lunedì 15 agosto 2022

Il "Saggio" del mese - Agosto 2022

 

Il “Saggio” del mese

 AGOSTO 2022

«Non capisco più il mondo»: è l’affermazione su cui si troverebbe d’accordo la maggioranza delle persone di ogni parte del globo. E con ragione. Il nostro mondo è attraversato da un vero e proprio processo di metamorfosi: non è cambiamento sociale, non è trasformazione, non è evoluzione, non è rivoluzione, non è crisi. La metamorfosi è una modalità di cambiamento della natura dell’esistenza umana. Chiama in causa il nostro modo di essere nel mondo.

Sono queste le parole, tratte dal risvolto di copertina, che introducono il testo scelto come “Saggio” del mese di Agosto 2022. Sono ampiamente sufficienti a presentare il tema affrontato, in quel “Non capisco più il mondo” si sintetizzano il nostro disagio esistenziale nel vivere questa fase storica e il nostro bisogno di trovare almeno le parole per definirlo.

Ulrich Beck (1944 – 2015, sociologo tedesco, considerato fra i maggiori interpreti dei fenomeni della globalizzazione, la sua opera più influente è “Società del Rischio” 1986 Carocci Editore)

N.B. = quelle in azzurro sono citazioni testuali dal saggio, quelle in rosso scuro evidenziano dati/concetti base

[Nel saggio “La società del rischiodel 1985, presto divenuto un classico dell’attuale dibattito socio-politico, Beck ha messo a punto importanti riflessioni che anticipano “La metamorfosi del mondo”. Si tratta infatti di un’opera che rilegge l’intero percorso della modernità occidentale dal Settecento fino ai nostri giorni, evidenziando in particolare le strutturali trasformazioni avvenute a partire dal secondo dopoguerra, fino a proporre l’idea di una «seconda modernità», intesa come «modernizzazione della modernizzazione», caratterizzata dal tramonto delle certezze della prima modernità. La fine di queste certezze, sia individuali che collettive, è causata proprio dal processo di modernizzazione e ha determinato l’avvento del “rischio” come dimensione ordinaria del vivere sociale.  Il rischio ha dunque una natura strutturale essendo legato ai meccanismi stessi del funzionamento delle società contemporanee e pertanto richiede, individualmente e collettivamente, di essere fronteggiato con comportamenti e politiche consapevoli della sua incidenza. Beck lo definisce con queste parole: ….. Società del rischio non significa che viviamo in un mondo più pericoloso di quello di prima. Semplicemente, il rischio è al centro della vita di ognuno di noi e al centro del dibattito pubblico, perché oramai lo percepiamo ovunque. Ed è ovunque ….. Un’ultima precisazione: Beck non ha fatto in tempo a completare la stesura definitiva di “La metamorfosi del mondo”, la sua morte improvvisa ha infatti drammaticamente interrotto la revisione finale del testo. Lo leggiamo nella versione data alle stampe nel 2015 dalla moglie Elisabeth Beck-Gersheim, anch’essa sociologa e sua stretta collaboratrice]

Beck ha elaborato questo suo ultimo saggio prima della pandemia da Covid19 e della guerra russo-ucraina, ma l’elenco degli avvenimenti e dei processi di profondo mutamento era già nel 2015 così sufficientemente lungo e significativo da dare senso alla domanda dalla quale prende avvio la sua riflessione: “In che mondo viviamo davvero?”. La risposta che ne è seguita è, a suo avviso, sintetizzata nel termine: “metamorfosi”.

Parte I

Introduzione, prove, teoria

Cap. 1 = Perché metamorfosi e non trasformazione del mondo

Non viviamo in un mondo che sta semplicemente cambiando, “cambiamento” significa infatti che alcune cose evolvono, ma altre rimangono uguali, mentre quello che l’umanità intera sta attualmente vivendo è una trasformazione molto più radicale, un processo che sta cancellando tutte le antiche certezze e che sta facendo nascere qualcosa di completamente nuovo, diverso. Come un bruco che muore come tale per divenire farfalla, quello che stiamo vivendo è una “metamorfosi”. Non è la prima volta che succede, basti pensare, ad esempio, alla “svolta copernicana”, a Galileo che dimostra che non è il Sole a girare attorno alla Terra, ma l’esatto contrario. Da lì in poi l’uomo ha guardato in modo radicalmente diverso il cielo stellato. Oggi è in fondo la stessa cosa: tutte le stelle che credevamo fisse a formare la nostra idea di mondo non sono più tali. Con però una abissale differenza: la Terra ha sempre girato attorno al Sole, ma questa realtà era negata da dogmi religiosi, la metamorfosi attuale invece “si dispiega tutta nella realtà” e nessun dogma può negarla. Nei prossimi Capitoli si entrerà nel merito delle più significative situazioni che, fra di loro sommate, impongono il parlare di metamorfosi, ma per meglio capire la loro singola valenza, e soprattutto quella del loro insieme, è preliminarmente necessario accettare la sfida di una metamorfosi della nostra ”weltbild”, della nostra sin qui consolidata “visione del mondo”, che si è dissolta, si è  appassita. Fin qui connessa ad uno “spazio d’azione” locale, nazionale, anch’essa, come tutti i reali processi sociali, economici, culturali, politici, non può più sfuggire alla dimensione del “globale”. Questa necessaria metamorfosi della nostra Weltbild avviene entro due contrapposti poli allo stesso modo errati …. il mondo non sta finendo, come pensano i predicatori di catastrofi, e nemmeno è vicino alla salvezza, come pensano gli ottimisti che difendono il progresso …. Se come si è detto “metamorfosi del mondo” non indica cambiamento, trasformazione, evoluzione, rivoluzione, crisi, una sua iniziale definizione può allora essere quella di: una modalità di mutazione della natura dell’esistenza umana che in uno spazio ormai “cosmo-politizzato” (neologismo introdotto da Beck), è alimentata dagli “effetti collaterali” dei processi globali.

Cap. 2 = Giocare ad essere Dio

Un primo “spazio d’azione” che testimonia la profondità dei processi di mutazione riguarda intimamente l’essenza umana così come è determinata dall’ “essere genitori”. L’avvenuta metamorfosi di questa fase cruciale del vivere umana non merita di essere valutata solo per il suo intrinseco valore, ma perché le modalità con le quali si è sviluppata sono una esemplare testimonianza di cosa si debba intendere per metamorfosi. La svolta è avvenuta come “effetto collaterale” dello sviluppo delle ricerche mediche sulle modalità di concepimento, la cui finalità originaria era quella di curare i problemi di fecondità. Ma lo straordinario livello raggiunto dalla tecnologia medica ha da subito comportato una vera metamorfosi, a cascata, del concetto di “maternità” e di “paternità” sin qui universalmente condivisi. Non era questa l’aspirazione dei pionieri della medicina riproduttiva, che si muovevano nel quadro di riferimento del vecchio mondo e che certo non miravano ad essere Dio, ma una volta aperta la strada alla ricerca si sono attivati inarrestabili sviluppi (il cui lungo elenco, a partire dalla fecondazione in vitro, è ormai diffusamente conosciuto) che hanno definitivamente spezzato l’unità di “concepimento, gravidanza e nascita” in capo alle figure di “una” madre e di “un” padre. Da qui si è ulteriormente innescata, sempre con carattere di “effetto collaterale”, una altrettanto profonda trasformazione di stili di vita e di forme di famiglia. Questo processo non è però avvenuto in modo lineare e omogeneo, su di esso hanno inciso il problema dei costi (si tratta di tecniche molto care) e soprattutto la sua accettazione nelle diverse sensibilità religiose e nelle differenti regolamentazioni giuridiche, due ostacoli che nel “vecchio mondo” potevano risultare insormontabili. Non è più così nel mondo cosmo-politizzato della metamorfosi del tutto unificato dal “capitalismo di esternalizzazione” capace cioè di gestire, al di là dei confini nazionali, l’intera filiera del “concepimento, gravidanza e nascita”. Si misura in questo passaggio l’importanza del secondo aspetto della “metamorfosi del mondo dopo quello degli effetti collaterali: l’avvento del globale “cosmo-politizzato” con il superamento, in questo caso tramite aggiramento, dei confini nazionali che innesca a sua volta altri effetti collaterali. Sono infatti messi in crisi culture e istituzioni locali, sistemi giuridici nazionali, morali ed etiche consolidate. Tutto questo non avviene pacificamente, ma, allorquando una metamorfosi non è riconosciuta e affrontata come tale, con un carattere di “conflitto”. Fra singoli Stati che applicano leggi diverse, fra chi può e chi non può, fra culture, persino fra gli stessi protagonisti sempre più al centro di contenziosi legali che appaiono irrisolvibili stante la diversità e l’inadeguatezza delle fonti di diritto. Lo stesso linguaggio non sembra essere in grado di adeguarsi: nel vecchio mondo, bene o male, valeva il modo di dire “mater certa pater incertus”, oggi non è più così l’incertezza, totale, vale per l’uno ma anche per l’altra. Questo conflitto deve essere quanto prima risolto, ed il primo passo per farlo consiste nel ridefinire, globalmente, il principio della “responsabilità genitoriale”. Ma perché ciò avvenga ancora prima serve avere consapevolezza dell’avvenuta metamorfosi, nell’era degli effetti collaterali e della dimensione cosmo-politizzata del mondo.

Cap. 3 = Come il cambiamento climatico può salvare il mondo

L’incidenza della “metamorfosi del mondo” diventa ancora più evidente nella minaccia del cambiamento climatico, un orizzonte peraltro ormai certo, attorno al quale stanno giungendo alla resa dei conti finale contrapposte visioni del futuro del mondo e dell’umanità. Ma che, proprio per questa sua caratteristica sistemica, può, secondo Beck, assumere una straordinaria valenza positiva. Per sostenerlo recupera un concetto, quello di “catastrofismo emancipativo[già presente nel suo precedente saggio “La società del rischio” (vedi sopra), sarà più ampiamente sviluppato nel successivo Cap. 7]. Innescatosi come “effetto collaterale” delle logiche che hanno sin qui guidato l’intera epoca della industrializzazione globale è una minaccia strutturalmente globale tale da rendere  inadeguate politiche per affrontarlo tarate su scala locale, nazionale. Questo dato di fatto ha una duplice valenza: pessimistica e negativa perché richiede alla politica un livello di azione finora mai messo in atto, ottimistica e positiva perché impone questo livello come unica strada percorribile. La “metamorfosi del mondo” che ne deriva consiste allora innanzitutto nel riconoscere che il principio, sin qui mai messo in discussione, della sovranità nazionale non è più sostenibile, c’è urgente bisogno di passare dalle “Dichiarazioni d’indipendenza”, alla base della nascita di tutti gli Stati moderni, alla “Dichiarazione d’interdipendenza” dell’intero mondo. Consiste in questo salto culturale il principio del “catastrofismo emancipativo” che rende ineludibile la nascita di “una nuova struttura di potere mondiale”. Il salto di paradigma è totale: investe la struttura del potere, ma non di meno le logiche che devono guidare, globalmente, i processi economici e sociali. L’alternativa, tutt’altro che peregrina ma del tutto suicida, è quello del possibile emergere di egoistici assetti imperialistici, di un nuovo “colonialismo climatico” che miri ad imporre un quadro del potere globale non meno diseguale ed ingiusto di quello del colonialismo classico.

Cap. 4 = History is back! (la storia è tornata!)

History is back! non è tanto una provocatoria risposta alla proclamata “fine della storia” di Francis Fukuyama (politologo statunitense), che così celebrava nel 1992 la piena affermazione della globalizzazione neo-liberista, ma piuttosto la logica conseguenza dell’essere entrati, come si è detto, nell’era degli “effetti collaterali”. La stessa “metamorfosi del mondo” è, a ben vedere, l’effetto collaterale dei processi che hanno caratterizzato la “seconda modernità(vedi sopra). Non è finita la storia, semmai è tramontata la presunzione che il corso reale degli avvenimenti umani sia il risultato, scientificamente previsto e programmato, di scelte programmatiche, di politiche e pianificazioni istituzionali. Queste, nella migliore delle ipotesi, riescono a produrre ricadute concrete, ma limitate agli ambiti specifici ai quali mirano, mentre, nel mondo cosmo-politizzato, ben più significativi sono i processi, economici-sociali-culturali, che, non previsti e quindi non controllati, da esse si attivano autonomamente. Non è un caso quindi che siano entrate definitivamente in crisi tutte le grandi costruzioni teoriche che, immaginando un procedere della storia lungo rigidi binari tracciati da strategie adeguate, sono state sistematicamente smentite dal loro trasformarsi in qualcosa di ignoto ed incontrollabile. “History is back!” significa allora che l’attenzione deve spostarsi verso le forme e le modalità con le quali la storia concretamente si realizza. Anche questo rappresenta un fondamentale salto culturale ……. per teorizzare la metamorfosi occorre una metamorfosi del teorizzare. E’ cioè necessario ridimensionare la pretesta universalistica delle grandi costruzioni teoriche e adottare uno sguardo sul mondo “a medio raggio”, in grado di ritararsi costantemente in relazione ai segnali concreti forniti dalla reale “storia sociale”, coinvolgendo paradigmi finora considerati validi (ad es. Nord e Sud del mondo, l’Occidente e gli altri, le istituzioni a base statale, le norme alla base della democrazia rappresentativa). Ben poco può aiutare il raffronto con precedenti “forme di cambiamento “che hanno segnato la storia umana fino alla seconda modernità. Le tre più significative prese in esame da Beck hanno infatti avuto caratteristiche ed evoluzione del tutto diverse: quella del periodo, o era, assiale (cardine)  [messa a punto da Karl Jasper (1883/1969, filosofo tedesco) indica il cambiamento avvenuto tra l’800 ed il 200 a.C. in diverse parti del mondo (Cina, India, Iran, Palestina, Grecia) nel rapporto tra conoscenza, filosofia, e religione con quest’ultima assurta a posizione più rilevante] confinata nell’ambito teologico/filosofico si è rivelata incapace di promuovere veri cambiamenti nelle strutture sociali ed economiche - quella delle Rivoluzioni = inaugurata da quella Francese (alla quale, fra Ottocento e Novecento, sono seguite diverse altre, ognuna con proprie specifiche caratteristiche), si è mossa in senso opposto a quella assiale, con una visione fortemente politica basata su saldi principi valoriali universali, ma è di fatto divenuta l’incubatrice dei nazionalismi locali - quella del colonialismo = la prima forma di globalizzazione, di forte stampo imperialistico, offre alcuni  elementi di raffronto più calzanti guastati però dall’essere troppo caratterizzati dall’imposizione forzata, e interessata, di modelli socioculturali. Appare poi evidente che l’attuale “metamorfosi del mondo” presenta alcune caratteristiche del tutto originali che rendono inefficace qualsiasi confronto con quelle del passato:

ü l’essere la società globale del rischio = vale dire (integrando quanto già detto in precedenza) la fine di tutte le certezze che hanno caratterizzato la prima modernità, e di tutte le sue istituzioni nazionali, esposte senza difese all’impatto del cosmopolitismo. Non si tratta di “rischi normali”, di qualcosa di potenzialmente negativo, il loro essere globali li trasforma inevitabilmente in “mali”, tanto noti quanto irrisolvibili nei confini istituzionali classici, innescando così un meccanismo perverso: più la seconda modernizzazione cresce e più produce “mali”, più questi sono ignorati perché visti come danni collaterali della modernizzazione, più essi aumentano di dimensione e forza.

ü l’ottimismo deterministico tecnologico = ossia il permanere, ed anzi il suo rafforzarsi ogni qualvolta un ostacolo si frappone, della “fede nel progresso”, la fede nel potere salvifico garantito da scienza e tecnologia, nella crescita economica infinita. Vuoi per reale convinzione, vuoi per crude ragioni di profitto, ma è evidente che poggia su questa fede, uno dei collanti fondamentali del processo metamorfico di cosmo-politizzazione e della generazione dei “rischi globali”. La stessa resistenza anti-cosmopolita, alla base dei movimenti di ritorno al nazionalismo, là dove non coglie questo nesso e non diversamente aderisce alla “fede nel progresso”, evidenzia tutta la sua incongruità e sterilità.

Se quindi la “metamorfosi del mondo” è la sintesi di questi due processi si rende opportuno capire meglio come essa stia incidendo sugli aspetti costitutivi della “seconda modernità”.

Parte II

Temi

Cap. 5 = La disuguaglianza ai tempi della metamorfosi

La tendenza all’aumento delle disuguaglianze economiche e sociali è, da alcuni decenni, un processo consolidato che economisti e sociologi analizzano sulla base di dati economici, quelli della ripartizione percentuali della ricchezza prodotta e posseduta (redditi e patrimoni), fotografati su scala nazionale e globale, incrociati con quelli più sociali (livelli di istruzione, sistemi di assistenza sociale e pensionistica, accessibilità al mercato del lavoro, e così via). La fotografia che emerge è indubbiamente significativa soprattutto se, plasmata su più anni, consente di cogliere tendenze di medio/lungo periodo. Eppure, nel tempo della “metamorfosi del mondo” rischia di non cogliere tutte le dinamiche in corso. Da una parte i processi globali della finanza rischiano di restare troppo a lungo sotto traccia e di essere colti solo quando si manifestano compiutamente, dall’altra questo tipo di analisi non rileva in modo adeguato le conseguenze sulla disuguaglianza prodotte dal processo di riscaldamento climatico, uno degli aspetti costitutivi della “metamorfosi del mondo”. Nella “società globale del rischio” è infatti indispensabile, per comprendere anche l’evoluzione delle disuguaglianze, tenere conto di come, dove, e su chi, impattano i processi del rischio climatico, e finanziario. Il concetto di “classe di rischio” è, in questo quadro, un utile indicatore perché mette in stretta relazione le posizioni di rischio e quelle di classe, le probabili ricadute con la collocazione nella struttura socio-economica. Le analisi economiche e sociologiche classiche tendono, avendo una logica sostanzialmente “a posteriori”, a cogliere le ricadute, economiche e sociali, già attivate dai rischi globali, definendo così una “CLASSE di rischio”. La società globale del rischio impone al contrario, in una visione dinamica dei processi, di intercettare le “discontinuità” che sulle disuguaglianze possono derivare dalle “previsioni di rischio” che su di esse gravano, definendo così una “classe di RISCHIO”. Se la prima consente di capire “chi vince e chi perde” quando il cambiamento si è verificato, la seconda, con carattere anticipatorie, coglie anche le mutazioni che già intervengono nella struttura delle disuguaglianze per la sola presenza del “rischio di catastrofe(per catastrofe si devono intendere non solo e non tanto i fenomeni estremi, ma anche i processi progressivi di cambiamento radicale ed irreversibile dell’ambiente e quelli delle economie e delle strutture sociali ad esso collegate).  Nella prima rientrano, per meglio capire, le conseguenze sulle disuguaglianze di eventi catastrofici come quello dell’uragano Katrina che nel 2005 ha causato gravissimi danni sulla costa atlantica USA colpendo in particolare la città di New Orleans (furono infatti colpiti, accentuandone la sofferenza socio-economica,  soprattutto i suoi quartieri “bassi”, quelli abitati dalla popolazione povera e in gran misura di colore, con molti morti e con la perdita di abitazioni e attività di lavoro, risparmiando invece i quartieri “alti” e ricchi), nella seconda invece anche processi di metamorfosi ambientale, innescati dal cambiamento climatico, che già attivano tendenze di modificazione della struttura delle disuguaglianze (Beck cita come esempio la progressiva fine di produzioni agricole, anche di altissima qualità come quelle delle aree vinicole del Bordolese in Francia, che stanno modificando importanti fonti di ricchezza). E’ un cambio di paradigma radicale: nella “metamorfosi del mondo” il cambiamento climatico assume una più accentuata e diretta valenza di giustizia sociale, diventando una mutazione che trascina con sé la necessità di modificare modi di analisi e di previsione, e all’interno di una visione inderogabilmente “cosmo-politizzata”, la catena dei “saperi” e delle “responsabilità” utili per affrontarlo

Cap. 6 = Dove va il potere?

La domanda semplificata nel titolo di questo Capitolo può essere meglio tradotta in: …..  come avviene la metamorfosi dell’architettura dei rapporti di potere nella società mondiale del rischio? ….. Si può rispondere, secondo Beck, introducendo un nuovo concetto: i rapporti di definizione (del rischio) come rapporti di dominio. Con l’espressione “rapporti di definizione” che indica le modalità di relazione tra l’intera umanità e chi interviene per sancire l’esistenza e la gravità di un rischio globale. Un rapporto di autentico potere che non è più riferibile ai soli “rapporti di produzione” perché coinvolge soggetti molto variegati come esperti, Stati, organizzazioni nazionali e internazionali, social media, e le stesse modalità (giuridiche, politiche, scientifiche, mediatiche) di gestione della “definizione(globale? locale? normale? catastrofico?) di un rischio. I rischi globali sono infatti sempre contraddistinti da un dose variabile di “invisibilità(scarsa o nulla consapevolezza diffusa della loro esistenza) che diventa di fatto il terreno sul quale si articola la catena del potere della loro gestione. Questa invisibilità può essere “naturale” (quando il rischio è oggettivamente ancora in divenire) o artificiale” (quando il rischio è ormai ben conosciuto ma per motivazioni varie non viene reso a sufficienza pubblico). Artificiale, ad esempio, è l’invisibilità, costruita ad arte, della lunga catena dei rischi associabili all’energia nucleare, alla speculazione finanziaria, agli organismi geneticamente modificati, alla nano-tecnologia, per non dire allo stesso cambiamento climatico. Il primo fondamentale gradino per rimuovere l’invisibilità è quello “scientifico”: perché un rischio, di qualsiasi natura, sia percepito come tale dall’opinione pubblica e sia adeguatamente affrontato occorre infatti che preliminarmente sia stato riconosciuto come tale dalla scienza (compresa quelle economico/sociali). Di norma, superato questo passaggio, che non sempre avviene immediatamente ed in modo corretto, tutto il potere di definizione, e gestione, dei rischi confluisce poi nelle mani di istituzioni ed esperti, non di rado fra di loro divisi da una linea netta di demarcazione: quella tra “visione globale e visione nazionale”. Quest’ultima, molto spesso (Beck richiama a questo proposito la vicenda paradigmatica di Chernobyl, esemplare sotto diversi punti di vista), tende, per motivazioni di opportunità politica ma con una scelta di corto respiro, a ridimensionare la portata del rischio (ancora Chernobyl lo dimostra: la sua gestione da parte dell’URSS accelerò di molto il già avviato processo di frantumazione politica) ovvero ad imputare il fatto a fenomeni globale non gestibili a livello locale. Più in generale appare evidente che - se il raggiungimento della piena visibilità dipende da quali voci intervengono per informare, spiegare, e attivare adeguate reazioni - storicamente esistono catene dei “rapporti di definizione” che, per interessi di vario genere, attuano una scientifica fabbricazione dell’invisibilità, a partire dal ruolo degli stessi esperti. La decennale vicenda della gestione mediatica, e non solo, del rischio nucleare, ne è una esemplare testimonianza, con gli scienziati del settore protagonisti in una duplice veste: quella degli artefici della ricerca e quella di chi dovrebbe informare, sempre e sempre correttamente, dei rischi in gioco. Esattamente opposta è invece la fabbricazione dell’invisibilità per il rischio di cambiamento climatico avvenuta in ostinata, strumentale, interessata contrapposizione, soprattutto locale, al parere sempre più consolidato degli scienziati del clima. In un caso o nell’altro la “metamorfosi del mondo” impone una “democratizzazione del rischio”, vale a dire la costruzione di una catena dei “rapporti del potere di definizione”, simile a quella da tempo creata per quelli di produzione (ruolo sindacati, istituzioni, partiti)  ….. la combinazione tra rapporti di definizione nazionali superati e politicizzazione globale della scienza porta alla luce situazioni in cui interessi privati e istituzioni tentano di sottrarsi alla responsabilità per rischi e potenziali catastrofi ….

Cap. 7 = Catastrofismo emancipativo

Come anticipato nel Cap. 3 in ogni “catastrofe” che colpisce l’umanità è insita una potenzialità positiva: quella di dover attivare, in risposta, una adeguata reazione, come, ad esempio, è successo dopo la tragedia dei due conflitti mondiali del Novecento con la creazione di organismi globali di mediazione. Le domande che quindi si pongono nell’attuale “metamorfosi del mondo” sono: ….. il rischio climatico può innescare una rinascita della modernità? Può trasformarsi in una “mobilitazione” dell’intera umanità che non ha precedenti storici? Il procedere dell’attuale metamorfosi, così come è stato sin qui delineato, non è il risultato intenzionale di deliberate scelte, ma è il prodotto, in gran misura latente, di altri processi da tempo in opera mossi da loro specifiche finalità. In questo quadro ogni possibile catastrofe viola l’idea stessa di esistenza/sopravvivenza della civiltà umana, una “norma sacra” non negoziabile che così innesca uno “choc antropologico”, proprio perché è l’idea stessa di uomo che attaccata, e questo choc può a sua volta, se declinato come reazione positiva, dare vita ad una “catarsi sociale”.  Questa “emancipazione dal rischio” ben difficilmente può però emergere in modo spontaneo, la si attiva solo grazie ad un adeguato “lavoro intellettuale”, promosso in prima battuta da “gruppi vettori” capaci di rendere evidenti i “significati” della possibile catastrofe. La catena di questi passaggi però non è per nulla acquisita perché spesso chiama in gioco riconoscimenti di errori e colpe tutt’altro che semplici. Restando ad esempio nell’ambito del rischio di cambiamento climatico il lavoro intellettuale che deve promuovere una catarsi sociale implica il pieno riconoscimento del debito storico che l’Occidente ha accumulato verso le vaste parti del mondo che ha cinicamente, e per secoli, “colonizzato”.

Cap. 8 = La politica della visibilità

Il rapporto tra “comunicazione”, di ogni tipo e ad ogni livello, e mondo reale è un aspetto costitutivo della seconda modernità, e quindi molti sono oramai gli studi che l’hanno analizzato. Beck propone un suo originale approccio basato su due concetti: quello di “paesaggi della comunicazione” e quello di “mali pubblici”, partendo dalla constatazione (che si collega a quelle del Cap. 6 ) che i rischi globali, pur esistendo in quanto tali nel mondo reale, vengono percepiti e vissuti solo quando entrano nella sfera cosmopolita della “comunicazione”. E’ cioè possibile sostenere che lo “choc antropologico” si innesca solamente quando nel variegato mondo della comunicazione globale entrano “immagini” di un potenziale rischio …… non è la catastrofe in sé, ma la sua comunicazione simbolica globalizzata a liberare l’emozione ….. Con “paesaggi della comunicazione” si deve pertanto intendere l’insieme di soggetti e procedure di comunicazione che fa da filtro tra realtà e sua percezione, che Beck, suddivide in due distinti ambiti: quello della “pubblicità del progresso” contrapposto a quello della “pubblicità degli effetti secondari (rischi)”. Il primo racchiude, su scala in gran misura nazionale, l’insieme dei dibattiti sulle problematiche, sui successi e sulle difficoltà connesse alle idee di progresso, di crescita, di futuro. In questo ambito il rischio è quindi limitato solo ad aspetti intrinsechi a queste tematiche. Al contrario nel secondo, che si sviluppa di norma su scala globale, l’attenzione è rivolta agli effetti secondari, ai rischi,  ossia ai “mali”, che dal primo ambito possono derivare su ambiente e società intesi in senso lato. I due ambiti non condividono strategie comuni e spesso sono persino contrapposti, quello che preme all’uno può essere di ostacolo per l’altro. Quello che però qui interessa è rilevare che il “catastrofismo emancipativo” può attivarsi solo se entra in scena il secondo ambito, di norma infatti la comunicazione del primo ambito è ispirata dai “beni” del progresso, solo nel secondo ambito il discorso si volge verso i suoi “mali” e, conseguentemente, solo in esso la comunicazione diventa uno strumento fondamentale (collegato al “lavoro intellettuale” di cui al Cap. 7) per mutare i “mali pubblici (ecologici e non)” in nuovi e diversi “beni” economici e sociali. E’ importante ricordare che per Beck, come si è detto sopra, il concetto di “mali pubblici” riassume in sé l’aspetto concreto del male e quello, persino più determinante, della sua consapevolezza globale. Il ruolo sempre più centrale della comunicazione, definito in questi termini, va ovviamente riferito alla profonde mutazioni intervenute nell’ultima parte della seconda modernizzazione con l’avvento della “comunicazione digitale del mondo” che ha sconvolto la nozione classica di “sfera pubblica”. Gli evidenti vantaggi comunicativi consentiti dalle nuove tecnologie si scontrano con due ordini di problemi che sono strettamente connessi alla stessa “metamorfosi del mondo”. Un primo ordine di problemi è rappresentato dalla loro “proprietà”. La comunicazione digitale, intesa come reti solide e gestione dei flussi, è totalmente e saldamente in mano a soggetti privati motivati da innegabili ragioni di profitto. Aspetto che non può non avere riflessi sulla “partecipazione democratica” in generale e sulla stessa possibilità di innescare un “catastrofismo emancipativo”. Non meno rilevante è l’impatto del secondo ordine di problemi, quello della “qualità comunicativa”. Se il vecchio modello dei mass media basato, come in un teatro, sulla netta divisione fra attori (i produttori della comunicazione) e spettatori (i suoi utilizzatori) non consentiva di uscire dalla dimensione nazionale, il nuovo modello della comunicazione digitale ha cancellato questa separazione ….. tutti sono contemporaneamente attori e spettatori …… La potenzialità positiva sociale di questa mutazione è stata però molto in fretta annullata dalla bulimia comunicativa messa in moto dalle infinite potenzialità tecnologiche. La valanga di dati presenti nella Rete, che impedisce una vera scelta qualitativa, ha di fatto reso lo spettatore/attore una entità indefinita, impersonale. Il mondo della comunicazione si è individualizzato, frammentato, in modo estremo. I “dati” che circolano in questo universo comunicativo non sono più “rappresentativi” della cosmo-politizzazione, ma sono loro stessi un attore che “la produce”. Questo “rischio digitale” non ha solo un evidente riflesso sulle prospettive di catastrofismo emancipativo, ma sta letteralmente mandando in soffitta molte istituzioni.

Cap. 9 = Rischio digitale: il fallimento delle istituzioni

Un aspetto specifico caratterizza il rischio digitale: quello di essere costituzionalmente “invisibile”. Se per tutti i rischi fin qui esaminati il loro procedere “naturale” implica, prima o poi, la loro “visibilità”, così non è per quello digitale. Anzi più la possibile catastrofe ad esso legata, “il controllo egemonico globale dei dati”, si avvicina e meno è visibile. Consiste in questa contraddizione, nel suo essere una minaccia “immateriale”, il principale ostacolo al manifestarsi, come per gli altri rischi “normali”, di un potenziale catastrofismo emancipativo. In questo caso infatti è molto improbabile che si manifesti quello choc antropologico che, come si è detto, può indurre ad una catarsi sociale. La violazione della nostra libertà avviene in modi impercettibili, eppure essa può incidere su tutte le libertà individuali e collettive. Il controllo totale delle nostre vite che, inconsapevolmente, abbiamo sempre più trasferito nella Rete, è ormai molto più di uno scenario fantascientifico. Per squarciare questo velo possiamo finora contare solo su fughe di notizie dall’interno (Beck cita in particolare quella che ha avuto come protagonista Eric Snowden, informatico, che nel 2013 ha pubblicamente denunciato l’esistenza di un programmi di controllo di massa, PRISM, messo a punto dalla NSA, l’Agenzia Nazionale di Sicurezza americana, presso la quale lavorava). I complessi meccanismi specifici alla base del controllo globale dei dati rientrano nel più generale processo di ritiro dello Stato, in tutte le sua articolazioni, da funzioni fino a non molto tempo addietro di sua esclusiva competenza con conseguente vantaggio del “ruolo del privato”, che come si appena detto già possiede l’intera Rete. E’ questo il peccato originale, molto difficilmente emendabile stante questa totale “invisibilità”, che ha comportato il totale fallimento delle istituzioni nel compito di gestione e controllo dei meccanismi di accumulo dati informatici. Hanno fallito le istituzioni nazionali, totalmente spiazzate dalle caratteristiche globali della Rete, e quelle sovranazionali che non detengono alcun reale potere in merito. Se con il termine “rivoluzione digitale” si intende il cambiamento sociale innescato, su scala globale, da una incontrollata tecnologia, quello di “metamorfosi digitale” può allora indicare l’insieme di effetti collaterali che tale rivoluzione sta creando. I quali, a loro volta, danno vita ad una umanità metamorfizzata nella figura degli “uomini digitali”, esistenze che stanno cancellando il confine fra “on-line” e “off-line” per entrare in una realtà ancora tutta da comprendere.

Cap. 10 = La nuova politica globale cosmopolita

La metamorfosi digitale rappresenta il miglior esempio per comprendere che la più generale “metamorfosi del mondo” non può rappresentare, proprio per il suo essere in gran misura determinata dal gioco degli effetti collaterali, un destino già compiutamente scritto. Nella zona di penombra tra l’era nazionale che sta morendo e l’era cosmopolita che sta nascendo possono prendere corpo prospettive emancipative piuttosto che peggiorative. Sono due i casi esemplari presi in esame da Beck per avvalorare questa constatazione:

Ø la metamorfosi della politica europea = la costruzione della UE fin qui avvenuta evidenzia un ibrido metamorfico in trasformazione continua e contraddittoria. E’ tutto da scrivere il finale del processo di crescente cooperazione ed integrazione di Stati-nazione ancora fortemente legati alla propria storica identità. La loro metamorfosi verso forme unitarie di governo con progressiva cessione di potere nazionale è figlia di una iniziale scelta valoriale - la cui realizzazione ha, sin qui, innescato molti “effetti collaterali”, tanto imprevisti quanto difficili da governare – che non è stata confortata da un adeguato dibattito pubblico e da coerenti procedure decisionali, essendosi concretizzata attraverso decisioni giuridiche in forma di “trattati”. Alla definizione giuridica, non poco controversa là dove la scelta unitaria è entrata in conflitto con le costituzioni nazionali (situazione non poco aggravata dal costante e controverso allargamento della UE), non si è accompagnata una pari “teoria politica dell’Europa Unita”. Non ha poi aiutato la contraddittoria divisione dei poteri e delle competenze delle stesse istituzioni europee, a partire dalla BCE (Banca Centrale Europea) e dal rapporto tra Parlamento Europeo e Consiglio Europeo (riunisce Capi di Stato - Primi Ministri delle singole nazioni). Emerge da questo quadro un processo metamorfico incompleto e fragile, che da una parte vede la “farfalla” UE ancora in divenire e dall’altra il “bruco” Stato-nazione tutt’altro che scomparso per quanto ormai in via di mutazione. Una metamorfosi “a metà” che non poco incide sulla capacità dell’Europa Unita di governare al meglio i tanti effetti collaterali, sia quelli suoi specifici sia quelli globali

Ø La Cina e la metamorfosi pianificata = La Cina rappresenta l’esatto opposto. Tanto complessa, confusa e contraddittoria, è la metamorfosi europea, tanto è definita, controllata e pianificata, quella cinese. Beck lo afferma ricostruendo (sulla base delle prese di posizione del “Quotidiano del popolo”, la voce pubblica del Partito Comunista Cinese) il percorso storico dell’atteggiamento della Cina verso il processo di cambiamento climatico. Nell’arco degli ultimi cinquant’anni si è assistito ad una progressiva mutazione: in una prima fase in piena Rivoluzione Culturale (attuata dal 1966 da Mao Tse-tung per modificare radicalmente la struttura del potere politico cinese) ad un iniziale categorico rifiuto dell’esistenza del rischio è seguita una parziale ammissione, con l’intera colpa attribuita al capitalismo occidentale, e poi un secondo silenzio sdrammatizzante dei primi evidenti segnali di problematiche interne (ancora all’insegna del motto “il socialismo è l’antidoto al disastro). In una seconda fase, Rivoluzione Culturale finita, si passa ad un aperto riconoscimento del rischio, globale e nazionale, che, confidando nella forza della scienza cinese, chiama tutto il popolo cinese a sostenere le politiche del governo (se NOI non facciamo qualcosa le conseguenze saranno gravi, così citava lo slogan prevalente) e mantenendo forte la critica verso i paesi capitalisti. Questa vicenda cinese dimostra che in un contesto istituzionale di forte ed esclusivo accentramento del potere la stessa  “metamorfosi del mondo” potrebbe essere gestita, se non pianificata, e quindi piegata a ragioni di potere politico interno.

Cap. 11 = Comunità di rischio cosmopolite

A mezza strada fra la dimensionate globale e quella nazionale, investite, come si è visto, in modo diseguale dalla metamorfosi del mondo, si è progressivamente venuta a collocare una terza dimensione che sembra potenzialmente in grado di vivere in modo diverso l’era dei rischi globali: quella rappresentata dalle grandi megalopoli, dalle grandi città mondiali. Le quali sono i contesti ambientali più esposti a molti dei rischi legati al cambiamento climatico e, al tempo stesso, strutture urbanizzate, capaci di ospitare svariati milioni di cittadini, nelle quali si concentrano risorse, competenze, esperienze, centri di eccellenza, che di fatto, in molti casi, già travalicano la dimensione nazionale. Le “città mondiali”, sociologicamente definite da Beck come “comunità di rischio cosmopolite”, si stanno infatti rivelando un laboratorio avanzato sia per lo “shock antropologico” che per la “catarsi sociale” che si sta muovendo sulla strada della comprensione della dimensione cosmopolita ad un velocità ben maggiore di quella degli Stati nazionali. E’ in questo soggetto che si possono cogliere importanti segnali di sensibilità verso un possibile “catastrofismo emancipativo”. Una sensibilità che si sta concretizzando nella condivisione delle rispettive esperienze e nella definizione di comuni progetti migliorativi.  Non si può già parlare di una vera e propria rete, così come non si possono omogeneizzare più di tanto situazioni molto diverse tra di loro (un conto sono le megalopoli tecnologizzate dell’Occidente un altro quelle delle “favelas” di molte situazioni del Sud del mondo), ma quel che è certo che la messa a fattore comune, lungo percorsi ancora informali e non   istituzionalizzati (ad esempio delle politiche di trasformazione delle modalità di traffico urbano) può rappresentare l’inizio di un importante processo di ridisegno istituzionale che potrebbe avere notevole incidenza sul procedere della metamorfosi del mondo. ….. le alleanze tra metropoli sono i nuovi spazi della speranza climatica, nessun altra forma di aggregazione è meglio attrezzata per sperimentare, inventare e realizzare, le nuove architetture di decisione politica …..

Parte III

Prospettiva

Cap. 12 = Generazioni del rischio globale

La metamorfosi del mondo non viene certamente vissuta allo stesso modo dalle diverse generazioni. Quelle più giovani, un mondo a sé non poco variegato e complesso, sono sicuramente quelle che di più si stanno confrontando con la frattura che attraversa questa fase metamorfica fra la dimensione nazionale, per loro rappresentata dai punti di riferimento familiari, scolastici e sociali in genere, e quella globale, che comprende il loro vasto mondo dei social. Se quindi esiste una “generazione della metamorfosi” occorre però al contempo chiedersi se sia in corso anche una “metamorfosi della generazione”, per farlo Beck introduce il concetto di “generazione del rischio globale”. Il modello fin qui consolidato di rapporto generazionale in grado di assicurare una certa stabilità sociale e politica era basato sulla trasmissione di saperi e culture dalle vecchie alle nuove generazioni. L’irruzione della rivoluzione digitale (o meglio ancora della metamorfosi digitale, vedi Cap.9) ha stravolto questo modello, ed uno dei suoi più importanti effetti collaterali è rappresentato dalla sua sostituzione con il mondo tecnologizzato della comunicazione e dei social. Paradossalmente sono sempre di più le attività ordinarie, i campi del vivere quotidiano, in cui sono le nuove generazioni, già nate e cresciute come “esseri digitali”, che “insegnano” a quelle più anziane. Questa metamorfosi della generazione non può non tradursi in situazioni di conflitto inter-generazionale. Là dove i linguaggi, i punti di riferimento e di visione sul mondo, sono alternativi diventa oggettivamente difficile il dialogo, la reciproca comprensione, al punto da rendere incolmabile la frattura fra le rispettive idee di “cultura”, di “coscienza del mondo”: le vecchie e le nuove generazioni, pur essendo contemporanee, non vivono “nello stesso tempo”. Questa distanza generazionale è inoltre resa ancor più complessa dalla diversa velocità con le quale le diverse aree del mondo sono interessate dalla metamorfosi: il divario fra Occidente e “resto del mondo” consiglia prudenza nell’omogeneizzare globalmente questa frattura generazionale (Beck già nel 2009 aveva introdotto il concetto di “costellazioni generazionali”). Incidono la diversità di condizioni economiche, e di disuguaglianze, delle relative aspettative di cambiamento, del livello di istruzione e del suo rapporto con il mondo del lavoro. La conseguenza che deriva da tutto ciò è che anche nelle ultime generazioni la divisione fra le diverse parti del mondo implica un differente rapporto con la seconda modernità: vissuta con una certa insofferenza dalla parte “ricca” della costellazione generazionale, e al contrario ancora sospirata da quelle “povere”. Se la “metamorfosi della generazione” resta elemento fondamentale per la comprensione, e la conseguente gestione, dell’intera “metamorfosi del mondo”, uno sguardo davvero cosmopolita fa comprendere che la “disuguaglianza globale e locale” rappresenta un tema chiave del futuro perché (come si è visto nel Cap. 5) resta ancora il terreno comune, per quanto da ogni generazione vissuto a modo suo, per affrontare la complessità dell’era del rischio globale.



lunedì 1 agosto 2022

La Parola del mese - Agosto 2022

 

La parola del mese

Una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili

in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

AGOSTO 2022

E’ opinione di molti che un importante contributo alla definizione e alla realizzazione di un diverso modello di sviluppo possa venire dal connubio delle idealità “di sinistra” con quelle “ambientaliste”. Non si tratta soltanto della realizzazione di alleanze, più o meno organiche, fra partiti e movimenti “rossi” e “verdi”, ma del più arduo ed ambizioso processo di costruzione di una nuova visione strategica che miri a tenere strettamente connesse giustizia sociale e compatibilità ecologica. Quanto concretamente sin qui avvenuto non sembra però essere di gran conforto. Non hanno infatti dato gran prova di sè le, peraltro limitate, esperienze di governi “rosso-verdi”, i quali hanno semmai evidenziato, con il loro zoppicante procedere, il permanere di reciproche profonde diffidenze: da una parte quella per una visione politica esclusivamente concentrata sull’ambiente, e quindi socialmente troppo asettica e neutrale, dall’altra quella di una idea di sviluppo ancora troppo condizionata dall’ “industrialismo” di novecentesca memoria e dal mito di una irrinunciabile “crescita infinita”. E’ difficile districarsi in questo autolesionistico intreccio, ma una duplice constatazione storica si impone: da un lato va riconosciuto che il “pensiero ambientalista” è di recente costruzione e non poco condizionato, nel suo nascere e formarsi, dalla altrui sottovalutazione, se non vera negazione, delle problematiche ecologiche, dall’altro il permanere di una eredità teorica, quella marxista, certo non più giovane e da sempre così rigidamente interpretata da aver fatto proprie, nella realtà delle cose, il “feticismo delle forze produttive” e l’idea antropocentrica di una natura ad esclusiva disponibilità della crescita economica. Non mancano però alcuni segnali confortanti, è ad esempio sempre più forte, in campo ambientalista, la consapevolezza che una reale inversione di tendenza presuppone la messa in discussione dell’attuale modello di sviluppo nella sua interezza, rapporti sociali compresi. Nell’altro campo non sono poi poche le proposte politiche che collegano con pari dignità la finalità della giustizia sociale e quella della sostenibilità ambientale, lo testimoniano ad esempio, per restare nel contesto italiano, esperienze come quella del “Forum delle disuguaglianze” piuttosto che, in ambito torinese, quella di “Sinistra ecologista”. Con un di più, di carattere teorico: da alcuni decenni si sono affacciate significative riletture del corpus teorico marxista attente a cogliere spunti, fin qui inesplorati o trascurati, che vanno esattamente in questa direzione. Si è infatti aperto nel campo degli studi marxisti un preciso filone che punta a fare luce su quella che solo fino a vent’anni fa era considerata una “contraddizione in termini”, una sorta di eresia: “l’ecologia di Marx”. In questo post proponiamo una veloce rassegna di queste riletture, usandola come spunto per proporre come Parola del mese di Agosto 2022 …..

MATERIALISMO (ecologico)

Questa nostra veloce rassegna si basa su due saggi, o meglio su un saggio e sulla sintesi/recensione di un secondo. Nel primo il titolo dell’introduzione cita esattamente: “Per un materialismo ecologico” ed il materialismo richiamato è proprio quello marxista:

……. La concezione filosofica classica del materialismo”, che interpreta eventi naturali e storia umana assumendo lamateria” come fondamentale principio esplicativo, è stata sviluppata in quella del materialismo storico scientificoda Marx e da Engels in diretta polemica con la filosofia hegeliana. Il nucleo della loro concezione materialistica della storia sta nell’affermazione che gli uomini, i quali vivono e producono in una data società, si trovano a muoversi entro «determinati rapporti necessari e indipendenti dalla loro volontà», che sono i rapporti di produzione; questi costituiscono la struttura economica della società, la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura dei rapporti giuridici e politici, la vita intellettuale, morale e religiosa, e soprattutto le forme determinate della coscienza sociale. Nelle condizioni materiali determinanti soprattutto sono le forze produttive (strumenti di produzione, gli uomini che li producono e li muovono, le esperienze e le abitudini di lavoro, i beni prodotti) e i rapporti di produzione (sistemi di produzione: bottega, manifattura, industria; e relazioni di lavoro: schiavitù, artigianato, salariato), che nel loro insieme caratterizzano l’ordinamento di una data epoca storica (schiavismo, feudalismo, capitalismo) …….. Questa concezione ha il suo fondamento nel principio che “la vita non è determinata dalla coscienza, ma la coscienza è determinata dalla vita”, che “la coscienza non può mai essere qualcosa di diverso dell’essere consapevole” perché “la produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza è direttamente intrecciata con la vita materiale e con l’attività e lo scambio fra gli uomini” …….  l materialismo storico marxiano è stato declinato con modalità diverse da numerosi pensatori……ed è stato assunto, per opera soprattutto di Stalin, a ideologia ufficiale dell’URSS e di molti partiti comunisti, trasformandosi in una sistema dogmatico e chiuso ……… (dal Dizionario filosofico on-line Treccani)

I due saggi sono rispettivamente:


di Kohei Saito (1987, giapponese, giovanissimo professore universitario di Economia Politica presso l’Università di Osaka, autore di diversi saggi sul marxismo)

Questo testo del 2016 (il titolo in italiano cita esplicitamente “La natura contro il capitale. L’ecologia di Marx nella sua critica incompiuta del capitale”) è al momento disponibile solo nelle versione in tedesco e francese, ma una sua accurata sintesi è reperibile on line nel sito “pungolo rosso.wordpress.com”. Più facilmente reperibile è invece

di Alfred Schmidt (1931-2012, filosofo tedesco appartenente alla scuola di Francoforte, stretto collaboratore di Theodor Adorno e di Max Horkheimer

Si tratta di un saggio (in effetti la sua tesi di dottorato) edito in Italia per la prima volta nel 1969, che ha avuto numerose riedizioni nelle quali Schmidt ha di volta in volta ri-commentato sé stesso precisando sempre meglio il proprio pensiero. A testimonianza del rinnovato interesse verso il “materialismo ecologico” è stato ristampato, essendo ormai divenuto un “classico” della letteratura su Marx, nel 2020 con una interessante prefazione di Riccardo Bellofiore (1953, docente di Economia Politica presso l’Università di Bergamo)

Ambedue questi testi operano una approfondita disamina a tutto campo delle parti dell’opera omnia di Marx che di più consentono di dedurre il suo concetto di “natura”, e di ognuna di esse analizzano genesi, collegamenti e significato. Sono quindi saggi di notevole complessità filologica e filosofica che va ben oltre lo spazio e lo scopo di questo post. Ci siamo pertanto limitati a recuperarne i passaggi che, a nostro modesto avviso, di più consentono di acquisire un minimo di conoscenza di un aspetto del marxismo sin qui colpevolmente sottovalutato.

……………. Come si è detto da alcuni decenni si sono moltiplicati gli studi dell’opera di Marx alla luce delle crescenti e pressanti problematiche ecologiche. Lo scopo è quello di capire se, e in che misura, il lavoro di Marx possa aiutare a meglio interpretarle e quindi a meglio formulare risposte appropriate. Si fronteggiano due tendenze: una, di più lontana origine, ritiene che l’opera di Marx non avrebbe nulla da insegnarci su questo terreno, essendo prigioniera di un prometeismo ottocentesco tutto teso ad esaltare, non diversamente dallo spirito capitalistico, la crescita delle forze produttive. Al punto da rendere cieco il movimento socialista e comunista, lungo l’intero suo percorso storico, della dinamica del disastro ecologico in corso, avendone quindi una specifica quota di responsabilità.  Invece per altri - Schmidt, Bellofiore, Saito compresi - l’opera di Marx, correttamente valutata, non solo testimonierebbe una sicura sensibilità ecologica, ma farebbe emergere prospettive originali sia per quanto riguarda la comprensione dei presupposti teorici della catastrofe ecologica, sia per la formulazione di proposte politiche per cercare di affrontarla. Questo secondo filone interpretativo basa queste sue considerazioni sulla rilettura di tutta la produzione teorica di Marx partendo dagli scritti giovanili, per finire ai suoi ultimi scritti - in buona misura non sistematizzati in forma definitiva vista la sua morte prematura - passando per la grande mole di quaderni di appunti e di note a margine che hanno accompagnato l’evoluzione del suo pensiero, quello sulle questioni relative al concetto di natura compreso. Ambedue queste scuole di pensiero concordano sul fatto che Marx comunque non abbia avuto tempo e modo per elaborare una sua teoria sistematica della natura e che quindi ci si trovi di fronte ad intuizioni, suggestioni, accenni che richiedono accurati l’approfondimenti. L’iniziale interrogarsi di Marx sulla “natura” ha sicuramente una sua ragione d’essere nella sua ferrea volontà, di matrice tutta politica, di “occuparsi di economia”, ma, in questa sua fase giovanile, esso resto ancora strettamente connesso a considerazioni “filosofiche”, misurandosi in particolare con le contrapposte idee di natura di Hegel  (1770-1831, filosofo tedesco) e Feuerbach (1804-1872, filosofo tedesco), i due rappresentanti  di maggior rilievo della scena filosofica tedesca del tempo. Se Hegel, coerentemente con il suo idealismo, considera la natura un semplice “derivato dell’idea” - l’idea, di per sé stessa, è puro pensiero astratto e quindi per procedere dialetticamente deve proiettarsi “fuori”, deve essere “altro”, la natura, in quanto tale, non è nulla di più di questo altro, una sorta di alienazione dell’idea di natura – per Feuerbach, in netta contrapposizione, la natura, che esiste in quanto tale, è la base materiale di ogni idea, quella di Dio compresa. Marx, il Marx giovane filosofo, si muove sulla scia di Feuerbach, ma lo scavalca procedendo oltre con considerazioni che già si collegano alla sua successiva attenzione ai processi economici. Nei suoi “Manoscritti economici-filosofici(1844) scrive ……… la natura presa astrattamente, per sé, scissa dall’uomo, è nulla per l’uomo …… Lontano da Hegel quanto da Feuerbach Marx non ha interesse per una visione ontologica della natura in quanto tale, se essa certamente è, come “soggetto”, la totalità di ciò che esiste, uomo compreso, per l’uomo assume però valore reale solo nel momento in cui viene ”materialisticamente” coinvolta nel vivere umano, divenendo “oggetto” della prassi umana. In questo senso, come bene evidenzia Bellofiore riprendendo le parti di Schmidt dedicate a questo aspetto, la natura, da Marx definita come “corpo non organico dell’umanità”, è in effetti l’unico oggetto di conoscenza, è il mondo che diventa “sensibile”, conoscibile. E ciò avviene quando trovano sintesi, incontro, da un lato l’uomo ed il suo lavoro e dall’altro la natura ed i suoi componenti. Sta in questo primo presupposto la costruzione del concetto di natura in Marx: essa non è né semplice materia, come per Feuerbach, e neppure, come per Hegel, proiezione dello spirito, ma la fondamentale controparte di un costante “processo” di interazione con l’uomo nel quale essa è al tempo stesso soggetto, perché racchiude in sé l’uomo stesso, ed oggetto, perché è da essa, e su di essa, che il lavoro prende forma, e si completa. Volendo già qui anticipare possibili considerazioni “ecologiche” si potrebbe allora affermare che con questa concezione - che assolutamente non va ridotta, come peraltro da non pochi fatto, ad una esaltazione antropocentrica – Marx pone sulle spalle dell’uomo l’intera responsabilità dello stato di salute della natura, dell’ambiente; il loro eventuale guastarsi non avrebbe infatti altri responsabili se non colui che, riducendola ad oggetto, la ingloba pienamente nella sfera del suo lavoro. Non solo: già in questa fase giovanile emergono i presupposti di una seconda decisiva considerazione, ben più sviluppata nelle opere della maturità. In buona misura poggia infatti su questa idea della natura come soggetto/oggetto del processo di inter-relazione con l’uomo, l’intero concetto marxiano del “materialismo storico”, della storia vista come progressivo sviluppo di rapporti sociali determinati dalla struttura economica, dal possesso dei mezzi di produzione. Questo concetto si colloca tutto all’interno dell’idea, appena prima evidenziata, che l’intera conoscenza umana della realtà esterna, natura compresa, rispecchi pienamente le relazioni storicamente mediate fra gli esseri umani tanto da essere da queste stesse conformata e definita ……. non esistono “fatti” che possano essere conosciuti estrapolandoli dal vero “oggetto della conoscenza” che è la società umana nel suo insieme ….. Collocando in questo ambito dialettico il concetto di natura si potrebbe allora dire - con una dose non banale di semplificazione utile però come sintetica immagine storica - che la rivoluzione agricola del neolitico mette fine alla lunga fase del comunismo primitivo dell’uomo cacciatore e raccoglitore e, dando così forma concreta allo stretto intreccio di natura ed umanità nella dimensione esistenziale del “lavoro”, da pieno avvio anche alla storia intesa come evoluzione dei rapporti sociali di produzione, nelle varie forme da essi assunte fino alla fase finale del capitalismo. Se, non diversamente da prima, si volessero azzardare anche in questo passaggio letture “ecologiste” si potrebbe intravedere in questo inglobamento della natura nei rapporti di produzione per tramite del “lavoro” una spiegazione di fondo della depredazione della natura, dell’ambiente (come si vedrà successivamente Marx ben intuisce il rischio di sconvolgimento ambientale). Se per l’uomo cacciatore/raccoglitore il rapporto con la natura era finalizzato, non diversamente da ogni altro animale, al soddisfacimento dei “bisogni primari”, il “lavoro”, ed i “rapporti di produzione” su di esso basati, rompono in modo irreversibile questa primordiale unità uomo/natura sino a divenire la costante dimensione universale dell’esistenza umana. Depredazione ambientale e ingiustizia sociale avrebbero pertanto una comune matrice proprio nell’idea, suggerita da Marx, di una natura sottomessa al soddisfacimento della costante generazione dei nuovi “bisogni artificiali(feticismo delle merci) indispensabili per il mercato capitalistico e le sue logiche di profitto. Va inoltre precisato che sia Schmidt che Saito ampliano ulteriormente questa più immediata lettura: la distruzione dei “fondamenti naturali della vita” (natura/ambiente) non è riducibile a queste sole logiche, anche nelle pagine di Marx sono infatti rintracciabili passaggi che lasciano intravedere una accusa alle forme stesse “dell’industrialismo e del progresso”, delle quali il capitalismo rappresenterebbe quindi solo la versione più esasperata. Se così fosse, e così pare essere sia per Schmidt che per Saito, sarebbe totalmente messa in crisi la lettura troppo meccanicistica dell’idea di Marx del superamento del capitalismo proprio grazie al definitivo compimento dello sviluppo da esse avviato. Sono diversi i passaggi, da ambedue recuperati e riletti, in cui emerge un Marx che al contrario denuncia, seppure in forme non definitivamente strutturate, una prospettiva di sviluppo che avvilisce e disprezza la natura, in cui delinea la necessità di un “limite nel prelievo” delle risorse, in cui si preoccupa di ristabilire preesistenti condizioni naturali. Sembra allora possibile cogliere, come ben richiamato da Bellofiore, che al pur centrale schema della natura come soggetto/oggetto del lavoro, definibile come “mediazione sociale della natura”, Marx avesse l’intenzione, non avendo però il tempo per portarla a compimento, di affiancarle l’esatto opposto, ossia una permanente “mediazione naturale della società”. Là dove la natura è in prima istanza ridotta a matrice materiale del lavoro e dei rapporti di produzione si deve installare la consapevolezza del ripristino di una “totalità della natura” che recuperi l’origine dell’uomo in essa. Riportiamo qui il passo del saggio di Schmidt che meglio riassume questo concetto, ……… qui si conferma l’idea (di Marx) che il mondo forma una unità materiale. Sarebbe un gran guadagno se l’umanità, rinunciando ad una crescita illimitata, si disponesse a vivere in migliore armonia con il sistema della natura …….. Ed è questo il passo che di più gli consente di intitolare, come abbiamo visto, l’introduzione del 1993 alla versione rivista del suo saggio “Per un materialismo ecologico”. Il salto dalle intuizioni materialistiche del primo Marx alle considerazioni, purtroppo non portate a pieno compimento, più riflessive del suo ultimo periodo è colmato, soprattutto nella rigorosa ricostruzione filologica fatta da Saito, da quella mole sterminata di appunti, commenti, riprese, sottolineature, che Marx accumula lungo tutta la sua. E’ in questo patrimonio, composto da suggestioni di varia natura spesso provenienti da discipline scientifiche e che non smette di fornire conferme e sorprese, che si trovano spunti fondamentali per comprendere l’origine e la portata di tale salto. Ne citiamo qui alcune che, anche se lette in successione nella loro disorganicità, riescono comunque a dare l’idea  di un fermento analitico in continua evoluzione proprio sulle tematiche ambientali:

*   In un passo dei “Grundrisse” (1857-1858) compare una nuova nozione del tutto assente nei Manoscritti del 1844, quella dello “scambio di sostanza tra uomo e natura”, vale a dire “metabolismo”, un concetto che Marx mutua dagli studi biologici di Justus von Liebig (1803-1873, chimico accademico tedesco) che lo usano per indicare il sistema di scambi di sostanze diverse tra le parti di un organismo vivente. Marx lo utilizza per designare sia gli scambi materiali interni alla società (metabolismo sociale), sia gli scambi materiali interni alla natura (metabolismo naturale), ma soprattutto gli scambi materiali tra gli uomini e la natura, evidenziando con durezza che è proprio quest’ultimo metabolismo che il capitale viene a sconvolgere, rompendo l’unità immediata tra l’umanità e il suo corpo inorganico

*   In diversi appunti Marx riprende da Liebig anche la sua teoria biochimica della crescita vegetale, in particolare là dove viene evidenziato la necessità della “restituzione” alla terra dei nutrienti biochimici che la rendono fertile, una operazione indispensabile ma che ha un “limite biochimico” oltre il quale la restituzione non avrà più effetto duraturo. Su queste basi Marx elabora in appunti, alcuni dei quali diventano passaggi compiuti del "Capitale(prima pubblicazione 1867), una critica radicale alle logiche dell’agricoltura capitalistica così sintetizzata: …… ogni progresso dell’agricoltura capitalistica è un progresso non solo nell’arte di depredare l’operaio, ma anche nell’arte di depredare il suolo; ogni progresso nell’incremento della sua fertilità per un certo periodo, è insieme un progresso nella rovina delle sue sorgenti perenni.

*   L’interesse verso la produzione agricola rappresenta una costante negli studi marxiani, sui quali, quantomeno per un certo periodo, è stata forte l’influenza degli studi scientifici di Liebig. E’ infatti sulla base di questi che Marx aderisce alla tesi dei rendimenti agricoli decrescenti. In alcuni passi dei Manoscritti del 1863-1865 chiarisce bene che esistono limiti assoluti alla modificazione antropologica della natura, che occorre rinunciare all’idea di un dominio totale sulla natura e di un culto della crescita cieca delle forze produttive. L’esatto opposto quindi dell’idea stereotipata di un Marx cultore del progresso infinito.

*   Un concetto che viene poi ripreso ed ampliato nella parti del Capitale dedicate in modo specifico proprio alle modalità della produzione agricola, ma con considerazioni che hanno una valenza generale per il rapporto uomo – natura, rese possibili dal superamento della proprietà privata. Il regime di gestione collettiva dell’agricoltura deve a suo avviso essere improntato al rigoroso rispetto dei limiti fisiologici imposti dalla Terra stessa

*   In fasi successive Marx sembra prendere alcune distanze dall’approccio comunque “chimico” di Liebig essendo stato suggestionato dagli studi di Carl Fraas (1810-1875, botanico e agronomo bavarese) che hanno al loro centro il rapporto tra vegetazione e clima. Siamo in anni ancora lontani dalle evidenze del processo di riscaldamento climatico ormai così drammaticamente evidenti ai giorni nostri, e molte delle osservazioni “scientifiche” del tempo sembrano, oggi, decisamente inadeguate. Non sfuggono a questa insufficienza gli stessi studi di Fraas, ma resta, ancora oggi, significativa la sua intuizione del rapporto fra attività umane e clima (nei suoi studi filtrato dalle modalità di produzione agricola). Ogni ipotesi su quali sviluppi avrebbe potuto avere sulla stesura del Capitale l’interesse di Marx verso questi studi è priva di adeguati fondamenti. Resta però significativa perché anch’essa smentisce, con la sua valenza di dubbio radicale, l’immagine, tanto stereotipata quanto errata, del Marx profeta del radioso avvenire dello sviluppo infinito

*   Al di là poi della pur giustificata ed importante possibile scoperta di un “materialismo ecologico” emerge dalla rilettura del suo pensiero fatta sia da Schmidt, così come evidenziato nella prefazione di Bellofiore, e sia da Saito un tratto esemplare di Marx: la sua curiosità senza limiti e steccati. Marx non smette mai di sviluppare e approfondire i suoi precedenti risultati di ricerca, da lui sempre considerati provvisori, confrontandoli con nuovi campi, nuovi problemi, nuovi autori, affinandoli, rettificandoli, mettendoli in parte in discussione, o anche abbandonandoli, per aprire nuove strade di ricerca, per tracciare nuove prospettive, per porre nuove domande o per  ripensare a vecchie questioni in modo nuovo. Esattamente quello che è mancato in molti suoi successivi interpreti.

*   Questo grave limite filologico, e politico, è ancor più grave proprio perché ha di fatto ignorato la sua possibile “sensibilità” ecologica. Una rilettura senza pregiudizi di tutti i suoi scritti, codificati o provvisori che siano, tra il 1844 ed il 1868 permette di cogliere come Marx non abbia mai cessato di sviluppare e approfondire l’idea che il capitale sia colpevole di provocare guasti nel rapporto tra umanità e natura, avendo rotto la loro unità a lungo mantenuta nei rapporti di produzione pre-capitalistici

*   Questa idea, della cui esistenza testimoniano i passaggi precedentemente citati presenti nelle sezioni III e IV del Libro I del Capitale, stava per essere estesa e completata, come dimostrano proprio gli appunti ancora disordinati predisposti in questo senso, nel successivo Libro II, per dimostrare che la trasformazione forzata del “valore d’uso” di una merce nel suo “valore di scambio” poggiava sull’appropriazione da una parte della forza lavoro umana e dall’altra della natura come oggetto del lavoro umano. Vale la pena, per meglio evidenziare quest’ultimo rilevante passaggio, citare per esteso un passaggio del saggio di Saito …. se quindi ci proponiamo di sviluppare e approfondire l’idea marxiana del disturbo strutturale che il capitale provoca nel rapporto tra uomo e natura, dobbiamo partire da un’analisi dell’appropriazione capitalistica del processo del lavoro in quanto questa è anche, fondamentalmente, un’appropriazione capitalistica della natura, vale a dire una trasformazione della natura per conformarla alle esigenze fondamentali del capitale come valore in processo ………

Chiudiamo questa sinteticissima ripresa degli spunti che di più ci sono sembrati utili, nella loro limitatezza, per meglio comprendere un dibattito che merita ben altri veri approfondimenti, in ogni sede e circostanza a partire da quelle più “politicamente preposte”, con una ultima citazione dal saggio di Schmidt. Nulla aggiunge al “concetto della natura in Marx”, ma molto dice sul senso ultimo che dovrebbe ispirare questo dibattito:

…….. compito della conoscenza è: non capitolare dinanzi alla realtà che come una parete di pietra circonda gli uomini. E poiché la conoscenza rimette in vita i processi storici umani ormai spenti nei fatti compiuti, essa dimostra che la realtà è un prodotto degli uomini e perciò trasformabile: così il concetto più importante della conoscenza, la prassi, si rovescia nel concetto di azione politica …..