martedì 21 novembre 2017

Sintesi della conferenza del Prof. Alessandro Barbero "Le migrazioni barbariche"


LE MIGRAZIONI BARBARICHE

Incontro con il prof. Alessandro Barbero



Dopo aver ringraziato il numeroso pubblico e naturalmente il relatore, che CircolarMente si onora di presentare dal momento che è da tutti apprezzato per la sua straordinaria capacità di unire la competenza di studioso alla passione espositiva del narratore, Massima Bercetti esplicita la proposta dell’associazione che attraverso il tema delle migrazioni barbariche – un’emergenza del passato – vuole mettere a fuoco alcune caratteristiche delle emergenze attuali, fidando nel potere chiarificatore ed evolutivo della memoria storica. Per molti dei presenti sicuramente questo tema richiama alla memoria una dicotomia, quella fra Romani e Barbari, visti come se ci fosse fra questi due termini un’antitesi insuperabile - ordine e caos, luce e ombra, civiltà e rozzezza: qualcosa insomma che non può mai sussistere insieme, tanto è vero che quando sono arrivati i barbari l’impero si è sfasciato. Tuttavia il prof. Barbero, che su questo tema ha pubblicato nel 2010 per Laterza il testo ”Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”, ci mostrerà una realtà più complessa e sfaccettata, facendoci vedere come fra questi due poli non ci sia stato sempre un rapporto di esclusione reciproca, bensì una relazione per molto tempo anche proficua. Sarà dunque importante per tutti noi cogliere i termini di questa relazione e analizzarne con il prof. Barbero le modalità, individuando in particolare gli errori e le inefficienze che hanno contribuito a determinarne la rottura.



1. Attualità del tema

e sue diverse interpretazioni nel tempo:



Nell’aprire la sua conversazione, il prof. Barbero osserva come il modo diverso con cui il capitolo delle migrazioni barbariche è stato analizzato e interpretato dagli storici sia quanto mai significativo per farci capire l’oggi. Pensiamo per esempio a come veniva letto e raccontato a inizio novecento, quando gli stati europei si preparavano ad affrontarsi sul campo di battaglia con la loro carica di esaltazione nazionalista. Nel caso dell’Italia, prevalendo allora l’idea della superiorità etica e spirituale della razza latina, era facile identificare il nemico germanico con quei rozzi barbari che avevano distrutto la grande civiltà romana, e pertanto quelle che oggi gli storici definiscono come “migrazioni” venivano viste come “invasioni”, eccitando gli animi alla necessità della resistenza verso un nemico portatore di ogni nequizia.

Diversa è la lettura che ne facciamo oggi, spiega il prof. Barbero, non già perché gli storici possano ignorare a loro piacere una certa realtà fattuale, ma perché nella congerie dei fatti esiste pur sempre la scelta che si opera a partire da dove siamo collocati, e che ci spinge ad illuminarne alcuni piuttosto che altri, approfondendo certe analisi, rivalutando aspetti prima ignorati. Ora, per quanto possano esserci   occasionali frizioni col mondo germanico, nessuno porrebbe più il tema di uno scontro di civiltà fra i nostri due popoli: il problema che dobbiamo fronteggiare come europei è piuttosto quello di un mondo che si è fatto globale e complesso, e in cui c’è una parte più ricca e più organizzata che si sente accerchiata da popoli minacciati dalla fame e dalla guerra, le cui condizioni di vita sono profondamente diverse dalle nostre.

La lettura degli storici tende dunque oggi a ragionare maggiormente sul fatto che prima della vera e propria invasione c’era stata una lunga fase migratoria in cui i barbari erano stati positivamente accolti e integrati, indagando pertanto sia sulle modalità di assorbimento controllato di cui l’impero aveva saputo dare prova, che sugli errori e sulle inefficienze che ad un certo punto hanno permesso l’apertura di una crepa irreparabile.



2. Romani e Barbari:

una dicotomia assoluta?



Giustamente, osserva il prof. Barbero, Massima Bercetti nella sua introduzione ha messo in rilievo quanto sia forte, ancora oggi, la percezione di una profonda dicotomia fra questi due termini, che poggia sulla nostra tendenza a dividere il mondo fra NOI e gli ALTRI dotando i primi di tutte le qualità positive (i più civili, i più giusti, in altre parole: i migliori). Nel definire come barbari quelli che a nostro giudizio non possiedono queste alte qualità – qualunque siano i termini con cui le decliniamo – siamo sicuramente eredi del mondo greco, che come tutti sappiamo è stato il primo a chiamare “barbari” coloro che non erano greci e la cui lingua suonava balbettante e scomposta alle loro orecchie (il termine ha evidenti origini onomatopeiche).

E’su questa differenza, del resto, che essi si definivano come portatori di valori unici, leggendo la propria storia come la storia epica di coloro che avevano lottato, come uomini “nati liberi”, contro un impero di sudditi e di schiavi. Un modo di autodefinirsi per opposizione che abbiamo fatto in parte nostro, nonostante avesse un corollario non troppo edificante, se persino un filosofo come Aristotele poteva considerare del tutto lecita la schiavitù per coloro che per natura fossero “nati schiavi”...

Poi, come sappiamo, questa civiltà raffinata che aveva inventato il concetto di “barbaro” e che aveva saputo opporsi ai barbari d’oriente, cade alla fine sotto il dominio dei Romani, a cui fu gioco forza sottomettersi anche se in cuor loro i greci consideravano altrettanto barbari questi rozzi vincitori – cosa che del resto i latini ben sapevano, accettando in generale, nonostante qualche fiera resistenza (vedi Catone) di farsi “civilizzare” da un popolo vinto. Cose note, certamente, anche se il prof. Barbero fa notare che non solo i greci riuscirono ad ottenere uno statuto di autonomia per le loro poleis, ma che la parola barbaro cambiò di segno, passando ad indicare chi non era né greco né romano (tanto è vero che alcuni storici non parlano di impero romano, ma di impero greco-romano). Restava dunque l’idea di un confine fra sé e l’altro, ma si spostava di segno.



3. Una politica pragmatica di inclusione ragionata:



Inizia in questo modo, continua il prof. Barbero, un movimento che proseguirà nel tempo via via modificandosi, anche perché una dicotomia statica strideva concettualmente con l’idea inclusiva che i romani avevano rispetto al loro progetto di conquista (per fare un esempio, dopo le sanguinose guerre di Giulio Cesare, i Galli vennero “incorporati”: restavano barbari, ma barbari-di-dentro, contrapposti ai barbari-di-fuori…).

Si veniva così a definire una situazione che può essere rappresentata secondo uno schema bipolare:

- da un lato, i cittadini romani, a cui spettava l’assoluta prevalenza (essi erano al di sopra di tutti gli altri, e venivano sottoposti solo alla giurisdizione dell’imperatore)

-  dall’altro, i barbari interni, sudditi dell’impero (potremmo definirli barbari “indigeni”) per cui viene pensata un’apposita categoria giuridica, quella dei “peregrini”

C’è naturalmente una differenza enorme fra le due categorie: il “peregrinus” è uno che non è padrone a casa sua, un forestiero che viene semplicemente tollerato.

Per esemplificare la forza di questa distinzione, il prof. Barbero ricorda un episodio significativo, quello della cattura di Paolo di Tarso al tempo della sua predicazione a Gerusalemme, citata da una fonte autorevole (Gli atti degli apostoli).

Racconta dunque il testo che Paolo, denunciato dai sacerdoti ebrei, viene arrestato e condotto nel palazzo del governatore romano per essere sottoposto a giudizio. Qui viene incatenato e legato al palo per essere fustigato, a mo’ di pena preliminare, ma la tortura non avrà mai luogo dal momento che Paolo si rivolge ai suoi aguzzini con una frase che diventerà celebre: “Cives romanus sum!”  Panico assoluto: si chiama in gran fretta il governatore che accorre, presumibilmente trafelato a sua volta. Il dialogo fra i due uomini, che sulle tracce del prof. Barbero riproduciamo in questo modo, risulta decisamente surreale:

“E’ vero quanto mi dicono? Sei davvero un cittadino romano?”

“Sì, lo sono, e di nascita!” (notiamo che Paolo era originario dell’Asia Minore…)

“Io invece la cittadinanza l’ho acquistata, e a caro prezzo!”

Capiamo bene infatti che si è venuta a creare una situazione alquanto confusa per l’asimmetria dei due personaggi: il prigioniero è cittadino per nascita, il suo giudice un cittadino acquisito. Al di là di questo, su cui torneremo, il possesso della cittadinanza cambia radicalmente la situazione: bisogna sospendere tutto, scrivere subito a Roma, perché un cittadino romano è soggetto solo alla giurisdizione imperiale. Può dunque cavarsela, Paolo, perlomeno in questa occasione, mentre così non è stato per Gesù, che nell’impero era solo un “peregrinus” …

Ora, prosegue il prof. Barbero, se lo esaminiamo con attenzione questo episodio evidenzia non solo la nettezza della distinzione fra cittadini e no, ma anche l’esistenza di una terza categoria che rende in un certo senso “tripolare” lo schema di cui sopra: quella cioè dei cittadini romani non per nascita, ma per acquisizione. La cittadinanza dunque era qualcosa che si poteva ottenere, se venivano riconosciuti particolari meriti. Veniva accordata per esempio a chi nelle province conquistate si era dimostrato disponibile alla collaborazione, in specie se apparteneva a famiglie influenti, o ancora a chi si fosse arruolato nei reparti ausiliari dell’esercito (le legioni erano destinate ai soli cittadini romani) e vi avesse trascorso onorevolmente il lungo servizio previsto (25 anni!).

Al congedo gli “indigeni” ricevevano infatti la cittadinanza romana, corredata da un diploma onorifico detto “missio emerita” (il prof. Barbero cita il caso di un veterano originario della Pannonia, che aveva dato ai suoi figli rispettivamente il nome di Emeritus ed Emerita, a indicare l’orgoglio per la posizione conquistata) e da nuovo nome romanizzato, con un premio in denaro che consentiva loro di trasformarsi in piccoli agricoltori, diventando pilastri dello stato.

Quella romana era insomma una politica pragmatica di inclusione ragionata che veniva applicata generalmente con successo, anche se suscitava in qualche caso delle resistenze da parte dei fautori della supposta purezza romana:

Il prof. Barbero cita il caso di una proposta di legge davvero molto inclusiva che l’imperatore Claudio sottopose al Senato (come sappiamo, pur essendo l’imperatore praticamente onnipotente era tenuto a dimostrare almeno un formale rispetto per questo organo) e che prevedeva la possibilità di accedere alla carica senatoriale anche per coloro che erano di origine barbara.

Sembrò davvero troppo, a molti senatori (“Dove si andrà a finire? Ci sono limiti che non possono essere varcati!”), ma secondo quanto racconta Tacito Claudio li rintuzzò con un discorso veemente, che Barbero ha rievocato per noi più o meno con queste parole:

“Voi che temete di inquinare il vostro sangue, non siete forse stati, prima che romani, etruschi o sabini, un tempo nemici di Roma? Noi non siamo greci! Siamo romani, e siamo forti proprio per questo, perché accogliamo fra noi i nemici sconfitti!”

N.B. = ricordiamo che nel mondo greco si era cittadini solo per diritto di sangue

Da segnalare inoltre il fatto che la concessione della cittadinanza non riguardava solo i singoli individui, ma poteva essere concessa a intere comunità e financo a popoli (regnando Traiano, che era di origini spagnole, fu concessa tout-court a tutti gli spagnoli: si trattava anche allora – commenta il prof. Barbero ricorrendo scherzosamente ad un’espressione contemporanea - di ottenere consenso, allargando la propria base elettorale…).

In questa politica di concessione della cittadinanza, che rispondeva ad un preciso calcolo politico, costituirà un evento particolarmente significativo un editto emanato nel 212 d.C. dall’imperatore Marco Aurelio Antonino Caracalla, con il quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti coloro che vivevano entro i confini dell’impero.

Possiamo ben immaginare quale sia stato allora l’impatto di questa decisione, che riguardava un numero altissimo di beneficiati:

(da qui, racconta il prof. Barbero, deriva il fatto che moltissimi dei nuovi cittadini portassero come primo nome quello stesso dell’imperatore, come richiesto dal beneficio ma anche in segno di autentico orgoglio e riconoscenza. Fra i vari documenti che lo attestano, abbiamo ad esempio un’iscrizione in cui un certo Marco Aurelio Zozimo cita se stesso come “colui che si chiamava solo Zozimo, prima del sacro nome”….

Sacro in primo luogo perché era di emanazione imperiale, e quindi assimilabile ad un dono della divinità, e in secondo luogo perché era effettivamente foriero di grazia, “così che appartenesse a tutti ciò che prima era di pochi”, come dice sant’Agostino, facendo di Roma “l’unica città dove nessuno è straniero”)



4. I Barbari esterni e la questione immigrazione:



Quello romano era dunque un mondo dove le diverse identità non venivano conculcate, ma in cui tutte erano per così dire assorbite in un’identità superiore e aggregante.

Ciò detto – prosegue il prof. Barbero – non possiamo non chiederci che cosa succedeva ai barbari veri, quelli che non stavano dentro i confini dell’impero ma fuori, ai margini. Sappiamo che spesso erano loro in prima persona a chiedere di entrare, mentre in altri casi venivano sollecitati a farlo per esigenze interne all’impero, che aveva bisogno di contadini per i vasti latifondi o di reclute per l’esercito (anche per riempire i vuoti lasciati dalle epidemie, che erano assai frequenti). Quando parliamo di sollecitazione, intendiamo dire che al bisogno i romani, che notoriamente non andavano troppo per il sottile, organizzavano spedizioni in quello che chiamavano il “barbaricum” per andare direttamente a prenderseli, o attraverso accordi pacifici con i capi, oppure bruciando un po’ di villaggi a scopo dimostrativo….

Nel passare ad esaminare la condizione giuridica degli immigrati, il prof. Barbero fa ancora alcune considerazioni sull’editto di Caracalla, su cui gli storici si sono interrogati per capire se in qualche modo l’imperatore, concedendo la cittadinanza a tutti coloro che erano dentro l’impero, si fosse già posto il problema del fuori, guardando in qualche modo al futuro. Purtroppo non ci sono risposte precise a riguardo, perché il papiro egiziano con testo in greco che lo riporta è lacunoso proprio in alcuni punti salienti. Sappiamo però da altre fonti che per i lavoratori immigrati non era prevista alcuna concessione di cittadinanza: essi venivano considerati semplicemente “dediticii”, con un termine che implicava il darsi all’imperatore, il mettersi nelle sue mani. Da notare però che essi non erano schiavi: se impiegati nei latifondi, erano contadini liberi, che affittavano le terre e pagavano le tasse; se era l’esercito a richiederli, compivano il servizio militare come previsto.

Naturalmente, per gestire l’afflusso continuo di immigrati, c’erano strutture governative e intere prefetture con uffici e funzionari che avevano il compito di accoglierli, registrarli, distribuirli nei distretti a seconda delle richieste del governo centrale a cui spettava ogni decisione politica. Esisteva dunque un’organizzazione capillare ed efficace, ma certo non mancavano episodi di corruzione:

(ad un certo punto, racconta infatti il prof. Barbero,  scoppiò un vero e proprio  scandalo, quando il governo centrale si rese conto che sotto la dicitura “acquisto delle reclute” e “compravendita degli immigrati” avvenivano cose strane: ad esempio, si facevano degli accordi sottobanco fra i centurioni che dovevano reclutare uomini per l’esercito e i latifondisti che preferivano pagare piuttosto che sacrificare la preziosa mano d’opera; dopo di che gli stessi centurioni acquistavano gli uomini necessari a minor prezzo dai capi barbari, trattenendo per sé la differenza. Una volta appurato il giochetto, il governo centrale cominciòovviamente a provvedere da sé a questi acquisti…)

In generale peraltro le cose procedevano con sufficiente beneficio per tutti e l’immigrazione fluiva senza scosse, con le istituzioni preposte che regolavano i flussi a seconda dei bisogni interni.  Si calcola che fra il 4° e il 5° secolo l’esercito romano fosse composto quasi interamente da barbari, figli di immigrati o addirittura nati all’esterno dell’impero (cosa che a inizio novecento, quando si ragionava senza pudore in termini razzisti, veniva interpretata come una delle cause del suo crollo…). Potevano esserci frizioni occasionali, ma nella maggior parte dei casi l’integrazione di tutti questi immigrati non comportava particolari problemi e il valore dei barbari del nord, del resto convertiti al cristianesimo - la chiesa naturalmente lavorava per l’assimilazione, avendo una prospettiva universalistica - veniva spesso riconosciuto (benché fossero prevalentemente alti e biondi: segno certo, per i latini, di una indubbia inferiorità genetica!).

L’immigrazione finiva così per diventare una sorta di ideologia dell’impero, di cui il prof. Barbero ha dato alcuni  divertenti assaggi citando un certo numero di scritti in elogio dell’imperatore di turno, in cui pur facendo la tara al tono adulatorio che era davvero poco evitabile in questo genere di produzioni, veniva espresso un autentico  orgoglio per  questa capacità di assimilazione rispetto ai popoli sconfitti, attraverso la quale si assicurava a tutti il diritto di poter godere della “felicità romana”.

Questo naturalmente non implicava, da parte degli autori, il porre romani e barbari sullo stesso piano, ma si riconosceva comunque il valore politico forte della loro integrazione:

(per fare un esempio, in uno di questi scritti, indirizzato all’imperatore Teodosio da un certo Temischio, un politicante greco di Costantinopoli, ben si sottolineava come i Germani e i Goti rappresentassero con la loro rozzezza l’antitesi dei civili e razionali Romani. Nondimeno l’autore mostrava di considerarli educabili alla civiltà, esaltando dunque la scelta imperiale di non eliminare il popolo dei nemici bensì di proteggerli, dopo averli sottomessi, facendoli diventare parte dell’impero. In fondo, aggiungeva curiosamente “non proteggiamo forse noi anche gli animali feroci, così che si conservi la specie, e non scompaiano gli elefanti dalla Libia e gli ippopotami dal Nilo? Questi poi sono uomini, e pertanto meritano ancora di più la nostra protezione!”)



5. L’inizio della fine: un racconto drammatico,

foriero di insegnamenti preziosi



Dopo di che, prosegue il prof. Barbero, è inevitabile chiedersi che cosa successe poi e come avvenne che dopo aver gestito con successo la questione immigrazione per più di due secoli essa cominciò a sfuggire di mano, per una serie di concause fra le quali è importante a suo giudizio indicare tutta una serie di inefficienze e di gravi errori che emergono con drammatica evidenza in un episodio specifico, avvenuto nel 376 D.C.

(N.B. = su di esso il prof. Barbero ha imbastito una narrazione tanto significativa quanto avvincente, che cercheremo qui di riportare il più possibile per esteso perché rientra perfettamente nel tema che CircolarMente ha voluto proporre per l’anno in corso)

-la pressione dei Goti sulla frontiera danubiana

 e il dilemma: farli o non farli entrare?

Siamo dunque nel 376 D.C.

Alla frontiera dell’impero romano d‘oriente, che costeggia il Danubio, preme un intero popolo barbaro che si sta spostando dalle sue sedi per l’incalzare di tribù nomadi ancora più barbare, quelle degli Unni, che con le loro scorrerie saccheggiano e terrorizzano mettendo i villaggi a ferro e a fuoco. I Goti non sono certo sconosciuti ai Romani: molti di quelli che abbiamo chiamato “barbari di dentro” sono originari di questo popolo, hanno dato contadini ai campi dei latifondisti e reclute all’esercito, spesso salendo i gradini del comando. Questi che arrivano, certo, sono ancora “barbari di fuori”, ma le loro intenzioni non sono ostili, anzi: chiedono riparo e protezione all’interno del forte e organizzato impero e sono del tutto disponibili a diventare a loro volta contadini e soldati, facendone pacificamente parte.

Pur tuttavia, sono davvero tanti e gli ufficiali di servizio sul confine non vogliono prendersi la responsabilità di farli entrare senza l’avvallo del governo centrale. Si dà il caso però che l’imperatore Valente, cristiano, si trovi a circa 2.000 chilometri di distanza, presso la frontiera con la Persia a cui si accinge a far guerra (vecchia ossessione occidentale, commenta Barbero…). Quando i messaggeri finalmente lo raggiungono, subito viene convocato il Concistoro – una specie di Consiglio dei Ministri – il cui parere è decisamente favorevole: i Goti sono ottimi guerrieri, gente preziosa in tali circostanze.

Succede però che quando i messi sono di ritorno con la risposta, la situazione al confine si sia fatta decisamente tesa: i Goti premono sempre di più, col terrore di sentirsi addosso gli zoccoli scalpitanti dei cavalli degli Unni; alcuni hanno tentato di varcare la frontiera senza permesso e c’è scappato un morto, o più di uno (può essere interessante, secondo il prof. Barbero, quanto racconta un cronista che scrive di questi avvenimenti alcuni anni più tardi, quando si sa già come è andata a finire, e che in più è pagano, non è quindi interessato a mettere  sotto una luce favorevole il cristiano Valente: e cioè che dopo l’arrivo dell’ordine gli ufficiali che avevano negato l’ingresso erano finiti sotto processo per abuso d’autorità).

-il drammatico passaggio del Danubio:

inefficienze, errori, rapacità

 Ora che l’ordine di farli entrare è giunto, bisogna comunque organizzare il passaggio, ma non è cosa semplice e le cose in effetti volgeranno subito al peggio. Il Danubio è in piena, e il vecchio ponte costruito da Costantino (guarda caso, proprio per muovere guerra ai Goti) è crollato da tempo e non è mai stato ricostruito. Per traghettare intere famiglie, con masserizie, bestiame e un nugolo di bambini, si devono utilizzare mezzi di fortuna. Possiamo solo immaginare il caos totale (e certo l’abilità narrativa del prof. Barbero ce lo rende facile): famiglie che si perdono, persone che affogano, bambini che rimangono senza protezione…

Una situazione confusa e drammatica che rende di fatto impossibile agli impiegati preposti il procedere alla registrazione ordinata di questi richiedenti asilo.

Poi, cominciano a succedere cose altamente rischiose: da un lato i capi Goti, a cui è stato richiesto come di consueto di consegnare le armi, riescono a corrompere le sentinelle evadendo l’ordine, mentre dall’altro lato molti ufficiali romani - ci sono testimonianze inoppugnabili a riguardo – non esitano a prendersi come schiavi, approfittando dell’abbondanza, bambini e ragazzi rimasti senza genitori. Senza contare che non appena si sparge la notizia che i Romani hanno aperto il confine, altri Goti arrivano e la marea sembra ormai inarrestabile.

A questo punto la situazione è davvero critica e i Romani decidono di chiudere nuovamente il confine procedendo alla ripartizione di coloro che sono riusciti ad entrare nei distretti dove è richiesta la forza lavoro, come si è sempre fatto in passato. Il problema è che c’è stato un grosso vuoto di responsabilità amministrativa e non c’è nessun piano di ripartizione pronto all’uso, per cui si crea gioco forza una sorta di campo profughi per trattenere provvisoriamente questa massa di gente che comunque va custodita e nutrita. Neanche questo sarebbe un problema insuperabile, in effetti, perché il governo ha stanziato i fondi necessari per l’acquisto di razioni militari sufficienti per sfamare queste persone: succede però che gli ufficiali, invece di distribuirle gratuitamente ai Goti, si facciano pagare, così questi poveracci sono costretti dopo un po’ a vendersi tutto, prima il bestiame e alla fine anche i figli (raccontano i cronisti dell’epoca che tutti i mercanti di schiavi dell’impero d’oriente affluivano lì, perché si potevano fare grossi affari).

Una situazione alla lunga insostenibile, anche perché si protrae per troppo tempo aizzando da un lato il risentimento dei Goti per le condizioni penose di vita e per la sensazione di stare subendo un’ingiustizia (non sono arrivati con intenzioni ostili: i loro capi hanno fatto accordi che sono stati disattesi) e dall’altro facendo allignare nell’animo dei Romani la paura. Si decide dunque di procedere scortando i Goti nell’interno del paese, ma mentre il lungo corteo si mette finalmente in marcia, con un dispiego impressionante di truppe da parte dei romani, dal lato del confine ormai sguarnito una massa altrettanto grande di nuovi arrivati comincia a passare, senza chiedere il permesso a nessuno…

-il disastroso epilogo

Ma torniamo al corteo che ora è nei pressi di una città dove sia i soldati che i Goti vorrebbero sostare, per riposarsi e rifocillarsi. L’ingresso tuttavia viene consentito ai soli ufficiali romani e ai capi dei Goti (le città godono infatti di piena autonomia, e i suoi abitanti non hanno certo voglia di trovarsi fra i piedi i soldati romani né tantomeno i Goti).

A questo punto, come racconta uno storico coevo, Ammiano Marcellino, i generali romani presero una decisione che dovette sembrare molto astuta, ma che si ritorse su di loro: quella di invitare i capi ad un banchetto, farli ubriacare e poi farli fuori –  presupponendo ovviamente che le armi fossero state consegnate a suo tempo – nella speranza che il popolo decapitato dei suoi capi diventasse più docile da maneggiare.

La trappola peraltro non scattò, intanto perché risultò molto meno facile del previsto far ubriacare i goti, e inoltre perché nel campo esterno, mentre il banchetto andava per le lunghe, scoppiò un tafferuglio  e la scorta fu sopraffatta. A questo punto i capi, avvertiti dal clamore, corsero fuori urlando al tradimento e disconoscendo all’istante tutti gli accordi. Poi, diedero mano libera ai saccheggi che devastarono il paese.

Quando l’imperatore giunse a Costantinopoli, rientrando precipitosamente al nord dalla sua guerra persiana, trovò una città in preda al panico e un contado devastato. Fu giocoforza per lui uscire con le truppe e affrontare questa massa immensa di Goti carichi di bottino, a cui peraltro era ancora estranea l’idea di “invasione” e che pertanto si dimostrarono disponibili ad un accordo, s’intende a condizioni molto più favorevoli di prima.

Il seguito è noto. Senza un motivo preciso, nel 378 D.C. il conflitto latente divenne palese e nella battaglia che ne derivò i Goti annientarono letteralmente l’esercito dell’impero romano d’oriente. Ci fu ancora spazio per la negoziazione, a cui il nuovo imperatore Teodosio (Valente era scomparso nella battaglia) si acconciò non avendo altra scelta, ma a questo punto le condizioni erano completamente diverse: i Goti non accettarono più di essere divisi, e rivendicarono il diritto, conquistato con la spada, di vivere all’interno dell’impero secondo le proprie leggi e usanze.

Finì così, con questa novità davvero inaudita, questa fase delle migrazioni barbariche, da cui il prof. Barbero (applauditissimo dal folto pubblico, dopo questa esposizione calorosa e coinvolgente) ritiene si possano trarre insegnamenti ancora utili per noi: cosa che a nostra volta, come “CircolarMente”, condividiamo pienamente.



Relazione a cura di

“CircolarMente”

martedì 14 novembre 2017

Immagini della conferenza del Prof. Alessandro Barbero


E’ bene che nel nostro blog siano conservate alcune immagini della conferenza tenuta dal Prof. Alessandro Barbero che ha visto, come non mai, una partecipazione numerosa, notevole per qualità, attenta, coinvolta, e quindi quanto mai confortante per gli scopi e le finalità della nostra Associazione











lunedì 13 novembre 2017

Indagini sulla mutazione - a cura di Gallo Enrica-Enrietti Nives-Bosio Daria


INDAGINE SULLA MUTAZIONE
BARBARI,  POLLICINE E  ALTRI  MUTANTI... 





 Un percorso di riflessione sui cambiamenti innestati dalla rivoluzione digitale, a partire da alcuni testi proposti da Vincenzo Cascone e Lorenzo Ongaro, insegnanti della Scuola Holden di Torino


lunedì 6 novembre 2017

Sintesi delle due relazioni tenute nel corso della conferenza del 25 Ottobre 2017


“LA TRAGICA ANDATA
E IL DIFFICILE RITORNO



Deportati e profughi tra Europa e Val di Susa
durante e dopo la Seconda guerra mondiale





Introduzione di Massima Bercetti:



Dopo aver ringraziato, a nome di CircolarMente, il folto pubblico, Massima Bercetti sottolinea l’importanza di incontrarsi in una situazione come quella che stiamo vivendo e in cui sono in gioco, a suo giudizio, le stesse basi della convivenza democratica. L’uso dell’immagine di Anna Frank per insultare gli avversari calcistici non può infatti essere derubricato a episodio marginale, ascrivibile agli eccessi delle tifoserie, e pertanto non è sufficiente rivolgere le proprie scuse alla comunità ebraica: se non si fa udire la propria voce manifestando il proprio dissenso, si mostra di ignorare il fatto che quando si lede la dignità di alcuni, è la dignità di tutti che viene offesa.

L’incontro di stasera si colloca all’interno di un progetto che ha come titolo “Emergenza e memoria”. Siamo davvero oggi più che mai di fronte al dovere della memoria, sostenuto dalla percezione di una emergenza attuale che può essere meglio compresa alla luce delle emergenze passate. Certamente gli scenari cambiano, ma riflettere sui rischi che sono stati corsi può contribuire a farci individuare meglio i pericoli che si profilano all’orizzonte.

E’ per questo motivo che  CircolarMente ha posto particolare attenzione alla figura di Primo Levi,  attraverso due distinte proposte che hanno visto una partecipazione davvero sorprendente: in particolare, è stata molto apprezzata la passeggiata sui luoghi della sua permanenza ad Avigliana, cui ha dato un buon contributo l’amministrazione comunale e che è stata preparata da un complesso lavoro di ricostruzione condotto dalla prof.ssa Antonietta Fonnesu, con la collaborazione di alcuni validi testimoni e di persone esperte delle vicissitudini della Duco Montecatini e del Dinamitificio Nobel; altrettanto condiviso è stato poi un secondo incontro, in cui diversi relatori si sono confrontati con  il tema della memoria riferito a Levi.

Gli interventi di stasera si inseriscono in questo stesso ambito, mettendo a tema la questione dei profughi ebrei che non potendo o non volendo ritornare nei paesi d’origine avevano necessità di essere accolti in attesa che fosse possibile trovare per loro un nuovo approdo. Introdurrà la dott.ssa Franca Mariano, che pur di formazione filosofica ha sempre nutrito interessi storici, occupandosi in particolare del fenomeno della Resistenza nelle valli di Lanzo e cercando di salvare dall’oblio i percorsi e le storie: la stessa cosa farà per noi, aprendo una pagina di storia poco conosciuta che ha avuto luogo anche ad Avigliana. Sarà poi Claudio Vercelli, ricercatore dell’Istituto Salvemini e docente all’Università Cattolica, oltre che titolare del corso di Storia contemporanea all’’Università Popolare, a illustrarci il fenomeno delle deportazioni, sul quale ha pubblicato di recente un testo molto esauriente (“Il dominio del terrore. Deportazioni, migrazioni forzate e stermini nel novecento”)



INTERVENTO DELLA DOTT. MARIANO



Per gentile concessione della dott.ssa Mariano, il testo integrale della sua relazione è stato messo a disposizione sul blog di “CircolarMente”. In questa relazione ci limitiamo pertanto a indicare brevemente come il discorso specifico sulla costituzione in vari paesi europei di campi di raccolta, fattorie collettive e kibbutz in cui i profughi ebrei poterono trovare non solo rifugio temporaneo, ma strumenti per poter affrontare la nuova vita che li attendeva, è stato inserito in un discorso più ampio e dettagliato sulle difficoltà che i sopravvissuti allo sterminio dovettero affrontare dopo la liberazione: passarono infatti molti e molti mesi prima che prendesse corpo un’efficace rete di protezione, sotto la gestione dell’ONU e con il concorso attivo delle organizzazioni sioniste.

Alle letture tratte dal testo “Se non ora quando”, in cui Levi rievoca l’arrivo dei profughi ebrei in Italia, la dott.ssa Mariano ha affiancato documenti giornalistici e di archivio attraverso i quali abbiamo potuto confrontarci con una pagina di storia scarsamente conosciuta: ben pochi di noi in effetti avevano avuto notizia del fatto che anche Avigliana  avesse ospitato, a partire dalla fine del 1945 fino al 47, una “Casa della Gioventù Ebraica” che sorgeva nell’area dell’ex convento agostiniano e ospitava molti giovani scampati alle deportazioni o sopravvissuti ai campi.

Erano fortunatamente presenti, nel pubblico, alcune persone che  hanno potuto fornire un ulteriore contributo, offrendoci conoscenze o ricordi di prima mano: in particolare, Giovanni Genta, che ha avuto la possibilità di consultare di recente nell’archivio storico di Avigliana alcuni dei  documenti cui ha fatto riferimento la dott.ssa Mariano, ne sottolinea il valore, avendoli a sua volta  giudicati meritevoli di un riscontro pubblico (riferisce inoltre di una visita ad Avigliana da parte di un gruppo di studenti israeliani, interessati ad avere una documentazione sul periodo che alcuni dei loro congiunti vi hanno trascorso); fornisce in aggiunta alcuni ricordi personali molto vivi, risalenti al tempo in cui – bambino decenne – era solito intrufolarsi con alcuni compagni nella zona occupata dai profughi ebrei, che si stendeva allora dalla collina al corso Laghi, osservando – immaginiamo con un interesse tutto particolare – la presenza fra i vari laboratori anche di “percorsi di guerra” in cui i futuri pionieri potevano compiere esercitazioni militari. Non c’erano peraltro, a sua memoria, contatti diretti fra i residenti e il resto della popolazione, anche se non gli è mai capitato di cogliere segni di malanimo verso gli ebrei (a questo proposito, Elena Allais ricorda che l’unica famiglia ebrea di Avigliana, i Segre, furono salvati dalla deportazione proprio dai partigiani della zona).

Ad offrirci il ricordo più divertente è stato peraltro il signor Uberto Franchino, che ci ha spiritosamente restituito l’immagine delle belle ragazze ebree che sfilavano, in occasione di un grande raduno sindacale svolto ad Avigliana il 1° maggio 47, con le loro divise che il dodicenne di allora, e ancor più l’amico diciottenne che lo accompagnava, aveva mostrato di apprezzare, per via dei pantaloncini corti…. Ma ancora ricorda la presenza nel corteo di molti ebrei, e il discorso appassionato di uno di essi, vecchio d’aspetto per età o per sofferenze patite, che esprimeva con toni accorati la speranza di trovare presto una nuova patria in Palestina. Parole che si sono scolpite nel cuore del ragazzo di allora, a cui né la scuola fascista né le molte ore di catechismo avevano mai permesso di conoscere questo popolo…

Rimandiamo dunque chi volesse approfondire l’argomento al nostro blog, dando qui uno spazio maggiore all’intervento del prof. Vercelli che abbiamo registrato e trascritto quasi integralmente, data l’importanza dell’argomento che dalla ricostruzione del passato apre davvero squarci sul presente.  





INTERVENTO DEL PROF. VERCELLI



Nel suo intervento, inteso a mettere in rilievo alcuni passaggi che ci permettano di inserire le vicende illustrate dalla dottoressa Mariano in un costrutto storico più generale, il prof. Vercelli parte da una considerazione la cui fondatezza viene spesso sottovalutata, e cioè dal fatto che migrare è un esercizio comune nella vicenda umana. Noi tendiamo a considerarci come stanziali, ma se solo volessimo provare a ricostruire la nostra storia familiare - cosa che gli ebrei per comprensibili motivi hanno sempre fatto, ma che è abbastanza comune anche nel mondo protestante - scopriremo infatti di avere tutti, dal più al meno, un’origine alquanto babelica….

La migrazione ebraica come “cartina di tornasole”

per comprendere le caratteristiche generali dei processi migratori

Ciò assodato, può essere utile a suo giudizio fare alcune riflessioni sui processi migratori che hanno caratterizzato la storia ebraica contemporanea a partire dalle rivoluzioni borghesi, perché essi costituiscono un antecedente importante per comprendere come mai, nei campi in cui molti sopravvissuti ebrei hanno trovato dopo la guerra un rifugio temporaneo, fossero prevalenti quelli provenienti dall’Europa orientale.

In effetti si è operata allora una divaricazione forte fra i due rami dell’ebraismo europeo: mentre a occidente gli ebrei hanno potuto, almeno in linea generale, inserirsi come individui all’interno delle società di appartenenza attraverso un percorso di emancipazione e di parificazione dei diritti, nel mondo ebraico orientale le sofferenze e le insofferenze si sono tradotte, a partire dalla seconda metà dell’800, in una forte accentuazione dei processi migratori diretti verso l’America o verso l’Europa occidentale (non senza creare frizioni, per la diversità di cultura e di abitudini di vita).

Anche la Palestina naturalmente era vissuta fra le mete desiderabili, non sempre con un dichiarato intento politico, benché esso fosse presente in una parte dei migranti: essere ebrei, ha sottolineato infatti il prof. Vercelli, non vuol dire essere automaticamente sionisti, ma seguire i percorsi che la vita ci consegna e se per alcuni il progetto politico era stato fin dall’inizio esplicito, molti altri si sono acconciati alle circostanze più diverse, al pari della maggior parte dei migranti.

Al di là di alcune specificità della migrazione ebraica, ci sono infatti in essa degli elementi comuni a tutti i fenomeni migratori: la migrazione ha in effetti quasi sempre un carattere coatto – non si abbandona un luogo dove si sta bene -  e spesso è determinata da una situazione di guerra.

Non possiamo infatti far mostra di ignorare come fra le molte funzioni della guerra vi sia quella di redistribuire le popolazioni, ridisegnando le strutture demografiche dei paesi coinvolti. Un dato incontrovertibile, secondo il prof. Vercelli, sia in riferimento alle guerre passate che a quelle che sono oggi in atto, in forme più o meno dichiarate (pensiamo ai sommovimenti nell’Africa subsahariana, che coinvolgono pesantemente interi popoli, o ancora alla Siria, dove un’intera classe sociale di piccola e media borghesia operosa, la cui condizione di vita non era molto diversa da quella occidentale, è stata letteralmente spazzata via o costretta alla fuga).

In quest’ottica, il fenomeno migratorio determinato dalla seconda guerra mondiale è stato davvero impressionante: si calcola che alla fine della guerra ci fossero in Europa 40 milioni di profughi, benché alcune ricerche recenti condotte da Antonio Ferrara e Cesare Pianciola spostino molto più in su questa stima. Sono state migrazioni forzate che hanno coinvolto un intero mondo, non solo quello ebraico, anche se gli eventi catastrofici che hanno riguardato gli ebrei ci consentono, secondo il prof. Vercelli, di utilizzare la migrazione ebraica come cartina di tornasole per cogliere alcune caratteristiche dei processi migratori che è bene mettere in luce, particolarmente oggi.

 La risposta “sospettosa” al dramma della perdita

Nella migrazione ebraica successiva alla seconda guerra mondiale non troviamo infatti solo il percorso drammatico di coloro che venivano strappati dai territori d’origine e lanciati in quei luoghi di cui ora sappiamo molto, ma che hanno rappresentato per loro un’esperienza totalmente sconosciuta oltre che spaventosa. C’era anche la perdita traumatica di tutto ciò che in precedenza possedevano: i familiari, gli amici, i beni, magari modesti e proprio per questo ancora più insostituibili. Assieme a questo, di non minore importanza era la perdita di ciò che ovunque e in ogni luogo conferisce un principio di riconoscibilità, e cioè la cittadinanza. Per i sopravvissuti era divenuto di fatto impossibile certificare la propria origine, perché la giurisdizione tedesca, che aveva tolto loro, quando non la vita, questo status fondamentale, continuava ad essere vigente anche dopo la sconfitta della Germania.

Questa incertezza giuridica contribuiva a rendere ancora più difficoltoso il loro accoglimento, sempre soggetto ad un possibile “sospetto”, come è già stato messo in luce dalla dott. Mariano. Era del resto inevitabile che questo avvenisse:

Pensiamo, osserva infatti il prof. Vercelli, alle condizioni del paese accogliente – in questo caso l’Italia: un paese reduce da vent’anni di dittatura, appena uscito da una guerra disastrosa, che aveva subito l’occupazione tedesca prima, e quella angloamericana poi (certo liberatoria, ma non priva in altri versanti di alcuni elementi vessatori); un paese sconfitto su cui pesava l’onta del tradimento e che poteva solo rimettersi alla clemenza dei vincitori. Era dunque comprensibile che di fronte al sovraccarico di profughi provenienti da ogni parte d’Europa le reazioni delle istituzioni governative fossero, a dir poco, caute, e che in alcuni casi ci fosse un vero e proprio “vuoto” normativo (come nei riguardi degli ex militari internati, malvisti sia dai vincitori, come forze lavoro non utilizzabili, e sgraditi anche ai vinti, perché rappresentavano in un certo senso il simbolo della sconfitta. Solo molto più tardi fu in effetti loro riconosciuto lo status di vittime).

Era innegabile infatti che in questa massa di profughi poteva esserci di tutto, dai profittatori ai veri e propri criminali (e questo, osserva il prof. Vercelli, ci porta all’oggi: il problema principale di coloro a cui spetta di predisporre l’accoglienza è sempre quello di separare nella massa di coloro che cercano rifugio i veri profughi dagli scafisti, dai criminali, dagli uomini dei servizi segreti che vi si possono infiltrare…).

Pesava inoltre, sui sopravvissuti, una sorta di ombra, un marchio indelebile che essi stessi percepivano come se la loro stessa vita costituisse una colpa verso i molti che erano stati annientati (pur senza entrare nelle singole storie, il prof. Vercelli ritiene che non sia casuale il fatto che molti dei grandi testimoni dell’universo concentrazionario si siano poi suicidati, in qualche caso ad anni di distanza, come se la stazione terminale dell’elaborazione di un lutto collettivo fosse necessariamente la loro autosoppressione).

La latitanza degli stati, fra l’indifferenza della collettività e la generosa solidarietà dei singoli

Di fronte a queste difficoltà, era fatale che la storia dei sopravvissuti ai campi di sterminio non attirasse sempre la considerazione che meritava, anche se già allora non era ignota la natura dei campi di  concentramento tedeschi: luoghi illegittimi e illegali, dove venivano imprigionate e in molti casi soppresse, in deroga alle stesse leggi vigenti in Germania, persone che non avevano altra colpa se non quella che il partito nazista attribuiva loro, ritenendole a vario titolo “indesiderabili” vuoi per convinzioni politiche, vuoi per inclinazioni sessuali, vuoi per motivi razziali (l’esistenza di questi campi non era infatti stata tenuta nascosta dalle stesse autorità: il prof. Vercelli ricorda  a questo proposito che l’istituzione nel 1933 di  uno dei primi campi, quello di Dachau, era stata celebrata con grande enfasi dal regime appena instaurato, come una sorta di omaggio all’ordine e alla sicurezza dei cittadini).

Certamente c’erano, allora come oggi, persone ed enti che a vario titolo si prendevano cura per quanto possibile dei rifugiati, vuoi per spirito di fratellanza, vuoi per investimento umanitario o economico: ma gli stati, e in generale le autorità preposte a dare risposte, erano alquanto latitanti. Del resto questa latitanza era apparsa già ben evidente prima della guerra, nella conferenza di Evian (luglio 38), in cui era stata data una risposta negativa alle richieste della Germania di essere “sollevata” dalla gestione degli ebrei tedeschi attraverso una sorta di redistribuzione negli altri paesi occidentali (ciò avrebbe costituito un precedente, si disse allora, benché il numero dei possibili ingressi non fosse certo esorbitante). Le porte dell’America, prima molto aperte all’immigrazione, si stavano infatti richiudendo, non necessitando più il paese di ulteriori forze lavoro, senza contare che i nuovi immigrati non avrebbero potuto portare con sé i propri beni e non avevano dunque niente da offrire.

E’pur vero che nel 38 il sistema sterminazionistico non era ancora stato messo a punto, e pertanto le potenze europee, lavandosi le mani del problema ebraico, potevano tranquillizzare la loro coscienza; allo stesso tempo, si pensava ancora  di poter evitare la guerra con quello che sarebbe diventato di lì a poco il nemico da battere, ma che per lunghi anni era stato visto come un deterrente rispetto al propagarsi   dell’ideologia comunista e alle mire espansionistica dell’Unione Sovietica. Una sorta di “incantamento”, osserva il prof. Vercelli, da cui Churchill sarà il primo a riscuotersi dopo aver guardato inizialmente con simpatia i nuovi regimi fautori di un “ritorno all’ordine” antibolscevico, comprendendo che essi avrebbero divorato alla fine lo stesso liberalismo.

Il ritorno impossibile

Secondo il prof. Vercelli, questi scenari che si alternano e si intersecano costituiscono un antecedente indispensabile per capire quanto accadrà nel dopoguerra, quando sarà invece l’Unione Sovietica (uscita prostrata ma comunque vittoriosa dal conflitto e in qualche modo “beatificata” dall’enorme tributo di sangue versato) ad essere percepita come il nuovo nemico, non più da battere militarmente ma da arginare geopoliticamente. La spaccatura che si determinerà allora fra est e ovest, ancora più netta di quella precedente fra le potenze liberali e quelle fasciste, sarà infatti determinante rispetto ai problemi che sono stati evidenziati dalla dottoressa Mariano, perché in essa rimarranno stritolate intere popolazioni, aumentando a dismisura il numero dei profughi e in particolare di quelli ebrei, impossibilitati ad un ritorno.

In un quadro di questo genere, non era infatti pensabile, per gli ebrei dell’est, rientrare in paesi in cui spesso erano stati catturati con il concorso attivo delle milizie nazionaliste e collaborazioniste locali, senza contare che per essi c’era solo terra bruciata, se mai lo avessero desiderato. La maggior parte di loro sapeva bene che avrebbe dovuto scontare l’ostilità della popolazione non ebraica (il pogrom avvenuto in Polonia nel 46 è davvero emblematico, secondo il prof. Vercelli, in quanto il massacro di ebrei era stato tollerato dalle autorità e dal partito operaio unificato, che si andava organizzando e cominciava a controllare allora il territorio).

Mentre l’ebraismo italiano, sia pure con gravissime perdite, conservava dopo la guerra un nucleo da cui ripartire all’interno delle varie comunità*, l’ebraismo orientale era stato completamente azzerato, non solo nei corpi, nelle case, nelle attività artigiane o commerciali, ma anche nelle memorie: tutti i segni identitari erano stati cancellati, a partire dai registri anagrafici. Come si poteva dunque tornare in quel vuoto, di cui si aveva cognizione? (le voci corrono, nei campi, osserva il dottor Vercelli…). Quali possibilità rimanevano?



*Su questa differenza fondamentale, il prof. Vercelli considera emblematico il confronto avvenuto a distanza fra due grandi testimoni della Shoah, l’italiano Primo Levi e il rumeno Elie Wiesel. Per quanto difficile fosse stato anche per Levi il ritorno, aveva trovato ad attenderlo la sua casa, la sua famiglia, mentre il secondo aveva perduto tutto e dovette forzatamente emigrare in America, passando per Israele.

Il nesso con la vicenda palestinese

Non essendoci alcuna possibilità di ritorno, agli ebrei dell’est sopravvissuti rimanevano solo due strade percorribili, prosegue il prof. Vercelli: quella verso le Americhe, dove ci si scontrava peraltro con vincoli e limiti robusti di ordine amministrativo e politico, e quella verso la Palestina.

Qui peraltro non esisteva ancora lo stato d’Israele, ma solo qualcosa che andava lentamente definendosi, un insieme di istituzioni, di gruppi, di cooperative agricole e rurali: 600.000 persone circa che sarebbero raddoppiate nel giro di un anno, dopo la costituzione nel 48 del nuovo stato, per via dell’espulsione delle comunità ebraiche da parte dei paesi arabi (anche qui, fa notare il prof. Vercelli, per effetto di un rimescolamento geopolitico e demografico).

Era dunque un paese piccolo e fragile quello che si stava allora formando in un contesto molto problematico, con una guerra civile fra due parti della stessa corporazione araba ed ebraica: non aveva pertanto molti strumenti da offrire a chi arrivava lì nel 46/47 riuscendo a sfuggire al controllo degli inglesi, che esercitavano allora un protettorato sulla Palestina (spesso si finiva catturati e deportati nelle varie isole dell’Egeo, o riportati in Europa). L’accoglienza era forzatamente ridotta al minimo e l’integrazione resa faticosa dal fatto di non parlare la stessa lingua (gli ebrei dell’Europa orientale parlavano prevalentemente yiddish: una vera e propria lingua che aveva in sé elementi dell’ebraico liturgico e del tedesco, oltre che delle lingue slave. L’ebraico moderno era per loro del tutto sconosciuto, e del resto la stessa cosa sarebbe successa con gli ebrei provenienti dai paesi vicini, che erano prevalentemente arabofoni). Occorreva darsi da fare, e diventare  velocemente non solo agricoltori e artigiani, ma anche combattenti.

L’ antifascismo oggi: una questione aperta ma imprescindibile

Concludendo la sua ricostruzione, il prof. Vercelli osserva che erano davvero molti gli elementi ad entrare in gioco come effetto dinamico legato alle deportazioni. Mentre sappiamo tutto, o quasi tutto, sulla deportazione, soltanto da poco tempo la ricerca storica si è indirizzata a ricostruire il tema della ricezione degli ebrei sopravvissuti, anche attraverso ricerche negli archivi locali come quella esposta dalla dottoressa Mariano, che contribuiscono in modo significativo a ricostruire il quadro generale   aiutandoci a dare un senso a tematiche che sono di fatto molto attuali. La maggior parte di noi non ha infatti nessuna cognizione diretta di questi avvenimenti, e in particolare della difficile condizione dell’Italia nel dopoguerra e del duro sforzo che è stato necessario per rimettere in piedi un paese completamente “imballato”.

Eppure è davvero necessario a suo giudizio fermarsi a riflettere sulla situazione davvero spaventosa in cui l’Italia è stata condotta da un regime disastroso e disastrante, incapace di fare scelte politiche più accorte che avrebbero consentito all’Italia di uscire dalla guerra in modo ben diverso. Certo la storia non si fa con i “se” e con i “ma”, nondimeno possiamo ben pensare che l’antifascismo avrebbe assunto una diversa tonalità e che certi aspetti problematici della post-resistenza non si sarebbero generati senza l’alleanza con la Germania, che ha condotto l’Italia in quegli sconvolgimenti funesti che l’hanno devastata per due lunghi anni. E’questo, dice il prof. Vercelli, il lascito importante del ’45, che ci consegna un paese in cui non solo la fame era ancora un’esperienza concreta per molti, ma che era completamente analfabeta dal punto di vista politico e non solo e in cui le vecchie classi dirigenti – a parte quella fascista, liquidata con un colpo di stato – erano compromesse e scarsamente attendibili.

Se non ragioniamo su quel lunghissimo lavoro di tessitura che si è reso necessario per costruire, più che per ricostruire, un tessuto sociale democratico, non si comprende l’attualità dell’antifascismo e si cade nell’errore di vederlo soltanto come la faccia opposta del fascismo, come se fossero state soltanto due opinioni diverse che si confrontavano. Dal suo punto di vista occorre invece tenere presenti due situazioni completamente diverse: da un lato quella della catastrofe e della compromissione totale, dall’altro quella del tentativo di costruire un tracciato di vita democratica. Tuttavia non è facile mettersi in quest’ottica, soprattutto per le nuove generazioni. Chi ha sempre respirato l’aria della libertà non ha esperienza di cosa voglia dire esserne privati, e la parola “dittatura” rischia di perdere il suo significato, mentre portava allora con sé un’atmosfera di sospetto che avvelenava e incancreniva i rapporti sociali.

E’ pertanto attività non solo legittima ma fondamentale, a giudizio del prof. Vercelli, ricordare gli avvenimenti che stasera sono stati messi al centro del discorso: conoscere le difficili vicende dei profughi, sapere che molti, pur nella difficoltà di allora, si mossero per accogliere e per favorire la possibilità di un futuro per quei giovani i cui volti e la cui storia, nelle immagini e nei documenti mostrati dalla dottoressa Mariano, sono emersi stasera dall’ombra ( sono già stati ricordati i portuali di Genova e di La Spezi e la CGL, che allora era un sindacato unitario, oltre i molti che pur avendo ben poche risorse da spartire aiutavano comunque chi era maggiormente  in difficoltà).

Ma soprattutto è necessario interrogarsi in maniera non astratta ma molto concreta, attraverso la radicalità di quelle storie che dal passato ci portano al presente, sul significato che può assumere, oggi come allora, il possesso della cittadinanza, senza la quale la civiltà deperisce e muore. E ancora, riflettere sul bisogno di progettare il futuro. I ragazzi e le ragazze di allora avevano perso tutto, compreso il loro nome, ma puntavano sul futuro e qui ad Avigliana come in altri luoghi di sosta lo preparavano, con fatica ma con entusiasmo. Tuttavia, per pensare il futuro, conclude il prof. Vercelli, occorre conoscere il passato, non per fermarsi ossessivamente in esso, ma per trarne quei principi dinamici che ci consentono di comprendere meglio ciò che siamo e soprattutto volgere lo sguardo a ciò che dovremmo di nuovo voler essere.



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Avigliana, 25 ottobre 2017

Relazione a cura di “CircolarMente”

Quelle che seguono sono alcune fotografie relative al Campo Profughi allestito in Avigliana nel periodo 1946 - 1948 (ci scusiamo per la loro scarsa qualità visiva)