giovedì 18 giugno 2015


Elogio della superficie?

Commento a margine di un articolo di Marino Niola su La Repubblica di oggi, Giovedì 18 Giugno, che, prendendo spunto dal libro di tal Giuliana Bruno (non conosco) “ Surface: matter of aestethics, materiality, and media (Superficie: questione di estetica, materialità e media), ancora non pubblicato in Italia, invita a riflettere sul….riscatto della ragione superficiale…..

Sostiene Viola, in accordo con quanto scritto dalla Bruno, che viviamo tempi, così segnati da confusione e tecnologia, che inducono al pensiero “superficiale”, tutt’altro che disprezzabile, basti pensare a buona parte del pensiero classico greco o al Nietzsche della “Gaia scienza”.

Ci sono nell’articolo stimolanti spunti in questo senso; sono stato colpito in particolare, dall’evidenziato passaggio dalla superficie dello schermo del cinema sul quale venivano proiettate ““da dietro” immagini che parlavano di pezzi del nostro inconscio, alla superficie dei moderni schermi di pc, tablet e smartphone, dove le immagini ci vengono proiettate “di fronte”, nel primo caso si andava noi verso l’immagine, nel secondo è l’immagine che viene a noi.

Ma sono passato all’articolo successivo con un senso di spaesamento e di perplessità.

E’ vero, riflettevo leggendo, che la superficie, le tante superfici che ci circondano, raccontano, a saperle leggere, molto di noi e del nostro tempo, ma sentivo una nota stonata. Provo a dirvela, a dirle perché in effetti sono due le note stonate.

La prima: non si corre forse il rischio, rincorrendo superfici che, specie di questi tempi, si estendono all’infinito in mille direzioni di perderci in un mare di suggestioni, di riflessioni, magari fascinosissime, ma alla lunga dispersive? Mi pare, molto spesso, che la proliferazione infinita di argomenti da conoscere, capire, seguire, che l’esercito numerosissimo di libri, saggi, dibattiti, che affrontano temi sicuramente intriganti, ma sempre più disparati, ci conducano ad uno stato confusionale, dove tutto vale tutto e nulla vale un pochino di più. Dove, scivolando su queste infinite superfici, rischiamo di perdere di vista il senso ultimo delle cose, di smarrire la ricerca di una direzione da seguire.

La seconda: da tempo sento, al contrario, l’esigenza di fermarmi, di provare a non scivolare più sulla superficie, di tentare, scavando, con tutti i miei limiti, di più in profondità, di rintracciare una chiave di lettura universale, una lente di ingrandimento che mi consenta di vedere oltre, di collocare ogni singolo aspetto in una cornice che permetta più ordine, più evidenti priorità, e quindi più chiarezza.

Ho letto, e qui sintetizzato “Babel” di Ezio Mauro e Zygmunt Bauman, affascinato dalla loro definizione di noi che viviamo in un tempo che al tempo stesso è un “non più” e un “non ancora”, sperando di trovare spunti proprio per iniziare a dotarmi di una prima chiave, una prima lente. Ne sono rimasto in gran parte deluso, perché, come gli stessi autori ammettono, mi sono trovato di fronte a molte domande e a pochissime, e generiche, risposte.

Eppure mi sa che insisterò, che non mi rassegnerò a scivolare sulle superfici, pur sapendo, ripeto, che molto affascinano e molto comunque dicono.

Farlo mi parrebbe una sconfitta, una ammissione di impotenza, una rinuncia ad intervenire sullo stato attuale delle cose, già alla superficie tutt’altro che bello.

giovedì 11 giugno 2015

Satira e violenza - Articolo di Silvia Bonino (proposto da ML)


Articolo pubblicato sulla rivista
PSICOLOGIA CONTEMPORANEA N.249 2015  editore GIUNTI
SILVIA BONINO   -  DIPARTIMENTO di PSICOLOGIA   UNIVERSITA' degli studi di TORINO
 
 
 
 
 
La strage dei giornalisti e vignettisti francesi di CHARLIE EBDO ha riacceso la discussione intorno alla libertà di satira e ai suoi eventuali limiti, così come sulle reazioni delle vittime. Le implicazioni dell'argomento - morali, politiche storiche e giuridiche - sono amplissime, ma anche la psicologia può dare un contributo. Partiamo da una constatazione: la satira è una forma di attacco a un avversario, nella quale l'aggressione non avviene in forma fisica bensì verbale e grafica, con un intento morale. La satira attacca l'avversario non in modo fisico, ma simbolico: essa non utilizza contro l'altro il corpo o le armi, e non prende il corpo altrui come bersaglio. Le armi della satira sono i simboli verbali e grafici, usati nella forma diretta dell'insulto, ma in quella indiretta della rappresentazione: elementi diversi vengono collegati in modo inconsueto, così da evidenziare incongruenze e assurdità. La satira è quindi una forma molta evoluta di aggressione, che utilizza il pensiero e le sue manifestazioni - cioè il linguaggio e l'immagine - per colpire non il corpo dell'altro, ma le sue idee, credenze e azioni. Per le sue intenzioni etiche, il bersaglio privilegiato della satira è il potere in tutte le sue forme: politico, religioso, economico, ideologico, culturale, mediatico, lobbistico, ecc.
Sul piano individuale, la satira è il punto di arrivo di uno sviluppo complesso, che coinvolge aspetti emotivi, cognitivi e sociali. Se nel bambino piccolo l'aggressione si esprime soprattutto in modo fisico ( picchiare, mordere, scalciare), quando questi impara  a parlare si realizza un salto di qualità. Per quanto molti adulti non ne siano consapevoli, aggredire verbalmente un coetaneo anziché picchiarlo è un progresso, anche se per la sua primitività l'insulto verbale può facilmente degenerare nell'attacco fisico. Di conseguenza, rispondere ad una offesa verbale anche grave con le parole, non a pugni, è considerato un punto di arrivo nell'educazione dei bambini nella cultura occidentale, che giustamente considera la violenza fisica una modalità primitiva e inadeguata di affrontare i conflitti. Per questo, un adulto che reagisce a pugni a una violenza verbale viene riprovato assai più di un bambino. Con lo sviluppo cognitivo diventa gradualmente possibile raffinare la risposta verbale, che da grossolano insulto si trasforma in ironia e sarcasmo. La componente aggressiva è sempre presente, ma la lotta si sposta da un piano verbale ancora fortemente intriso di emozione ad uno più distaccato. La satira rappresenta in massimo grado questa capacità di aggredire l'avversario senza infliggergli alcun danno fisico e senza ricorrere alla rozza ingiuria, ma mettendo in ridicolo le sue credenze, atteggiamenti e comportamenti. Per questo la satira richiede capacità di astrazione che si sviluppano pienamente solo in adolescenza.
A livello sociale, la satira si realizza in uno spazio specifico ad essa dedicato: un giornale, una rubrica, una trasmissione, una rappresentazione teatrale. Si crea così una dimensione di distacco dalla realtà, che può essere definita  di "come se" o di finzione; in essa è consentito sbeffeggiare anche in modo forte, con modalità che non sarebbero permesse nella vita di tutti i giorni. Così come nel teatro - che non a caso per molto tempo è stato il luogo di elezione della satira -si mette in scena una rappresentazione della realtà e a nessuno viene in mente di saltare sul palcoscenico per salvare l'attore che sta per essere ucciso, ugualmente il lettore è consapevole che la satira non va presa alla lettera, ma nel suo significato allusivo e simbolico. Per andare oltre una lettura letterale della satira occorre però avere un distacco sufficiente, che proviene sia dall'abitudine culturale sia dal controllo emotivo. Anche quando dispone della prima, spesso chi ne è bersaglio non ha il secondo, perché troppo cocente è la sofferenza provata nel vedere dileggiare persone o credenze cui si è profondamente attaccati.
Nell'attuale mondo globalizzato, gli usi e i riferimenti culturali sono molto diversi e quella che appare a un gruppo una critica simbolica viene vissuta da un altro gruppo  umano come una offesa bruciante. Le credenze, e non solo quelle religiose, sono profondamente intrise di affetti e vedere sbeffeggiato ciò che ai propri occhi è talmente caro da risultare intoccabile non può che suscitare tensione. Che questa tensione provochi reazioni violente di aggressione fisica, o addirittura militarizzata, rappresenta una regressione inaccettabile. Anche a chi offende gli affetti più cari non si può rispondere con i pugni e tanto meno con le armi: sarebbe un'involuzione che la nostra società giustamente rifiuta, dopo avere fatto tanta fatica nella sua storia per cercare di superare il più possibile la violenza fisica.
Non bisogna  però mai dimenticare che la satira riguarda una relazione umana, tra individui e gruppi: chi la fa deve essere consapevole che non sta compiendo un'azione neutra o un puro gioco intellettuale , ma un atto aggressivo socialmente rilevante, per quanto raffinato. Come tale esso va ponderato, chiedendosi quali effetti può avere  e quali risultati si vogliono ottenere. Dal canto suo, chi subisce la satira dovrebbe imparare a coglierne gli aspetti positivi, poiché essa costringe, per quanto dolorosamente, a vedere la realtà con i critici occhi altrui e a considerare le proprie credenze da un punto di vista differente. Ne può risultare un utile decentramento da sé e dal proprio egocentrico punto di vista, con vantaggi per la convivenza.
 

 

Babel - sintesi per Capitoli - Capitolo 3 ed ultimo


BABEL
Libro/dialogo di Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro

La crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”
  

CAPITOLO 3

Solitari interconnessi

 
EM – Torna in ballo la questione della “responsabilità” in un contesto che, al contrario, tende a deresponsabilizzare, a farla  percepire come un peso da evitare delegando, rifiutando, guardando altrove. Sembra, così facendo, di raggiungere una stato di maggior libertà, ma si è soltanto svuotati di socialità, di vere connessioni umane. E questo, non a caso, succede in un momento del cosiddetto “progresso” caratterizzato, all’apparenza, proprio dalla continua connessione. Ma è una connessione che sfalsa il piano della conoscenza; saltano le esperienze, “vere”, quelle che diventano conoscenza, quelle la cui crescita diventa sapere consolidato, sostituite da messaggi istantanei, semplice testimonianze di fatti. Questo essere costantemente immersi nel “qui ed ora” annulla la sequenza, cancella il tempo, e con il tempo l’esperienza, la conoscenza, la competenza. Tutto questo ha ovvie conseguenze sulla formazione delle coscienze individuali e della coscienza collettiva, l’impressione ha preso il posto dell’opinione. Come si può parlare ancora di “responsabilità” in un quadro così?

ZB – In un test alla Yale University venne chiesto ad un gruppo selezionato di studenti, istruiti, intelligenti ed informati, di somministrare scariche elettriche molto dolorose ad alcuni soggetti nell’ambito di uno studio dell’apprendimento, presentato come “scientifico”. Ebbene il 65% degli studenti si dichiarò disponibile a procedere ad una azione chiaramente crudele in virtù della sua “scientificità”; la stessa percentuale venne a suo tempo misurata in un battaglione di poliziotti tedeschi chiamati ad ubbidire all’ordine di uccidere ebrei nella zona di Lublino, ordine che aveva l’aureola di provenire dall’alto, da chi ne sapeva di più.  Il denominatore comune è, e vale prese le debite misure anche ai giorni nostri, l’istinto a sfuggire alla “responsabilità”, alla scelta individuale. Passando al ruolo della Rete: a differenza delle vecchie comunità la Rete è in buona misura una rubrica di nomi e indirizzi selezionata come estensione del sè, così come viene sommariamente percepito. Spesso come riparo, come rassicurazione e scudo contro un ambiente percepito come ostile. La rete è una “comunità recintata”. Ed è bene non sottovalutare la raffinata abilità dei provider di Internet, Google in testa, grazie ad investimenti in tecniche di analisi e controllo degli utenti, di fornire ad ognuno di noi “suggerimenti” che rafforzano questa recinzione. Salta di conseguenza quella che Max Weber ha definito la “razionalità strumentale” dell’uomo moderno, ossia il mirare ad una azione intenzionale, facendola precedere dalla selezione di uno scopo e dalla ricerca degli strumenti utili a raggiungere quello scopo ed a concretizzare l’intenzione. Oggi lo schema si è esattamente rovesciato, capovolgendo anche l’assunto machiavellico, oggi i fini giustificano i mezzi

EM – E’ come se la tecnologia pretendesse di diventare, tout court, cultura, politica, una nuova moralità; non sono in discussione i limiti della scienza, ma la delega che noi stessi diamo alla tecnica, come se pensassimo che se la scienza, la tecnica rendono possibile un fatto allora è giusto farlo. E se ciò che tecnicamente è possibile diventa comunque lecito allora ciò che è efficace diventa opportuno anche se non è legale. Ciò che va perduto nei passaggi riduttivi, resi possibili dalla tecnologia, è la traccia dei fatti, il loro peso, la loro sostanza”. Ed è proprio alla sostanza dei fatti che dobbiamo puntare per ricostruire una conoscenza che consenta di andare avanti. E questa “sostanza” non è ciò che succede, ma il segno che lascia. Ed ancora una volta dobbiamo diffidare dell’informazione in tempo reale che la tecnologia ci offre. C’è differenza fra guardare e vedere, tra conoscere e capire. L’informazione di Internet ha un valore immenso che realizza il vecchio sogno di raccontare in tempo reale a tutti o quello che sta accadendo. Ma questo flusso continuo di notizie va scremato, va selezionato, valutato, interpretato, per poterlo “vedere” e “capire”. L’operazione fondamentale è l’inserire il flusso di notizie in un “contesto” che sappia spiegarlo, renderlo intellegibile. L’attuale sistema ipertecnologico di Internet alimenta il flusso ma crea una sorta di pandemonio, una moderna BABELE di lingue che si sovrappongono, di continue notizie che si auto-sostituiscono prima di produrre idee.

ZB – In realtà tutta l’informazione ci arriva pre-interpretata, chi decide, e su quali basi, quali sono i “fatti reali” che hanno maggiore o minore rilevanza? E Mille informazioni, o il milione di siti proposti da Google in risposta ad una ricerca, non fanno conoscenza.

EM – Sembra di essere tutti quanti ineriti in un flusso ininterrotto di “fatti”, al di là delle modalità con le quali vengono selezionati,  in grado di farci sentire al centro della realtà; ogni riflessione sul “dietro il fatto”, ogni ragionamento in grado di farmi vedere la foresta oltre i singoli alberi, non interessano più sostituiti dalla forza del focus continuo su fatti ed avvenimenti. E questo status rende marginale anche il ruolo degli “esperti”, di qualcuno che possa aiutare a capire, ad interpretare il flusso, se il web mi tiene al centro dei fatti quello che conta è solo più la mia personale percezione di essi. La Rete sta realizzando una sorta di “amatorializzazione di massa”, ci illudiamo tutti di sapere, di capire, ma, ammesso che sia in qualche misura vero, ciò avviene ad un livello sempre più basso di vera conoscenza. Non solo: nella rete siamo uguali all’apparenza, uno vale uno, ma diventiamo “più uguali”. Nel senso che nell’universo della Rete la tendenza è di scegliere quelli che, aprioristicamente, percepisco come affini, quelli che sembrano essere in sintonia con il mio pensiero, il mio status: Si crea così un imbuto tra le opinioni che, rispetto ad ogni singolo, sono percepite come dissonanti, e quindi scartate, e quelle concordanti, di conseguenza sempre valide ed accettate. E questa non è vera uguaglianza, perlomeno quella otto-novecentesca che aveva una valenza sociale, politica, questa uguaglianza vuol solo più dire concordanza. Ha ragione Clay Shirky “quando cambiamo il modo in cui comunichiamo cambiamo la società”.

ZB – Internet eccelle in una impresa particolare: quella di creare con facilità, con abilità da bambini, una comunità, operazione che, al di fuori della Rete, è un compito quasi proibitivo. Inoltre offre la possibilità supplementare di stare contemporaneamente in più comunità, nelle quali si entra e si esce senza problemi. Si cerca, in sostanza, di riempire il vuoto del dissolvimento dei legami sociali con una sorta di “mercato delle identità illimitate”. Restando poi sullo specifico della qualità dell’informazione circolante in Rete occorre rilevare che essa non è certamente immune dalla commercializzazione. Anche quella apparentemente “scientifica ed asettica” è ormai in mano a giganti dell’editoria on-line che hanno “prezzato” gli studi e le ricerche più avanzate, creando delle barriere per molti (istituzioni scolastiche pubbliche comprese) invalicabili e ributtando la gran massa nel bazar di siti che offrono il più delle volte mezze verità. Appare ormai evidente che, anche nella Rete, il mercato dell’informazione non è distinto da quello del lavoro e della finanza. Ciò detto emerge un altro tema cruciale: il tema del “significato”, della logica che si nasconde dietro lo spessore delle parole in un ambiente, quello della Rete, che ci inonda di “significati”. Questo tema è stato a suo tempo analizzato da George Simmel, uno dei fondatori della sociologia moderna, in relazione al significato delle parole, dei discorsi, nell’universo delle metropoli, viste come ambienti in cui l’individuo era, già decenni addietro, bombardato da messaggi, visivi, sonori, verbali, sublimali. La tremenda moltitudine di suoni, immagini, cose, che riempie l’individuo, allora nelle metropoli  oggi anche nella Rete, non crea il “villaggio globale” di McLuhan, ma un ottundimento totale, la perdita del “significato” di questa impressionante marea di messaggi. Non c’è spazio e tempo per investigare a fondo, per ricostruire gli specifici significati di questa folla di impressioni, le logiche che stanno dietro

EM – Siamo certamente di fronte ad un meccanismo di conoscenza decisamente nuovo, basato su un processo in cui la percezione ha sostituito la cognizione. Per il Web la realtà è già tutta rivelata, la conoscenza tutta definita e tutta a disposizione, il sapere un qualcosa da scaricare più che da conquistare. Siamo lontanissimi da Foucault che invitava a diffidare dei significati precostituiti e a concepire il discorso come una…..violenza che noi facciamo alle cose…Ma è indubbio che vivere nel flusso continuo della Rete, nutrirsi di stimoli sensoriali più che di nozioni,  amplifica la nostra percezione, passaggio di per sé stesso non necessariamente negativo, ma la domanda che ne segue è: a che serve questa capacità percettiva amplificata? Se ci spostiamo sul terreno sociale è innegabile che percezioni, sensazioni, impressioni, emozioni, non formano un’opinione pubblica.. I cittadini della Rete sono come la folla descritta da Gustave Le Bon nel 1895: un’anima collettiva, transitoria, volubile ed incostante, attirata da idee con forma semplicissima ed al tempo stesso colpita più dall’immaginazione che dai fatti. I gruppi della Rete, come la folla del 1895, non si saldano perciò sulla base di appartenenze profonde e stabili. E la ricostruzione realistica dei fatti ha smitizzato l’epopea delle rivolte, come le primavere arabe, nate sul richiamo di tweet; la ricostruzione più attenta e ragionata dei fatti ha evidenziato non solo che i tweet non hanno svolto un ruolo così importante, come alcune impressioni immediate lasciavano intendere, ma anche che, visto l’uso in senso inverso che spesso viene fatto, le tecnologie non sono altro che “attrezzi senza manico”

ZB – il valore “politico” di Internet non è solo inferiore a quello che è stato concretamente messo in atto, ma presenta aspetti contraddittori e pericolosi: consente un controllo di massa, si presta ad usi strumentali e a facili manipolazioni; è ancora una volta la vecchia storia dell’accetta, la si può usare per spaccare legna o per tagliare teste, e l’uso non è deciso dall’accetta ma da chi la maneggia. Ma dietro la crescita della percezione rispetto alla conoscenza si può intravedere un cambio di paradigma. Freud prima e Norbert Elias poi hanno evidenziato che la storia moderna è stata anche un “processo di civilizzazione” consistente, nella finalità di rendere possibile la convivenza democratica, nella repressione delle manifestazioni di ostilità cruenta, di aggressione, fino a rendere in qualche misura vergognosa la stessa manifestazione di emozioni in pubblico. Ma è innegabile che questo processo, se in qualche modo ha inciso sulla “manifestazione” non lo ha fatto sulle “emozioni”, non ha reso l’uomo moderno più morale, amichevole, disponibile verso gli altri. Alle manifestazioni di violenza aperta si sono semmai sostituite pratiche di esclusione di intere categorie di persone giudicate scomode. In questo quadro Internet offre opportunità in tutti i sensi non ultimo prestandosi ad essere utilizzato nelle situazioni di odio umano senza tempo. Ma può essere uno strumento utile anche per un vero dialogo? Richard Sennet ha di recente definito le caratteristiche di un dialogo che voglia davvero favorire la coabitazione: deve essere informale, slegato cioè da regole e procedure, aperto, ossia sostenuto dalla voglia di parlare ma anche di ascoltare, cooperativo, finalizzato quindi non a stabilire vinti e vincitori ma all’arricchimento di tutti. Obiettivo tutt’altro che facile da raggiungere ma è l’unica possibilità di andare oltre l’ipocrisia di contenere le manifestazioni e non le emozioni, la violenza incontrollata, e le pratiche di esclusione

EM – Una delle conseguenze della globalizzazione è che, come afferma Ulrich Beck….ogni paese è diventato il confinante quasi immediato di ogni altro paese ed ogni uomo sente la scossa  di eventi che si svolgono all’altra estremità del globo….. Il rischio è che questa “unità del mondo” dia spazio ad un aumento dell’odio, ad una irriducibile esplosione del tutti contro tutti. In un contesto in cui l’Europa ha smesso di essere, come nei due secoli precedenti, un punto di riferimento, nel bene e nel male. Oggi i popoli che l’Europa un tempo dominava rifiutano le norme prodotte da quella storia; sono tornati a decidere la propria storia. Noi Europei reagiamo, ad esempio dopo i fatti di Parigi, sorpresi dal fatto che la terra della democrazia diventi un bersaglio, spesso da parte di qualcuno che è ormai cittadino europeo, scopriamo che gli obiettivi fatti bersaglio sono luoghi in cui va in scena la grandiosa normalità della nostra democrazia materiale. Viene alla luce che spesso il nostro presunto multiculturalismo è una debole fascinazione per la diversità, un flirt con ciò che appare esotico, ma ignora quanto di non negoziabile esiste nelle altre culture. Eppure la nostra democrazia mantiene un valore immenso; la libertà di parola, quella che è stata attaccata a Parigi, è il nume tutelare della libertà religiosa. Parigi, Londra, New York sono piene di moschee, a Riyahd le chiese sono vietate e chi porta lì una Bibbia rischia la morte. A costo di rinegoziare ogni volta la sua traduzione pratica questa democrazia va difesa. La democrazia come abitudine quotidiana dei gesti, degli spazi, è ciò che da forma al nostro stile comune di vita. Tornando ai nostri dubbi sull’intreccio tra percezione ed conoscenza, sulle attuali modalità di formazione dell’opinione, individuale e pubblica, dobbiamo comunque dire che resta indispensabile una democrazia che funzioni. Poi certo resta la denuncia di Elias Canetti sul fallimento della “parola”, l’amarezza di George Steiner nel constatare che arte e cultura non hanno mai fermato guerre e barbarie. Ma ciò è nella natura umana, dipende da noi, il destino del mondo sta nelle mani dell’uomo; e risuona sempre valida la domanda di Pilato nel lavarsi le mani: quid est veritas? Che cos’è la Verità?

ZB – Domanda che, non solo nei Vangeli, non ha ancora risposta soddisfacente, specie in questa epoca in cui è morto il nostro “imperialismo culturale” occidentale. E non possiamo rispondere semplicemente resettando tutto; oggi il “lavaggio del cervello”, espressione che ha origine nell’antico insegnamento taoista e che, diventata di moda nel 1950, è stata riciclata su ampia scala nella Cina della Rivoluzione Culturale, non funziona più. Indicava una sorta di “rito di passaggio” da una assegnazione/condizione ad un’altra e funzionava se la realtà si presentava salda, sicura e coerente. Oggi non è più così; i confini da attraversare per passare da una assegnazione/condizione ad un’altra sono confusi, porosi, i passaggi sono sempre reversibili. Non esiste lavaggio del cervello quando i contenuti del cervello sono un flusso in continuo cambiamento. Con cosa sostituirlo in questa fase in cui ci viene chiesto dalla realtà di operare profondi passaggi? L’unica strada è quella di aprirci al confronto, al dialogo, rifiutando presunzioni di possesso di verità assolute ed aprendoci a “relazioni interpretative”. L’esercizio dell’ascolto delle credenze diverse dalle nostre comporta inevitabilmente il sorgere del “dubbio” sulle nostre, ma rafforza il rifiuto dei dogmatismi, specie se violenti. Dobbiamo avere, noi occidentali, consapevolezza della lunghezza del cammino, durato millenni, che abbiamo percorso per abolire la pena di morte, per vietare la schiavitù, per promuovere l’uguaglianza dei sessi, e sono risultati ancora non completi e non diffusi ovunque. Dobbiamo quindi attrezzarci per un cammino altrettanto lungo, ed il dialogo, serio e sincero fondato sui parametri indicati da Sennet, è uno dei veicoli utili a percorrere questa strada. Le tendenze attuali non annunciano nulla di buono in questo senso, alcune vanno in senso opposto. Non è certo dialogo, vero e sincero, quello basato sul fenomeno chiamato “slacktivismo” (attivismo lento), quello praticato da molti internauti che con un “mi piace”, un tweet, aderiscono in Rete a campagne su questioni pubbliche. Ci si illude così di fare qualcosa di buono senza alzarsi dalla sedia. Il vero attivismo è altra cosa. Resta sempre valido e vero il motto antico….il frutto che avrai sarà pari al lavoro che ci avrai messo…

mercoledì 10 giugno 2015

A proposito di disuguaglianze.....


Intervento di Tito Boeri
(economista ed attuale Presidente dell’INPS)
 al recente Festival dell’Economia

Una delle cose più tristi delle rimpatriate dei compagni di classe delle elementari è scoprire che le differenze nei livelli di reddito sono rimaste le stesse: chi era ricco è rimasto ricco e chi era povero è rimasto povero.

Le disuguaglianze dinamiche sono non meno importanti di quelle statiche. Conta non solo la distanza fra chi ha redditi più alti e chi li ha più bassi, ma anche la probabilità che quest'ultimo ha di colmare il divario nel corso della propria vita. Per molto tempo il grande gap presente fra il 20 per cento più ricco e il 20 per cento più povero della popolazione negli Stati Uniti è stato ritenuto socialmente accettabile perché presente in una società con forte mobilità sociale, con molte self-made persons e con l'obiettivo dichiarato, se non praticato, di garantire un'uguaglianza delle opportunità. Mobilità sociale significa che, anche se le disuguaglianze sono forti, è possibile, per chi si trova nella parte più bassa della distribuzione, guadagnare molte posizioni nella scala dei redditi. In realtà, gli studi più recenti, come riconosciuto anche da un rapporto del 2012 per il Congresso degli Stati Uniti, mostrano che l'aumento delle disparità sociali è andato di pari passo a una contrazione della mobilità sociale. E anche raccogliendo dati su disuguaglianze statiche e dinamiche fra paesi diversi, ci si accorge che dove ci sono maggiori disparità di reddito c'è anche meno mobilità sociale tra generazioni, una correlazione che, ironicamente, passa sotto il nome di curva del Grande Gatsby. Quando le disuguaglianze statiche si allargano troppo, quando il 10 per cento più ricco della popolazione ottiene il 50 per cento del reddito nazionale e fino al 70 per cento della ricchezza accumulata, come oggi avviene negli Stati Uniti, è difficile che la mobilità sociale possa coprire distanze così grandi. Al tempo stesso se la società si cristallizza, eliminando le possibilità di dinamicità al suo interno, le disuguaglianze statiche tendono ad aumentare. Perché è proprio a questo che serve la mobilità sociale: evitare che le differenze nei redditi si perpetuino e si amplifichino. Se non sono sempre le stesse famiglie ad essere al top, si eviterà di avere ricchezza concentrata sempre nelle stesse mani e tramandata tra una generazione e l'altra, come nelle dinastie dei secoli scorsi. Ma se ciò non avviene, le disparità nel patrimonio accumulato tenderanno a consolidarsi, rendendo più netto lo scarto tra chi può vivere solo del proprio lavoro e chi, oltre a mettere a frutto il proprio capitale umano, può investire anche uno stock di ricchezza, derivante da un ingente capitale ereditato. Valutare la natura e l'entità della mobilità è particolarmente importante in paesi, come l'Italia, oggi in stagnazione o comunque a bassa crescita economica, ma che provengono da un lungo periodo glorioso in cui il reddito nazionale aumentava ai tassi che adesso vediamo solo nei paesi emergenti. La ricchezza è il risultato di una progressiva accumulazione nel corso del tempo. Quando i redditi medi non crescono è molto più difficile che quanto guadagnato durante un'intera vita di lavoro possa permettere di colmare il divario con ricchi ereditieri che magari non hanno lavorato neanche un giorno. Nei paesi a bassa crescita la ricchezza, tramandata di generazione in generazione, può offrire a chi la possiede rendite più elevate rispetto ai redditi di chi lavora. E dal momento che, in genere, i patrimoni si tramandano di padre in figlio, a differenza del valore e dell'ingegno, i migliori talenti sono condannati a restare sempre indietro nella scala dei redditi. L'eredità materiale diventa così più importante delle capacità personali nel determinare la posizione sociale di un individuo. Ci si allontana sempre più dall'uguaglianza delle opportunità.Sono molte le istituzioni che possono favorire la mobilità sociale. La più importante è, forse, il sistema educativo, che dovrebbe permettere anche ai figli dei poveri di ricevere un'istruzione di qualità, svelando e dispiegando i propri talenti. Ma anche nel caso dell'accesso alla scuola e all'istruzione esiste una disparità di trattamento tra classi più e meno abbienti. Un altro ambito che ha particolare rilevanza nella promozione della mobilità sociale è quello dell'accesso al mercato del lavoro e alle professioni. Più difficile l'ingresso dalla porta principale, più irta di ostacoli ogni mobilità ascendente. I mercati finanziari e il sistema bancario giocano un ruolo molto importante perché chi ha grandi idee, ma non ha fondi propri per realizzarle, può trovare o meno, a seconda del funzionamento dei mercati finanziari, il credito che gli consente di mettere in pratica queste intuizioni. I prestiti servono anche per finanziare l'investimento in capitale umano da parte di chi non ha famiglie ricche alle spalle.Il mercato delle abitazioni – forma preponderante di ricchezza delle famiglie e maggiormente oggetto di passaggi ereditari – è parimenti molto importante nella immobilità sociale. Generalmente si ottengono forti rendite dalle proprietà immobiliari in base a fattori che hanno poco a che vedere con il proprio talento. La concentrazione della ricchezza in paesi come l'Italia in proprietà immobiliari può avere giocato un ruolo molto importante nell'immobilità sociale del nostro Paese.Il sistema fiscale e le regole della tassazione hanno un ruolo decisivo nel condizionare il rapporto fra redditi da capitale e redditi da lavoro. La tassazione del capitale tende ad essere inferiore a quella del lavoro in virtù del fatto che il capitale è molto più mobile del lavoro: se lo tassi troppo, cambierà destinazione. Questo rende più difficile ridurre le disuguaglianze nella distribuzione dei redditi da capitale che sono generalmente più forti che nella distribuzione dei redditi da lavoro. Per affrontare questo problema c'è bisogno di un coordinamento tra paesi nella tassazione dei capitali, che si stenta a raggiungere anche solo all'interno dell'Unione Europea. C'è una dimensione internazionale delle disuguaglianze delle opportunità che viene spesso trascurata. In genere più alte sono le barriere migratorie e più forti le restrizioni alla mobilità territoriale delle persone, soprattutto di quelle più qualificate, più difficili sono i movimenti all'interno della società. È uno dei problemi più seri che oggi ha di fronte il welfare state europeo, minacciato prima ancora che dalla crisi fiscale, dal tentativo di impedire la mobilità dei lavoratori all'interno dell'Unione.

lunedì 1 giugno 2015

La parola del mese - GIUGNO 2015



LA PAROLA DEL MESE

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

GIUGNO 2015

Conformità/difformità/uniformità
Parole composte da ….formità (relativo alla forma) e dai prefissi: con (esprime unione/collegamento) – di (esprime, in questo caso, distacco/differenza) – uni (esprime unità/unicità)

Dal vocabolario Treccani

Conformità = essere conforme, corrispondenza, somiglianza: di gusti, d’idee, di un risultato alle previsioni; nelle scienze sperimentali, la situazione in cui dati sperimentali relativi alla verifica di una data teoria si discostano poco da quelli previsti; in sociologia, il risultato dell’adattamento individuale alla cultura del gruppo
Difformità = L’esser difforme, discordanza di pareri, di caratteri -  diversità nelle sentenze relative a casi giuridici analoghi
Uniformità = L’essere uniforme, la qualità e condizione di cosa o di comportamento uniforme - Mancanza di differenziazioni, concordia, unanimità