mercoledì 27 dicembre 2017

"Considerazione inattuale" ma molto attuale di Nietzsche




"Considerazione inattuale"
ma molto attuale
di Nietzsche



Chi, non lasciandosi scoraggiare dalle settecento pagine del volume, decidesse di avventurarsi nella lettura, per altro consigliata e consigliabile, dell’ultimo saggio del filosofo francese Michel Onfray (molto “a la page”, forse troppo, e sicuramente molto, troppo, “presente” nel mercato editoriale) dal titolo “Decadenza – vita e morte della civiltà giudaico-cristiana” sicuramente resterebbe colpito da una citazione riportata nella prima pagina. E’ una considerazione di Nietzsche estratta dalla sua opera “Considerazioni inattuali” che così cita…….
Le acque della religione defluiscono e si lasciano dietro stagni e paludi, le nazioni si dividono di nuovo nel modo più ostile e aspirano a macellarsi. Le scienze, coltivate senza nessuna misura e nel più cieco laisser faire, frantumano e dissolvono quanto era fermamente creduto, e ceti civili e gli Stati civili sono travolti da una economia del denaro gigantesca e spregevole. Mai il mondo è stato più mondo, mai è stato più povero di amore e di bontà. I ceti colti non sono più fari o asili in mezzo a tutta questa inquietudine di secolarizzazione, essi stessi diventano ogni giorno più inquieti, più privi di idee e di amore. Tutto serve alla prossima barbarie, compresa l’arte e la scienza moderna…………..

Le “Considerazioni inattuali” è un’opera di Nietzsche del 1876, ossia quasi centocinquanta anni fa, e a dispetto del suo titolo ci è parsa quanto mai “attuale”. Tanto da rendere impossibile resistere al rito di vedere in frasi antiche, scritte in tempi non sospetti, valutazioni che sembrano applicarsi perfettamente ai tempi correnti. Ci è sembrato opportuno cedere a questa tentazione per il valore premonitore in sé della citazione, e soprattutto perché dà un senso anche allo sforzo, certamente non “titanico”, che Circolarmente mette in atto per resistere, nel suo piccolo, a tutto ciò.


Ed è quanto continuerà a fare.

Buon Anno!!!!!!!!!!!!!!!



Giancarlo

mercoledì 20 dicembre 2017

Relazione sull’incontro con il prof. Valter Alovisio :-a cura di Enrica Gallo


Relazione sull’incontro con il prof. Valter Alovisio:



“TUTTO IN UNA SOLA FORMA”
Una repubblica dello spirito:
 le emergenze della storia nel Bauhaus



Introduzione di Massima Bercetti:

Nel suo intervento introduttivo, Massima Bercetti chiarisce intanto i motivi per cui questo tema è stato inserito nella prima parte del programma, benché in apparenza lontano dagli argomenti trattati negli incontri precedenti.  Grazie al confronto col prof. Alovisio, che CircolarMente si onora di annoverare fra i propri amici, e in collaborazione con l’associazione di cui è fondatore (Point Zero, inteso come spazio atto a generare idee attivando ciò che già esiste nel tessuto sociale come nei singoli individui) abbiamo potuto infatti riscontrare alcune assonanze significative fra l’esperienza della Bauhaus e la nostra proposta di lavoro sul tema delle emergenze e della memoria. Questo movimento artistico e culturale che è stato anche, e soprattutto, una scuola (per questo abbiamo scelto di nominarlo al femminile) ha avuto la capacità di cogliere, grazie al suo fondatore e animatore, Walter Gropius, le trasformazioni che avvenivano nella Germania degli anni 20, in particolare quelle relative al tessuto industriale e alle modalità di produzione, che richiamando  nei centri urbani molti lavoratori richiedevano di ripensare la città, i suoi spazi, i moduli abitativi, gli oggetti d’uso, e in generale il rapporto fra l’arte e società, fra l’ arte e la vita concreta delle persone.

Allo stesso modo, sia pure con modalità molto diverse, la nostra associazione cerca di porre attenzione alle trasformazioni in atto nella contemporaneità, confrontandosi con quanti possono offrire nei più svariati campi esperienze, competenze, saperi. E ancora, così come gli artisti e gli intellettuali che animavano la Bauhaus si trovavano a vivere in un momento storico segnato da una forte crisi politica ed economica, cercando di dare a loro modo sostegno e forza ad una democrazia fragile, anche noi viviamo in tempi inquieti, che ci richiedono di essere più consapevoli tanto dei pericoli quanto delle opportunità che possono presentarsi. E’ con questo intento quindi che CircolarMente ha affidato il discorso sulla Bauhaus al prof. Alovisio, insegnante, artista, animatore culturale, di cui il pubblico oggi presente ha già avuto modo di apprezzare in altre occasioni l’appassionata competenza.



UNA PREMESSA:

Prima di presentare un percorso che avrà una forte connotazione visiva e a cui si intende dare una dimensione circolare, con una sorta di andata-ritorno dalla Bauhaus ai giorni nostri, il prof. Alovisio sottolinea come l’emergenza sia incontestabilmente interna al rapporto fra arte e società, fra arte e vita, dal momento che ogni artista non può che interrogare, in ogni tempo, il suo tempo. Un nesso inestricabile, che l’esperienza della Bauhaus rende a suo giudizio quanto mai evidente, perché è in un momento in cui le emergenze della storia davvero premono che un gruppo di intellettuali e di artisti elabora e riesce a concretizzare una proposta estremamente innovativa, su cui ancora oggi veniamo spinti a ragionare; un’esperienza che ci richiama al concetto  gramsciano di egemonia culturale, ponendo essa al centro la funzione sociale dell’arte in termini prima di tutto pedagogici (la Bauhaus è stata soprattutto un modello di scuola, dove veniva assegnata tanto al processo creativo che all’oggetto artistico una funzione educativa), ma anche politici, se ci riferiamo ad  una concezione ampia della polis intesa come comunità civile all’interno della quale si pone il problema ineludibile della democrazia. Un’esperienza–laboratorio che ha rappresentato, per il relatore che ora si accinge a farne l’oggetto del discorso, uno dei cardini del suo lavoro di insegnante, teso a valorizzare come nella scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani quel sapere fondato sulla domanda e sulla circolarità delle risposte che mette al centro il rapporto “socratico” fra il maestro e l’allievo, dove il maestro non è solo un insegnante, ma qualcuno che in questo scambio mette in gioco l’intera sua esistenza.



1. GLI ANGELI DI PAUL KLEE:

la supremazia del divenire sull’essere e il tema di un futuro possibile che emerge dalle rovine del passato

E’ dunque con un profondo coinvolgimento personale che il prof. Alovisio conduce i suoi ascoltatori direttamente all’interno di questa straordinaria esperienza culturale, scegliendo un approccio che potrebbe apparire laterale e financo spiazzante, ma che in realtà ci aiuterà a definirne con particolare intensità il timbro: non solo perché Paul Klee è stato uno dei fondamentali maestri della Bauhaus, ma perché nei suoi disegni relativi agli angeli potremo riconoscere alcune delle caratteristiche salienti del progetto. Prima di esaminarli tuttavia è importante chiarire che cosa significavano, per Klee, questi angeli a cui il pittore ha dedicato, dalla prima maturità fino alla morte, una serie molto ampia di disegni che sembrano pensieri in movimento. Negli angeli Klee vedeva infatti la parte interna, divina o se vogliamo trascendente, che appartiene a ciascun uomo; una parte che ad un certo punto dispiega le ali, perché ha voglia di andare in una dimensione altra che superi l’immanenza insita nella condizione umana. In essi peraltro, come spiega il prof. Alovisio, vengono anche a definirsi dal punto di vista formale e compositivo alcuni principi fondamentali di una visione artistica in cui il divenire è tutto e sovrasta l’essere, e in cui il brutto è superiore al bello, perché il bello verrebbe a negare quell’imperfezione che sola rende possibile il cammino, la trasformazione. Non ci stupiremo dunque nel vedere questi angeli che non hanno certo un corpo bello e che sono lontanissimi dal nostro immaginario angelico di sovrumana bellezza e perfezione: sono davvero angeli molto umani, il che risulta evidente soprattutto nei due primi disegni che il relatore ha scelto di mostrarci a titolo esemplificativo, composti entrambi poco prima della morte del pittore.  Decisamente aggraziato, il primo - che Klee ha denominato Angelo civettuolo”-
in cui linee morbide tracciano il profilo di un essere giovane, dall’aria alquanto fragile e femminea, lo sguardo ironicamente ammiccante  (ancora forse rallentato nel suo cammino dall’illusione dell’effimero, un ricordo possibile della “vanitas” petrarchesca, come suggerisce il prof. Alovisio); più complesso il secondo, nominato da Klee Angelo in cammino…ma ancora maleducato”,
che con quei piedini ancora con tutta evidenza pronti ad andare e ancor più con lo stesso sottotitolo ci racconta di come per il pittore, che pure stava già guardando la morte in faccia, il movimento dell’angelo non si fermi mai, ma ci sia ancora e sempre il divenire, perché ancora e sempre dobbiamo migliorarci, ancora e sempre dobbiamo proseguire il cammino. C’è dunque in questi disegni un’idea positiva ed evolutiva di futuro, che secondo il relatore è davvero in linea con l’esperienza complessiva della Bauhaus. Tuttavia, per comprenderla appieno risulta ancora più rilevante a suo giudizio un piccolo acquerello degli anni 20,

che rappresenta un angelo bambino, con la testa enorme sul piccolo corpo, i grandi occhi sgranati, le gambette un po’ attorcigliate. Un angelo nuovo, dunque, come recita il titolo (“Angelus novus”), che ha cominciato da poco il suo compito di mediatore fra terra e cielo, anche se le braccia sono già diventate ali rivolte verso l’alto, pronte a percorrere l’eterno cammino. Non sono peraltro le caratteristiche figurative, attraenti se pure inconsuete, ad aver reso così famoso questo Angelo di Klee, bensì la lettura che ne ha fatto uno dei più importanti intellettuali del novecento, Walter Benjamin, nelle sue “Tesi di filosofia della storia” (un testo del 40, composto poco prima della morte tragica dell’autore, e pubblicato postumo). Benjamin ha visto infatti in questa immagine, nella postura irrigidita dell’angelo e in quegli occhi sbarrati che guardano fisso davanti a sé, il perfetto emblema di quello che chiamerà l’ “Angelo della storia”, di colui che vede davanti ai suoi occhi il cumulo delle macerie provenienti da un passato che vorrebbe redimere, se non ne fosse impedito da una violenta tempesta che si alza dal cielo spingendolo irresistibilmente nel futuro (ciò  che chiamiamo progresso, dice Benjamin, è questa tempesta). Una visione che sintetizza in modo davvero mirabile la concezione insieme dialettica e messianica della storia esposta nelle Tesi, basata sull’idea che non esista un tempo lineare in cui il presente è sempre frutto del passato, ma che ci sia invece un rapporto dialettico fra passato e presente per cui accade talvolta che esso irrompa nel presente come epifania, aprendo la possibilità di un futuro redento dalle tragedie della storia. Una concezione che a giudizio del relatore ben si attaglia al percorso proposto da CircolarMente, per cui articolare il passato non significa solo conoscerlo per ciò che è stato, ma farlo significare in modo da estrarne le potenzialità emancipatrici, e che parimenti ci aiuta a capire il percorso della Bauhaus che davvero ha rappresentato, secondo la sua interpretazione, questa “epifania di senso”. Non c’erano infatti che rovine davanti all’Angelo della Storia, nel momento in cui prendeva forma la Bauhaus: una Germania piegata e piagata dalla guerra, soffocata dalle condizioni di pace troppo onerose imposte dai vincitori, davanti alla quale si presentava il baratro della crisi economica. Eppure, da queste rovine c’era chi sapeva e voleva immaginare un futuro di redenzione, cercando di costruirlo.

2. TUTTO IN UNA SOLA FORMA:
idee portanti e modalità organizzative della Bauhaus
Dopo questa introduzione, il prof. Alovisio passa a ricostruire con l’aiuto di molto materiale visivo la storia di questo movimento artistico nel suo impianto concettuale, nelle proposte pedagogiche, nelle modalità operative e naturalmente nei suoi protagonisti. Una storia che si snoda in Germania fra il 1919 e il 1933, e in cui possiamo riconoscere tre diverse fasi, a cui corrispondono tre diversi luoghi:                                                                   
WEIMAR (1919 / 1925): L’INIZIO
 il manifesto programmatico:
Non è certo privo di interesse, osserva il prof. Alovisio, il fatto che la nascita di quel movimento artistico e culturale che i suoi fondatori chiamarono Bauhaus (un termine ideato da Walter Gropius, che richiamava la loggia medioevale dei muratori ) sia avvenuta proprio in quella stessa cittadina della Turingia dove si stava elaborando la nuova Costituzione e si dava vita alla Repubblica, cercando di portare la Germania fuori dalle rovine del Reich: un tentativo certo minato da fragilità interne, ma pur sempre contrassegnato dalla speranza e da un sincero impulso trasformativo. Lo stesso che animava Walter Gropius - un architetto che aveva già al suo attivo esperienze importanti, come la costruzione di un grande edificio destinato ai pubblici uffici a Colonia, e che si riconosceva nella cosiddetta corrente modernista del razionalismo architettonico - spingendolo ad elaborare una proposta decisamente innovativa, cioè quella di accorpare l’Istituto Superiore di belle arti con la Scuola d’arte applicata. Per capire la portata rivoluzionaria di questa proposta e l’idea geniale che l’animava, il prof. Alovisio ha letto alcuni passi del manifesto programmatico della nuova scuola, da cui si evincono le idee di fondo: quella, intanto, per cui i confini tradizionali fra artigianato, scultura e pittura dovessero sciogliersi all’interno dell’ architettura, che Gropius considerava la sintesi di tutte le arti (secondo il modello della cattedrale gotica, che vediamo stilizzata sul frontespizio del manifesto dalla xilografia di Lyonel Feininger, dal momento che nel suo grande cantiere l’architettura faceva da asse portante attorno al quale gli scultori, i pittori, gli scalpellini, i lavoratori del legno e del vetro si disponevano con migliaia di mani cooperanti a produrre tutto in una sola forma).  Un’idea di costruzione del futuro a cui i fondatori dichiaravano di voler dedicare tutte le loro energie, la loro inventiva, la loro creatività, concretizzandola in una visione pedagogica di portata altrettanto rivoluzionaria. Unificare l’insegnamento accademico con quello pratico e artigianale implicava infatti il riferirsi ad un’idea di teoria non separata dalla pratica, che deve portare cioè alla realizzazione di un prodotto che a sua volta non può essere disgiunto dalla complessità della teoria. Una scommessa forte, sicuramente, che nonostante le prevedibili difficoltà poté contare già nel primo anno su di un numero rilevante di iscrizioni (208), ad indicare come il clima culturale fosse in quegli anni aperto a progettualità nuove in grado di attrarre anche docenti di chiara fama. Fin da subito infatti Gropius, pur mantenendo il corpo docente pregresso, aveva fatto arrivare dall’esterno personalità prestigiose: in primo luogo Johannes Itten, un pittore svizzero che entrerà a far parte della scuola già nel 19, informandone il percorso con la sua visione teosofica (molto diversa da quella di Gropius, il che porterà nel tempo ad una rottura fra i due uomini), seguito nel 20 da Paul Klee e nel 22 da Vassilij Kandinskij.
la struttura didattica:
Per quanto riguarda l’impianto didattico e le modalità organizzative, l’asse portante della nuova scuola era il laboratorio, inteso come luogo in cui in cui si impara facendo, ma si fa conoscendo sotto la guida abbinata dell’insegnante di teoria e del “maestro di bottega” (in modo non troppo dissimile da quanto avveniva nelle botteghe rinascimentali, anche se con una maggiore complessità concettuale). Tuttavia, mentre all’inizio i vari laboratori erano immediatamente accessibili agli allievi, dopo un certo periodo fu istituito, per ispirazione di Itten che lo gestirà direttamente, un corso propedeutico semestrale che aveva funzione di sbarramento e che consisteva essenzialmente in un lavoro fondato sulle coppie oppositive, cioè sull’idea che occorra portare a sintesi la dialettica degli opposti.
In generale comunque il punto di partenza era costituito dalla teoria della forma e della figurazione, in cui daranno apporti fondamentali Paul Klee e Kandinskij. Una teoria che si misurava poi con tutta un’altra area di conoscenze legate agli utensili, ai materiali, alla natura, alla teoria dello spazio e della composizione, in un percorso in cui l’arte assumeva una valenza molto ampia secondo un principio che può essere reso sinteticamente nella formula “TUTTO IN UNA SOLA FORMA” (intendendo che tutto doveva portare ad un cantiere, ad un progetto, ad una architettura a cui ogni artista e ogni artigiano avrebbe dato il suo contributo specifico). Un percorso complesso, sicuramente, che possiamo vedere sintetizzato in uno schema che ne rende evidente la circolarità,


 e che secondo il prof. Alovisio trova una rappresentazione artistica quanto mai pregnante nella “Torre di fuoco di Itten:
una costruzione a spirale che suggerisce un passaggio di energia, una tensione spirituale verso l’alto, composta da dodici cubi le cui facce sono raccordate con superfici curve specchiate che si evolvono e in cui compaiono tutti i materiali. E’ questo infatti, secondo il relatore, il senso complessivo della Bauhaus.
la dimensione comunitaria:
In questo modello di scuola era inoltre presente una forte dimensione comunitaria: non a caso la Bauhaus è stata definita una sorta di “REPUBBLICA DELLO SPIRITO”, perché in essa c’era davvero l’idea della democrazia come prassi per la costruzione del sapere, c’era lo sforzo di costruire una comunità in cui lo spirito fosse al centro. Una comunità in cui gli artisti potevano abbinare al lavoro di insegnamento la loro personale ricerca espressiva, elaborando quei linguaggi che hanno condotto a traguardi alti dell’arte del novecento: pensiamo, dice il prof. Alovisio, a Kandinskij, che ha composto proprio in questi anni alcune delle sue opere più significative (di cui nel corso della conferenza sono state offerte immagini davvero abbaglianti! In questa sintesi ne riproduciamo una sola a titolo esemplificativo),
portando a compimento il passaggio dalle cosiddette “improvvisazioni informali” alla geometrizzazione delle composizioni, mentre dal canto suo Klee, più legato in quel periodo alla figurazione e a quella dimensione spirituale alla quale il relatore ha fatto accenno, componeva a sua volta quadri di rara bellezza.(anche in questo caso ne riproduciamo qui una a titolo esemplificativo)
Ma era anche una comunità in cui oltre alle lezioni con maestri d’eccezione, come quelli già nominati e lo stesso Itten (che nei sui corsi introduttivi  guidava gli allievi a “sentire” profondamente il movimento formale dell’oggetto da riprodurre, in modo da esserne permeati così che l’opera d’arte potesse dare vita ad una vera rinascita personale) allievi e insegnanti potevano sperimentare un modo di abitare insieme in cui la produzione artigianale e artistica non era disgiunta dalle occasioni della vita comune: l’apprestamento di spettacoli teatrali, le feste, gli eventi pubblici.
l’ Esposizione del 23
Secondo il progetto iniziale di Gropius, l’unificazione fra arte, artigianato e tecnologia doveva anche trovare il modo di stabilire una connessione con il mondo esterno e con l’industria, per poter dare vita ad una effettiva trasformazione sociale. L’occasione fu cercata nel 23 attraverso l’organizzazione di una grande mostra che prevedeva sia la costruzione dello stesso spazio espositivo (il primo dei molti edifici di impianto razionalistico che la Bauhaus progetterà negli anni successivi, affidato in questo caso ad Hannes Meyer),
che i moduli abitativi interni, con tutti gli oggetti d’arredamento pensati in modo da avere in sé la complessità di oggetti d’arte e la funzionalità di un uso reale. Nonostante il grande investimento finanziario, progettuale e organizzativo, la mostra non ottenne il risultato sperato (fu anzi decisamente un fallimento: del resto il contesto esterno si stava rapidamente deteriorando a livello politico ed economico).  Resta peraltro un momento significativo a indicare il contributo della Bauhaus al design: la maggior parte degli oggetti allora esposti si trova infatti oggi nei musei più importanti, soprattutto al Beaubourg di Parigi, e fa parte a pieno titolo della storia dell’arte. Il prof. Alovisio ha mostrato in particolare alcune sedie, fra cui  quella ideata nel 25 da Marcel Breuer, allora direttore del laboratorio del legno, che aveva operato una vera e propria rivoluzione sia nei metodi di produzione che nell’uso dei materiali, impiegando per la prima volta tubi di acciaio nichelato
(denominata allora semplicemente “modello  B3”, diventerà un’icona negli anni sessanta grazie ad un imprenditore bolognese, Dino Gravina, che la chiamerà  “Wassily” in onore  di Kandinskij).
DESSAU (1925 / 1932): LA SVOLTA
L’insuccesso della mostra viene inevitabilmente a pesare sul destino della Bauhaus, contribuendo ad inasprire le tensioni già presenti fin dall’inizio e facendo esplodere il contrasto fra la visione razionalista di Gropius e quella teosofica di Itten, che infatti lascia la scuola nel 23. A questo punto sembra inevitabile la pur dolorosa decisione di chiudere la scuola, ma dopo la dichiarazione di scioglimento le richieste di aiuto trovano una inattesa solidarietà in molte città tedesche, che si offrono di ospitarla con il contributo di imprenditori illuminati e interessati alla prosecuzione dell’impresa.Viene scelta Dessau e nel passaggio di luogo e di ambiente la Bauhaus acquisirà una fisionomia in parte diversa, perché Gropius, che ne è ancora il direttore e che da sempre è interessato a far confluire nel contenitore architettonico tutte le arti, darà vita ad un progetto di ampio respiro volto alla realizzazione di una vera e propria cittadella dell’arte secondo i principi del razionalismo architettonico. Un’opera imponente, composta da un grande edificio centrale

atto ad ospitare le aule, i laboratori, il teatro, oltre agli alloggi degli studenti,  attorno al quale si stendevano le abitazioni degli insegnanti. Il lavoro di costruzione non andrà però a detrimento dei corsi tenuti da Klee e Kandinskij, che anzi riescono ad acquistare una maggiore autonomia in grazia della loro forte personalità, in grado di fare da contraltare alla visione dominante di Gropius. Kandinskij resterà infatti fino al definitivo scioglimento, mentre Klee accetterà nel 31 l’incarico di docente all’Accademia di Dusseldorf.                                         
BERLINO (1932 / 1933): LA FINE
L’equilibrio raggiunto darà per alcuni anni forza e compattezza alla scuola, nonostante i tempi inquieti. Poi, la pressione delle emergenze della storia si farà insostenibile e con la presa definitiva del potere da parte dei nazionalsocialisti la Bahaus, che si era nel frattempo trasferita a Berlino e che già era stata sottoposta a perquisizioni e angherie varie, viene definitivamente chiusa nel luglio 33 con l’accusa di produrre arte “degenerata”, non rappresentativa dello spirito del popolo tedesco.  Si chiude così, dopo quattordici anni, la lunga parabola di un movimento artistico e culturale destinato a lasciare il segno sulle tendenze dell’arte e dell’architettura nei decenni a seguire, e ancora adesso capace, a giudizio del relatore, di interrogarci sul senso di un’utopia possibile di futuro. Un’utopia che pare oggi totalmente assente, se non paradossalmente rovesciata nella sua direzione, così come l’ha colta in un testo scritto poco prima di morire (“Retrotopia”) un analista sottile della contemporaneità come Zygmunt Bauman, notando l’insorgenza diffusa – specie nel mondo giovanile – dell’immagine utopica di un passato che si connota semplicemente come ritorno ad un’epoca di supposta sicurezza. Siamo ben lontani dunque, osserva il prof. Alovisio, dalla profondità con cui Benjamin aveva interpretato l’Angelo di Klee, sulla base di una concezione dialettica del rapporto fra presente e passato: è come se ad un secolo di distanza, con un totale cambio di segno, davanti agli occhi sbarrati dell’Angelo si stendesse non già il passato ma il futuro, e le sue ali venissero piegate dalla violenza di un tempesta che non giunge dal cielo, bensì dall’inferno di un futuro immaginato e temuto ancor prima che accada, spingendolo verso un passato percepito come paradisiaco…Non tutti, tuttavia, condividono questa visione, e non mancano segnali di speranza che permettono al relatore di concludere con una nota positiva questo discorso sulla Bauhaus, cui ha inteso dare un andamento circolare passando dal passato al presente.
 3. LA “CITTADELLARTE”
DI MICHELANGELO PISTOLETTO
Il terzo Paradiso
Da alcuni anni un artista proveniente dall’esperienza dell’“arte povera” piemontese, ma capace poi di ampliare veramente il suo sguardo sul futuro, sta conducendo a Biella un’esperienza veramente innovativa: utilizzando un grande opificio ha infatti dato vita ad un modello di scuola d’arte che il relatore giudica molto interessante, con caratteri vicini a quelli della Bauhaus. Attraverso le parole del manifesto programmatico e le immagini che intanto scorrono sullo schermo, siamo dunque venuti a conoscere questa città dell’arte il cui nome incorpora significativamente tanto quello di “cittadella”,
a indicare un’area in cui l’arte è protetta e ben difesa, quanto quello di “città”, di polis, che corrisponde all’idea di apertura e di interazione con il mondo del suo ideatore (in essa vengono ospitati studenti provenienti dai più vari paesi, secondo un ideale multiculturale e in una prospettiva autenticamente comunitaria). Secondo Michelangelo Pistoletto la “cittadellarte” vuole essere un grande laboratorio, un generatore di energia creativa teso a sviluppare processi di trasformazione responsabile nei diversi settori della vita sociale. Dal punto di vista architettonico e organizzativo si presenta con un impianto di tipo cellulare: è composta cioè da un nucleo centrale che si suddivide poi in vari nuclei a cui l’artista ha dato il nome di “uffizi”, ognuno dei quali svolge un’attività specifica secondo un progetto comune, occupandosi tanto di arte quanto di educazione, economia, ecologia, spiritualità. Siamo dunque molto vicini all’esperienza della Bauhaus, secondo il prof. Alovisio, perché  affine è il tentativo di unire la prospettiva teorica con quella operativa, la dimensione utopica con quella concretamente realizzabile (un terzo paradiso? Così definisce infatti l’autore il tentativo di mettere insieme natura e cultura, scuola e territorio, passato e presente, rappresentandolo simbolicamente con una linea che
anziché chiudersi a formare un solo cerchio genera al suo interno un altro cerchio più grande, a dare l’idea di un infinito in cui tutte le ambivalenze possibili – l’io e il tu, la natura e la cultura, il passato e il presente -  possano integrarsi).
(Questa immagine simbolo è stata riprodotta da Pistoletto in diverse occasioni e luoghi, uno in particolare ci ha toccato da molto vicino

RIFLESSIONI CONCLUSIVE:
E’ dunque con la presentazione di questo simbolo, aperto al futuro e non dimentico del passato, e con la visione di alcune installazioni molto suggestive realizzate da Michelangelo Pistoletto, che il prof. Alovisio termina la sua esposizione, regalando ai suoi ascoltatori alcuni versi del poeta friulano Pierluigi Cappello, molto intensi oltre che veramente pertinenti al tema dell’incontro (N.B. = li riprodurremo a fine pagina, offrendoli anche noi come dono ai  cento lettori del nostro blog).  Dopo di che, come sempre, e in particolare quando gli incontri di CircolarMente hanno un più spiccato andamento seminariale, si apre uno spazio di discussione e di riflessione comune, senza necessariamente articolarsi nello schema riduttivo di domande e risposte. In questo caso ci si interroga particolarmente sull’effettiva possibilità per l’arte di svolgere una funzione sociale, e sulle difficoltà inevitabili che incontra nel rapportarsi con la storia e con il potere. Un tema, questo, che come ricorda il prof. Alovisio era già stato affrontato in modo estremamente lucido e avvertito dallo stesso Benjamin, in un testo del 36 intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica”.  Benjamin notava infatti che l’arte, perdendo l’aura di sacralità che aveva nel mondo classico in cui l’opera era unica, aveva davanti a sé un sentiero davvero stretto fra il diventare asservita al potere o il mettersi al servizio di una visione etica e dunque nel solco dell’umanesimo (pensiamo, osserva il relatore, al passaggio dalla Bauhaus o dal costruttivismo russo al realismo di stampo sovietico e nazista, pilastro del regime, o ancora all’arte precettistica della controriforma…). Cogliendo questo spunto, e facendo appunto riferimento all’esperienza storica della Bauhaus e alla sua eredità, uno degli interlocutori si chiede se davvero questo movimento artistico e culturale  sia riuscito ad evitare il rischio segnalato da Benjamin, che in una prospettiva marxista ma con sensibilità che potremmo definire gramsciana, pur riconoscendo all’arte la funzione di costruire in uno spirito di comunità indicava che quando l’arte si mette al servizio della struttura diventa  funzionale al potere. Un rischio che a giudizio di chi pone questo problema si fa evidente nel momento in cui gli oggetti d’arte della Bauhaus cominciano a richiamare l’interesse imprenditoriale e si passa dai disegni e dalle proposte alla produzione (una parola, quest’ultima, che è pur sempre l’architrave dei molti guasti della modernità), spostandone la finalità. Tutto questo è ben presente al prof. Alovisio, che ricorda il tentativo della pop art americana di affrontare il tema della mercificazione dell’oggetto d’arte portandolo all’eccesso. Tuttavia, che il sistema abbia vinto storicamente non rende a suo giudizio meno fecondi i semi che sono stati sparsi, come dimostra l’esperienza di Pistoletto e come vorrebbe essere, in piccolissima parte, quella di Point Zero, un tentativo cioè di riprendere queste tracce, di vivificarle…Anche altri interlocutori del resto ritengono che vada riconosciuto come positivo il tentativo di Gropius di portare, in un contesto industriale in cui la produzione di oggetti rischiava di essere depauperata della bellezza, quel sovrappiù di bellezza e di significato che gli oggetti d’arte possono contenere, pur non essendo nelle sue intenzioni il fare qualcosa di dirompente rispetto ai processi del capitalismo. Segnaliamo ancora un ultimo intervento che pone l’accento su di un altro tema, e cioè sull’enorme distanza fra il contesto in cui operavano questi artisti e quello odierno, il che rende problematico il raffronto e la valutazione di questa eredità. Gli anni venti erano infatti caratterizzati tanto dall’avvento di una tecnologia che metteva a disposizione degli artisti possibilità prima impensate, quanto da un clima politico culturale fortemente instabile, in cui lo sganciamento dalle forme della tradizione, qualunque sia il nostro giudizio su di esso, liberava forti energie creative. Nessuno del resto si poneva allora il problema della sostenibilità ambientale delle nuove tecnologie, e il futuro sembrava completamente aperto. Ora non è così, anche gli artisti si devono confrontare col problema del limite, di un’economia sostenibile, di una società piena di vincoli…Si torna poi a parlare del tempo, del rapporto fra passato e futuro, cogliendo la suggestione della poesia di Cappello che parla del passato come qualcosa che agisce ancora in noi: di cosa vogliamo fare di questo passato, della possibilità di poter davvero cogliere in esso quel tanto di irrisolto che contiene, per liberare potenzialità che non si sono realizzate ma che potrebbero ancora tornare a significare.
N.B.= Si chiude così un incontro in cui l’appassionata esposizione del relatore ha trovato una forte rispondenza nell’interesse degli ascoltatori. Dal canto nostro, abbiamo cercato di renderne conto restando il più possibile fedeli alle parole del relatore e delle persone che sono intervenute nel discorso.
 Per CircolarMente, Enrica Gallo

OMBRE

... IL FUTURO NON E’ PIU’ QUELLO DI UNA VOLTA, E’ STATO SCRITTO
DA UNA MANO ANONIMA, GENIALE
SU DI UN MURO GRAFFITO ALLA PERIFERIA DI UDINE,
IL FUTURO E’ CIO’ CHE RIMANE, CIO’ CHE RESTA DELLE COSE CONVOCATE
NELLO SCORRERE DEI VOLTI CHIAMATI, AGGIUNGO IO.

… E ANCHE SE LE VOCI DEL MONDO SI APPUNTISCONO
E QUALCOSA DIVIDE L’OMBRA DALL’OMBRA
MENO SOLO MI PARE DI ANDARE, PREMENDO UN PIEDE
DOPO L’ALTRO, SECONDO LA FORMULA DEL LUOGO,
DAL BASSO ALL’ALTO, SEGUENDO UNA SALITA.

(dalla raccolta “Azzurro elementare”, di Pierluigi Cappello)






domenica 10 dicembre 2017

- Ancora a proposito di "post-verità" - Articolo tratto dalla rivista on-line "La Tascabile"


La verità in dubbio

Cosa resta della verità nell'età delle post-verità?



Lo abbiamo chiesto a quattro filosofi che di verità si occupano = articolo di Fabio Gironi, filosofo ricercatore all’University College di Dublino, apparso sulla rivista on-line “La Tascabile”


Uno dei fenomeni sociali che caratterizza maggiormente la scena pubblica e politica sembra essere il disinteresse per l’opinione degli esperti, e il proliferare di “teorie alternative”. In gergo filosofico, questo fenomeno si può definire deflazione dell’autorità epistemica. Questa è una forma di autorità conferita non da status sociale, lignaggio nobiliare, o investitura divina, ma dall’esperienza in un determinato campo del sapere. L’autorevolezza del biologo, dello storico, ma anche dell’ingegnere meccanico e dell’agricoltore, dipende dal livello di studio e preparazione teorica, dall’esperienza pratica diretta, e dall’essere parte di una comunità epistemica (un gruppo di persone che condividono determinati obiettivi, e dediti allo stesso tipo di attività o ricerca) capace di valutare le proprie conoscenze. Quello che movimenti differenti come l’anti-vaccinismo, il negazionismo del cambiamento climatico antropogenico, o proposte di “medicina alternativa” hanno in comune è un tratto fondamentale: lo scetticismo sistematico verso gli esperti, visti come collusi con “poteri occulti”, che nei casi più eclatanti sfocia in un aperto anti-intellettualismo. Questo fenomeno riflette una visione del mondo diviso in una classe di “studiosi” sedicenti esperti, e una di gente dotata di senso comune – dove quest’ultimo viene considerato come un valido sostituto alla competenza specifica. Insieme ai diffusi fenomeni di echo chamber e filter bubble (comunità virtuali chiuse all’influenza esterna che permettono la proliferazione di notizie non sostanziate dai fatti) la perdita di fiducia nell’autorità epistemica sta producendo un cambiamento nel concetto stesso di verità dei fatti. Certamente, le menzogne non sono una novità del ventunesimo secolo: già nel 2005 il filosofo Americano Harry Frankfurt apriva il suo breve saggio Stronzate osservando come “uno dei tratti più salienti della nostra società è che circolino così tante stronzate”, differenziando la stronzata dalla menzogna. La prima non è solamente un capovolgimento intenzionale della verità ma dipende da un sistematico svuotamento del concetto di verità, e una studiata indifferenza rispetto ai fatti. Ma è anche vero che la propagazione di stronzate raggiunge oggi livelli altissimi: è ovvio che certe verità non siano tali, perché l’affermazione vera è meno importante di quella efficace. Questo fenomeno è esemplificato dal ben noto termine “post-verità”: parola dell’anno nel 2016 per l’Oxford Dictionaries, questo aggettivo è definito “relativo, o che denota, circostanze in cui i fatti oggettivi hanno meno influenza nel formare l’opinione pubblica rispetto ad appelli a emozioni o credenze personali”. Altrettanto famosi ormai sono sia il termine (intrinsecamente ossimorico) alternative facts, che l’espressione fake news, entrambi contributi dell’amministrazione Trump negli Stati Uniti. Considerato come queste distinzioni (fatti vs finzioni, verità vs menzogna) così familiari ai filosofi, abbiano oggi fatto irruzione nelle nostre discussioni quotidiane, abbiamo voluto esaminare la situazione contemporanea insieme a quattro filosofi e filosofe esperti di questioni epistemologiche: Maria Baghramian, della University College Dublin; Mario De Caro dell’Università di Roma Tre; Gloria Origgi dell’Institut Nicod dell’Ecole Normale Supérieure, e Nicla Vassallo, dell’Università degli Studi di Genova.


Domanda = Alcuni critici hanno tracciato la genesi della situazione presente, più o meno esplicitamente, al clima culturale del recente passato, in particolare all’eredità del post-strutturalismo e di altre posizioni filosofiche che hanno promosso un approccio critico verso le nozioni di autorità e di verità. Ogni movimento filosofico deve essere collocato nel suo contesto storico-sociale, ed è evidente che “il postmodernismo” rispondesse a delle precise preoccupazioni socio-politiche, primo tra tutti, in campo politico, lo spettro dei dispotismi autoritari che hanno dominato la metà del ventesimo secolo (il celebre, e spesso incompreso, rifiuto delle metanarrazioni). L’ironia è che ora viene accusato di aver riprodotto lo stesso problema, rendendo qualsiasi narrazione degna di fiducia. È giusto accusare questo momento intellettuale dei mali presenti?

 GLORIA ORIGGI = Il post-modernismo è un aggregato di idee di avanguardia di provenienza diversa, estremamente influente nell’arte contemporanea, nella letteratura del dopo-guerra e in una serie di esperienze artistico-politiche, spesso di natura provocatoria, necessarie però per scuotere una cultura vecchiotta, incapace di auto-osservazione e tipicamente egemonica. Non demonizzerei il post-modernismo nei contenuti, almeno non più di quanto si possa fare con i tanti movimenti di avanguardia che hanno attraversato il ventesimo secolo, con successi e insuccessi. Non c’era una verità da mettere in discussione, ma un’egemonia conoscitiva che passava dai banchi di scuola, dal sapere diffuso dai musei, dal cinema e poi dalla televisione e che andava sicuramente ripensata dopo i disastri di due guerre mondiali e di più di un secolo di colonialismo. I toni assurdi, provocatori, le boutades, le trasgressioni hanno avuto effetti positivi e negativi. Sicuramente un effetto positivo è stato quello di includere nel discorso culturale “alto”, personaggi, esperienze, culture, minoranze che a questo discorso non avevano accesso. Un altro innegabile effetto positivo è stato quello di sviluppare una coscienza critica nei confronti dei propri atti culturali e svelare la dimensione spesso politica o economica di tutte le espressioni culturali. Le conseguenze negative sono state un generale impoverimento dell’esperienza culturale, uno scetticismo verso la qualità intrinseca dell’oggetto culturale che ha fatto sì che da movimento di avanguardia, il postmodernismo si allineasse con le esperienze culturali più “leggere” della nostra società, come la pubblicità o il marketing. E insieme una tendenza paranoica collettiva a leggere in termini manipolatori qualsiasi proposta conoscitiva. Movimento tendenzialmente “di sinistra”, il postmodernismo è stato purtroppo reclutato “a destra” per legittimare la decimazione degli studi umanistici nelle università di tutto il mondo, visti come ricettacolo di idee paranoiche e estremiste volte ad abbattere il canone culturale occidentale. L’accusa che rivolgo al post-modernismo è più che altro questa: che, grazie alla sua faciloneria intellettuale ha delegittimato le scienze umane, rendendosi complice di un generale impoverimento del sapere, di un “clash” tra cultura scientifica e cultura umanistica e di una tecnicizzazione della conoscenza che ci rende tutti più stupidi. Non bisogna però confondere le derive postmoderniste dall’idea di Lyotard di condizione postmoderna. Quella fu una vera intuizione. E noi oggi siamo in una condizione postmoderna, per navigare la quale il postmodernismo come movimento di idee non ci aiuta per niente, ma neanche il tentativo ingenuo (penso al nuovo realismo) di ritrovare una realtà intatta, un terreno sicuro a cui ancorarci come dei naufraghi a una zattera.

MARIA BAGHRAMIAN = Diversamente da molti miei colleghi sul fronte continentale, non ho mai apprezzato molto le virtù del postmodernismo, in particolare considerando i suoi proclami di rappresentare un momento progressivo, e politicamente sovversivo, della nostra vita intellettuale. Il mio rigetto del postmodernismo ha dei paralleli con la mia critica del relativismo, un tema chiave della mia ricerca degli ultimi trent’anni. Da una parte, mi sono sempre opposta a un troppo semplicistico rifiuto del relativismo come incoerente o contraddittorio, ma dall’altra ho sempre rifiutato con forza l’identificazione di un’attitudine relativistica con una politica progressista. Il relativismo è un framework concettuale molto sfuggente, che può condurre a quietismo e inazione, ma può anche essere adottato a fini autoritari e regressivi. Non dobbiamo dimenticarci che Mussolini era un convinto relativista, e che i Nazisti proposero una forma di relativismo razziale. I pensatori postmoderni, attraverso aforismi e metafore piuttosto che tramite argomentazioni filosofiche tradizionali, hanno messo in dubbio alcuni precetti fondamentali del discorso culturale, che si concentra sui temi della ragione, e della ricerca razionale. Facendo ciò, hanno occupato lo stesso terreno intellettuale del relativismo. Questo, secondo me, è stato il loro più grande difetto. Il postmodernismo ha “problematizzato” (come si dice in gergo) le idee di oggettività, verità, e logica, con l’obiettivo – si diceva – di liberarci dalla schiavitù della ragione, imposta dall’Illuminismo. Quest’ultimo viene presentato come un movimento monolitico e autoritario alleato con l’imperialismo occidentale e il colonialismo, mentre il postmodernismo sarebbe alleato alla lotta per l’emancipazione da ogni tipo di tirannia. Per molti postmodernisti l’Illuminismo – accompagnato dalla fiducia nella forza della ragione e della razionalità, e l’ottimismo nei confronti della possibilità di emancipare la specie umana – divenne un nemico politico e sociale. I critici postmoderni della scienza, delle sue pratiche e istituzioni hanno ragione a enfatizzare i meccanismi di esclusione presenti in essa. Le donne, le persone di colore, e altri gruppi marginalizzati sono stati sistematicamente esclusi, sottovalutati e umiliati. Ma le ragioni di queste esclusioni sono opposte a quelle proposte dal postmodernismo. Che la conoscenza è potere è un’antica ma profonda intuizione riguardo al ruolo che la conoscenza gioca all’interno della nostra vita sociale e politica. Gli uomini bianchi al potere hanno usato la scienza e le norme razionali per escludere le donne e gli “altri differenti” dai centri di conoscenza che si affidano proprio a queste norme. Il responso a queste pratiche di esclusione non deve essere quello di abbandonare i potenti proclami della conoscenza scientifica, ma di rivendicarli a sé. Ad esempio, le donne in Iran stanno riuscendo in questo intento, riempiendo i campi STEM nelle università del paese, tradizionalmente riservati agli uomini.

Domanda = È possibile che l’overdose di informazioni di cui il pubblico è oggi bombardato tramite i media digitali produca un rilassamento della distinzione tra verità e finzione? È concepibile che ci siano specifici limiti cognitivi che, in quanto esseri umani, limitano la nostra capacità di filtrare ed elaborare un numero così grande di informazioni, spesso contraddittorie?

 GLORIA ORIGGI = Non capisco quale sia stata l’età dell’oro in cui la gente credeva nella realtà invece che nelle finzioni. La quantità di stronzate che l’umanità è sempre stata disposta a credere non credo sia aumentata con l’avvento di Internet. È forse solo più visibile. Ma è vero che le società a forte densità informazionale come le nostre società tardo-moderne hanno effetti epistemici propri: paradossalmente, come ho cercato di mostrare nel mio lavoro, più l’informazione aumenta, più la reputazione delle fonti di informazione diventa rilevante, anzi, indispensabile per navigare un mare troppo fitto di informazioni. Un’epistemologia del presente deve dunque fornire gli strumenti per distinguere indizi reputazionali farlocchi da indizi reputazionali robusti, un lavoro ancora da cominciare che sarà sicuramente al centro della ricostruzione di un metodo sociale, condiviso e razionale di distinguere la qualità epistemica dell’informazione che ci attraversa ogni giorno.

MARIA BAGHRAMIAN = Anche io penso che la profusione di dati e informazioni odierna ha esacerbato un problema pre-esistente e perenne, quello di dover prendere una decisione riguardo a idee e fonti di informazione in contrasto tra loro. Il problema non è, o non dovrebbe essere, formulato in termini di un rilassamento della distinzione tra verità e menzogna. Questa distinzione, mi sembra che sia implicita nella nozione stessa di modi di pensare giusti e sbagliati riguardo a ciò che succede. Il problema risiede piuttosto nel nostro non avere sufficienti strumenti epistemici per distinguere le informazioni vere da quelle false, o fuorvianti. E parte del problema risiede nel minor prestigio dato oggi alla testimonianza degli esperti. La maggior parte delle cose che sappiamo deriva da ciò che abbiamo imparato dalle testimonianze ricevute da altre persone. La testimonianza degli esperti – coloro che hanno un livello di competenza e di conoscenza maggiore del nostro – è una delle fonti più importanti di conoscenza. La democratizzazione dell’informazione resa possibile da Internet, e la facile reperibilità di moltissime testimonianze di “esperti” su qualsiasi argomento, ha finito con l’indebolire il ruolo tradizionale della testimonianza come fonte di conoscenza. Con un click possiamo (o almeno ci piace pensare che possiamo) controllare e mettere in questione i consigli che ci vengono dati dai nostri dottori, i nostri avvocati, consulenti finanziari e altri tipi di esperti tradizionali. In ultima analisi, credo che l’egualitarismo epistemico nell’era dei big data sia uno sviluppo positivo, ma come tutte le rivoluzioni, questa rivoluzione informatica ha portato con sé grande insicurezza riguardo alle fonti dell’autorità, affidabili o meno.

Domanda = La maggior parte delle verità scientifiche non si possono leggere direttamente guardando i fatti, ma richiedono sovrastrutture teoriche, discussioni, e interpretazione dei dati per essere stabilite con certezza, e di conseguenza non si può concepire una comunità scientifica senza un certo disaccordo interno. Come si può comunicare questo processo al pubblico senza produrre, da una parte, un ulteriore scetticismo nei confronti della scienza, o, dall’altra, la convinzione che, se il disaccordo produce conoscenza scientifica, chiunque può essere in disaccordo con il consenso scientifico?

MARIA BAGHRAMIAN = Sono d’accordo, il disagreement è essenziale alla scienza e contribuisce positivamente a essa. Le cose si complicano quando ci si affida alla scienza e agli scienziati per consigli riguardo a decisioni politiche. Ovviamente, non è possibile prendere nessuna decisione coerente sulla base di opinioni scientifiche discordanti. In più, la fiducia che di solito accordiamo a scienziati e risultati scientifici pertinenti a questioni impersonali e su larga scala viene erosa laddove questi prendono posizione su questioni che hanno un impatto diretto sulla nostra vita e sul nostro benessere. Bisogna ricordare che quello di affidarsi a scienziati per decisioni di carattere politico è un fenomeno relativamente nuovo. La maggior parte degli storici della scienza considera la Seconda Guerra Mondiale come il punto di svolta, un periodo che cambiò radicalmente il rapporto tra governi e consulenti scientifici. Le necessità portate dalla guerra moderna crearono forti legami tra scienza e legislatura, come venne dimostrato in maniera lampante dal Progetto Manhattan negli Stati Uniti, e da Bletchley Park nel Regno Unito. Le famose parole di Robert Oppenheimer “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”, citando la Bhagavadgita, influenzano ancora oggi la nostra percezione del rapporto tra scienza e stato. Mentre dunque il pubblico è disposto a dare fiducia agli scienziati per quanto riguarda questioni tecniche, si sente anche giustificato a sospendere questa fiducia laddove i loro risultati scientifici siano direttamente legati alle nostre vite quotidiane. La soluzione non è quella di nascondere il dissenso tra scienziati (come a volte si è provato a fare), o credere che la situazione verrà rettificata quando il pubblico riceverà una chiara e precisa educazione scientifica. Piuttosto, la soluzione risiede nell’assicurarsi che le istituzioni scientifiche e gli scienziati siano consapevoli della sensazione di vulnerabilità avvertita dal pubblico di fronte alla potenza della scienza. 

GLORIA ORIGGI = Come hanno già detto molti filosofi, penso per esempio a Richard Rorty, la scienza può ispirare la gente comune come “modello” di attività epistemica ed etica: il fatto che nelle varie discipline esistano disaccordi più o meno rispettati, e che i disaccordi producano uno sforzo collettivo per andare più lontano nella comprensione, può essere un esempio di etica della conoscenza che ispira, ma certo non si può pensare realisticamente che gli esseri umani adottino in massa un metodo scientifico di disaccordo ragionato per farsi un’idea del mondo che hanno intorno. Sappiamo dalla psicologia che gestire la contraddizione è una delle cose più difficili per la mente umana: il bisogno di ridurre la “dissonanza cognitiva” è tra i meccanismi psicologici più forti che guidano il nostro pensiero. Non si può cercare di cambiare le basi cognitive del ragionamento umano: si possono però creare istituzioni, forme di incontro, metodi di dibattito, che fanno emergere il dissenso in modo costruttivo. Si può anche imparare a riconoscere e criticare i “vizi epistemici” di tanti discorsi, come l’insensibilità davanti agli argomenti contrari, l’indifferenza alle più semplici intuizioni statistiche, o l’attrazione per le teorie complottiste e paranoiche che hanno il fascino di mettere insieme fenomeni tra loro sconnessi in una specie di “narrativa” gratificante al di là di qualsiasi oggettività. Un’epistemologia politica che comprenda a quale punto la conoscenza dipenda dalle strutture istituzionali che la fanno circolare è sicuramente necessaria per creare un’epistemologia del quotidiano più virtuosa.

 NICLA VASSALLO = Quanto al problema di comunicazione, mi sembra che sarebbe abbastanza semplice: basterebbe presentare il disaccordo tra scienziati come il disaccordo tra esperti. Quando ad esempio una persona soffre di una certa patologia si reca da più esperti, e se questi (come spesso accade) sono in disaccordo tra loro si presenta il problema di chi scegliere. E lo stesso accade nella comunità scientifica. Ma la differenza tra il primo e il secondo caso è che il disagreement nella comunità scientifica (come in quella filosofica) è essenziale al progresso. Se tutti fossero d’accordo vivremmo in uno stato di stasi; invece il disaccordo e la critica devono essere visti come positivi. Purtroppo il pubblico non sospende mai il giudizio, e prende parte senza cognizione di causa per l’una o per l’altra parte di un dissenso scientifico a seconda di balzane convinzioni. Penso che la possibilità di offrire al pubblico confronti diretti o dialoghi tra due o tre scienziati che la pensino in modo diverso sullo stesso tema sarebbe utile. Infatti ciò aiuterebbe il pubblico a comprendere che le divergenze effettive sono minori di quelle che ci spacciano i media, e comprendere che questa è l’unica via che porta alla risoluzione dei problemi, il processo collettivo del problem-solving.

MARIO DE CARO = Vorrei aggiungere che l’unico modo di risolvere il problema è una seria educazione scientifica. È stato scritto recentemente che molta polemica contro i vaccini è condotta da persone che hanno studiato: il problema è capire cosa e come hanno studiato. In Italia c’è una tradizione antiscientifica molto forte, che in parte deriva dalla riforma Gentile la quale, nonostante i suoi pregi, ebbe anche alcuni grandi difetti: per cui ci sono persone che non hanno la minima idea di come funzionano la statistica e la probabilità, e che quindi, di fronte al fenomeno vaccini, non sanno comprendere appieno il problema. È del tutto evidente — è provato — che i vaccini purtroppo sono mortali per alcuni soggetti. Eppure, usandoli, si salvano molte più vite di quante se ne perdano. Naturalmente se una trasmissione (generalmente ottima) come Report va a intervistare le famiglie delle persone che sono decedute per via di un vaccino, questa informazione è scorretta, perché presenta questa morte come l’unico dato rilevante. In generale, se non si conoscono un minimo di statistica, probabilità e storia della scienza diventa praticamente impossibile orientarsi rispetto a queste questioni. Bisogna migliorare la qualità dell’istruzione scientifica, ma anche la qualità – e questo è importante – delle informazioni scientifiche diffuse dai mass media. Ci sono alcuni media che – un po’ in malafede, un po’ per ignoranza – diffondono notizie assurde. Benché in proposito non si possa imporre la censura, si dovrebbe far sì che i media che sanno come si fa la divulgazione scientifica siano nella posizione di criticare gli altri, e di dimostrare come quel modo di discutere di determinati problemi non funziona. È necessario comunicare correttamente sia i risultati scientifici che il metodo della scienza.

Domanda = Spesso sembra esserci confusione tra, da una parte, l’autorità conferita dalla conoscenza (il capire, e saper spiegare, i processi che producono un fenomeno) e dal rispetto di norme argomentative condivise e, dall’altra, le strutture normalizzanti e autoritarie. Di conseguenza, coloro che vogliono difendere il prestigio epistemico della competenza vengono accusati di elitismo, in nome del principio (giusto, ma soltanto se contestualizzato) che “tutti hanno diritto alla loro opinione”. Come si difende il concetto di autorità epistemica senza cadere nella dittatura delle “autorità” o nella “tecnocrazia”?

 MARIA BAGHRAMIAN = Si, è molto triste che la nozione di competenza, o di “autorità epistemica” sia stata accorpata all’elitismo, o addirittura a impulsi autoritari. La divisione del lavoro, linguistico ed epistemico, e la specializzazione che la accompagna sono essenziali per il funzionamento delle comunità che condividono un linguaggio e un modo di pensare, particolarmente in società avanzate e complesse. Per fare solo un esempio, la scienza come viene praticata oggi è un’impresa collettiva la cui condotta richiede un’enorme mole di divisione del lavoro epistemico e di specializzazione. Senza fiducia nella competenza di coloro che lavorano in altre sotto-specializzazioni, la scienza non potrebbe progredire, ne funzionare nella sua forma attuale. Mi sembra che queste reazioni contro l’”elitismo” della competenza siano il prodotto di pressioni economiche più che filosofiche, e devono essere spiegate di conseguenza. L’ordine economico Neoliberista ha celebrato la competenza e gli ha dato un posto di prestigio all’interno del processo decisionale sociale ed economico. L’affidamento alla conoscenza degli esperti è spesso stato accompagnato da premi economici – in particolare nel campo bancario, finanziario e legale – del tutto sproporzionati al contributo che questi esperti effettivamente apportano al benessere della società. Un secondo problema (legato al primo) è ancora una volta quello del legame tra conoscenza e potere. La conoscenza ci conferisce autorità oltre al campo epistemico, ed è spesso stata uno strumento nelle mani della volontà di potenza. Sapere, ed essere portatori di conoscenza, ci permette di influenzare gli altri, di perseguire i nostri obiettivi. Non è necessario credere (come sostiene Tim Williamson) che la conoscenza sia la norma per fare affermazioni, o che la conoscenza venga per prima, per poter apprezzare il ruolo primario che gioca in tutti i nostri scambi sociali. È un’ovvietà, ma non del tutto banale, che la conoscenza conferisce potere, ma il potere, in tutti i casi, deve rispondere dei bisogni degli altri e alle loro (e nostre) vulnerabilità. Possiamo vedere i primi segni di questa preoccupazione riguardo all’esercizio della conoscenza scientifica senza senso di responsabilità nel Dr. Frankenstein, di Mary Shelley, un romanzo quasi profetico considerando come al tempo la scienza moderna era ancora giovane. Sapere, e brandire il potere che la conoscenza ci conferisce senza responsabilità di fronte alle questioni etiche che questa conoscenza produce, è un pericolo che dobbiamo sempre tenere bene in considerazione. La connessione tra i parametri normativi della conoscenza e il mantra (a prima vista tollerante e inclusivo) “tutti hanno diritto alla loro opinione” è interessante. Molto spesso in dibattiti e conversazioni, in particolare riguardo a questioni etiche e politiche negli Stati Uniti, l’affermazione “ho diritto alla mia opinione” viene usata come carta che pone fine alla discussione. Questo è un errore. Se affermi la tua opinione sei, come minimo, responsabile per la sua plausibilità razionale, se non proprio per la sua verità. Le opinioni non sono differenti da altri tipi di credenze. Siamo tutti responsabili pubblicamente per le nostre opinioni, così come lo siamo per le nostre affermazioni di conoscenza. Gli usi odierni di questo mantra dimenticano questo componente normativo.

NICLA VASSALLO = Purtroppo sul piano fattuale si è confusa l’autorità epistemica con l’autorità politica, o l’autorità del dittatore. E tale confusione è stata particolarmente accentuata in quelle democrazie dove abbiamo avuto governi tecnici: ad esempio economisti al potere che hanno mentito, e non si sono mai pentiti delle loro menzogne (perdendo dunque la fiducia del pubblico). E il caso del nostro paese è un caso classico. Come si può ripristinare la fiducia perduta? Cercando di distinguere nettamente (nonostante le illusioni di Platone) tra il politico e l’autorità epistemica. L’autorità epistemica può solo essere un buon consigliere di un politico, ma a mio avviso non può e non deve entrare direttamente in politica: deve suggerire al meglio il politico rimanendo svincolata dal potere politico.

 MARIO DE CARO = Questo è il tipico argomento in cui si discute di bianco e di nero, come se non ci fosse alcuna via di mezzo. Con questo modo di procedere non si ottiene nulla, e anzi si generano facilmente disastri. È del tutto evidente che esiste un ampio terreno intermedio tra l’imporre presunte verità con la forza e l’accettare qualunque scempiaggine come se fosse parimenti autorevole. È sempre stato così, ma oggi con internet la situazione è peggiorata: si pensi alla famigerata frase di Umberto Eco “Internet permette a qualunque cretino di dire la sua opinione”: forse è un po’ rude, ma ha una giustificazione. Su Facebook ho letto eminenti professori o studiosi di determinati campi spiegare la propria opinione informata ed essere “confutati” in due righe da qualcuno, completamente digiuno della materia del contendere. Questo è un fenomeno grave, e direi che Facebook e simili non sono i social media ideali per una discussione seria. Il problema è che le distinzioni sono difficili: è chiaro che esistono autorità autoritarie e autorità autorevoli. È una cosa in sé ovvia, ma si sta abbassando il livello dell’istruzione generale: si tagliano i fondi per l’istruzione, la gente non va a scuola, non studia bene e poi finisce per dire scempiaggini, non essendo in grado di riconoscere i ragionamenti corretti da quelli scorretti. La situazione non sarà mai perfetta, ma ci sono molti margini di miglioramento.

 GLORIA ORIGGI = A me sembra che nelle grandi visioni sulla democrazia e in particolare nell’entusiasmo per il ruolo della Rete, vi è sempre stata una certa tendenza a semplificare e idealizzare sia le capacità cognitive che le dinamiche sociali dei cittadini. Se l’uguaglianza di diritti è un caposaldo della democrazia anche in un’epoca di spettacolari disuguaglianze economiche, l’uguaglianza epistemica, o l’egualitarismo epistemico, è spesso una nozione sottintesa, che vede i soggetti cognitivi come tutti uguali, intercambiabili, in linea di principio capaci di sviluppare tutti gli stessi argomenti seguendo lo stesso metodo (una tesi criticata per esempio da molta epistemologia femminista). L’egualitarismo epistemico è rivendicato come un diritto fondamentale non a chiedere ragioni o ad avere accesso alle stesse risorse epistemiche (diciamo una rivendicazione di qualche forma di “diritto aletico”, come ha sostenuto recentemente in un saggio pubblicato da Franca D’Agostini nella rivista Biblioteca della Liberta del centro Einaudi), ma una rivendicazione ad avere ragione e poter esprimere il proprio punto di vista al di là di qualsiasi standard argomentativo condiviso. Una rivendicazione resa possibile dalla straordinaria capacità del Web di dare voce a una moltitudine di individui che mai avevano avuto accesso alla parola “pubblica” prima d’ora. Avere ragione secondo i propri standard, rifiutare di farsi imporre qualsiasi standard epistemico percepito come una coercizione “dall’alto” è il tranello in cui cascano i cittadini più vulnerabili, che si sentono “empowered” cognitivamente e socialmente dal poter esprimere la loro opinione e non si rendono conto di essere vittime di nuove forme di controllo dell’opinione e di coercizione mentale. Un risultato recente mostra come coloro che sono i più scettici riguardo all’autorità delle testate di informazione tradizionali sono anche i più ricettivi a credere alle teorie del complotto e a cascare nella rete delle bufale trasmesse attraverso i social networks. Questo “corto-circuito” tra politica ed epistemologia è forse uno degli aspetti più salienti delle società iper-connesse e (spesso definite) post-democratiche attuali nelle quali la sovraesposizione dei pareri dei cittadini bypassa la rappresentanza politica con modalità che delegittimano la seconda senza legittimare la prima.