiale fra il 1945 e gli anni Settanta, per poi assestarsi proprio per l’eccesso di sfruttamento delle risorse ittiche a lento ripopolamento

*   collegato incremento della domanda di energia: (vedi Parte A di questo Capitolo)

La crescita demografica, influenzata da fattori globali e locali, non ha avuto un processo lineare per le varie aree del mondo ed ha quindi determinato, anche per l’incidenza, in aggiunta a quelli ambientali, di fattori geo-politici, impressionanti movimenti migratori interni ed esterni. Al già forte fenomeno di inurbamento, che in alcuni paesi ha determinato il nascere di immense “megalopoli”, con il conseguente concentrarsi di specifiche problematiche ambientali (in particolare distruzione aree agricole, inquinamento e dispersione rifiuti), si sono aggiunti flussi, composti da molti milioni di persone (globalmente 173 milioni nel decennio 1991-2000, 221 milioni nel 2001-2010, 281 milioni nel 2011-2020) che hanno fortemente modificato l’impronta ecologica di significative aree

Capitolo secondo: Clima e diversità biologica

Clima

Il sistema climatico terrestre, già del suo molto complesso e basato su delicate relazioni fra il Sole, atmosfera, oceani, litosfera (la crosta terrestre), pedosfera (il suolo), e biosfera (organismi viventi, foreste soprattutto), non poteva non essere fortemente colpito da questa “grande accelerazione”. Quanto avvenuto dal 1945 si è collocato in un quadro climatico, quello dell’Olocene (l’era geologica successiva all’ultima grande glaciazione terminata circa 12.000 anni fa), relativamente stabile per quanto segnata da alcune significative temporanee variazioni, calde e fredde. L’impatto più significativo è stato quello sul ciclo del carbonio del pianeta, totalmente alterato nella sua distribuzione tra litosfera, pedosfera, oceani, biosfera ed atmosfera, dalla impressionante immissione in quest’ultima di carbonio, sotto forma di anidride carbonica (CO2), prodotto dalle attività umane. Il carbonio “antropogenico” è sostanzialmente il prodotto di due processi: la deforestazione ed altri cambiamenti d’uso del suolo, che al 2015 valgono il 15% del totale del carbonio “umano”, e la combustione di carburanti fossili responsabile del restante 85%. Nel 1750, prima della Rivoluzione industriale, il carbonio immesso dalle attività umane nell’atmosfera poteva valere non più di 3 milioni di tonnellate, già salite nel 1850 a circa 50 milioni e a circa 1.200 milioni, venti volte di più, nel 1945. Da qui è iniziato un vero e proprio festival della combustione fossile: per quindici anni, dal 1945 al 1970, l’uomo ha mediamente immesso in atmosfera ogni anno 2.500 milioni di tonnellate di carbonio, dal 1970 al 1990 diventate 6.000 milioni, e arrivate nel 2015 a qualcosa come 9.500 milioni, tremiladuecento volte di più del 1750 e otto volte di più del 1945. Il risultato è una concentrazione di CO2 di circa 400 ppm (parti per milione), rispetto alle 280 ppm pre-industriali, il più alto livello registrabile negli ultimi 20 milioni di anni, solo in parte spiegabile con l’aumento in valori assoluti dell’economia globale, il dato più significativo è infatti rappresentato dall’aumento in percentuale dell’intensità di CO2 per unità di attività economica/produttiva (a significare un’economia in continua crescita ed in più sempre più energivora). Non deve pertanto stupire che a partire dagli anni Settanta ogni decennio abbia registrato una temperatura media delle superficie terrestre più alta del decennio precedente, che i primi dieci anni del nuovo millennio siano i più caldi mai registrati, e che al 2015 la temperatura media del pianeta risulti aumentata di più di un grado centigrado rispetto all’intero periodo dal 1850. L’impatto è stato ovunque rilevante, ma di più ai Poli che all’Equatore e di più sulla terra che sugli oceani, ma, stante la loro estensione, questo aumento rappresenta una quantità enorme di energia termica.

Biodiversità

La nuda esposizione di dati, quantità, temperature rischia, per quanto indispensabile, di non rendere appieno l’idea di ciò che la “Grande accelerazione” ha significato per la salute complessiva del pianeta, delle sue componenti fisiche, e delle forme di vita che lo abitano. I termini “diversità biologica” ovvero “biodiversità”, ancora sconosciuti fino agli anni Settanta ed Ottanta, sono diventati argomento di grande richiamo proprio perché definiscono il parametro fondamentale della ricchezza di forme di vita terrestri. Una ricchezza che è stata messa fortemente in crisi dall’impatto umano sul clima sino a divenire il modo più tangibile per misurare il declino biologico globale. Nonostante il progresso degli studi al riguardo si possono fare solo congetture molto approssimative sul numero di specie terrestri viventi, il dato varia da pochi milioni a più di cento milioni. Le zone della Terra che di più le ospitano, le foreste pluviali tropicali, brulicano di forme di vita sconosciute, si calcola che il 10% della superficie terrestre contenga tra metà e due terzi di tutte le specie. Nel 1986 un calcolo “prudente” ha stimato che un quarto di milione di specie si sia estinto durante il secolo XX ed esprimeva il timore che, la “Grande accelerazione” abbia creato le condizioni per un ulteriore salto nel XXI secolo di un numero da dieci a venti volte superiore. L’impatto delle attività umane su foreste, praterie, oceani, strettamente connesso alla crescita demografica, ha comportato una alterazione degli ecosistemi certamente non compensato dalla creazione, spesso divenuta ulteriore attrazione turistica, di parchi nazionali e riserve naturali.

Capitolo terzo: Città ed economia

Città

….. viviamo in un pianeta urbano, (già) nel 2008 i demografi delle N.U. hanno stimato che più del 50 % degli esseri umani vive in città ….. Una situazione abitativa mai registrata prima nella storia umana che è cresciuta a dismisura nel periodo della “Grande Accelerazione”: nel 1950 la popolazione urbana era meno del 30%, nel 2015 è stata stimata in più della metà, ossia 3,7 miliardi di persone. Oggi, al termine di questo intenso processo, si contano 500 città con almeno un milione di abitanti, 74 con più di cinque milioni e 12 con più di venti milioni. Queste dimensioni hanno sconvolto il rapporto di reciproca dipendenza fra la città e l’ambiente circostante. Un rapporto, da sempre in continuo mutamento determinato dalla caratteristica di entità dinamica delle città stesse, che storicamente ha visto l’ambiente circostante “nutrire” delle necessarie risorse la città, per venire a sua volta da questa “modellato”. Questo modellamento, quando provocato da insediamenti di queste dimensioni, e con gli stili di vita che dal secondo dopoguerra lo caratterizzano, si traduce inesorabilmente in: sconvolgimento del ciclo naturale dell’acqua, inquinamento urbano diffuso, riscaldamento atmosferico, impatto ambientale da rifiuti, irrazionalità reti infrastrutturali. Sullo sfondo incide un processo decisivo: l’abbandono delle aree rurali, a partire da quelle orbitanti attorno alle città, e l’inurbamento di masse sempre più consistenti. Un processo iniziato nei primissimi decenni dopo il 1945 nei paesi più ricchi, più avanzati, e poi esploso anche nei paesi in via di sviluppo passati dall’avere una popolazione urbana pari al 18% a più del 40%, con un ritmo medio annuo doppio rispetto a quello, ormai consolidato e più stabile, dei paesi ricchi.  Un ulteriore differenza è poi consistita in un trasferimento ovunque non governato che ha dato vita alle drammatiche condizioni di vita delle cosiddette “bidonville”, accampamenti abusivi privi di qualsiasi normale dotazione urbana (nella sola Città del Messico si è calcolato che nel momento storico più problematico siano vissute in queste condizioni più di nove milioni di persone). Nei paesi ricchi dell’Occidente, inteso in senso lato, alla prima fase di forte inurbamento ha poi fatto seguito, per più ragioni di ordine socio-economico in parte derivanti dal livello di benessere diffuso, un processo opposto di sub-urbanizzazione strettamente connesso a quello di motorizzazione di massa. Si è diffuso in buona parte dell’Occidente, nella seconda parte del secolo, il cosiddetto “american way of life” che, basato su una forte mobilità individuale, decentramento attività produttive e commerciali, aveva negli USA determinato un cambiamento radicale nella distribuzione urbana della popolazione: nel 1950 due terzi vivevano nel centro delle città ed un terzo nelle periferie, nel 1990 queste percentuali si erano invertite. L’insieme di questi due processi di inurbamento/sub-urbanizzazione, spalmato sull’impressionante peso demografico urbano, costituisce la base del pesantissimo impatto ambientale delle città

Economia globale

……. Dal punto di vista ecologico l’elemento più rilevante nel periodo della Grande Accelerazione è però costituito dalla performance dell’economia globale ….. Limitandoci ad esaminare la “performance”, e tralasciando quindi le tante e decisive considerazioni sul merito di un processo che chiama in causa saperi di vario genere, emerge che nel periodo in esame l’economia globale è cresciuta di ben sei volte, con un tasso medio di crescita annuale del 3,9%, superando di gran lunga la media, già significativa, dell’era industriale precedente (1800-1945) pari all’1,6% (nell’era “moderna”, 1500-1800, era stata dello 0,3%). L’apice della crescita è avvenuto tra il 1950 ed il 1973, investendo in prevalenza il mondo occidentale, per essere poi seguito da un andamento più altalenante ma con un maggior coinvolgimento di altre economie, Cina e paesi dell’Estremo Oriente in primis, fin lì ai suoi margini. Queste dinamiche economiche e produttive sono state in gran misura alimentate dalla incredibile esplosione di “consumi di massa”, in costante rinnovamento grazie alle innovazioni tecnologiche e in ovvio collegamento con l’esplosione demografica di cui si è detto. La ricaduta sul contesto ambientale di questo impressionante ritmo di crescita, oltre che sull’aver “riempito il mondo” di prodotti (molto energivori, i soli elettrodomestici casalinghi assorbono il 15% dell’energia elettrica prodotta nel mondo) è consistita nella proporzionale produzione di energia esaminata nel precedente Capitolo primo. Coerentemente con il quadro appena delineato nel 1950 ben il 93% dell’energia prodotta a fini commerciali sulla Terra era consumato dal mondo ricco industrializzato, nel 2005 tale percentuale è scesa al 60%. Percentuali che, per essere comprese nella loro valenza complessiva, devono tenere conto del fatto che non coincidono, se non per pochi paesi, con il possesso dei relativi combustibili fossili. I cambiamenti avvenuti nel quadro geo-politico, soprattutto con la fine del colonialismo “classico”, hanno così spinto tutte le economie vero la ricerca di un costante “efficientamento energetico” incentivando il ruolo dei progressi tecnologici. I quali sono divenuti, soprattutto negli ultimi decenni del secolo, il vero motore della macchina economica e produttiva globale. Accanto alle più recenti innovazioni iper-tecnologiche hanno svolto un ruolo decisivo innovazioni all’apparenza più banali: l’umile container da trasporto, capace di rivoluzionare le modalità di trasporto merci, ne è un esempio perfetto. Allo stesso modo buona parte della crescita è legata all’introduzione di nuovi prodotti, con al primissimo posto quella della “plastica”. Già utilizzata nella prima metà del secolo (50.000 tonnellate prodotte nel 1930) conosce già nel 1950 un primo boom con 2 milioni di tonnellate passate in breve a 6 milioni nel 1960. Cifre ragguardevoli, ma per avere contezza di quanto la plastica abbia invaso il mondo contribuendo in modo determinante alla crescita economica, è bene sapere che nel 2000 nel mondo si è passati a produrne circa 200 milioni di tonnellate salite nel 2015 a ben 422 milioni. Si sa che la plastica è una lavorazione petrolchimica e che rappresenta, quando ridotta a rifiuto, una delle maggiori fonti di inquinamento ambientale.

Capitolo quarto: Guerra Fredda e cultura ambientale

Guerra Fredda

Per completare questa sintetica rassegna dei fattori che di più hanno inciso alla “Grande Accelerazione” è indispensabile esaminare il ruolo della “corsa agli armamenti”, e più in generale a quello dell’industria bellica, nella quale la cosiddetta “Guerra Fredda” ha giocato un ruolo centrale. La divisione del mondo nei ben conosciuti due blocchi avvenuta all’indomani del secondo conflitto ha innescato processi tanto assurdi quanto pericolosi per la sopravvivenza dell’intero pianeta, ma oggettivamente in grado di avere una influenza importante sulla stessa crescita economica: in Unione Sovietica, ad esempio, durante la Guerra Fredda il 40% di tutta la produzione industriale era di tipo militare. Limitandoci ad esaminare le ricadute economiche ed ambientali, tralasciando quindi le complesse implicazioni geo-politiche di una contrapposizione che ha segnato il quadro mondiale fino alle fine degli anni Ottanta, emerge con evidenza che l’enorme flusso di risorse investite nell’industria bellica, ad Est come ad Ovest, ha inciso fortemente sui processi economici generali in due modalità: peso diretto sulla produzione, in termini percentuali e di valori assoluti finanziari, e ricaduta in applicazioni “civili” delle tantissime tecnologie messe a punto nell’ambito delle ricerche a fini militari. Quella che di più e meglio ne è testimonianza, anche per l’impatto ambientale, è sicuramente la produzione di armi nucleari. Fra il 1945 ed il 1990 gli USA hanno costruito circa 70.000 ordigni nucleari testandone oltre 1.000, l’URSS circa 45.000 con 715 test. A questi numeri si aggiungono quelli, per centinaia di ordigni, prodotti da Gran Bretagna (dal 1952), dalla Francia (dal 1960) e dalla Cina (dal 1964). L’insieme dei test nucleari ha immesso in atmosfera una quantità di inquinanti radioattivi pari a svariate centinaia di volte di quella fuoriuscita a Cernobyl. I siti nei quali sono stati effettuati test o sono stati installati gli impianti produttivi hanno raggiunto livelli di inquinamento spaventosi: Celjabinsk, in Siberia, è stato per cinquant’anni il luogo più pericolosamente inquinato della Terra, non meno pericolosi quelli di Savannah River Site, in Georgia, e Rocky Flats Arsenal, in Colorado. La follia nucleare ha lasciato in eredità una quantità spaventosa di scorie radioattive spesso mal stoccate quando non fatte affondare nei fondali marini più profondi, ed un carico di radioattività che per alcuni materiali non decadrà prima di diverse migliaia di anni. Quando la memoria della Guerra Fredda sarà materia di pochi storici l’umanità, con le sue insopprimibili turbolenze e complicazioni, dovrà ancora tenere sotto controllo questa quantità impressionante di scorie nucleari.

Il movimento ambientalista

Proprio la Guerra Fredda, con la nascita di movimenti contro la proliferazione nucleare degli anni Cinquanta/Sessanta, ha contribuito alla nascita della coscienza ecologista ed ambientale che è chiamata, oggi, a misurarsi con l’eredità della “Grande Accelerazione”. Ma è indubbio che al suo centro sta, fin dal suo sorgere, la preoccupazione per i danni sempre più evidenti inferti all’intero pianeta dall’incredibile ritmo di crescita del peso delle attività umane. Sono progressivamente confluiti in questo alveo due differenti, ma convergenti, sensibilità: nei paesi ricchi del mondo quella per i danni derivanti da un invasivo benessere, nei paesi poveri quella per i guasti provocati alle loro forme tradizionali sociali ed al loro ambiente naturali dalle rapaci politiche economiche dei paesi ricchi. La convergenza fra queste due sensibilità è derivata dalla comune considerazione che al centro della questione sta la logica di un modello di sviluppo senza freni, di una crescita economica insostenibile per un pianeta dalle risorse finite. Dalle prime battaglie degli anni Sessanta contro l’uso di prodotti chimici quali il DDT, piuttosto che per la difesa degli alberi-simbolo dei villaggi amazzonici, già nel corso degli anni Settanta/Ottanta il movimento ambientalista globale ha accentuato la sua netta opposizione ad una idea di sviluppo sempre più vista come la principale responsabile del crescente disastro ambientale. Non poco ha contribuito a questo salto di qualità l’importante elaborazione culturale che, su queste tematiche, ha sempre più diffusamente coinvolto economisti, sociologi, filosofi, intellettuali in genere. Il “Rapporto sui limiti dello sviluppo” pubblicato nel 1972 dal Club di Roma (formato nel 1968 da Aurelio Peccei, un industriale italiano) ne è un esempio illuminante per la capacità che ebbe, in tutto il mondo, di innescare un dibattito su società industriale, inquinamento, sostenibilità ambientale. Lo stesso ambientalismo “istituzionale”, che, con al suo centro l’ONU con alcune sue specifiche diramazioni, ha acquisito a cavallo del millennio un ruolo sempre più significativo, deve molto a questi contributi culturali come alla pressione dei movimenti ambientalisti nazionali ed internazionali (ad es. WWF, Green Peace). La “politica”, troppo influenzata dalle logiche della crescita economica, quasi ovunque ha tardato a fare proprie queste sensibilità, scavando un solco che si sta protraendo fino ai giorni nostri.

Conclusioni

Va detto che al di là della troppo lenta ed insufficiente azione della “politica” esiste un gap culturale che investe l’intera umanità ritardando non poco una più profonda ed attiva presa di coscienza delle innegabili problematiche che la “Grande Accelerazione” ormai pone senza più margini di rinvio. Molti fattori incidono in questo senso, uno in particolare può avere un peso rilevante: il periodo tra il 1945 ed i giorni nostri corrisponde grosso modo all’aspettativa di vita dell’attuale umanità. L’intera esperienza di vita di quasi tutti gli individui che abitano il pianeta si è quindi svolta all’interno della “Grande Accelerazione”, inducendo a considerare come “normale” un periodo che è invece quello più anomalo e meno rappresentativo dei rapporti tra uomo e biosfera di una storia lunga almeno 200.000 anni. Già solo questa constatazione dovrebbe rendere tutta l’umanità scettica riguardo al fatto che i processi innescati dalla “Grande Accelerazione” possano, oggettivamente, durare ancora a lungo”


martedì 1 febbraio 2022

La Parola del mese - Febbraio 2022

 

La parola del mese

A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

FEBBRAIO 2022

Ebbene si: per la prima volta la “Parola del mese” non risulta esistere, perlomeno in tutti i dizionari/vocabolari di Italiano che abbiamo consultato. Digitandola nel motore di ricerca immancabilmente compare questa risposta “La tua ricerca non ha prodotto risultati”. Eppure, confortati da un parere autorevole, insistiamo nel presentarla come quella di questo Febbraio 2022

ANTIQUATEZZA

Con un piccolo aggiustamento potremmo azzardarci a definirla come la proprietà che caratterizza l’essere antiquatie per “antiquato” la definizione da vocabolario citaderivato dal verbo latino antiquare, mettere fuori d’uso, limitato ad un uso antico, disusato, non più sentito come vivo”. Dicevamo di un parere autorevole, quello di Costanzo Preve (1943-2013, filosofo accademico, politologo, saggista) che nella sua splendida prefazione all’edizione italiana del più importante saggio di Günther Anders (1902-1992, pseudonimo di Günther Siegmund Stern, filosofo e scrittore tedesco. Si laurea a Marburgo con  Heidegger, qui conosce e poi sposa Hannah Arendt, da cui divorzierà pochi anni dopo. Capisce sin da subito il pericolo costituito da Hitler e dal nazismo riuscendo ad emigrare in tempo, prima in Francia e poi negli USA; gli anni dell’esilio sono anni tristissimi, passati in estrema povertà; sopravvive con lavori occasionali finché entra in una fabbrica californiana come operaio addetto alla catena di montaggio. Questa è l’esperienza che segna la sua vita e la sua riflessione tanto da arrivare a dire anni dopo che “senza il periodo in fabbrica, in effetti, io non sarei mai stato in grado di scrivere la mia critica all’era della tecnica”. Rientrato in Europa nel 1950 svolge una feconda attività di saggista filosofico, senza incarichi accademici, e di attivista politico nei movimenti antinucleari e per la pace)

così giustifica la traduzione in italiano (sicuramente dovuta proprio alla mancanza del corrispondente termine in italiano) del suo titolo originale Die Antiquiertheit des Menschen”, letteralmente L’antiquatezza dell’uomo”  inL’uomo è antiquato”: …….. con il soggetto tedesco divenuto predicato si ribadisce una sorta di centralità umanistica, in cui l’umanesimo è certamente pessimistico, mentre antiquiertheit/antiquatezzameglio esprime il concetto filosofico della inadeguatezza dell’umanità verso le sue stesse conquiste prometeiche, innanzitutto quelle tecnologiche ……. Questa considerazione ci offre lo spunto per entrare, attraverso la chiave della antiquatezza e per una veloce escursione, nel ponderoso e significativo saggio di Anders


articolato su due distinti volumi, a comporre un’unicum, così dettagliato, complesso, ed al tempo stesso così originale nella forma espositiva, da rendere impossibile la sua sintesi, che pure ben meriterebbe, negli standard abituali del “Saggio del mese”. In questo ambito quindi ci limitiamo a recuperare velocemente gli aspetti più significativi di una riflessione che Anders, sulla scia lunga aperta da “Essere e tempo” di Martin Heidegger (ripreso nel nostro Saggio del mese di Maggio 2021), dedica all’uomo contemporaneo, segnato dalle tragedie del Novecento, e al suo rapporto con tecnica e tecnologia. Le parole che usa in apertura già delineano con esattezza il tema centrale dell’intera opera: …… credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, “vergogna prometeica”, e intendo con ciò la “vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi” …… Della vergogna prometeica” - ossia la vergogna che un novecentesco Prometeo prova nel constatare che ciò che al tempo ebbe l’ardire di rubare agli Dei, il fuoco della tecnica, vive oramai di una vita propria così vincente da aver ormai sopraffatto il suo presunto possessore – è il titolo della “Parte prima” del “Primo Capitolo” che già contiene, analizzandola in tutte le sue articolazioni individuali e collettive, le ragioni che spiegano l’antiquatezza dell’uomo del XX secolo. Un tratto che ormai caratterizza in forma definitiva l’intera umanità e che è entrato nella dimensione finale della tragedia storica con l’avvento della potenza annientatrice delle armi nucleari. Anders ritiene infatti che la tecnologia abbia completato nel secolo scorso un percorso, tanto formidabile quanto invasivo, capace di rendere antiquato l’uomo e antiquata la sua capacità culturale ed esistenziale di comprendere e governare le trasformazioni della modernità. Il progresso tecnologico è infatti tale da capovolgere completamente il rapporto tra bisogni (umani), mezzi e fini ……. la storia ora si svolge nella condizione del mondo chiamata “tecnica”, la quale è ormai divenuta il soggetto della storia con l’uomo ridotto a spettatore se non oggetto …….. E’ bene precisare che la tecnica per Anders non è solamente l’universo, già del suo capace di una incredibile potenza invasiva, degli strumenti tecnologici, ma è la razionalità che presiede alla loro progettazione ed impiego, una razionalità che, coerentemente con l’insieme delle sue considerazioni, è ormai divenuta una vero e proprio soggetto culturale, economico e sociale, a sé stante, esterno all’uomo stesso ormai ridotto ad esserne attivo, ed inconsapevole, complice e strumento. Anders dedica molte parti del saggio ad analizzare situazioni specifiche che testimoniano l’antiquatezza dell’uomo, la sua definitiva perdita del ruolo di produttore (l’homo faber) per assumere quello del consumatore, privo di qualsiasi autonomia e di vera capacità di giudizio, inserito in un sistema dei bisogni che emana da un potere intrinseco delle merci tale da ridurlo ad essere …… una riproduzione dei bisogni delle merci stesse ….. Non di sola antiquatezza si tratta quindi, ma di una totale alienazione, di una reificazione, che va persino oltre l’idea marxista della conversione della forza lavoro in merce. Per meglio comprendere queste considerazioni di Anders è utile recuperare la sua idea delle successioni di rivoluzione industriale. I due volumi (i cui sottotitoli sono purtroppo poco leggibili nelle nostre riproduzioni delle copertine) che compongono questo saggio, comunque unitario, sono stati elaborati e pubblicati con notevole intervallo fra di loro: il Volume Primo esce nel 1956, in Italia solo nel 1963, con sottotitolo “Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale”, il secondo esce nel 1980, in Italia nel 1992, con sottotitolo “Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale”. Se la prima, sostanzialmente consistita nell’avvento della produzione mediante macchine, vede ancora l’uomo suo regista e finalizzatore, la seconda, che copre buona parte del Novecento, è già quella del progressivo manifestarsi dell’antiquatezza, della vergogna prometeica, in cui il macchinismo raggiunge una potenza tale da imporre all’uomo “i bisogni”. La terza infine, che si delinea verso la fine del secolo, è quella in cui la tecnocrazia (intesa non come potere dei tecnocrati, ma come vera e propria dittatura della tecnica/tecnologia) è ormai padrona del mondo e dell’umanità al punto da aver avviato, seguendo le proprie immutabili logiche, l’alterazione irreversibile dell’ambiente mettendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’uomo. Il secondo volume, quello per l’appunto dedicato alla terza rivoluzione industriale, si apre infatti con questa annotazione che riprende, capovolgendola, la celebre massima di Marx sul rapporto fra filosofia e mondo (i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, si tratta di trasformarlo) , …….. cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche di interpretarlo. E ciò, precisamente per cambiare il cambiamento. Affinchè il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi  ..….. Le tre parti che, dopo la prima dedicata alla “vergogna prometeica”, completano il Volume Primo analizzano le modalità con le quali nella seconda rivoluzione industriale si è realizzata l’imposizione dei bisogni artificiali e l’incapacità dell’anima dell’uomo di reagire e governare questo processo che ha nella antiquatezza la sua inevitabile conclusione. Nella Parte seconda, “Il mondo come fantasma e come matrice”, partendo dalla constatazione del ruolo invasivo e magnetico della pubblicità, ne evidenzia la capacità di conferire ai “prodotti”, agli oggetti realizzati dalla tecnica/tecnologia, ….. lo statuto ontologico dell’essere (il mondo come fantasma) …… e al tempo stesso quello di incentivare la loro costante sostituzione (il mondo come matrice) …… ogni pubblicità è un appello alla distruzione …… Identica attenzione Anders dedica ai due veicoli per eccellenza, al tempo, del “mondo come fantasma e come matrice”: la radio e la televisione, due forme di comunicazione che non sono dei semplici mezzi, ma vere e proprie “macchine” in grado di plasmare e deformare l’anima umana, riducendola all’incapacità di cogliere ogni differenza tra essere ed apparire, tra copia ed originale ……. al posto del mondo reale subentra un profluvio di immagini, che non sono immagini del mondo, ma l’essenza del mondo nell’immagine ….. Ciò che si riversa sull’uomo, ormai incapace di una qualche forma di resistenza e di riscatto, possiede quella “umiliante grandezza” che spiega la “vergogna prometeica” e che sanziona la sua definitiva antiquatezza. A quasi settant’anni di distanza queste considerazioni di Anders sul ruolo dei nuovi media possono sembrare, perlomeno a chi ancora cerca di mantenere una capacità autonoma di esercizio della critica, acquisite e scontate. Ma è pur vero che i successivi progressi tecnologici, quelli dell’attuale era della Rete e dei social, capaci di incidere più a fondo su tutte le forme della quotidianità esistenziale, hanno prodotto una ulteriore accentuazione dell’antiquatezza. Anders chiude il Volume Primo con la Parte Quarta, “Della bomba e della nostra cecità sull’Apocalisse”, dedicata a riflettere sulla potenza distruttrice delle bombe di Hiroshima e Nagasaki e sulla svolta che da lì in poi si è creata nel rapporto fra uomo, tecnica, e sopravvivenza del pianeta. Nel successivo Volume secondo, composto da ben trenta brevi saggi monotematici che riprendono le considerazioni del Volume Primo aggiornandole ai mutamenti intervenuti, si trovano annotazioni di stupefacente profondità presentate con uno stile narrativo assimilabile a quello dei “Minima Moralia” di Theodor Adorno (1903-1969, filosofo tedesco esponente della Scuola di Francoforte), ma dai quali trapela però uno stato d’animo che si è fatto più pessimista, più spaventato. Emerge infatti da questo insieme di considerazioni frammentate, ma non frammentarie, la sensazione che l’antiquatezza sia divenuta ormai tale da cancellare le residue possibilità dell’uomo di contrastare le conseguenze dell’era della tecnica e di cogliere il rischio ultimo della sua stessa sopravvivenza. Lecito chiedersi cosa direbbe oggi Anders a fronte dell’attuale emergenza ambientale.

AGGIUNTA

Per chi fosse interessato ad approfondire, inserendolo nel contesto culturale novecentesco, il lavoro filosofico di Anders può essere utile l’ottima analisi svolta da Pier Paolo Portinaro (Professore di Filosofia Politica presso l’Università di Torino) nel suo saggio “Il principio disperazione: tre studi su Gunther Anders(Bollati Boringhieri, 2003). Portinaro approfondisce e valorizza i punti cardine della riflessione di Anders dalla quale a suo avviso emerge però il rischio di un eccesso di rassegnazione tale da negare la possibilità di una salvifica prassi. Questa tendenza, non a caso definita “principio disperazione”, deriva dalla convinzione di Anders che la condizione a cui l’uomo è oggi arrivato sia sostanzialmente irrecuperabile. La scelta del termine “principio” non è occasionale: molte importanti riflessioni filosofiche novecentesche, che testimoniano la profondità della svolta intervenuta con la definitiva affermazione della tecnica e della collegata urgenza filosofica di svolte altrettanto profonde e radicali, sono affidate a questo termine. Lo fa Hans Jonas (1903-1993, filosofo tedesco) con il suo “principio responsabilità(nostra “parola del mese” di Aprile 2021) che, muovendosi nel solco tracciato da Max Weber (1964-1920, sociologo e filosofo tedesco) con la sua “etica delle responsabilità”, e non meno convinto di Anders, di cui era fraterno amico, della minaccia rappresentata dal peso della tecnica nel mondo odierno, invita  ad adottare nelle scelte e nelle sue azioni umane un atteggiamento di grande attenzione etica alle conseguenze che da queste possono derivare sull’umanità tutta e sulla natura. All’opposto di Anders si muove Ernst Bloch (1885-1977, filosofo e scrittore tedesco) con il suo “principio speranza”:  che, spinto dalla convinzione che ci sia ancora spazio per una inversione di rotta rispetto alla minaccia rappresentata dal ruolo della tecnica, rilancia un ideale utopico per eccellenza: quello di dare una direzione al nostro vivere ritrovandola nella condivisione del senso di comunità.