mercoledì 17 marzo 2021

Come l'energia ha plasmato la storia dell'umanità - Articolo di Alessio Giacometti

 

E’ stato un autorevole candidato a divenire un “Saggio del mese”, per la rilevanza del tema trattato e per la capacità analitica dell’autore, ma, dopo le fatiche della sintesi di “Capitale e Ideologia” di PIketty, è giusto riconoscere che è mancato il coraggio di misurarci con un altro tomo di circa 650 pagine fitte di dati e minuziose ricostruzioni tecniche. Stiamo parlando di  Energia e civiltà, una storia” di Vaclav Smil, (nato nel 1943 in Cecoslovacchia, naturalizzato canadese, scienziato specializzato in scienze naturali e dell’ambiente, analista politico e prolifico saggista)

Ci ha sollevato da ogni residuo dubbio il seguente articolo di Alessio Giacometti (Sociologo, scrive su diverse riviste) apparso sulla rivista on-line “Il Tascabile” che presenta in modo esauriente il testo di Smil dandoci la possibilità di conoscere i temi analizzati e di cogliere importanti spunti di riflessione che, accuratamente, mettiamo nel cassetto di CircolarMente delle tematiche da sviluppare

  Come l’energia ha plasmato 

la storia dell’umanità

Dici energia e capiscono tutti a cosa ti riferisci, anche se darne una descrizione soddisfacente rimane un’impresa. Dalla fisica sappiamo che la materia è energia in stato di riposo, che l’energia si manifesta in forme diverse, e che una forma può mutare nell’altra in processi talvolta macroscopici e incessanti, talaltra contingenti e fugaci. Più in là non ci spingiamo. Eppure dell’energia ci serviamo davvero per fare di tutto: la sfruttiamo per nutrirci e compiere lavoro, per sprigionare forze e luce e calore, per fabbricare gli oggetti e metterli in movimento. Nel suo Energia e civiltà. Una storia (Hoepli, 2021), Václav Smil la definisce l’unica vera moneta universale: “per fare qualsiasi cosa, una delle sue tante forme deve cambiare, subire una trasformazione”. La società potrebbe anche funzionare senza denaro, ma senza energia assolutamente no. E sono proprio le trasformazioni dell’energia ad avere plasmato la storia dell’umanità più di ogni altra cosa, più delle pandemie, delle rivoluzioni e delle ideologie. Più delle guerre, anche, che è l’energia stessa ad alimentare, decidere, e molto spesso motivare. Smil è professore emerito di geografia e storia dell’ambiente all’Università di Manitoba, in Canada, e divulgatore. Come scrittore è prolifico: in carriera ha dato alle stampe oltre quaranta saggi densi e ambiziosi, uno ogni otto-nove mesi circa (una media di cinquecento parole al giorno). Alcuni dei suoi libri più recenti sono stati poi consigliati da Bill Gates, e per questo sono diventati anche dei casi editoriali di successo, negli Stati Uniti. Per qualcuno l’incredibile facilità di scrittura e le buone vendite, con la benedizione di Gates, potrebbero magari essere ragioni sufficienti per dubitare della serietà scientifica di un autore. Ma non bisogna farsi trarre in inganno: Smil è uno studioso stacanovista e sinceramente alieno a ogni gioco di potere (vive da anacoreta in una piccola casa coibentata, senza cellulare, legge un centinaio di libri all’anno e guida una modesta Honda Civic in una nazione di SUV). Si definisce uno scienziato fuori moda, per certi versi retrivo, uno che ha iniziato a occuparsi di cambiamenti climatici in tempi non sospetti, nel 1972, quando venne pubblicato il suo primo studio sulla materia. Energia e civiltà è un condensato delle ricerche di una vita sulle transizioni energetiche passate e future che riprende, aggiorna e approfondisce molte delle argomentazioni già presentate nel precedente Energy in World History (Westview, 1994). Il libro esce in Italia a poche settimane di distanza dalla traduzione di un altro suo successo – I numeri non mentono. Brevi storie per capire il mondo (Einaudi, 2021) – e come quello è un buon viatico per avvicinare il lavoro di questo storico materialista cresciuto in Cecoslovacchia ai tempi del blocco sovietico, incline a interessarsi di cemento, container, automobili, oleodotti e altri “temi minori” che letterati e intellettuali sono soliti bistrattare. In Energia e civiltà Smil compila una storia dell’umanità scandendola in “ere energetiche”, con l’obiettivo di offrire una comprensione sistemica dell’energia, dei suoi sviluppi, del suo impatto sulla società e sull’ambiente. A suo modo di vedere è bizzarro che, di norma, gli storici non considerino l’energia quale fattore esplicativo determinante nelle loro analisi, quando in realtà: Sia l’evoluzione umana nella preistoria sia il corso della storia possono essere visti come una continua ricerca di modi per controllare depositi e flussi di energia in forme sempre più concentrate e versatili, allo scopo di convertirle, in modalità sempre più convenienti, a costi più bassi e con maggiore efficienza, in calore, luce e movimento. Tra energia e vita organica sussiste infatti un nesso inscindibile, adamantino, e così anche tra energia e società. Se poi ci si ferma all’economia quel nesso diventa addirittura tautologico: Ogni attività economica, di fatto, non è altro che una trasformazione di un tipo di energia in un altro, e il denaro è semplicemente un modo conveniente (e spesso neppure così rappresentativo) per dare un valore ai flussi di energia. “Flussi” e “depositi” sono concetti chiave, quando si discetta di energia: ogni essere vivente impiega gran parte del suo tempo a procurarsela dall’ambiente nell’una o nell’altra forma, e in questo le piante sono in assoluto le più efficienti perché convertono direttamente l’energia solare, il flusso. Gli animali dipendono principalmente dai depositi – altra biomassa animale o vegetale – ma non solo: correnti d’acqua, d’aria e di calore sono sempre state utili a molte specie, umani compresi. Venendo subito a noi, dice Smil che: I progressi della civiltà possono essere interpretati come la ricerca di un maggiore uso di energia, necessaria per produrre maggiori quantità di cibo, per mobilitare una maggiore produzione e varietà di materiali, per produrre un numero maggiore e più diversificato di beni, per consentire una maggiore mobilità e per dare accesso a una quantità virtualmente illimitata di informazioni. Rileggere lo sviluppo sociale usando l’energia e le sue trasformazioni come chiave di lettura è una proposta analitica che potrebbe tradire un certo determinismo riduzionista e teleologico, ma che nella dettagliata ricostruzione di Smil appare auspicabile e persino convincente. Quella della civiltà può dunque essere descritta come la storia della nostra crescente capacità di raccogliere e sfruttare l’energia dall’ambiente, e di farlo in maniera sempre più efficace, intensiva, con il minor sforzo umano possibile. Da questo “compromesso di sussistenza” – ottenere di più, con meno – è dipesa tanto l’evoluzione naturale della nostra specie quanto quella culturale, e gli esempi a conferma di questa ipotesi si sprecano. Muoversi in posizione eretta, ad esempio, costava ai nostri primi antenati bipedi circa il 75% in meno di energia rispetto alla camminata su due o quattro zampe degli scimpanzé. La regolazione della temperatura corporea tramite sudorazione degli esseri umani è poi tra le più efficienti del regno animale, e questo permetteva ai nostri antenati di inseguire le prede fino a sfinirle. A essere cacciati erano preferibilmente animali di grossa taglia o radunati in branchi, ovvero maggiori depositi di energia chimica disponibile sotto forma di cibo. Ancora più efficaci dal punto di vista energetico si rivelarono essere la custodia delle prede (allevamento) e la raccolta pianificata delle sementi (agricoltura). Ogni innovazione successiva in queste due attività – e Smil non lesina minuzie sull’impiego dei fertilizzanti e del lavoro animale, sull’aratro, la ferratura dei cavalli, le tecniche di canalizzazione e irrigazione, la macchinizzazione dell’agricoltura, l’ibridazione delle specie domestiche… – non è che un tentativo riuscito di aumentare la resa di raccolti e allevamenti. I sistemi più efficaci si sono diffusi in ogni nicchia ambientale utile, quelli improduttivi sono invece stati abbandonati nel processo di selezione evolutiva delle innovazioni tecniche. È una tesi, questa, molto vicina al concetto di “design intelligente” formulato dal filosofo della scienza Daniel Dennet nel suo "Dai batteri a Bach. Come evolve la mente" (Raffaello Cortina, 2018): l’evoluzione per selezione naturale della cultura come un lungo processo costellato di prove, fallimenti, miglioramenti progettuali e tecnologici per ottenere il massimo dall’ambiente, in primis il massimo di energia. Si potrebbe credere allora che a determinare le transizioni energetiche del passato sia stata soprattutto la scoperta di fonti via via più efficienti, quando in realtà è la loro efficacia (o potenza) il fattore davvero determinante. Si pensi di nuovo all’agricoltura: rispetto a un secolo fa, uno stesso appezzamento di terreno produce oggi dieci volte più cibo ma consuma novanta volte più energia tra macchine agricole, irrigazione, fertilizzanti e tutto il resto. L’efficacia da sola però non basta quasi mai, e in molte circostanze storiche ad affermarsi sono state le alternative energetiche più versatili, sicure, facili da controllare. Per tornare all’esempio dell’agricoltura, l’impiego della forza animale raggiunse il limite a inizio Novecento, in California, con gli attrezzi agricoli trainati da 40 cavalli contemporaneamente al giogo: mantenere un numero così alto di animali da lavoro, combinare e coordinare i loro sforzi divenne un’impresa insostenibile, ragion per cui le innovazioni successive non poterono che giungere dai motori meccanici. Per smentire l’apparente linearità e “necessarietà” dello sviluppo energetico, Smil racconta le vicende di alcune fonti e loro convertitori che si imposero nella storia solo temporaneamente, o a seguito di lunghi periodi di marginalità e latenza. I mulini ad acqua e quelli a vento, ad esempio, furono inventati nei tempi antichi ma si diffusero solo dopo molti secoli. Così anche il petrolio, che è stato raccolto e utilizzato per millenni in quantità esigue prima di diventare il combustibile fossile prediletto  in epoca moderna. L’effetto fotovoltaico fu scoperto addirittura nel 1839 e le prime celle solari al silicio prodotte già nel 1954, ma l’adozione di massa dei pannelli solari è un fatto quanto mai recente e tuttora da compiersi. Il caso del motore a vapore è forse il più emblematico: che si potesse usare il fuoco per muovere rapidamente e senza fatica gli oggetti era noto sin dai tempi dell’invenzione della polvere da sparo, eppure ci volle quasi un millennio per vedere un prototipo di pompa a vapore e almeno un altro secolo prima che i motori termici fossero applicati con successo all’industria e ai trasporti.  In alcuni casi gli sviluppi nel controllo dell’energia sono stati brucianti – Edison accese la prima lampadina durevole nel 1879, quattro anni dopo una sola centrale termoelettrica negli Stati Uniti dava energia a 11 000 lampadine a uso domestico – mentre in altri ancora hanno preso direzioni impreviste, spesso indesiderate. Si immagini che durante gli anni universitari Rudolf Diesel, inventore del motore eponimo e convinto socialista, sognava di mettere a punto un sistema alimentato a gasolio, leggero e di facile manutenzione, che potesse essere adottato in laboratori gestiti direttamente da cooperative di artigiani. Sappiamo come è andata a finire: I suoi motori non hanno trovato i loro impieghi principali nelle piccole officine – commenta Smil – ma in macchinari pesanti, camion e locomotive e, dopo la Seconda guerra mondiale, in grandi petroliere, navi da carico e portacontainer, contribuendo a creare l’esatto contrario della visione di Diesel, una concentrazione senza precedenti di produzioni su larga scala e distribuzione a basso costo dei prodotti in una nuova economia globale. Se in Making the Modern World: Materials and Dematerialization (Wiley, 2013) Smil raccoglieva dati e conferme per sfatare il mito della dematerializzazione, in Energia e civiltà confuta quello dell’efficientamento energetico: Le maggiori efficienze sono state sommerse dalla combinazione di una domanda crescente e di una popolazione più numerosa, e sebbene lo sfruttamento dell’energia nell’economia globale sia diventato relativamente meno intensivo, l’utilizzo di energia è aumentato. Storicamente, più le tecnologie diventano efficienti, più energia consumiamo in termini assoluti: limitandosi al valore globale degli ultimi due secoli, 20 Exajoule nel 1800, 45 nel 1900, 380 nel 2000. Una tale voracità di energia porta oggi a credere che abbandonare i combustibili fossili non sarà facile, nè indolore. I dati sull’energia eolica e solare presentati in Energia e civiltà sono aggiornati a diversi anni fa, e questo è un limite evidente delle tesi di Smil sulla transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili. Per potersi davvero compiere, sostiene lui, alla rivoluzione “verde” occorreranno tempo (“due o tre generazioni”), investimenti strutturali (“tecniche di produzione, distribuzione e conversione”) e innovazione tecnologica (“la disponibilità di nuovi, economici modi per immagazzinare l’energia eolica e solare su larga scala”). Occorrerà soprattutto un limite massimo globale ai consumi di energia, in assenza del quale i miglioramenti tecnologici nell’efficienza delle fonti, anziché diminuire le emissioni di gas serra, finiranno per aumentarle. In Growth: From Microorganisms to Megacities (MIT Press, 2019), lo stesso Smil accumulava esempi su esempi di sistemi naturali e sociali – dalla riproduzione delle cellule tumorali all’espansione di galassie e imperi – che hanno inizio con numeri esigui, entrano in una fase di crescita iperbolica, e alla fine si fermano. A volte il rallentamento è fisiologico, altre è catastrofico. L’unica certezza, avverte Smil, è che ogni pattern di crescita raggiunge il limite, prima o poi. Nel caso dello sfruttamento antropico dell’energia, quel limite sta in bilico tra la necessità di preservare l’abitabilità della biosfera e il bisogno di assicurare una vita decente a tutti gli esseri umani. “Decente” è un termine troppo ambiguo per entrare nelle argomentazioni di Smil, che preferisce dare un intervallo numerico, 100-110 Gigajoule annui pro capite: è grosso modo la quantità di energia che consuma oggi un cittadino cinese medio. Negli Stati Uniti si viaggia a 300 Gigajoule, in Giappone a 170, in Unione Europea a 150, mentre l’India si ferma a 20 Gigajoule, la Nigeria a 5 e l’Etiopia a 2. A chi sta molto al di sotto di quel valore-soglia si conceda di continuare a crescere, ossia di bruciare combustibili fossili; per chi sta sopra si tratta invece di cominciare a decrescere. Cosa che, sempre secondo Smil, non sarebbe poi così male per gli europei: Potremmo dimezzare i nostri consumi energetici e materiali e tornare all’incirca ai livelli degli anni Sessanta. Potremmo farlo senza rinunciare a nulla di importante. La vita non era poi così orribile negli anni Sessanta, in Europa. Per una buona fetta di mondo decrescere non sarebbe neanche difficile, visto che gli usi energetici superflui e “voluttuari” esistono da sempre – Smil dedica diverse pagine del libro a quantificare l’energia impiegata nella costruzione della Grande Piramide, o a spiegare come l’energia contenuta nella bomba Zar testata in Unione Sovietica nel 1961 sia pari a quella che consumerebbe in un anno un miliardo di persone con lo standard di vita di un cittadino giapponese medio – sebbene oggi siano talmente sistematici e interiorizzati che non ne abbiamo più contezza. Qualche esempio iconico scelto da Smil, per rendere l’idea: Decine di milioni di persone prendono ogni anno voli intercontinentali per raggiungere le spiagge, rischiando di contrarre il cancro alla pelle; la cerchia sempre più ristretta degli appassionati di musica classica possiede più di 100 registrazioni delle Quattro Stagioni di Vivaldi tra cui scegliere; ci sono più di 500 varietà di cereali per la prima colazione e più di 700 modelli di autovetture. Il sentimento oggi dominante, fomentato tra gli altri dallo stesso Bill Gates, è che la combinazione di capitalismo “verde” ed efficientamento energetico ci condurrà presto alla condizione di eccesso sostenibile – stessi consumi materiali con un uso minore di combustibili fossili – ma sarebbe un grave errore credere che la tecnologia e il mercato renderanno sostenibili i nostri comportamenti senza alcun sacrificio. L’attenzione di Smil è tutta calamitata dallo sforzo di verificare e inanellare informazioni: è un testo compatto e accademico, anche se l’aggettivo nel complesso più appropriato sarebbe forse enciclopedico. Al netto di poche digressioni, la forza del libro sta proprio nel presentare, su uno stesso piano, temi che vengono normalmente trattati in campi specialistici non comunicanti, e di farlo con un livello di dettaglio difficilmente riscontrabile altrove. Come ha osservato Jonathan Watts sul Guardian, nei saggi di Smil ci sono i numeri che cerca chi vuole fare divulgazione sui cambiamenti climatici. Sono libri esigenti, ma affidabili e duraturi, utili a capire meglio in che stato si trovi oggi l’umanità, e dove sia diretta.


giovedì 11 marzo 2021

Il Saggio del mese - Marzo 2021

                                           Il “Saggio” del mese

 MARZO 2021




Come anticipato lo scorso mese si chiude con quest’ultimo post la pubblicazione della sintesi del saggio di Thomas Piketty “Capitale e Ideologia”. Siamo consapevoli della consistenza complessiva di questa sintesi ma, come più volte già evidenziato, si tratta di un testo di circa milleduecento pagine ricco di grafici e tabelle, che non potevano non essere inserite per rendere comprensibile l’analisi e le ricostruzioni storiche di Piketty. Riteniamo che ne valesse comunque la pena. Unitamente al suo precedente saggio “Il Capitale nel XXI secolo” Piketty completa una ricostruzione esaustiva del peso delle disuguaglianze nell’intera storia delle società umane, fornendo un quadro analitico che a lungo rimarrà fondamentale per ogni politica seriamente intenzionata a realizzare una maggiore giustizia sociale. In particolare emerge dall’insieme delle sue analisi la stretta correlazione tra disuguaglianza e ideologia. La prima non può essere considerata come il risultato di fenomeni esclusivamente economici, essendo fondamentale la costruzione ideologica che li sostiene e li giustifica. Vale a dire che anche l’attuale sistema delle disuguaglianze, che sta conoscendo dagli anni Ottanta del secolo scorso, una impressionante crescita, può essere fronteggiato adottando adeguati correttivi che possono essere individuati solo sulla base di una condivisa diversa idea di società. In quest’ultimo Capitolo, che volutamente presentiamo a sé stante, Piketty presenta alcune proposte che, sulla base del complesso dell’analisi svolta, a suo avviso si muovono concretamente in questa direzione. Per meglio valutarle sono opportune alcune considerazioni preliminari:

*   Piketty nel formularle non intende presentare un progetto complessivo di cambiamento sociale ed economico, ma, coerentemente con la sua formazione di economista specializzato in teoria dei sistemi fiscali, propone idee volutamente mirate a contrastare l’attuale sistema globale delle disuguaglianze agendo innanzitutto proprio sulle leve fiscali

*   In questo senso non avanza una visione “rivoluzionaria” di soppressione del mercato capitalistico globalizzato, ma presenta alcune idee che mirano specificatamente a contenere e a correggere il più possibile quelle sue distorsioni che di più sono la causa delle attuali disuguaglianze

*   Non si tratta comunque di idee “morbide”, anzi, alcune possono sembrare persino utopiche, o quantomeno difficilmente realizzabili su tempi brevi. Piketty precisa però che il loro vero scopo non è quello di presentare un pacchetto definito di proposte, ma di avviare sulla loro base, con uno scopo anche “provocatorio”, un dibattito allargato dichiaratamente rivolto alla “sinistra globale”, intesa in senso lato, per recuperare il più possibile la sua perduta capacità di contrastare adeguatamente il predominio delle logiche neo-liberiste che hanno ispirato l’attuale globalizzazione.

*   Valutandole nel dettaglio sarà infatti possibile constatare che idee che oggi sembrano sproporzionate sono in fondo le stesse che nei decenni del secondo dopoguerra hanno consentito di realizzare, fatto unico nella storia delle disuguaglianze, una loro reale significativa riduzione. 

Capitolo 17

Elementi per un socialismo partecipativo nel XXI secolo

Lo scopo ultimo di questo saggio, e del precedente “Il Capitale nel XXI secolo”, è quello di fornire elementi di analisi e proposte per fronteggiare il grave aumento delle disuguaglianze socioeconomiche avvenuto a partire dagli anni Ottanta. In assenza di una adeguata risposta ugualitaria su scala globale è molto forte il rischio di reazioni nazionalistiche ed identitarie, tanto inefficaci quanto foriere di altri gravissimi problemi, i cui segnali sono divenuti evidenti in questi ultimi anni. L’insieme delle analisi qui svolte ha illustrato i tratti fondamentali del lungo percorso storico dei vari regimi di disuguaglianza – società trifunzionale, coloniale e schiavista, proprietaristica, comunista e socialdemocratica, ipercapitalistica e post coloniale – in cui ogni cambiamento si è realizzato grazie a vincenti mobilitazioni sociali e politiche promosse dall’affermarsi di nuove concezioni ideologiche in contrasto con quelle che giustificavano il modello di società fin lì dominante. Da sempre infatti ogni società esprime uno specifico regime delle disuguaglianze strutturato attorno a narrazioni ideologiche che giustificano i rapporti tra i gruppi sociali, e quelli di proprietà e di confine. Nel corso del XX secolo le forti mobilitazioni popolari, promosse e sostenute dalle ideologie anti proprietaristiche e anti capitalistiche, sono riuscite, anche grazie a specifiche congiunture storiche, a realizzare una considerevole riduzione delle disuguaglianze. Nel corso degli ultimi decenni del secolo si è però manifestata, come si è potuto rilevare dalle analisi del Capitolo Terzo, una crescente inadeguata risposta al prepotente affacciarsi della reazione ideologica ipercapitalistica alla base della impressionante ripresa delle disuguagliazne. Nei Capitolo precedenti di questa Parte Quarta si è inoltre constatato il profondo cambiamento dell’identità politica dei partiti della “sinistra” che, seppur eredi di quelle forti mobilitazioni, hanno perso buona parte della capacità di rappresentanza dei ceti popolari.  Occorre allora, come sviluppo coerente di quanto analizzato ed evidenziato, rilanciare su nuove basi ideologiche una idea di “società giusta”, farla poi maturare all’interno del non aggirabile quadro politico, ma in un’ottica globale perché globale è il terreno di scontro.  Gli elementi di analisi sviluppati portano P. a sostenere apertamente che ……….. sia possibile andare oltre l’attuale sistema capitalistico e delineare i contorni di una nuovo socialismo partecipativo per il XXI secolo ………. Vale a dire una visione ideologica capace di delineare una nuova prospettiva di uguaglianza di portata globale basata sulla proprietà sociale, sull’istruzione e sulla condivisione delle conoscenze e dei poteri. In questo ultimo Capitolo P. espone alcune sue proposte che, con questo respiro ideologico, hanno lo scopo di avviare percorsi concreti di confronto allargato e diffuso. L’impegnativo lavoro alla base di questo saggio perderebbe infatti molto del suo valore se, nel passare alla fase propositiva, sci i limitasse ad una generico richiamo ad una ideale “società giusta”. P. è convinto, avendo presente lo storico progredire ideologico, che solo una reale ……. deliberazione collettiva …… può consentire di riempire questo concetto di significati coerenti con il contesto culturale e politico in cui ci si muove. Se in generale una società più giusta è quella che …. organizza i rapporti socioeconomici, la proprietà, la distribuzione  dei redditi, al fine di assicurare all’intera collettività, nessuno escluso, le migliori condizioni di vita possibili …….solo la sua traduzione in concrete politiche può dare senso al suo valore ideale. La fase storica che di più si è avvicinata a questa condizione è sicuramente consistita negli esiti positivi del socialismo democratico del XX secolo, in particolare nell’Europa Occidentale. Il termine ……..socialismo, partecipativo ….. ha ancora oggi un suo valore proprio perché vuole recuperare quella tensione ideale coniugandola con il mutato quadro sociale ed economico. Le proposte che P. avanza hanno quindi questa finalità: avviare, riflettendo da subito su ipotesi praticabili, un dibattito il più allargato possibile  capace di ottimizzarle dando loro valenza concreta su alcune specifiche problematiche per avviare un più generale percorso di concreta costruzione di una “società giusta”.

Superare il capitalismo e la proprietà privata

Una prima fondamentale domanda alla quale rispondere riempendo di contenuti l’idea di socialismo partecipativo consiste nel capire ……. che cos’è (oggi) la proprietà giusta ….. Si è visto nella Parte Terza che l’ottocentesco proprietarismo, e la sua successiva estensione nel capitalismo industriale e finanziario, poggiava sulla affermazione ideologica della difesa assoluta, sulla sacralizzazione, della proprietà privata. Le mobilitazioni popolari, e le teorie politiche che le hanno promosse e sostenute, sono riuscite nel corso del XX secolo ad attenuare in modo consistente questa ideologia. I sistemi giuridici, sociali e fiscali, sorti in numerosi paesi sono stati in grado di porre importanti limiti alle concezioni proprietaristiche, ma hanno poi dimostrato di non riuscire a contrastare l’avvento della globalizzazione ed il predominio ideologico neoliberista. Diventa quindi necessario ed urgente elaborare nuovi sistemi giuridici, sociali e fiscali, che, facendo tesoro dei successi passati, siano meglio in grado di opporsi all’attuale stato delle cose e di ridefinire lo stesso concetto di “giusta proprietà”. Ad iniziare da quella fondamentale del possesso e della gestione dei “mezzi di produzione”, della struttura produttiva. Nella direzione del socialismo partecipativo P. ritiene che alcuni importanti passi in avanti possano essere ottenuti procedendo lungo due direttive:

*   l’istituzione di una vera …… proprietà sociale del capitale …… attraverso una maggiore condivisione del potere gestionale delle imprese 

*   l’adozione di un ……. principio di proprietà temporanea …. finalizzato a creare una circolazione permanente della proprietà

Condividere il potere nelle imprese: una strategia di sperimentazione

Nella Parte Terza si è visto, nel novero delle conquiste di una parte della socialdemocrazia, l’importante ruolo della …. “cogestione” …., attuata nei paesi di lingua tedesca ed in quelli nordici, ossia nella presenza, istituzionalizzata e regolamentate, di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle imprese. I risultati storici attestano oggettive ricadute positive della cogestione sul livello delle disuguaglianze e sullo stesso buon andamento economico e produttivo. Non sono mancati però evidenti limiti nella effettiva condivisione degli indirizzi aziendali e nella sua più ampia applicazione ad ogni ordine di impresa. E’ allora necessario proporre, accanto alla sua estensione globale convincendo della sua validità la consistente parte della sinistra mondiale che l’ha finora sottovalutata se non osteggiata, un suo superamento, una sua maggiore applicabilità. Sono due le possibili alternative:

deconcentrazione della proprietà = consentendo ai dipendenti di acquisire azioni della società in cui lavorano, anche grazie a dotazioni finanziarie ad hoc anche da parte del pubblico, in modo da acquisire una maggiore effettiva rappresentanza nella gestione aziendale

revisione delle regole che legano i contributi in conto capitale ai diritti di voto = se non è nell’interesse pubblico rimuovere, soprattutto nelle imprese più piccole, qualsiasi legame tra investimenti nel capitale aziendale  e gestione dell’impresa è però sempre più necessario superare la regola aurea delle gestioni azionarie basata sull’assioma “un’azione, un voto”. Non mancano già adesso interessanti esperienze in tal senso, quali le “società senza scopo di lucro nel campo della comunicazione”, oppure alcune forme di “fondazioni”, oppure ancora l’idea, ripresa in alcuni disegni di legge, di far eleggere una parte degli amministratori da assemblee miste di dipendenti ed azionisti. Deve in sostanza imporsi il concetto che il solo possesso della maggioranza azionaria, non è garanzia di una più efficace gestione imprenditoriale, di una positiva ricaduta immediata sui bilanci aziendali, e ancor meno sul valore sociale dell’impresa

Deconcentrare la proprietà e limitare, razionalizzandoli, i diritti di voto azionari sono due concrete possibilità di ottimizzare la cogestione, ma da sole non sono certo sufficienti.

L’imposta progressiva sulla proprietà e la circolazione di capitale

Anche queste proposte per intervenire sulla gestione aziendale, che cercano di coniugare coinvolgimento e più equa ripartizione degli utili, chiamano in gioco il ruolo della tassazione, della fiscalità. Si è visto nella Parte Terza quanto questa leva abbia giocato un ruolo decisivo nella riduzione delle disuguaglianze nei primi decenni del secondo dopoguerra, soprattutto quando è stata ispirata da una forte progressività delle aliquote e dalla volontà di intervenire su tutte le fonti di ricchezza. Ma si è anche visto come la svolta neoliberista abbia, non a caso, capovolto questa idea di fiscalità introducendo criteri di strenua difesa della ricchezza, quale ad esempio la “flat tax”, un sistema di sostanziale non-tassazione dei redditi più alti sostenibile solo a fronte di una radicale riduzione del welfare e del ruolo attivo dello Stato. Occorre quindi intervenire reintroducendo una idea di fiscalità che, applicata a tutte le fonti di ricchezza, con una forte progressività sia in grado di incidere sui livelli di disuguaglianza. Con due consapevolezze aggiuntive rispetto a quanto pur egregiamente messo in atto nel migliore periodo delle socialdemocrazie:

*   il prelievo fiscale così ottenuto non deve essere genericamente destinato ad una non meglio precisata “redistribuzione” ed al sostegno di un welfare “tradizionale”, ma, come vedremo, deve essere meglio indirizzato a percorsi più definiti di lotta alla disuguaglianza

*   non appare sostenibile immaginare una “società giusta” basata sulla soppressione della proprietà privata, la quale è destinata ad avere un suo ruolo, ma è essenziale strutturare un sistema fiscale che impedisca l’eccessiva concentrazione di ricchezza, un aspetto non soltanto inaccettabile come etica sociale ma persino di ostacolo al miglior funzionamento dell’economia.

Queste due consapevolezze aggiuntive comportano precisi indirizzi fiscali ed implicano un diverso equilibrio della tassazione sulle tre voci di base della ricchezza: reddito, successioni, patrimonio. E’ su quest’ultima che si deve basare una diversa fiscalità basata su …… un’imposta progressiva annuale sui patrimoni ……Sono tre gli ordini di motivi più importanti che giustificano una strategia fiscale che punti in modo importante sulla ricchezza patrimoniale:

*   perché è una forma di ricchezza più stabile e meno occultabile

*   perché, a differenza di quella sulle successioni che colpisce una tantum ad una scadenza non prevedibile, fornisce un ritorno programmabile e costante

*   perché, sulla base delle due ragioni precedenti, può essere articolata su aliquote non necessariamente elevate, a differenza di quelle di norma applicate sulle successioni che non per nulla è una forma di tassazione molto invisa

Nonostante negli ultimi decenni sia stata, per ragioni ideologiche e di marketing elettorale, il prelievo fiscale più ridimensionato, quando non abolito, forme di imposta patrimoniale, seppur imperfette, sono state in Occidente, come si è visto nella Parte Terza, un prelievo fiscale decisivo per uscire dai disastri finanziari del Novecento, e sono tuttora relativamente attive, basti pensare alla “property tax” statunitense ed alla “imposta fondiaria” francese. Non si tratta quindi di qualcosa di nuovo e di originale, ma occorre però che sia coraggiosa ed in grado di incidere su tutte le voci, sempre più diversificate, che attualmente la compongono, nelle quali la componente finanziaria è ormai centrale. Ma la vera caratteristica innovativa, determinata proprio dalla natura della ricchezza patrimoniale, quella che di più segna la disuguaglianza economica, consiste nelle specifica finalità alla quale destinare un’imposta progressiva annuale sui patrimoni. E’ bene richiamare alcuni dati, già analizzati nella Parte Terza che evidenziano l’attuale livello di disuguaglianza patrimoniale:

*   a partire dagli anni Ottanta la quota parte in capo al 50% più povero si è notevolmente ridotta attestandosi attorno al 5% della ricchezza totale

*   la quota detenuta dal 10% più ricco è contemporaneamente salita ad una media del 60-70%, con alcuni paesi come gli USA, la Cina, la Russia, l’India che segnano le medie più alte

*   quella in quota al 40% intermedio, le “classi medie” che di più avevano beneficiato della riduzione delle disuguaglianze nei primi decenni del secondo dopoguerra, si è contratta al restante 25-30%.

E’ difficile immaginare altre forme di intervento su questo stato di cose, che siano in grado di invertire in tempi ragionevolmente brevi l’attuale trend verso la concentrazione di ricchezza, al di fuori dell’imposta progressiva annuale sui patrimoni. La quale però, per avere un’incidenza reale, deve essere finalizzata ad un ….. trasferimento effettivo di ricchezza che, con la creazione di una apposita dotazione di capitale ottenuta grazie all’imposta patrimoniale, versi ad ogni giovane adulto (ad es. all’età di 25 anni) un finanziamento da utilizzare per investimenti di valore (quali ad es. l’acquisto di casa, il completamento di studi di alto livello, l’avvio di una attività economica) ……. E’ chiaro che non è possibile indicare entità del prelievo, della dotazione e del finanziamento, molto dipende dalle specifiche situazioni, anche se sarebbe consigliata una certa omogeneità globale, ma l’aspetto centrale di questa proposta consiste proprio nel legare strettamente la forma del prelievo fiscale alla finalità ugualitaria. Lo scopo ultimo, allo stesso tempo concreto e ideologico, è in sostanza quello di inserire nelle logiche economiche e fiscali il concetto di …… proprietà temporanea ……. Una idea di proprietà che, seppur contenuta entro limiti eticamente accettabili, nulla toglie all’esercizio del suo diritto, ma che, sulla base del concetto di “temporaneità”, punta ad escludere il più possibile la sua sedimentazione e a ridimensionare  la sua trasmettibilità generazionale. L’intervento sulla “proprietà” sin qui delineato fornisce al modello di “socialismo partecipativo” due principi di base essenziali: la proprietà sociale dei mezzi di produzione e la proprietà temporanea. Due proposte solo all’apparenza radicali, l’analisi storica della Parte Terza ha infatti evidenziato che gli elementi ideologici che le sostengono erano ampiamente presenti nella fase di maggior contrasto dell’ideologia proprietaristica. La cogestione, tedesca e nordica, e la tassa sulle successioni poggiano ambedue sulla considerazione ideologica di porre dei limiti alla “sacralità della proprietà privata”. La stessa considerazione che è alla base di questi due principi. Non si tratta quindi di una irruzione senza precedenti nel terreno ideologico che ha sin qui sostenuto una società fortemente disegualitaria proprio perché basata sulla inviolabilità della proprietà privata. Sono al contrario due principi che estendono considerazioni già formulate in precedenza adattandole ad una fase nuova in cui il livello di disuguaglianza è tornato ai suoi massimi livelli, anche per la rinuncia ad azioni coerenti con quelle considerazioni. Non mancano semmai ostacoli di ordine pratico: ambedue i principi hanno senso solo se inseriti in un quadro globale nel quale armonizzare le basi della concorrenza sui mercati e condividere le banche dati sulle proprietà immobiliari finanziarie.

Reddito di base e salario equo: il ruolo dell’imposta progressiva sul reddito

Tornando al piano più strettamente operativo si creerebbe inoltre, sulla base delle due proposte precedenti, la possibilità di inserire tutte le varie imposte (su reddito, successioni e patrimoni) entro una cornice d’insieme più logica. Se l’imposta sulle successioni potrebbe, a patrimoniale annuale avviata e finalizzata ad un introito decisamente superiore, vedere un suo ridimensionamento ed una destinazione di finanziamento aggiuntivo per interventi pubblici giudicati strategici (ad es. innovazione, formazione e ricerca) quella sul reddito, non meno modulata su una forte progressività, dovrebbe avere aliquote calibrate al finanziamento di tutte le voci di spesa pubblica, non ultime quelle del welfare universale. P. prima di entrare nel merito di quest’ultimo aspetto, introduce una sua opinione sulla possibilità di una ……. tassa sulle emissioni di CO2 …….  che, in linea con un sentire comune sempre più diffuso, ritiene necessaria ed utile nell’insieme delle misure per ridurre l’impatto del cambiamento climatico. E’ infatti ormai evidente la necessità di attivare forme più o meno rigorose di “carbon tax” in particolare sulle fonti più significative di emissione, industriali ed impiantistiche in particolare. Ed è augurabile che la sua globale applicazione sia calibrata per essere una adeguata una forma di ulteriore pressione ad adottare tutte le misure di contenimento delle emissioni ed al tempo stesso per essere destinata in modo preciso a finanziare tutti gli interventi pubblici di indirizzo e realizzazione della transizione energetica. Se si passa però a valutarla come una forma di misura atta ad intervenire sui comportamenti di massa e sugli stili di vita individuali è necessario, a suo avviso, tenere nella giusta considerazione il loro intimo collegamento con la struttura delle disuguaglianze. L’esperienza, per quanto complessa e di non semplice lettura, dei “gilet gialli” francesi dimostra che scaricare in modo generico su prodotti di largo consumo una tassa sulla CO2 rischia di gravare in modo significativo sui redditi più bassi creando reazioni di rifiuto e di conseguente pregiudizio per le stesse politiche ambientali. Sono infatti già allo studio forme di tassazione abbinate a sistemi di gradualità delle emissioni consentite, ad esempio una sorta di “carte di credito della CO2”, ma quasi tutte non sono di facile applicabilità tecnica. Resta però opportuno uno sforzo in questo senso proprio per definire norme di giustizia ambientale e fiscale accettabili da tutti e soprattutto dalla grande parte della popolazione più colpita dalle disuguaglianze economiche. Tornando al ruolo dell’imposta progressiva sul reddito, che come si è detto costituisce, congiuntamente alla correlata e significativa voce dei contributi sociali, il principale strumento per il finanziamento dello welfare e della spesa pubblica in generale, sono allo stesso modo possibili percorsi più mirati al contrasto alle disuguaglianze. Lo stretto abbinamento tra imposta progressiva sul reddito e contributi sociali deve essere considerato un aspetto decisivo della struttura del bilancio pubblico, la quale deve legare il più strettamente possibile ogni voce in entrata ad una corrispondente voce in uscita sulla base di un loro collegamento “logico”  …… è infatti fondamentale l’informazione sul sistema fiscale e sull’uso delle tasse garantendo la massima trasparenza sull’origine e sulla destinazione delle singole voci del bilancio pubblico e ciò può avvenire ridisegnando a tal fine la sua struttura ………… All’interno di un quadro fiscale e di correlata spesa pubblica avente questa caratteristica, decisiva per contrastare l’istintiva avversione verso il sistema delle “tasse”, può avere, nell’ambito delle politiche di contrasto delle disuguaglianza, un suo importante ruolo l’idea di ……. un reddito di base, ossia un sistema di reddito minimo garantito ….. Si tratta di forme di sostegno sociale già presenti in molti paesi seppure con forme e consistenza diversificati. E’ però essenziale secondo P. che si esca dalla sola concezione di un sussidio di disoccupazione per farlo divenire una voce finalizzata a garantire a chiunque di avere un reddito che garantisca le condizioni di vita giudicate irrinunciabili in ogni specifico contesto sociale ed economico. Un versione quindi decisamente molto più ambiziosa che deve puntare a sostenere sia chi è, provvisoriamente, escluso dal lavoro ma anche chi, per condizioni di mercato non modificabili, non percepisce un salario adeguato. Va da sé che a monte di ciò deve sussistere la capacità dello Stato di incidere sul mercato del lavoro riformandone lo specifico sistema giuridico di riferimento, in particolare per quanto riguarda il sistema delle contrattazione salariali, in evidente collegamento che le precedenti proposte di modifica della gestione aziendale e di adozione della proprietà temporanea. Riprendendo quanto in precedenza ciò implica anche una complessiva revisione del sistema fiscale che, fermo restando quanto già indicato per le imposte progressive sulla proprietà e sulle successioni, definisca in modo più preciso entità e finalità generali dell’imposta progressiva sul reddito. Per rendere più facilmente comprensibile un quadro d’insieme che leghi le varie voci di tassazione alla loro finalità di contrasto e superamento delle disuguaglianze economiche P. inserisce una tabella (dalla quale sono ovviamente escluse le imposte indirette che, in una condizione di piena applicazione , potrebbero conoscere una certa riduzione)  che …… a solo titolo esemplificativo e di sintesi ….. riassume in termini quantitativi la sua idea di fiscalità diretta

Il senso di queste indicazioni è quello di visualizzare in modo sintetico un quadro di politiche fiscali, meglio finalizzate al contenimento delle disuguaglianze con un progressione decisamente rilevante, che deve essere interpretato come il risultato finale di un percorso che, inevitabilmente, deve tenere conto del contesto specifico in cui viene adottato. Occorre inoltre tenere conto che il prelievo fiscale globale così ottenuto è relazionato alla copertura del volume medio della spesa pubblica per le voci di bilancio che hanno una relazione diretta con il regime delle disuguaglianze. P. valuta, sulla base delle medie di spesa dei paesi industrializzati, che la copertura delle voci più rilevanti di un adeguato welfare (sanità, istruzione, pensioni, assistenza) vale circa il 40% del reddito nazionale medio, a cui si potrebbe aggiungere un 5% per l’attuazione del reddito di base ed un altro 5% per la dotazione di capitale. Le percentuali delle imposte su patrimonio, successioni e reddito indicate nella Tabella 5 hanno una stretta relazione con questi volumi di spesa pubblica e, come evidenziato nella Parte Terza, non rappresentano assolutamente una novità storica. All’interno di questo quadro complessivo di spesa pubblica un settore riveste, a giudizio di P., una valenza primaria per avviare processi di superamento delle disuguaglianze: l’istruzione.

Istituire equità nel campo dell’istruzione

Come più volte evidenziato nella Parte Terza  è infatti  centrale Il ruolo dell’istruzione, e della correlata acquisizione di competenze professionali, nella struttura delle attuali disuguaglianze. Nei primi tre Capitoli di questa Parte Quarta P. ha poi analizzato dettagliatamente l’evoluzione dell’elettorato della sinistra che ha visto crescere l’influenza di quello più istruito, e quindi anche con un reddito più alto, tanto da trasformarsi da “partito dei lavoratori” a “sinistra benestante intellettuale”. L’insieme di questi due fattori implica per ogni percorso di contrasto delle disuguaglianze la massima attenzione per le politiche dell’istruzione e della formazione. Le quali al momento evidenziano al contrario limiti e problematiche di ordine classista, non essendo globalmente garantito in modo diffuso l’accesso a livelli adeguati di percorso scolastico e universitario. Sono molti i fattori che determinano questo stato di cose; rapporto pubblico-privato, diversità geografica e sociale dell’offerta formativa e correlata diversità qualitativa del personale, sperequazione nella destinazione delle risorse, livelli dei costi di accesso, sono solo alcuni dei temi che una istruzione più egualitaria deve affrontare. P., dichiarando al riguardo la sua personale incompetenza, ritiene però che un primo fondamentale passo debba consistere nell’avviare un serio e approfondito dibattito pubblico ……. nella massima trasparenza possibile grazie alla diffusione e condivisione di tutti i relativi dati ….. All’interno dei quali l’entità e la suddivisione delle risorse finanziarie riveste un peso prioritario, qualsiasi idea di coraggiosa riforma, come ad esempio la politica adottata in India di riservare quote alla caste basse, può sperare di essere realizzata, e mantenuta su tempi lunghi, solamente se l’istruzione viene individuata come un settore prioritario di investimento. In questo senso è ipotizzabile un primo criterio di partenza, già traducibile in provvedimenti concreti: le analisi specifiche raccolte da P. evidenziano una media della spesa pubblica totale, per i paesi industrializzati, per il percorso scolastico e formativo fino alle soglie dell’università pari a circa 120.000 euro, un dato medio che però si forma all’interno di una forbice che vede ad un estremo il 10% degli studenti che di meno ne beneficiano attestarsi ad 65.000/70.000 euro e a quello apposto del 10% che di più nego dono arrivare a 250.000/300.000 euro. Un divario notevole che si spiega soprattutto con i fenomeni di abbandono scolastico e di iscrizione a percorsi scolastici più brevi e meno qualificati. L’idea potrebbe allora essere quella …….. di garantire che tutti abbiano comunque diritto alla stessa spesa …… “dotando” ogni nuovo studente che inizi il suo percorso di istruzione di questo capitale medio spendibile secondo percorsi individuali di preferenza formativa. La gestione di questo “capitale formativo” deve ovviamente coinvolgere più soggetti e protagonisti, deve armonizzare il rapporto scuola pubblica-scuola privata, deve essere spalmato territorialmente nel modo più omogeneo possibile, e deve essere, coerentemente con quanto prima, monitorato costantemente e pubblicamente. Non mancano di certo difficoltà ed ostacoli ma il senso vero di questa proposta consiste, secondo P., nell’attivare una attenzione molto più importante e diffusa sul ruolo dell’istruzione nell’ambito della sua idea di un “socialismo partecipativo”. Ancor più complesso è poi il passaggio alla fase di istruzione universitaria, soprattutto quella di più alto livello, nella quale le differenze classiste trovano i loro massimi livelli. Al momento attuale, in attesa che gli scenari auspicati di appiattimento delle disuguaglianza trovino realizzazione, è però possibile estendere ed ottimizzare il sistema delle quote riservate e del sostegno finanziario per gli studenti meno ricchi ottenuto anche grazie ad un suo parziale finanziamento con una maggiorazione delle quote a carico di quelli più benestanti. Una prospettiva che dovrebbe ovviamente includere, armonizzandole verso l’alto, le università pubbliche e quelle private, le più prestigiose comprese.

Verso una democrazia partecipativa, egualitaria e con giusti confini

Completano il quadro delle proposte che P. , a definire la sua idea di un “socialismo partecipativo del XXI secolo, avanza in questo ultimo Capitolo del suo saggio alcune considerazioni sulla partecipazione politica e sul quadro delle relazioni fra Stati. Come per le precedenti sono contributi che non intendono essere già organicamente definiti, ma che si prefiggono l’obiettivo di sollecitare, su una base non solo teorica, discussione e confronto. E’ sempre più urgente recuperare l’eredità delle esperienze che hanno costituito, nel secondo dopoguerra, la prima e finora unica esperienza di effettiva riduzione della disuguaglianza per adattarla al nuovo preoccupante attuale contesto globale. Il primo passo in questo senso consiste proprio nel rilanciare un confronto politico capace di recuperare una forte tensione ideale ed una partecipazione adeguata alla posta in palio. Appare d’altronde evidente che il “classico” modello socialdemocratico dimostra …… una grave incapacità di far fronte all’aumento delle disuguaglianze …… ed allo stesso modo gli attuali percorsi di analisi, discussione, elaborazione, e coinvolgimento di massa sono del tutto inadeguati. E’ l’intera dimensione della “politica” che non attrae più perché ormai percepita come strumento inefficace, trascinando con sé le stesse istituzioni della democrazia elettorale. Si tratta, anche in questo caso, di una problematica enorme che implica un insieme di azioni di varia natura, P. concentra per intanto la sua attenzione sul tema del ….. finanziamento della politica ……. Un tema, mai affrontato in modo razionale e con soluzioni molto diversificate da un paese all’altro, che è centrale per il rapporto partiti-elettori. Il trasferimento su media e Rete delle campagne elettorali ha ormai da anni elevato il loro costi a livelli incredibilmente alti aprendo così ulteriori margini di manovra a finanziamenti privati in grado di condizionare le stesse linee politiche. Puntare ad una democrazia partecipativa che si ponga l’obiettivo di una uguaglianza democratica significa allora riportare ai cittadini, agli elettori, il diritto/dovere di un finanziamento trasparente e controllato. Questo può avvenire attivando un finanziamento pubblico, basata su un sistema di ……. buoni per l’eguaglianza democratica …….. di modesta entità che annualmente ogni singolo elettore può conferire, ad esempio tramite una scelta on-line, ad un movimento o partito di suo gradimento. Rispetto al sistema adottato in alcuni paesi (Italia compresa), che già prevede la destinazione di un percentuale del proprio reddito netto effettuata nella dichiarazione dei redditi, quello dei buoni fissa un importo definito (quota buono per numero elettori) ed implica un obbligo di scelta, cosa che non avviene nel primo sistema, ovvero, nel caso in cui tali scelte non siano state esercitate, il monte finanziario residuo verrebbe comunque assegnato ai partiti ripartito in proporzione alle scelte esercitate. Parallelamente dovrebbero essere vietate donazioni e finanziamenti da parte di società e altre persone giuridiche, e dovrebbe essere fissato un limite drastico anche per i contributi dei singoli cittadini. Ai partiti e movimenti spetterebbe poi il dovere di rendere pubbliche le modalità di utilizzo dei finanziamenti così ottenuti. La crisi della democrazia ha cause profonde di diversa natura che richiedono percorsi complicati per possibili soluzioni, ma questa proposta, che si colloca nella prospettiva di un socialismo democratico e partecipativo, …….  consentirebbe quantomeno una diretta e trasparente influenza dei cittadini sul sistema dei partiti ……… Un secondo problema, altrettanto delicato e decisivo nell’epoca della globalizzazione, è quello ….. dei giusti confini …… L’attuale organizzazione per Stati ha ormai una consistenza storica di lunga durata tale da farla ritenere insuperabile, ma in realtà è il risultato, per definizione provvisorio, di precisi percorsi politico/ideologici che sono entrati manifestamente in crisi proprio in conseguenza della globalizzazione e dello svuotamento di buona parte dell’effettiva sovranità degli Stati. Si impone quindi una vera presa d’atto della necessità di una maggiore considerazione della dimensione transnazionale con evidenti ricadute su tutte le tipologie di rapporto internazionale. La libera circolazione di beni e capitali, e le sue ricadute sui singoli regimi fiscali e sociali, la più o meno libera circolazione di persone, con le ovvie conseguenze sui locali mercati del lavoro, la collegata gestione dei flussi migratori e l’intero sistema degli aiuti internazionali, la condivisa ricaduta delle globali emergenze ambientali e climatiche, sono solo le più evidenti problematiche che impongono, nell’ottica di un socialismo partecipativo del XXI secolo e di una ….. democrazia transnazionale ….., la necessità di attuare forme istituzionali diverse di rapporto fra gli Stati in grado di andare oltre l’attuale impostazione prevalentemente basata su accordi e trattati su specifiche questioni. Può aiutare a definire questo diverso quadro l’esperienza di costruzione dell’unità europea, i cui limiti attuali sono stati esaminati nel precedente Capitolo 16. Molte, e complesse, sono le ragioni che spiegano il contraddittorio percorso di realizzazione di una autentica unità sovrannazionale europea. L’insufficiente volontà di procedere verso un più definito federalismo europeo capace di andare oltre la mera convenienza della creazione di un “mercato comune” ha implicato, inevitabilmente, il crearsi di numerosi e continui conflitti che hanno prodotto un lento, ma inesorabile, distacco di buona parte dell’opinione pubblica europea dagli ideali iniziali. Rientrano in questi conflitti, che altro non producono se non reazioni di difesa nazionalistica, fino al caso estremo della Brexit, le problematiche dei “trasferimenti”, ossia quanto ogni Stato versa alla UE e quanto da questa ritorna ai singoli Stati, delle “regole del debito”, decise come modelli teorici e applicate senza tenere adeguato conto dei singoli percorsi storici sicuramente molto diversificati. Due esempi fra i tanti che testimoniano l’inadeguatezza dei percorsi decisionali comunitari e delle istituzioni chiamate a deciderli. Come già evidenziato nel Capitolo 16 P. ritiene che la sola efficace via di uscita consista nell’avviare processi di reale trasferimento di “potere statale” ad entità istituzionali sovrannazionali in un’ottica di compiuto federalismo. Evitando da subito l’errore, fin qui compiuto, di rafforzare il solo potere “esecutivo” comunitario senza aver preliminarmente ridisegnato l’architettura di quello “parlamentare/assembleare”. Allo stesso modo sarebbe un errore grave immaginare che, in una fase ormai priva delle tensioni ideali del secondo dopoguerra, sia possibile realizzare una compiuta costruzione federalistica. Occorre, tenendo insieme questi due aspetti, puntare su passaggi intermedi che da una parte diano il senso dell’obiettivo finale e dall’altra realizzino significativi passi in avanti su alcune problematiche strategiche. Una evidenza storica può essere di importante conforto ….. nessuna costruzione statale è sorta spontaneamente, tutte sono state costruite storicamente e politicamente attraverso attività e risultati comuni che hanno dimostrato come i benefici dell’inclusione in una stessa comunità superassero le logiche dei confini …… Per entrare nel merito, riprendendo quanto già evidenziato nel Capitolo 16, P. pensa quindi ad una Assemblea transnazionale europea specificamente preposta alla gestione legislativa parlamentare di problematiche comunitarie a valenza strategica globale quali: la gestione dei beni pubblici (clima, ricerca, etc.) la giustizia fiscale (sistema impositivo, progressività, voci tassabili CO2 compresa) composta in quota parte da deputati eletti nei singoli Parlamenti nazionali e da altri di diretta elezione europea. Un modello di democrazia transnazionale che inizia a costruirsi su specifiche tematiche concrete per estendersi progressivamente anche ad altri decisivi aspetti, ad esempio: nuove regole sulla circolazione delle persone, le politiche per l’istruzione, il diritto del lavoro e gli standard del welfare. Due avvertenze devono essere tenute in giusta considerazione: l’insieme non poco disordinato di norme e trattati che regolano questi settori dovrà essere sicuramente sostituito, ma questa operazione è possibile solo definendo un nuovo quadro giuridico di riferimento, rimettendo quindi mano alla Costituzione europea. Al tempo stesso è …….. impossibile attendere, come adesso sta succedendo, che tutti siano d’accordo …….. Sarebbe un primo decisivo passaggio che alcuni Stati, meglio ancora se fossero quelli più rappresentativi, decidano di avviare un percorso di questo genere per definire comuni, e vincolanti, politiche. Si è detto dell’Europa, ma nulla vieta di pensare, e di lavorare perché ciò avvenga, che analoghi processi di costruzione di elementi di democrazia transnazionale inizino a realizzarsi, andando oltre l’inadeguato e fragile sistema dei trattati, fra aree politiche più allargate, per esempio una analoga Assemblea euro-africana  potrebbe nascere per affrontare in modo democratico e costituzionalmente stabile problemi quali la regolamentazione dei flussi migratori, le politiche di compensazione per l’emergenza climatica ed ambientale, la tassazione dei profitti delle multinazionali. P. ricorda, in chiusura, che l’insieme delle sue proposte, finalizzate ad avviare un dibattito il più ampio possibile, trova consistenza, riprendendo l’insegnamento che emerge dalle analisi di questo saggio, nella potenzialità delle costruzioni ideologiche. Tutte le società esaminate, tutti i regimi delle disuguaglianze analizzati, poggiano su precise ideologie che altro non sono che processi di evoluzione culturale di lungo periodo. La situazione attuale delle disuguaglianze impone una netta inversione di rotta che, conseguentemente, deve poggiare su una diversa concezione ideologica di una disuguaglianza più giusta, più accettabile ….. le società umane non possono vivere senza ideologie che cerchino di dare un senso alle loro disuguaglianze. Così sarà anche per il futuro, soprattutto a livello transnazionale …….