lunedì 22 luglio 2019

L'angolo dell'Arte - Luglio 2019


“L’angolo dell’arte”
Spazio mensile curato da
Valter Alovisio – Point Zero

DUE BUONE RAGIONI (almeno)
 PER ANDARE AL “PRADO”

Il Museo del Prado di Madrid compie 200 anni: da quando aprì i battenti nel 1819 con il nome di Museo Real de Pinturas, ha offerto a milioni di visitatori la possibilità di ammirare i capolavori dei più grandi maestri spagnoli, da Diego Velàsquez a Francisco Goya, ma anche le splendide collezioni di pittura fiamminga e italiana che diedero lustro ai palazzi borbonici. Per festeggiare il bicentenario, un ricco programma di mostre proseguirà per tutto il corso dell’anno. Ne segnaliamo, per quest’estate, due.

1.    IL BEATO ANGELICO E IL RINASCIMENTO FIORENTINO
Dal 28 MAGGIO AL 15 SETTEMBRE 2019


Beato Angelico, Annunciazione, entro il 1435, tempera su tavola,
 194 x 154 cm, -  Madrid, Museo del Prado.

Nell’anno del suo bicentenario, il Museo del Prado apre le sale al Rinascimento fiorentino e, in particolare, all’artista che ha cercato di coniugare la costruzione prospettica e l'attenzione alla figura umana con i vecchi valori medievali relativi alla funzione didattica dell'arte e al valore mistico della luce: Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro, detto Fra’ Angelico. Il percorso si soffermerà sul periodo compreso tra il 1420 e il 1430, focalizzandosi sull’opera del pittore convinto che ogni pennellata avesse un'origine divina.
L'esposizione, a cura di Carl Brandon Strehlke, ruoterà intorno all'Annunciazione, alla Madonna della melagrana e al Funerale di Sant'Antonio Abate, due dipinti di Beato Angelico recentemente acquistati dalla collezione del Duca d’Alba. 
In particolare lAnnunciazione è stata al centro di un importante restauro condotto presso il Museo del Prado ricorrendo alle tecniche e agli strumenti più avanzati per riportare all’antico splendore il dipinto realizzato da Guido di Pietro da Mugello. Dipinta per il convento di San Domenico, dove era frate lo stesso Angelico, l'Annunciazione, che costituiva una delle tre grandi pale d'altare di sua mano che decoravano la chiesa, sarebbe stata ultimata entro il 1435. Ceduta, entrò in seguito nelle collezioni reali della monarchia spagnola e da qui al Prado. 
In mostra a Madrid sarà anche la Madonna con Bambino in terracotta di Donatello, oggi conservata a Palazzo Pretorio di Prato, già partita alla volta della capitale spagnola per portare parte di quell’eccezionale esperienza che caratterizzò la città toscana nel XV secolo. 

2.    VISIONI PARALLELE: VELÀSQUEZ, REMBRANDT E VERMEER
 SI INCONTRANO AL PRADO
 DAL 25 GIUGNO AL 29 SETTEMBRE 2019

Jan Vermeer, Il geografo, 1669. Olio su tela, 51,6 x 45,4 cm.
Frankfurt, Städel Museum

L’unità della pittura occidentale è una delle grandi realtà che rivela l’unità della cultura europea”, scriveva il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset negli anni bui dei nazionalismi novecenteschi. E basta dare un’occhiata alla mostra appena inaugurata al Museo del Prado di Madrid per toccare con mano una lampante verità: “Velàsquez, Rembrandt, Vermeer. Visioni parallele” esplora l’opera di tre icone del XVII secolo evidenziando i molti punti di contatto e la comune “aria di famiglia” tra quelle che a lungo sono state considerate tradizioni distinte e indipendenti, ciascuna espressione di un diverso “carattere nazionale”.
Al Prado oltre 70 capolavori si fanno testimoni della fitta trama che unisce tre fari dell’arte del Seicento, (REMBRANDT, VEERMER E VELASQUEZ), non a caso il “secolo d’oro” della pittura di entrambi i paesi, Olanda e Spagna.  
Alle opere del museo madrileno si aggiungono prestigiosi prestiti dal Rijksmuseum di Amsterdam, dalla National Gallery di Londra, dal Metropolitan Museum of Art di New York e dal Mauritshuis dell’Aja, in un itinerario costruito nel segno del confronto. Diego Velàsquez, Rembrandt van Rijn e Jan Vermeer sembrano discorrere attraverso i rispettivi dipinti, intorno ai quali si dispongono i quadri di illustri pittori coevi, da Francisco de Zurbaran a Pieter Claesz, da Frans Hals a El Greco e Josè de Ribera. 
Valter Alovisio






venerdì 19 luglio 2019

Una nuova tappa della democrazia europea - Articolo di Flavio Brugnoli



Pubblichiamo con piacere il seguente articolo, segnalatoci da Gianni Colombo, di Flavio Brugnoli, Direttore del Centro Studi sul Federalismo di Torino, recentemente apprezzato relatore alla nostra iniziativa dello scorso 17 Aprile 2019
EUROPA – Riflessioni sul nostro orizzonte comune”
Rappresentando di fatto l’ideale proseguimento della stessa relazione tenuta in quella circostanza



UNA NUOVA TAPPA
DELLA DEMOCRAZIA EUROPEA
Articolo di Flavio Brugnoli (Direttore del Centro Studi sul Federalismo)

Era evidente che l’elezione di Ursula von der Leyen quale Presidente della Commissione europea da parte del Parlamento europeo non sarebbe stata un passaggio facile e scontato. Il risultato finale, con una maggioranza di 383 voti su 374 richiesti (furono 422, su 367 necessari, per Jean-Claude Juncker nel 2014) è positivo, ma è anche un segnale da non sottovalutare. È comunque importante che possa andare avanti la complessa procedura che porterà all’insediamento della nuova Commissione, il 1° novembre prossimo. Ma sono davvero molte le “lezioni europee” su cui riflettere, con pazienza e lungimiranza.   

Dobbiamo anzitutto avere chiaro il significato del passaggio istituzionale che abbiamo vissuto ieri. La candidata proposta dal Consiglio europeo (ovvero i rappresentanti degli Stati membri dell’Unione) quale Presidente dell’esecutivo europeo (la Commissione), ha presentato il proprio programma di legislatura davanti al Parlamento europeo, che rappresenta i cittadini dell’Unione, per ottenerne la fiducia ed essere insediata. Un “normale” appuntamento proprio di una democrazia parlamentare, pur con tutte le specificità di una democrazia europea in divenire.   

Il programma presentato da von der Leyen non va derubricato a un fatto formale, se solo si riflette sulla sua genesi. La scelta del Parlamento europeo di puntare sugli Spitzenkandidaten era stata al centro dell’elezione di Juncker nel 2014. Questa volta il Consiglio europeo sembrava aver ripreso il sopravvento nel processo di scelta del Presidente della Commissione, forte anche del fatto che nessuno degli Spitzenkandidaten 2019 godeva di una chiara maggioranza. Una deriva che ha spinto molti a dare per morto e sepolto, un po’ frettolosamente, quel metodo. 

In realtà il programma della candidata Presidente della Commissione è scaturito da intense – e di necessità frenetiche – consultazioni con i partiti politici e i gruppi parlamentari che avrebbero dovuto darle (o negarle) la fiducia. C’è in questo una evidente forzatura, che obbliga a concentrare in pochi giorni un percorso che aveva visto gli Spitzenkandidaten impegnati per mesi. Ma è anche chiaro che i partiti politici europei hanno messo sul tavolo di von der Leyen molte delle proposte al centro dei loro programmi elettorali, con un ancor maggiore potere negoziale.   

Non è quindi solo un beau geste che la candidata Presidente abbia dedicato un capitolo dei suoi impegni a “una nuova spinta per la democrazia europea”, invitando il Parlamento a lavorare con lei per migliorare il sistema degli Spitzenkandidaten e a valutarne i possibili collegamenti con delle “liste transnazionali” alle prossime elezioni europee. Il tutto sarà approfondito da una “Conferenza sul futuro dell’Europa” che dovrebbe coinvolgere anche i cittadini europei, essere insediata nel 2020 e completare i propri lavori in un biennio, in tempo per le elezioni del 2024.  

Un altro cambiamento importante annunciato dalla prima donna Presidente della Commissione europea – che ieri ha aperto il suo discorso ricordando Simone Veil, prima donna Presidente del Parlamento europeo – è quello di voler dare l’esempio con una perfetta uguaglianza di genere nella propria Commissione. Una scelta coraggiosa e benvenuta, che potrebbe anche tradursi in tensioni con alcuni Stati membri. Specie se la richiesta di von der Leyen sarà quella di designare due candidati, un uomo e una donna, tra i quali possa scegliere (ricordiamo che alcuni Stati membri hanno già provveduto a indicare il proprio candidato Commissario).

Prendiamo dunque sul serio il discorso programmatico di von der Leyen, da leggere in parallelo ai più articolati “Orientamenti politici” per il 2019-2024 che ha presentato, sotto il titolo “Un’Unione più ambiziosa”. Non staremo a ripercorrerlo nei dettagli, ma va apprezzato che la candidata Presidente abbia sottolineato che questa ambizione si deve confrontare con uno scenario globale in cui il modello europeo è a rischio e in cui “noi sosteniamo il multilateralismo, il commercio equo, difendiamo l’ordine basato sulle regole”.   

Il quadro prospettato da von der Leyen vede un’Europa “primo continente a impatto climatico zero del mondo entro il 2050”, con un Green Deal nei suoi primi 100 giorni, la prima “legge europea sul clima”, un grande piano d’investimenti pluriennali, una “banca climatica europea” (all’interno della BEI), un adeguato “carbon pricing” e una conseguente “imposta sul carbonio alle frontiere”. Un’Europa che intende fare il massimo uso della flessibilità prevista dal Patto di Stabilità e Crescita, introdurre uno “strumento di bilancio per la convergenza e la competitività della zona euro”, battersi per una tassazione equa, a partire dai giganti del digitale, investire per “sfruttare le opportunità dell’era digitale in un contesto che garantisca la sicurezza e rispetti l’etica”. Un’Europa in cui il Pilastro europeo dei diritti sociali viene rafforzato definendo un quadro europeo per il salario minimo e un “regime europeo di riassicurazione delle indennità di disoccupazione”, migliorando “Garanzia giovani” e introducendo una “Garanzia per l’infanzia”.   

Sul piano dei diritti, la Presidente si impegna a combattere ogni discriminazione, a “non accettare alcun compromesso” sul rispetto dello Stato di diritto e a prevedere un “meccanismo europeo” per la sua protezione. Per quanto riguarda le migrazioni, sottolineato che “in mare vige il dovere di salvare vite umane”, intende lavorare per ritornare ad uno spazio Schengen “pienamente funzionante”, un “rafforzamento dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera”, un effettivo “sistema europeo comune di asilo”. Nel campo della sicurezza, von der Leyen – per oltre cinque anni ministro della difesa in Germania – ribadisce che “la pietra angolare della nostra difesa collettiva sarà sempre la NATO. Resteremo transatlantici e dobbiamo diventare più europei. Ed è per questo che abbiamo creato l’Unione europea della difesa”. Colpisce il peso relativamente scarso dato agli impegni che l’Europa dovrebbe assumere verso il continente africano, anche se negli “Orientamenti” si fa riferimento a “una strategia globale sull’Africa”.   

Di fronte a questo ampio programma le forze politiche europee hanno espresso le loro legittime valutazioni e hanno pronunciato – a scrutinio segreto (forse non la via migliore per unire responsabilità e trasparenza) – dei Sì e dei No di peso: vale per il sostegno alla candidata Presidente da parte di PPE, Renew Europe, larga parte dei S&D e anche del M5S, così come per il voto contrario dei Verdi, della sinistra radicale, dei sovranisti (Lega inclusa) e dei conservatori (PiS polacco escluso). Rimane il dubbio che talune scelte europee siano ancora condizionate da scenari e tensioni nazionali (valga per tutti il caso della Germania), ma anche questo è indice e parte di un processo in divenire.  

Un Parlamento frammentato ha dato origine a una maggioranza risicata. Sulle decisioni nel corso della legislatura saranno certo possibili maggioranze diverse – difficile, ad esempio, che i Verdi rimangano insensibili a una “legge europea sul clima” adeguatamente strutturata. Ma il punto di fondo è che quello presentato dal/la candidato/a Presidente della Commissione dovrebbe diventare un programma di coalizione, discusso per tempo, coinvolgendo chi rappresenta gli Stati e chi rappresenta i cittadini e avendo i partiti politici europei quale loro luogo di raccordo. Solo così le potenzialità democratiche del sistema troveranno un punto di equilibrio dinamico, a beneficio degli elettori. I partiti politici europei hanno davanti un quinquennio per strutturarsi e prepararsi alla nuove sfide. Nel 2024 non saranno possibili scuse o recriminazioni. 

 (Le opinioni espresse non impegnano necessariamente il CSF)

mercoledì 3 luglio 2019

Il "Saggio" del mese - Luglio 2019


Il “Saggio” del mese

 LUGLIO 2019

Come preannunciato nella breve introduzione alla “Parola” del mese – “socialità”, il tema del rapporto tra individuo e società, dei rapporti interpersonali che in essa si realizzano e che al tempo stesso concorrono a definirla, è al centro del “Saggio” di questo mese, che cerca, in particolare, risposte ad alcune domande centrali: quali sono le idee, i concetti che ispirano, più o meno consapevolmente, i percorsi di vita individuali che creano e danno forma alla convivenza politico-sociale? Quali sono le ragioni di fondo che motivano e indirizzano l’agire sociale? Cosa di più ispira e caratterizza il nostro inserimento nei rapporti interpersonali collettivi? Quali sono in sostanza i basilari della stessa democrazia, perlomeno nelle forme che essa ha assunto in Occidente? In una fase storica in cui i rapporti interpersonali, intesi in senso lato, sono inquinati da diffidenze, paure, rifiuto aprioristico dell’altro, ed in cui emergono pericolose tendenze che stanno mettendo a dura prova il concetto stesso di democrazia, le sue forme e la sua sostenibilità, tentare di rispondere a queste domande può essere una utile riflessione per quanto lontano possa essa possa portarci visto che per farlo  adeguatamente ci invita a guardare alle ragioni ultime della cultura democratica. Il “Saggio” di questo mese si misura proprio con questa riflessione, lo fa richiedendoci uno sforzo di concentrazione (ma da sempre CircolarMente si ribella all’idea di mandare in vacanza estiva la nostra mente) ma quanto meno ripagandoci con un viaggio istruttivo attraverso alcuni passaggi alti della cultura filosofico/politica della modernità)


Da tempo Axel Honneth ((filosofo, politologo, accademico tedesco, considerato il più importante filosofo della terza generazione della Scuola di Francoforte dopo la prima generazione di Max Horkheimerr e Theodor Adorno e la seconda di Jurgen Habermas) ha individuato nel concetto di “riconoscimento” la risposta a queste domande ponendolo al centro della sua intera riflessione sociologica e filosofica e di molte delle sue opere, in buona parte tradotte anche in italiano. Questo suo ultimo saggio presenta, con una esposizione tanto lucida quanto sintetica, una sorta di summa di questo suo percorso

1) Storia delle idee e storia dei concetti: una premessa metodologica
Ad avviso di Honneth il concetto di riconoscimento è oramai entrato a far parte del nostro repertorio politico-culturale di base ……lo si intenda come la necessità di un rispetto reciproco tra i membri con pari diritti di una stessa comunità o come l’esigenza insopprimibile di riconoscere la specificità dell’altro o ancora come la necessaria legittimazione delle minoranze culturali………… (le frasi in corsivo blu sono estratti integrali del testo di Honneth). Per meglio comprendere il significato di questo concetto è indispensabile ripercorrerne la genesi e la complessa costruzione, evitando da subito di incorrere in un pericoloso errore, quello di ritenere che di esso esista una interpretazione univoca: così non è ……..a differenza di altri concetti chiave dell’attuale discorso politico – per esempio Stato, libertà e sovranità – l’idea che ci aleggia nella mente quando parliamo di riconoscimento non corrisponde ad un termine univoco, storicamente ben definito……. Al contrario, come bene si vedrà nel proseguo del saggio, il concetto di riconoscimento è stato formulato linguisticamente in modo diverso: Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) usava l’espressione “amour propre”, Adam Smith (1733-1790) parlava di un “osservatore esterno” trasferito all’interno, e solo a partire da Friedrich Hegel (1770-1831) compare una meglio definita categoria di “riconoscimento” (Anerkenmung). ……..non si tratterà dunque della storia lineare di un concetto, sarà piuttosto una storia delle idee in cui si partirà da un nucleo concettuale di base cercando di seguirne gli sviluppi……. Sviluppi che si muoveranno in varie direzioni assumendo significati sempre nuovi e istruttivi, sfumature e tonalità strettamente connesse alle condizioni socio-culturali del paese in cui nascono e si affermano, senza cadere, Honneth è al riguardo categorico, nella pericolosa (si pensi alle mitologie fasciste e naziste) tradizione, smentita dai concreti percorsi storici, dell’esistenza di uno “spirito del popolo”, di una “anima della nazione”. In particolare Honneth concentra la sua attenzione su tre paesi, su tre aree culturali: Francia, Gran Bretagna e Germania convinto com’è che, senza negare valore ad altre culture ………i classici del pensiero politico moderno provengono da essi……. e che …….a partire dal Diciassettesimo secolo le vicende politiche e sociali dei tre paesi in questione rispecchino tre diversi modelli evolutivi della moderna società borghese…… L’incrocio di questi due aspetti consente, secondo Honneth, di ritenere che dall’insieme di questi tre distinti percorsi emerga lo schema di base a cui il concetto di riconoscimento si conforma nell’intero contesto europeo.

2) Da Rosseau a Sartre: riconoscimento e perdita di sé
Si trascina da tempo la discussione su quale filosofo abbia per primo introdotto il concetto di “riconoscimento”, in una delle varie forme che concorrono a formarlo. Si è già detto di Hegel, ma secondo altri studiosi esisterebbero appigli, consistenti in alcune sue affermazioni sul peso dell’esigenza “psicologica” di distinguersi e primeggiare che “spinge” le persone nell’ambito sociale e di comunità, per retrodatare tale primato a Thomas Hobbes (1588-1679). Honneth ritiene invece che, fermo restando il merito di Hegel di averlo per primo organicamente definito, le origini del concetto di riconoscimento possano esser rintracciate in Jean-Jacques Rousseau e nei suoi precursori seicenteschi: i moralisti francesi. Siamo quindi nella Francia del Seicento in una fase storica in cui però ……..l’idea del riconoscimento sociale come movente costitutivo dell’essere umano moderno era “nell’aria” in molti paesi europei…… I fermenti legati al progressivo, e vincente, affacciarsi sulla scena sociale della “borghesia” iniziano ad incidere sul vecchio ordine sociale basato sulle antiche appartenenze di classe. La gerarchia sociale non è più vista come un ordine immutabile per volontà divina e sempre più ci si chiede quali meccanismi e quali percorsi di affermazione sociale potranno sostituirla …….la società moderna articolata in classi porta in primo piano il problema del riconoscimento sociale in vaste regioni d’Europa….. E’ in questo contesto, in cui la credibilità sociale dell’individuo, non più attestata dalla sola nascita, diventa oggetto di conquista che prendono corpo le riflessioni dei moralisti francesi ed in ispecie di Francois de La Rochefoucauld (1613-1680 scrittore, filosofo e aforista francese) che si dipanano attorno al concetto di “amour propre”. La Rochefoucauld, nobile di nascita, riflette in particolare sulla tendenza, sempre più spiccata, dei nuovi soggetti sociali di presentarsi in società, al fine di guadagnare riconoscimento, sotto la luce più vantaggiosa possibile. Questo istinto umano, a suo avviso ”naturale”, trova però nel nuovo contesto sociale ampi spazi per manifestarsi diffusamente fino a giungere ad eccessi ipocriti di simulazione. Secondo La Rochefoucauld il movente che porta a questi eccessi consiste proprio nell’ …….l’amour propre, il desiderio smodato di mostrarsi ai propri simili sotto una luce esemplare…… A tal punto che non soltanto diventa difficile distinguere il vero dal falso nelle virtù vantate, ma appare sempre più chiaro che …..l’amour propre può alla fine ingannare il soggetto stesso il quale, abituandosi a simulare qualità che non possiede, finisce per perdere di vista la sua vera personalità…… Va dato merito a La Rochefoucauld di aver aperto, con queste sue affermazioni, n buona parte espresse sotto forma di aforismi, una prima breccia, ma egli si ferma su questa soglia in parte perché troppo condizionato dai suoi pregiudizi nobiliari ed in parte perché non possiede lo spessore intellettuale necessario per meglio riflettere sui rapporti intersoggettivi sociali. La sua idea di riconoscimento si ferma quindi al …….ri-conoscere qual è il valore effettivo di una certa persona…… Ma è in questa breccia  dell’amour propre che si affaccia la riflessione, ben più solida di Jean-Jacques Rousseau. Seppure non privo dei pregiudizi moralistici di La Rochefoucauld, aspetto che per altro permeerà tutto il percorso storico della concezione francese del riconoscimento, Rousseau, richiamandosi ad Agostino, distingue tra un amore di sé (amour de soi), conforme alla volontà divina, ed uno, l’amour propre, indotto da una vanità peccaminosa. La sua idea di amour propre si evolve quindi in quella di …..un bisogno, non naturale, ma evolutosi storicamente, di imporsi come superiori agli occhi dei propri simili aspirando così ad un rango sociale più elevato…….. Se l’amore di sé si basa su giudizi di valore etico e religioso, su ciò che è buono e giusto, l’amour propre guarda invece ad un giudizio esterno, all’approvazione sociale. Si passa così in Rousseau a vedere nel riconoscimento un processo culturale strettamente connesso alla condizione sociale, che implica una smania di primeggiare e che connette in una relazione malsana il riconoscimento esterno con il giudizio di quella sorta di giudice interiore, la nostra coscienza critica, che ci sembra possa (auto)confermare l’ottenimento dell’obiettivo di primeggiare. E quindi …….il riconoscimento a cui mira l’amour propre consiste quasi esclusivamente nel valutare quelle qualità che distinguono il soggetto dalla massa…… Queste affermazione di Rousseau non sono prive di contrasto con il resto del suo pensiero filosofico: diventa infatti difficile conciliare questo giudizio negativo sulla motivazione di fondo del riconoscimento sociale, espresso nel suo “Secondo discorso”, con le premesse positive e fiduciose del Contratto sociale, in cui viene al contrario riconosciuta all’individuo la facoltà di autodeterminarsi in concorso fecondo con il resto della comunità sociale. La sola possibilità di conciliazione fra due posizioni all’apparenza opposte, sostenuta da alcuni studiosi, potrebbe consistere in una sorta di “evoluzione” dell’amour propre che, favorita da un cambiamento nell’ordine sociale, progressivamente lo porterebbe dalla smania di primeggiare sugli altri ad una forma di rispetto tra uguali, base indispensabile per la formazione della “volontà generale” e per la costituzione del “Contratto sociale”. Ma non è questa la posizione di Honneth: gli ultimi scritti di Roussesau sono, a suo avviso, un continuo e costante riaffacciarsi dell’amara e pessimistica constatazione della forza dell’amour propre, del prevalere dell’istinto a primeggiare come modo prevalente di rapporto dell’individuo con la comunità, con la società intera. Una posizione tanto innegabile quanto in evidente contrasto con quella parte del pensiero di Rousseau che lo ha, ancor prima della Rivoluzione francese, imposto come il filosofo del Contratto Sociale per poi protrarsi in questa veste per tutto il secolo successivo. ……in Francia l’importanza della sfida democratica e della questione sociale orientano l’attenzione verso i grandi temi della politica, per questo tipo di problematiche la questione del riconoscimento sociale e dei suoi effetti sull’individuo nella prassi quotidiana passa inevitabilmente in secondo piano……. Per una ripresa di attenzione verso queste tematiche occorre attendere il Novecento, il rapporto tra l’Io e gli altri soggetti torna centrale soprattutto nel pensiero di Jean-Paul Sartre (1900-1980). Nella sua opera fondamentale “L’essere ed il nulla” la domanda che si pone, in effetti molto lontana da quelle di Rousseau, è quella di indagare se e come cambia il nostro stato esistenziale nel momento in cui entriamo in rapporto con gli altri. Ma pur partendo da presupposti così diversi Sartre giunge a ………un risultato che non è identico a quello di Rousseau  ma che tuttavia gli assomiglia non poco…… Va da sé che i duecento anni che separano i due pensatori non sono passati invano: l’approccio di Sartre è ovviamente strettamente connesso con le correnti filosofiche, molto più elaborate e complesse, che caratterizzano la filosofia del Novecento, ed in particolare con quella della fenomenologia (basata sull’analisi dei fenomeni per come si presentano alla coscienza dell’individuo). Da questo punto di osservazione la domanda per Sartre non è …..quali conseguenze possa avere un certo bisogno (come quello di primeggiare socialmente) ma si tratta piuttosto d indagare, analizzando i fenomeni connessi, se e come si modifica lo stato esistenziale del soggetto nel momento in cui incontra un altro soggetto……. Riassunta molto sinteticamente, e sottolineando il suo carattere di schema teorico  - la realtà dei rapporti interpersonali è ovviamente molto più articolata e complessa – l’idea di Sartre consiste nel ritenere che lo stato di coscienza che un soggetto ha di sé (ètre on soi – l’essere per sé) inevitabilmente si modifica nel momento in cui, entrando in rapporto con un altro soggetto, viene sottoposta al giudizio di questo secondo soggetto (ètre avec autres -  essere con altri). L’atto, il fenomeno, del riconoscimento può, dopo questo primo impatto,  evolvere in molte direzioni e forme, ma resta decisivo il fatto che ……l’esperienza del riconoscimento da parte dell’altro contiene inevitabilmente fin dall’inizio anche l’esperienza di un disconoscimento del proprio “essere per sé……. Difficile immaginare un approccio più distante dal pensiero di Rousseau eppure in un qualche modo emerge un tratto comune, per ambedue i pensatori il riconoscimento induce a cambiamenti negativi ….per Rousseau questa conseguenza negativa nasce dal fatto che la conferma pubblica delle nostre qualità non ci permette di capire se queste qualità ci appartengono davvero mentre per Sartre lo sguardo dell’altro ci fissa inevitabilmente ad alcuni aspetti della nostra personalità privandoci della possibilità di riprogettare di continuo il nostro essere….. Per ambedue cioè il riconoscimento implica una trasformazione negativa, una perdita del proprio intimo Io. Sarte è il primo pensatore francese, dopo Rousseau e dopo quasi due secoli di sostanziale indifferenza verso questa tematica, che torna a riflettere sul riconoscimento, e  lo fa quindi con un approccio radicalmente diverso stante lo sviluppo del pensiero filosofico avvenuto nel frattempo, ma la conclusione a cui sembra giungere è ancora una volta tutt’altro che positiva. Non diversamente da quello che è possibile riscontrare nei successivi sviluppi del pensiero francese. Anche quando si passa dal porre al centro dell’attenzione il rapporto tra singoli individui al considerare i meccanismi di riconoscimento che avvengono al livello dell’intero sistema sociale, anche quando, come nelle riflessioni di Louis Althusser (1918-1990) e di Jacques Lacan (1901-1981), si nega come punto di partenza l’esistenza “a priori” di un soggetto, di un “Io” che entra in rapporto con altri. Una svolta radicale che porta l’idea di riconoscimento molto lontana da quella di Roussea – la ricerca di un giudizio positivo – non meno che da quella di Sartre – l’esperienza di sé di un soggetto che viene riconosciuta e modificata dall’incontro con un altro soggetto – per diventare quella di un meccanismo sociale che nel momento in cui identifica un soggetto gli attribuisce specifiche caratteristiche sociali. Per Althusser ciò avviene in prevalenza sulla base di una sorta di “schiavitù volontaria” …….per la quale gli esseri umani sono in generale disposti a svolgere quelle attività che l’ordine sociale dominante richiede loro tanto da essere “riconosciuti” precisamente come quei soggetti di cui quell’ordine sociale ha bisogno…… Per Lacan invece il riconoscimento  è un complesso processo di assegnazione di attributi che fornisce risposte al bisogno, al desiderio, che si manifesta fin dalla prima infanzia, di essere “riconosciuti” dall’altro, dalla madre in primo luogo, e che si sviluppa lungo percorsi segnati dall’ordine linguistico e sociale dominante, ma in ogni caso resta ……un processo sociale che attribuisce al soggetto qualità e caratteristiche funzionali al mantenimento dell’ordine dato…… Secondo Honneth in sostanza l’intero percorso del concetto di riconoscimento nella cultura sociale, politica e filosofica francese attesta …….la tendenza a vedere nell’intersoggettività più un problema che una chance……. L’aspetto che meglio può spiegare questo tratto distintivo dell’idea francese di “riconoscimento”, e che in qualche modo collega tutti i pensatori presi in esame al di là delle profonde differenza tra di loro, resta in definitiva il suo stretto legame con il contesto sociale, con le ricadute che esso ha sul rapporto tra soggetto e società: il riconoscimento vale cioè, al di là delle ricadute specifiche sul soggetto, in quanto conquista di una identità sociale. Appena al di là della Manica il processo di costruzione del concetto di riconoscimento assume invece caratteristiche non poco dissimili.

3) Da Hume a Mill: riconoscimento e autocontrollo
….Se per la Francia si può dire che la filosofia sociale deve fare i conti innanzitutto con la gerarchia sociale ed i relativi conflitti per la Gran Bretagna la sfida con cui deve confrontarsi è (sempre nel Seicento e Settecento) il progressivo diffondersi delle pratiche tecnico-economiche in uno spazio pubblico fino allora presidiato dai principi morali tradizionali….. A differenza quindi della Francia in Inghilterra il tipo umano posto al centro dell’analisi dei meccanismi del riconoscimento sociale diventa …….un soggetto il cui movente esclusivo è l’egoismo economico personale…… a cui si affiancano i timori che questo movente esclusivo annulli tutti i consolidati vincoli morali sociali. Attorno a questo tema il campo ben presto si divide fra chi, come i seguaci di Hobbes e gli estimatori della “Favola delle api – Vizi privati e pubbliche virtù” di Bernard de Mandeville (1670-1739, ritiene prevalente l’istinto egoistico e chi al contrario ancora confida nella virtù della solidarietà sociale. Ed è nelle fila di questi ultimi che nel corso del Settecento inglese lentamente affiora un’idea del riconoscimento sociale molto lontana dalla diffidenza francese verso l’intersoggettività umana. E’ nell’opera di David Hume (1711-1776) “Trattato sulla natura umana” che troviamo la prima organica riflessione sul comportamento sociale umano, all’interno della quale spiccano due aspetti ……..di particolare interesse e sono quelli che riguardano direttamente la concezione di Hume del riconoscimento interumano…… Hume riprende, correggendole ed integrandole, precedenti considerazioni e ritiene che le qualità degli altri individui non sono giudicate solo in base al criterio del vantaggio  o del danno che esse possono arrecare al bene di una comunità, ma che intervengano a rafforzarlo …..sentimenti naturali di favore o biasimo ricondotte al piacere o al dispiacere…… che queste qualità suscitano in noi. E fra questi sentimenti naturali quello che ha maggior peso nelle dinamiche di riconoscimento è quello della “simpathy”, della simpatia intesa come la ……..la capacità comune a tutti gli esseri umani di intuire e al tempo stesso di rivivere gli stati mentali dei nostri simili…… Secondo Hume un legame invisibile di reciproca simpatia ci spinge a reagire con atteggiamento favorevole a quelle qualità degli altri  che avvertiamo come utili e positive perché percepite simili alle nostre. Vero è, ed è lo stesso Hume a riconoscerlo, che non è ancora possibile parlare di un pieno “riconoscimento” solo sulla base di questa condivisione “simpatica”, deve intervenire un ulteriore fattore di attribuzione all’altro di doti e ruoli. Non sfugge a Hume una seconda propensione naturale: la simpatia si rafforza, o viceversa si indebolisce, a seconda della distanza sociale che ci separa dalla persona che ne è l’oggetto ……..noi simpatizziamo di più con chi ci è vicino che con chi ci è lontano, con chi conosciamo più che con gli estranei, con i nostri concittadini più che con gli stranieri……. Questa seconda propensione rischia, con il suo carico di pregiudizi, di inibire, di condizionare, il peso della naturale “simpathy”. Ad evitarlo interviene uno sforzo razionale di compensazione, di gestione oggettiva. Passato il primo istante dell’eventuale istintivo raffreddamento interviene nel nostro giudizio, nel nostro riconoscimento dell’altro, un “giudice imparziale” capace di un giudizio oggettivo indipendente dai possibili pregiudizi. Honneth evidenzia come non sia chiaro nella trattazione di Hume in cosa consista questo sorta di osservatore “esterno”, se esso sia un giudizio collettivo che la storia di una comunità, di una società, ha progressivamente costruito, ovvero se esso sia una costruzione individuale interiore che si forma sulla base delle nostre esperienze concrete di vita. Fino a giungere ad una sostanziale contraddizione tra il ruolo che egli attribuisce alla razionalità ……la ragione richiede un tale comportamento imparziale…… e le sue idee sul ruolo decisivo dei nostri impulsi sul nostro agire morale. Scontate queste perplessità secondo Honneth è comunque in Hume che si possono rintracciare le prime basi per un riconoscimento più articolato e ragionato, sono le basi sulle quali si formano gli stessi meccanismi della nostra individuale …….reputazione nel mondo….. Ed è anche su questo che Honneth misura la distanza fra Rousseau e Hume ….se in Rousseau il desiderio di approvazione sociale trascina l’individuo in un vortice in cui egli finisce per smarrire sé stesso, lo stesso desiderio è per Hume un movente salutare che spinge l’individuo a sottoporre i propri intenti al giudizio di un osservatore imparziale in vista del bene comune…. Se il pensiero di Hume sembra comunque ancora muoversi in un contesto slegato dall’ambito socio-culturale le sue intuizioni sono però, da lì a poco, riprese da Adam Smith proprio per avviare ….una reazione filosofica all’economizzazione strisciante dei costumi morali nella Gran Bretagna del Settecento……. Il pensiero di Adam Smith è stato a lungo diviso in due parti fra loro slegate: da una parte l’economia della “Ricchezza delle nazioni” dall’altra la filosofia morale della “Teoria dei sentimenti morali”. Solo dalla fine dell’Ottocento è prevalsa la convinzione che le due parti formino un unicum inscindibile. Ed il collante consiste proprio nell’idea di Smith che il ruolo propulsivo del mercato non può non avere un suo contraltare in una concezione morale dei rapporti interpersonali. E questo trait d’union è anche la base teorica della sua concezione del riconoscimento. Smith fa sua la visione di Hume della “simpathy” ma riesce a superare l’incompletezza della sua definizione di quel “giudice imparziale” che interviene a mitigare le incoerenze dei nostri giudizi sul valore dell’altro con cui entriamo in contatto ……sarà appunto Adam Smith a completare il suo (di Hume) progetto mostrando come l’individuo apprenda gradualmente a far dipendere il suo comportamento morale da forme sempre più comprensive di riconoscimento morale….
La domanda di partenza è la stessa di Hume: in base a quale criterio formuliamo i nostri giudizi sui caratteri e sui comportamenti sociali degli altri individui? La “simpathy” da sola non può farci rivivere le emozioni altrui nello stesso identico modo in cui sono dall’altro vissute. La “simpatia”, che resta un predisposizione d’animo fondamentale anche per Smith, non può però essere una vera immedesimazione nell’altro, deve perciò accompagnarsi ad una capacità di “immaginazione”, di condivisione empatica delle emozioni altrui. Che ha un suo naturale corrispettivo nella fiduciosa aspettativa che le nostre emozioni siano a loro volta condivise. La generica simpathy di Hume trova già in queste prime precisazioni una migliore definizione ma…..Smith si rende conto che ancora nulla si dice su quali regole dovremmo seguire nei nostri rapporti sociali…… Ed è qui, in questo ulteriore passaggio, che Smith elabora una idea del “giudice imparziale” più elaborata e completa di quella di Hume. Il flusso della reciprocità emotiva che si crea nella fase del riconoscimento intersoggettivo richiede ad ambedue i soggetti un supplemento di approvazione, una sorta di giudizio favorevole da parte di un terzo, di un osservatore neutrale. E più cresce il carico emotivo che accompagna la fase del riconoscimento più cresce il numero degli spettatori neutrali chiamati a dire la loro in veste di arbitri e …………questa progressiva presenza del soggetto –altro come istanza approvante, o disapprovante, arriva ad un punto tale  da farlo coincidere con la “ragione “stessa…….. Smith, diversamente da Hume, non lascia spazio a dubbi sul fatto che questo spettatore giudicante ……..vada inteso più nel senso di una voce interiore, come voce della coscienza, che nel senso di un giudice fisicamente esistente…… Smith va ancora oltre e si interroga sulle ragioni, sulle motivazioni che ci spingono a far entrare in scena questo processo di controllo dei nostri comportamenti emotivi. La risposta è al tempo stesso utile a completare la sua visione morale del riconoscimento e a fornire un primo importante collegamento con la sua idea “tecnica” del mercato. Siamo spinti a ciò non da una generica volontà di “guadagnarci” elogio ed approvazione sociale, ma dalla esigenza di “meritarci” l’elogio e l’approvazione. …….l’autorevolezza dell’osservatore imparziale introiettato si fonda tutta sul desiderio di essere degni di lode e sulla ripugnanza che si prova per l’idea di non esserlo….. Ed è proprio qui che si misura la distanza dalle idee di Hume, per il quale gli esseri umani spinti da un bisogno egoistico di reputazione sociale sono “disposti” ad accettare il ruolo dell’osservatore esterno. Smith va molto oltre, ritiene che ai naturali e istintivi moti della “simpathy” si debba aggiungere una sorta di riconoscimento di secondo grado, quello che può venire dal sentirci meritevoli di approvazione sociale, una attestazione che l’osservatore esterno, interiorizzato, ci spinge a cercare. Come accennato in precedenza sta in questa visione, secondo Honneth, il correttivo morale alla collegata celebrazione che Smith fa nella “Ricchezza delle nazioni” del mercato e dell’utilità sociale degli interessi privati. ……il mercato capitalistico è moralmente giustificabile solo nella misura in cui si conforma alla prospettiva idealizzata di un giudice imparziale e ben informato…..Smith non è, a suo avviso, un fautore cieco dei vantaggi del libero mercato ….l’economia di mercato non deve lasciare fuori dalla porta il riconoscimento, quel riconoscimento che accordiamo ai nostri simili ascoltando la voce del nostro giudice interiore……. La posizione di Smith, riletta da questo punto di vista, connettendo quindi la sua visione economica con quella morale, non resta isolata nel panorama della filosofia inglese. Ottanta anni dopo Smith non sono dissimili le idee di John Stuart Mill (1806-1873). La reazione allo strapotere delle logiche egoistiche di mercato, e delle ricadute negative sulla salute “morale” collettiva, che nel 1600 e 1700 spinge prima Hume e poi Adam Smith a celebrare il ruolo delle relazioni interpersonali, e del riconoscimento in particolare, è anche, nel 1800, alla base di non diverse riflessioni di Stuart Mill,  per molti versi indiscusso alfiere del liberalismo economico. ……Mill, nello stesso spirito di Smith, si domanda fino a che punto l’uomo possieda sentimenti sociali…… Una domanda che Mill si pone con più evidenza nel saggio “Sulla libertà”, il cui baricentro, coerentemente con il suo liberalismo, resta l’esigenza politico-sociale di mettere ogni individuo nella condizione di realizzare con la massima libertà le doti che la natura gli ha fornito. Eppure è proprio in questa stessa opera che Mill evidenzia la necessità di una riflessione morale sui possibili eccessi del liberalismo, una riflessione che lo porterà nell’ultimissima fase della sua attività intellettuale a confrontarsi senza pregiudizi con le stesse primitive istanze socialiste. La questione per Mill si pone, restando comunque tutta interna al liberalismo, su quali forme di controllo sociale possano essere messe in atto quando il processo di autorealizzazione individuale faccia collidere gli interessi, aventi quindi pari dignità, di due individui, piuttosto che due gruppi. La soluzione prevista da Mill è che ……le esternazioni, gli stili di vita di un individuo o di un gruppo possano essere legittimamente censurati nel caso in cui possano danneggiare o limitare gli analoghi tentativi di un altro individuo o gruppo (harm principle – il principio del danno)…….. Nel saggio “Sulla libertà” Mill giunge però a ritenere che sia opportuno non giungere alla soglia limite del contrasto aperto e che …….il mezzo più adeguato per evitare in anticipo, o per comporre in seguito, questi conflitti consista nell’indurre i soggetti con la lode ed il biasimo a considerare gli interessi dei loro simili…… Ricompaiono quindi anche in Mill, al culmine della sua mai sconfessata professione di fede nel liberalismo, quegli stessi meccanismi, della lode e della ripugnanza, che sono, come si è visto, alla base delle riflessioni di Hume e Smith sui meccanismi di riconoscimento sociale. Certo l’approccio segue percorsi differenti ma è evidente che anche per Mill l’individuo è naturalmente portato al bisogno profondo di essere socialmente apprezzato e quindi di temere il biasimo sociale. Anche per Mill, evidenzia Honneth, il legame sociale che tiene insieme una comunità è perciò intrecciato con i fili del riconoscimento reciproco, tanto da indurlo a scrivere che ……la paura di dispiacere ai propri simili ci spinge a seguire il volere della comunità anche senza trarne un vantaggio egoistico…. Honneth è consapevole del fatto che non esistono elementi tali da sostenere l’esistenza di una consapevole ed omogenea linea di pensiero che colleghi i tre filosofi inglesi presi in esame. Tutti tre hanno seguito personali e distinti percorsi di riflessione. Certo è che la comune necessità di valorizzare la natura sociale dell’individuo, alla quale comunque pervengono, testimonia che anche i maggiori ispiratori del pensiero liberale non erano indifferenti agli eccessi di avidità di guadagno, di prevalere dell’interesse privato e di spregiudicatezza sociale intrinsecamente connessi alle logiche di mercato. Come meglio si vedrà in seguito all’interno di queste comuni remore si aprono, anche in Inghilterra, spazi di interessante collegamento con quanto in contemporanea sta maturando nel contesto filosofico tedesco

4) Da Kant a Hegel: riconoscimento e autodeterminazione
Si sono fin qui visti due diversi modi della “modernità” europea di considerare il ruolo, il peso ed i modi del “riconoscimento” sociale. Quello francese, basato sull’amour propre, diffidente verso un passaggio che può minacciare la nostra vera individualità, e quello anglosassone, con al centro il moto della “simpathy”, che ne coglie al contrario la positiva ricaduta dell’autocontrollo sui nostri istinti egoistici. …….quello francese in cui il riconoscimento è inteso per lo più dal punto di vista dell’altro che attribuisce o no determinate qualità, e quello anglosassone  in cui prevale il punto di vista del soggetto che attribuisce all’altro il potere normativo di giudicare il nostro comportamento…… Non esiste quindi in nessuno dei due un processo di riconoscimento inteso come un atto simultaneo e reciproco fra due soggetti. Questo accade solamente nel contesto tedesco in cui compare non solo questa simultaneità, questa reciprocità, ……ma anche una vera e propria teoria del riconoscimento….. Non mancano anche per la Germania ragioni sociali e politiche a spiegare questo salto di qualità. Non si assiste nell’area germanica ad un contrasto sociale aperto e violento come quello francese fra nobiltà e borghesia, e non si manifestano neppure timori simili a quelli inglesi della perdita della identità morale messa in crisi dalle logiche egoistiche del mercato. Il mosaico tedesco di piccoli principati e di alcune città “libere” non consente una dimensione sufficientemente unitaria ed ampia per l’emergere di dinamiche come quella francese o quella inglese. Nell’area germanica la borghesia è, agli inizi della modernità ed ancora per un lungo periodo successivo, imbrigliata come autorevolezza economica e politica da autentici retaggi feudali ma al tempo stesso altamente considerata per il suo ruolo nell’amministrazione, nell’educazione e soprattutto nella vita culturale. Qui …..gli studiosi, i filosofi, gli artisti più importanti non provengono, come in Francia, soprattutto, ed in Gran Bretagna dal ceto nobiliare, ma quasi senza eccezione dalla media e talvolta anche dalla piccola borghesia….. Appare evidente che in contesto così caratterizzato la questione del riconoscimento non poteva non assumere peso e modalità totalmente differenti. Una differenza che appare in forma piena già nelle idee del primo pensatore tedesco che la affronta da precursore: Immanuel Kant (1724-1804), basandola su una categoria dello spirito corrispondente a quelle dell’amour propre francese e della simpathy inglese: la categoria dell’ “Achtung”, del “rispetto”. A questo concetto Kant assegna un ruolo fondamentale nel corpo della sua filosofia morale, ma è un ruolo che si può comprendere solo prendendo in considerazione l’architettura complessiva della sua critica della ragione ……..tutta la nostra conoscenza è il prodotto della sintesi tra le categorie della ragione, intese come strutture trascendentali, e le impressioni sensibili……. Vale a dire che tutto ciò che possiamo dire del mondo è in sostanza, per quanto basato sui sensi, un prodotto della ragione umana, della razionalità. E ciò vale non solo per la conoscenza del mondo fisico ma anche per l’agire umano in generale e quello morale in particolare. Honneth, considerato il tema al centro di questo saggio, non pretende certo di fornire una qualche sintesi complessiva del pensiero kantiano, ma ne evidenzia, con riferimento allo specifico del riconoscimento, alcuni aspetti sicuramente rilevanti. E quindi sottolinea come Kant riprenda da Rousseau l’idea di intendere l’ambito morale come un ambito pienamente autonomo piuttosto che dallo stesso Adam Smith, nello sforzo di risolvere il problema di come l’individuo determini i suoi orientamenti morali, la prospettiva di un osservatore giudice del nostro agire. Ma il salto filosofico che  Kant opera va ben oltre questi spunti condivisi, nella “Critica della ragion pratica” egli afferma che …….il nostro agire morale, come per ogni forma di conoscenza, dipende in misura decisiva, se non esclusiva, dall’attività della ragione…… Honneth aveva nel Capitolo precedente, evidenziato come già Smith fosse giunto, nel suo sforzo di meglio precisare la natura dell’osservatore imparziale, a farlo coincidere, come sommatoria di più passaggi, alla “ragione”, senza però meglio precisare cosa egli intenda con questo termine. Kant al contrario lo afferma con assoluta precisione  ……la ragione morale coincide con ciò che tutti gli esseri razionali possono ritenere moralmente giusto……Vale a dire che l’intervento della ragione nell’ambito della morale significa che essa detta le regole a cui attenersi per un agire giudicato moralmente corretto dai nostri simili. Ma che cosa può concretamente indurre il soggetto ad aderire a questo ruolo della ragione nel campo della morale? Quale movente può sviluppare la predisposizione a seguire la legge morale? ……ed è a questo punto che la filosofia morale di Kant chiama in causa il rispetto, l’Achtung…… Alla categoria del “rispetto”, nella sua accezione più estesa, spetta esattamente il compito di dare nome all’inclinazione che ci spinge a vedere ……negli altri l’immagine fedele degli sforzi che la legge razionale come tale ci richiede….. Vale a dire che il rispetto è un sentimento, diverso da tutti gli altri che emergono dal nostro vivere concreto, “prodotto” dalla ragione stessa che ci porta ad essere così convinti della sua necessità da accettare che diventi una limitazione alle nostre inclinazioni egoistiche. Fino ad assurgere alla piena coincidenza fra il soggetto meritevole di rispetto e la legge morale; una frase celebre di Kant suona esattamente così …..ogni rispetto verso una persona è propriamente solo rispetto verso la legge di cui essa (quella persona) ci offre l’esempio….. E’ esattamente questo, secondo Kant, il compito del rispetto che ci dobbiamo reciprocamente l’un l’altro: quello di riconoscere nell’altro il nostro stesso sforzo di realizzare la legge morale. Esce quindi di scena nel pensiero di Kant il ruolo del riconoscimento sociale, il rispetto risponde ad una logica morale e razionale che non richiede alcun supplemento di un ritorno di gratificazione e prestigio sociale. Il riconoscimento, che si delinea in forma embrionale nel concetto kantiano di rispetto, è quindi radicalmente diverso da quello che si è visto nel contesto francese ed anglosassone. …….non si tratta di un riconoscimento a cui il soggetto ambisce ma al contrario di un riconoscimento che attribuisce o addirittura deve agli altri soggetti…. Ed in questo senso il rispetto, ed il riconoscimento che ne deriva, sono dovuti a tutti i soggetti umani, e portano, volontariamente ad una limitazione dei propri interessi egoistici per fare spazio a quelli, di corrispondente pari valore dei nostri, degli altri soggetti. E’ evidente secondo Honneth che questo implica, come ricaduta concreta sul piano dei rapporti sociali, la pari dignità morale di tutti i cittadini. Resta però in qualche modo aperta nel pensiero kantiano una difficoltà logica: se da un lato il rispetto dovrebbe secondo Kant manifestarsi spontaneamente ogni qual volta si avvia un rapporto interpersonale, dall’altro sembra poter essere efficace solo se all’altro viene riconosciuto il diritto al rispetto in base ad una non meglio precisata preliminare forma di giudizio. Ed è esattamente su questo scoglio logico che si innestano le ulteriori precisazioni del riconoscimento messe a punta prima da Johann Fitche (1762-1814) e poi da Friedrich Hegel (1770-1831). Ambedue sono motivati da una perplessità di carattere generale verso il sistema morale kantiano: ……..che cosa davvero motiva gli esseri umani a seguire dei precetti morali razionali?....... e sono convinti che la risposta di Kant affidata ad un “sentimento” per quanto di natura particolare come quello del rispetto,, fosse ambigua, inadeguta. Di pochi anni più anziano di Hegel è Fitche il primo a trovare, all’interno della sua generale visione filosofica, una nuova risposta a questa domanda. Anche in questo caso, come per Kant, Honneth non si avventura in una sintesi generale delle idee fitchiane, ma ne riprende alcuni passaggi fondamentali per giungere al nocciolo del concetto di riconoscimento. La critica generale mossa da Fitche a Kant consta nella tesi che la costruzione/rappresentazione della realtà non è un pura operazione mentale ma va pensata come una operazione pratica di un Io perennemente attivo. Questo Io tuttavia, per raggiungere piena coscienza della sua capacità di rappresentazione della realtà, ovvero della sua autonomia da essa, deve necessariamente entrare in rapporto con l’altro. Fin tanto che si misura con la sola materia mondo non può infatti ricavarne l’intuizione delle proprie capacità, questa  intuizione si manifesta solo dall’incontro con altri soggetti a lui simili nella sua soggettività. Ed è questa la dimensione entro la quale si concretizzano i rapporti interpersonali. Il testo in cui Fitche affronta in modo analitico queste tematiche è il suo saggio “Fondamento del diritto naturale secondo i principi della scienza” che ……può essere considerato il documento base dell’idea specificamente tedesca di riconoscimento……..  Già il titolo stesso lascia intendere come per Fitche il rapporto tra i soggetti sia un “rapporto giuridico”, che si determina sulla base di una precisa caratteristica. Questa caratteristica consiste nel fatto che  ….l’incontro con un altro soggetto viene percepito dal soggetto nella forma di un “appello”……. una sorta di messaggio che lo invita ad agire. Vale a dire che fra i due soggetti che entrano in contatto si innesta una rapporto che parte dalla libera scelta del soggetto che interpella di lanciare questa forma di messaggio, di appello, al soggetto che viene interpellato il quale è a sua volta altrettanto libero di raccogliere o meno l’invito. Questo incontro può avvenire soltanto perché, come si è visto, ambedue si riconoscono come esseri razionali. Quello che è decisivo, oltre alla necessità di entrare in rapporto per la ragione poco innanzi evidenziata, è il fatto che ambedue i soggetti, quello che interpella e quello che viene interpellato, sono consapevoli che l’incontro avviene per libera scelta di entrambi e che ambedue devono essere disposti a limitare i propri interessi egoistici per fare spazio a quelli dell’altro. Fitche definisce questa disponibilità reciproca “autolimitazione volontaria”, ma al di là del termine utilizzato essa in gran misura coincide con il “rispetto” kantiano …..l’appello va quindi inteso come un segnale in cui è implicito il reciproco “rispetto”….. Ma perché l’incontro, l’appello, l’autolimitazione, diventino fruttuosi, reali deve realizzarsi una ulteriore condizione, quella che determina il vero e proprio “riconoscimento”, una condizione che Fitche introduce con parole divenute celebri ……nessuno dei due può riconoscere l’altro se tutte e due non si riconoscono reciprocamente e nessuno dei due può trattare l’altro come un essere libero se tutte due non si trattano così reciprocamente…… Rispetto a Kant pertanto Fitche vede nel reciproco rispetto non una non meglio definita volontà di obbedire ad un precetto morale razionale ma come il presupposto necessario della comprensione di ogni rapporto comunicativo e della presa di coscienza della propria capacità di rappresentazione del mondo, della realtà. Ed in questo senso ……perché i due soggetti si sentano motivati al reciproco rispetto morale non occorre chiamare in causa nessun “sentimento”, per indurli ad un tale rispetto è sufficiente lo sforzo di interpretare le parole di chi gli sta davanti….. Appare evidente, secondo Honneth, come il salto logico della costruzione del riconoscimento operato da Fitche sia radicalmente innovativo rispetto a Kant ed ancor più riguardo a quanto elaborato nelle esperienze francesi ed inglesi. Il merito di Fitche di aver in effetti introdotto una vera e definita concezione del riconoscimento consiste nel suo aver messo al centro dei rapporti interpersonali non il valore sociale (Francia), non la capacità di autocontrollo morale (Gran Bretagna) quanto piuttosto la nostra personale libertà, quella che siamo disponibili a limitare affinché a sua volta ci venga riconosciuta. ……..secondo Fitche la trasformazione di una libertà semplicemente naturale, spontanea, nella legittima aspirazione, condivisa da tutti gli esseri razionali, ad autodeterminarsi….. Honneth da un lato evidenzia il salto di qualità operato da Fitche dall’altro non può non condividere le critiche, emerse già al tempo, che lo schema fitchiano soffra di un evidente limite di astrazione: il modello del riconoscimento elaborato può davvero essere applicato a soggetti “in carne ed ossa”? A tentare di sanare questo rischio di astrattezza salvando il valore del concetto elaborato interviene la ripresa dell’idea di riconoscimento da lì a poco attuata da Hegel, che la articola nel corso della sua intera attività filosofica in due successive ed in parte differenti concezioni all’interno della generale critica che egli muove a Kant ed a Fitche, critica che consiste nella considerazione che …….non esiste separazione tra un mondo “empirico” ed un mondo “intellegibile”…… Lo scopo della filosofia non consiste secondo Hegel nello stabilire le condizioni necessarie per condurre la ragione umana ad autorealizzarsi, ma deve essere quello di ripercorrere i fenomeni reali compiuti dallo Spirito (che non è per Hegel una entità trascendente, né la sola coscienza di sé psicologica o mentale, ma molto più concretamente la cultura umana che si forma nel suo processo evolutivo di liberazione da ogni condizionamento naturale per raggiungere una piena autonomia). Appare evidente che in questa architettura filosofica deve esserci, a maggior ragione, immediata coincidenza tra storia reale e storia della Spirito.  …….già il giovane Hegel tenta di riprendere il modello fitchiano del riconoscimento in un modo tale da fornire concreta fisionomia ad eventi che sono comunque costitutivi per la genesi dello Spirito…… Ed è l’amore tra l’uomo e la donna a rispecchiare, in questa giovanile fase del pensiero hegeliano, un concreto rapporto interpersonale che testimoni ……..il riconoscersi reciprocamente come “esseri liberi”….. Per il giovane Hegel l’autolimitazione ai propri interessi egoistici che in amore si compie per fare posto all’altro è la forma più evidente di quel rispetto reciproco che aveva dato tanto filo da torcere a Kant. Hegel completa poi questa concezione del riconoscimento interpersonale che si concretizza nel processo amoroso con una tesi divenuta famosa ……queste forme di riconoscimento reciproco di cui l’amore è l’esempio per eccellenza suggeriscono un “ritrovare sé stessi nell’altro”……. Ovvero un processo di riconoscimento che per realizzarsi pienamente necessita di tre condizioni: deve essere reciproco – deve consistere in una duplice autolimitazione che si completi – deve essere evidente e intellegibile nelle sue forme espressive. La restrizione esemplificativa del riconoscimento alla relazione amorosa non ha per Hegel solo un valore esemplare, ma testimonia il salto logico compiuto. Egli non è interessato ad individuare le “strutture” universali, eterne e valide ovunque, dei rapporti interpersonali, ma guarda alle forme storiche che testimoniano alcuni tratti specifici dell’evoluzione dello Spirito. In questo senso si spiega anche la successiva evoluzione dalla visione giovanile del riconoscimento. Seguire l’evoluzione complessiva delle forme dello Spirito lo porta inevitabilmente ad ampliare i fenomeni esemplari in senso storico e sociale che via via prende in esame. Hegel si vede in qualche modo “costretto” ……a riformulare il ruolo del riconoscimento come fattore di libertà (dello Spirito) spostandolo decisamente in direzione della teoria sociale…… Questa estensione dello sguardo comporta cambiamenti importanti:: innanzitutto il fatto che il riconoscimento non esprime più un atto individuale ma diventa l’espressione dei valori nei quali i soggetti sono cresciuti, la loro “seconda natura” che di fatto decide, seguendo una costante evoluzione storica, quali aspetti della soggettività avranno di volta in volta più valore. E, legato a ciò, il fatto che questi processi di riconoscimento in costante evoluzione possono esprimersi anche nella forma di aperti conflitti sociali, in ispecie là dove l’ordine sociale dominante attribuisce ai soggetti un diverso peso valoriale. In un celebre capitolo della “Fenomenologia dello Spirito” Hegel tratta ad esempio dell’impossibilità di un riconoscimento fra uguali fra “servo” e “padrone”. L’evoluzione in Hegel del concetto di riconoscimento trova in questi passaggi la sua evidenza più completa ……Rousseau, Hume, Smith, prima, e lo stesso Kant, dopo, vedono nel riconoscimento una “inclinazione” naturale, Hegel lo pensa come un interesse razionale, come l’interesse della ragione per la propria realizzazione……. In questo modo Hegel, concretizzando le intuizioni di Fitche, trasforma il concetto kantiano di “rispetto” in senso storico e sociologico. I rapporti interpersonali sono guidati dalle norme su cui poggiano le rispettive esistenze. ……se poi questi contesti di riconoscimento vengono percepiti come troppo angusti sarà la nostra instancabile volontà di autonomia a far sì che nuovi conflitti preparino il terreno a nuova e forme di riconoscimento…… Secondo Honneth è difficile sostenere, sulla base del concreto processo di evoluzione del successivo pensiero filosofico germanico, che le idee hegeliane abbiano prodotto una organica e duratura idea “tedesca” di riconoscimento, anzi è semmai possibile sostenere il contrario, ma è altrettanto certo che sotto traccia qualcosa sia sempre rimasto se ancora nell’opera teatrale di Bertold Brecht (1898-1966) si coglie con evidenza l’idea guida che …….ogni incontro tra esseri umani è condizionato dall’attesa reciproca di un trattamento “da pari a pari” e che ogni violazione  di questa auspicata parità debba generare conflitti…….

5) Forme di riconoscimento a confronto: un tentativo di riassunto sistematico
Honneth, al termine della sua analisi della costruzione del concetto di riconoscimento nelle tre aree culturali prese in esame, manifesta un comprensibile scetticismo sulla possibilità che da tre percorsi così differenziati possa emergere una qualche forma di sintesi unitaria. ….questi tre paradigmi differiscono in modo evidente non solo dal punto di vista delle aspettative e degli atteggiamenti assunti dai soggetti ma anche dal punto di vista degli effetti che l’incontro intersoggettivo produce sui soggetti interessati……. Anche procedendo per astrazione, cercando quindi di individuare l’idea di fondo di riconoscimento che emerge nei tre contesti culturali e tralasciando le diversità più inconciliabili, appare infatti evidente che in Francia il riconoscimento è qualcosa a cui il soggetto aspira, mentre in Gran Bretagna diventa la possibilità di essere accolti come membri legittimi della propria comunità, per diventare in Germania la condizione di base per il soggetto per costruirsi come essere razionale ed autonomo. Nel primo caso il soggetto si abbandona al giudizio sociale, nel secondo si sforza di controllare i propri comportamenti per guadagnare legittimazione morale, nel terzo lotta per la propria autonomia all’interno della comunità sociale. Nel paradigma francese il riconoscimento è di fatto un processo negativo, in quello anglosassone diventa positivo e socialmente vantaggioso, in quello germanico i due giudizi si pareggiano nel reciproco rispetto. Ciò fermo restando la domanda che Honneth si e ci pone è quella di capire……..se si tratta di tre angolazioni diverse da cui esaminare lo stesso fenomeno oppure di tre aspetti complementari  che potrebbero ancora comporsi in un quadro unitario……. Occorre in questo senso considerare che i tre diversi approcci hanno continuato a seguire traiettorie diverse anche nella elaborazione filosofica e sociologica contemporanea e che nel linguaggio comune, unificato dalla globalizzazione neo-liberista, il concetto vincente, ancor che sicuramente deformato perché privato di ogni autocontrollo dell’egoismo, è certamente quello anglosassone. Il riconoscimento è ovunque, in Occidente, in gran misura un …….sinonimo di distinzione sociale e un attestato di buona condotta, la lode piuttosto che il biasimo sono le pubbliche attestazioni di riconoscimento…… al punto da essere ormai alla base dell’educazione infantile, della creazione adolescenziale della propria identità sociale e della valutazione del comportamento, e del collegato successo sociale, degli adulti. Ma Honneth non demorde e, cercando di enucleare elementi unificanti, ritiene possibile una integrazione dei tre modelli. ……si vedrà infatti che alcuni elementi delle tradizioni di pensiero sin qui esaminate si prestano più di altri ad integrarsi con il restante panorama teorico confluendo in un quadro coerente della nostra dipendenza dal riconoscimento sociale….. Questa possibile integrazione può essere tentata solo dopo aver individuato, fra i tre modelli in esame, quello che di più si presta ad essere assunto come il più promettente a spiegare una visione della società come un tutto, per poi, ciò fatto, capire quali correzioni, quali ampliamenti sarebbero necessari per recuperare un legame con i restanti due paradigmi. Non appare una sorpresa, dopo quanto esaminato nei precedenti capitoli, che Honneth ritenga il modello tedesco, in ispecie nella sua ultima versione hegeliana, quello più adatto ad essere assunto come base di partenza. Lo è perché, in misura maggiore rispetto agli altri due, si sforza di comprendere ……che cosa significa per noi esseri umani vivere in un mondo caratterizzato innanzitutto dal fatto di orientarci su norme condivise……. Ma in particolare perché, nell’idea di riconoscimento di Hegel, si coglie lo sforzo di collegare i meccanismi alla base dei rapporti interpersonali non solo e non tanto alle loro articolazioni astratte ma anche se non soprattutto  …….alle forme storiche sedimentate nelle istituzioni umane e quindi alle norme via via differenti che le hanno ispirate……. Hegel, storicizzando il mondo delle idee sui rapporti umani, di fatto rende le stesse basi teoriche del riconoscimento “fatti storici” consentendo così, anche nelle loro versioni francese e inglese, di essere valutate come forme specifiche “all’interno” del complessivo percorso dello “Spirito” hegeliano verso la conquista della piena autonomia umana dalla natura. Questo “inglobamento” storico consente non solo di riflettere su un unicum storico e teorico, ma anche di chiederci  ……se ed in quale misura gli altri due modelli possano a loro volta contribuire a correggere e perfezionare la specifica teoria proposta da Hegel…….. permettendoci in questo modo di pervenire a quella sintesi unitaria dei tre modelli cercata da Honneth. Il primo significativo passo in questa direzione consiste nel non impossibile compito di gettare un ponte tra la teoria hegeliana del riconoscimento, assurta quindi a canovaccio di base, e l’idea, tipicamente anglosassone, della funzione di controllo di quel “osservatore interno” che abbiamo incontrato nel Capitolo 3. Un passo che si rende necessario proprio per quei limiti oggettivi, analizzati in precedenza, che la riflessione hegeliana ha nella sua individuazione delle ragioni che inducono i soggetti sociali a seguire le norme morali create dalla comunità in cui vivono. Eppure è questo un aspetto decisivo per la sua stessa idea dell’uomo come soggetto spirituale che agisce non solo per impulsi naturali ma soprattutto perché guidato proprio dalle “norme” razionali, che storicamente, attraverso un lungo processo di costruzione, egli stesso ha via via perfezionate e fatto progredire. …….E’ proprio su questo punto, in cui si tratta di spiegare il passaggio dalla creazione di norme comuni ad un vero e proprio accordo sociale, che la teoria  del riconoscimento inglese sembra in grado di completare ed integrare la teoria hegeliana…… Hegel risolve la questione ricorrendo ad un generico concetto di ispirazione aristotelica: quello di “abitudine”, legato all’idea, anch’essa di derivazione aristotelica, del comportamento morale come nostra “seconda natura”. Sembra cioè che il rispetto delle norme morali, spesso faticosamente costruite nel corso del tempo, avvenga soltanto perché questa “seconda natura” ci induce a ciò giocando sulla forza dell’abitudine alle stesse. Appare evidente il grande vantaggio che Hegel avrebbe avuto nel superare questo scoglio se……avesse accolto le riflessioni di Hume e Smith sulla formazione degli abiti morali che spiegano i processi psicologici  che portano gli individui ad interiorizzare le norme adottate dalla comunità……. La molla della “abitudine” appare davvero troppo debole, quella di Adam Smith della aspirazione dell’individuo ad essere accolto nella comunità proprio seguendo le regole morali da essa dottate è paradossalmente molto più hegeliana, perché rappresenta una coerente traduzione concreta dell’impulso spirituale che spinge l’uomo a realizzare la sua razionalità. Non solo: l’idea hegeliana (aristotelica) che gli impulsi morali  si traducano nel tempo, con l’abitudine, in una sorta di automatismo quasi “fisico” impallidisce di fronte a quella ben più completa ed articolata di Hume e di Smith che vedono il processo di appropriazione delle norme morali basato sul …..fatto che l’individuo impara a riprodurre al proprio interno le aspettative dell’ambiente sociali in cui vive  fino al punto che tali aspettative, tradotte  nella voce della coscienza dell’osservatore interno, riescono a controllare dall’interno il suo comportamento……. L’idea di Smith di questo “giudice interiore” è una corretta ed importante evoluzione proprio del concetto aristotelico della “seconda natura”, risolve una lacuna significativa dell’idea hegeliana di riconoscimento, e conforta l’idea di Honneth di rappresentare un punto di giunzione fra i concetti di riconoscimento tedesco e anglosassone assai lontani tra di loro nella loro impostazione complessiva. Ben più complesso, secondo Honneth, è il tentativo di individuare un collegamento con l’idea francese di riconoscimento. Per le oggettive profonde differenze dagli altri due modelli e per il fatto che, come si è visto nel Capitolo 2, la comune visione negativa del riconoscimento ha due distinte coniugazioni: quella classica di Rousseau e quella più vicina ai nostri giorni di Sartre, di Lacan e di Althusser. Honneth inizia a valutare la possibilità di un punto di incontro con la visione di Rousseau dell’amour propre e della collegata possibile perdita dell’Io per ottenere il riscontro sociale. Lo fa recuperando quelle timide aperture, anche se in buona parte nuovamente rinnegate in età avanzata, che Rousseau ha verso un possibile ruolo positivo del riconoscimento incrociandole con il corrispondente giudizio di Hegel sull’incidenza negativa che ambizione e smania di successo possono avere sul “rispetto” alla base dei rapporti interpersonali. In particolare Hegel in significativi passi delle sue opere si dimostra attento ai …….fenomeni psicologici derivanti dall’esclusione di determinati individui o gruppi dalle pratiche collettive di riconoscimento reciproco…… Come possono reagire coloro che non vedono soddisfatte, a torto o ragione che sia, le loro aspettative di riconoscimento? L’attenzione hegeliana a questa domanda, coerente con la sua visione dell’uomo come soggetto storico concreto, si traduce in una constatazione che lo avvicina di molto ai timori di Rousseau ……..questi membri della società sarebbero così sbilanciati sul lato egoistico da non poter far altro che dar prova della propria onorabilità con pretenziose ostentazioni dei propri talenti, sarebbero cioè spinti da una smodata inclinazione alla vanteria e all’esibizionismo….. E’ possibile pertanto sostenere che anche Hegel abbia inteso le forme dell’amouir propre, che ben conosceva, come un distorto effetto psichico del mancato riconoscimento. E quindi che per entrambi i due filosofi ……l’egoismo, la vanità, l’ambizione sono possibili fenomeni reattivi in una comunità fondata sul riconoscimento reciproco…… Restano tra i due differenze enormi ma sul piano della psicologia del riconoscimento sociale, sulle sue possibili distorsioni egoistiche, le idee di Rousseau possono obiettivamente integrare quelle di Hegel. Si può dire la stessa cosa anche per l’altro ramo della visione francese, così lontano da Rousseau, culminante con gli scritti di Louis Althusser? Con la sua idea negativa del riconoscimento sociale visto come una imposizione all’individuo dei ruoli assegnati dai rapporti di forza sociali? Impresa ancora più complessa secondo Honneth ma che trova una feconda prospettiva in importanti considerazioni che Hegel fa a margine di una sua clamorosa contraddizione logica relativa al ruolo della donna nell’ambito del rapporto coniugale. La contraddizione, non risolta, consiste nell’evidente incongruenza fra due affermazione che al riguardo Hegel svolge. Se da una parte alla donna, n quanto soggetto, individuo, compete al pari dell’uomo il diritto universale dello Spirito di anelare alla conquista della propria personale autonomia dall’altra però, non appena viene vista nel ruolo di moglie, di madre, la donna viene chiamata …….a quella sensibilità sentimentale che le impone di sottomettersi all’uomo e di cercare il proprio compito nella casa……. Non solo una evidente incongruenza ma una inaccettabile tradizionalistica forma di misoginia. Ma come tenta Hegel di conciliare due affermazioni in così evidente contrasto? La sola opportunità è quella di individuare una ragione, in qualche modo sostenibile, in base alla quale la donna possa “liberamente”, ed in armonia con la stesa autonomia di Spirito di cui è titolare, accettare la propria sottomissione. Hegel deve cioà negare alla donna la possibilità di piena autonomia e di rifiuto della sottomissione alla quale è destinata ……..in virtù di qualcosa che si trova al di fuori della norma di riconoscimento, qualcosa che la limita a monte……  Questo qualcosa sta, secondo Hegel, nella “natura”, nella presunta vocazione “naturale” alla sottomissione, nel suo destino naturale alla culla ed al focolare. Un’idea ancora una volta non solo insopportabile e conservatrice ma che soprattutto contraddice clamorosamente la stessa fondamentale idea hegeliana di uno spirito che per conquistare la propria autonomia non esita ad entrare in conflitto con i condizionamenti naturali. Questo diritto nel caso della donna viene negato proprio chiamando in causa la forza di uno stato di natura giudicato non modificabile. Dalla incongruenza logica della riflessione di Hegel, del tutto incapace di dare soluzione ad una contraddizione che resta nel suo ragionamento del tutto irrisolta, è possibile al contrario uscirne fuori adottando la riflessione critica di Althusser sui limiti che ai percorsi di riconoscimento sono imposti da rapporti e meccanismi sociali funzionali al potere. Quando questi meccanismi, esattamente come nel caso della donna in Hegel e più in generale nei contesti sociali capitalistici, al termine di un lunghi percorsi di forzata imposizione si sono ormai sedimentati in profondità nella rete dei rapporti interpersonali essi vengono vissuti dagli stessi individui che ne sono vittime come …….aspetti costitutivi della propria natura…….. al punto che ……il rapporto di riconoscimento che in teoria dovrebbe garantire la libertà da dominio diventa uno strumento di dominio in quanti vengono risucchiati in una forma di riconoscimento che costringe i soggetti interessati a considerarsi portatori di proprietà immutabili perché ritenute naturali…… Honneth afferma quindi che un limite evidente e contraddittorio della teoria hegeliana del riconoscimento, può essere risolto, accrescendone la stessa validità complessiva,  proprio da un’idea di riconoscimento, quella di Althusser, del tutto diversa ma sicuramente meglio attrezzata a riconoscere l’incidenza delle logiche di potere sui meccanismi sociali dei rapporti interpersonali, recuperando così non solo un prezioso e risolutivo contributo logico ma una fruttuosa relazione fra due modelli di riconoscimento, quello tedesco e quello francese, anche nella sua versione contemporanea, che restano complessivamente molto distanti tra di loro.  

Al termine di questo tentativo di conciliazione ed integrazione in un unico concetto “assemblato” di riconoscimento Honneth ribadisce, al di là delle singole questioni affrontate, che il modello tedesco di Fitche ed Hegel resta l’architrave fondamentale di una teoria unificata di riconoscimento in primo luogo perché essi ……..non intendevano semplicemente indicare un fenomeno rilevante per la vita sociale ma la sua stessa condizione costitutiva, noi creiamo le condizioni per una coesistenza sociale solo riconoscendoci reciprocamente come persone….. I rapporti interpersonali che si possono realizzare sulla base del reciproco rispetto di impronta tedesca restano quelli meglio improntati alla realizzazione concreta di coesistenze comunitarie. Un contributo importante in questo senso viene però dalla figura dell’osservatore interno definita da Adam Smith, una figura che meglio spiega le ragioni e le modalità con le quali tutti noi siamo indotti, dal bisogno di sentirci accolti dalla comunità sociale, a fare nostre le norme morali che pongono precisi limiti ai nostri egoismi e d interessi particolari. Occorre inoltre avere consapevolezza che in questo quadro ottimale eventuali situazioni di mancato riconoscimento rischiano di essere motivo per il riaffermarsi di forme egoistiche di vanità ed ambizione che non solo pregiudicano i rapporti interpersonali ma che, come indicato da Rousseau, impediscono la vera coscienza e realizzazione del proprio Io. Un secondo aspetto determinante nello scegliere il modello tedesco come base per il riconoscimento consiste poi nella sua volontà di non essere solo un modello astratto per divenire un processo storico reale …….di cui fanno parte le forme istituzionali, gli abiti morali e gli uomini in carne ed ossa alle prese con le prime e con i secondi……. Questo aspetto è certamente decisivo ma automaticamente implica la corrispondente consapevolezza, sollecitata dalle contemporanee idee, ancorché critiche, di riconoscimento, di quanto e come possano gravare le possibili ragioni di conflitto sociale sia sull’ampiezza del suo campo di applicazione sia sulle figure che ne sono direttamente coinvolte. …….ora sappiamo che una teoria del riconoscimento ispirata ad Hegel non può fare a mano  di una diagnosi delle patologie possibili, un esame dei blocchi sempre in agguato, un’analisi del carattere conflittuale del riconoscimento reciproco.