venerdì 17 febbraio 2017

Una nuova idea di spazio Le mappe bidimensionali descrivono ancora la realtà? - Articolo di Gianluca Didino


In collegamento con il post precedente “Perché la saggistica in Italia non trova gran spazio?” pubblichiamo questo nuovo post scelto per due ragioni: perché è scritto da Gianluca Didino, lo stesso autore del precedente articolo, e perché è un esempio di cosa si debba intendere per (nuova) saggistica (ai tempi della Rete) ossia “interventi” comunque scritti, di medie dimensioni, che affrontano tematiche trasversali, non meno che inusuali,  che si aprono in più direzioni  (non a caso ricchi di link, se in rete, o di note a piè pagina, se su carta stampata)



Una nuova idea di spazio

Le mappe bidimensionali descrivono ancora la realtà?

Articolo di Gianluca Didino nel blog “Tascabile.com”


Da qualche anno, un amico che abita a Milano mi ripete che dovrei visitare il capoluogo lombardo perché, sostiene, finalmente è diventato “una città europea”. Intende dire che Milano è diventata negli ultimi anni una global city secondo la famosa formulazione che Saskia Sassen ne forniva nel suo libro del 1991: un luogo dove si concentrano potere decisionale, una borsa valori e le sedi di diverse compagnie multinazionali. Secondo questa definizione tuttavia Milano è una città globale da diversi decenni, dunque chiedo al mio amico cosa sia cambiato di recente. La sua risposta, sicura, arriva immediatamente: ora ci sono i grattacieli. Qualcosa di simile era successo quindici anni prima a Londra, quando uno skyline che aveva smesso di svilupparsi in altezza dai primi anni Settanta aveva visto la comparsa di nove torri alte oltre 100 metri tra il 1999 e il 2004, tutte dislocate nei due centri della finanza della City e di Canary Wharf. Con un ritmo in costante accelerazione, altre diciassette sarebbero state erette dal 2012 in poi, con il tetto dei 300 metri finalmente rotto dallo Shard di Renzo Piano, oggi il grattacielo più alto dell’Europa occidentale. Le torri attualmente in costruzione nella capitale britannica sono trentotto, mentre i progetti già approvati per il prossimo decennio ma non ancora iniziati ammontano a sessantuno. Qualora tutti i progetti approvati a Londra venissero effettivamente costruiti si tratterebbe di un aumento del numero di grattacieli del 600% nel trentennio 1999-2029. Per quel che riguarda gli edifici supertall e megatall, rispettivamente oltre i 300 e i 600 metri di altezza, l’Europa è ultima tra i continenti: lo Shard, unico esempio di supertall tower europea, si posizione al 107esimo posto di una classifica degli edifici più alti del mondo che vede trionfare il mastodontico Burj Khalifa di Dubai con i suoi 828 metri. Ancora per poco, tre anni per la precisione: fino al giorno del 2020 in cui sarà completata la Kingdom Tower di Gedda, il primo edificio a superare la soglia simbolica del chilometro di altezza. La vertiginosa proliferazione di torri nell’ultimo decennio è solo l’aspetto più evidente di una trasformazione dello spazio lungo un asse che la nostra rappresentazione massicciamente orizzontale della geografia non ci permette di cogliere: è questa la tesi centrale di Vertical: the City from Satellites to Bunkers di Stephen Graham, una delle pubblicazioni più interessanti del 2016 nel ricco catalogo di urbanistica e architettura dell’editore Verso. Graham, professore di architettura all’università di Newcastle, si occupa da tempo del rapporto tra asse verticale e pianificazione urbana. La sua posizione è volta a “denaturalizzare ed esporre” il nostro approccio allo spazio come spazio orizzontale (rappresentato dalle mappe lungo linee bidimensionali) e le “metafore spesso invisibili e date per scontate della verticalità” (la connotazione positiva che associamo all’alto e quella negativa che associamo al basso, ad esempio nella dicotomia tra “alta” e “bassa” classe sociale). Per fare questo, nel suo libro affronta il problema delle città discutendo nell’ordine satelliti, aerei, droni, ascensori, grattacieli, città multilivello, condotti fognari, bunker e miniere. L’effetto di questa analisi che assomiglia a un volo in picchiata è una rappresentazione della città che ribalta le certezze consegnateci da secoli di geografia piana, trasformando lo spazio in un oggetto complesso e talvolta disorientante.

Google Earth ci restituisce uno sguardo sul mondo che pretende di essere oggettivo, fallendo: spaccia la mappa per il territorio.

Un buon punto di partenza per capire quest’opera di “denaturalizzazione” è uno strumento che usiamo tutti i giorni: Google Earth. Il servizio di Google, secondo Graham, è il trionfo su scala di massa di quella rappresentazione dello spazio dall’alto che oggettivizza l’intero pianeta come un sistema informativo piatto e completamente navigabile. Come i satelliti a cui si appoggia e come i droni, Google Earth ci restituisce uno sguardo sul mondo che pretende di essere oggettivo e che invece, come ogni rappresentazione, è il frutto dei pregiudizi dei suoi creatori: spaccia la mappa per il territorio, per usare una metafora borgesiana. Le implicazioni politiche di questo background diventano chiare quando si pensa che il programma alla base di Google Earth era originariamente proprietà della CIA (Mountain View l’aveva acquisito nel 2004) e che si basa su un sistema di navigazione satellitare, il GPS, creato e mantenuto dal governo degli Stati Uniti (che occasionalmente ne ha impedito l’accesso a determinate popolazioni, come nel caso della guerra del Kargil (conflitto indo-pakistano) del 1999). Al contempo, Google Earth e i sistemi di rappresentazione satellitare analoghi hanno contribuito a trasformare in maniere inedite quello che i paesaggisti chiamano brandscape, il luogo come brand da vendere sul mercato globale, come dimostra il caso delle Palm Islands e del complesso The World di Dubai: progetti che traggono la loro ragion d’essere dall’effetto che ottengono se fotografati dall’alto – ad esempio dalla NASA. Oppure hanno dato vita ad azioni politiche come la rivolta sciita in Bahrein del 2011, mostrando dall’alto le dimore faraoniche della minoranza sunnita che controllava il 95% del territorio del paese in un’opera di esposizione al pubblico sguardo dell’ingiustizia sociale. Questi aspetti della verticalità introdotti da Google Earth (l’origine militare del sistema, il territorio come brand, la suddivisione non equa delle risorse di un paese) sarebbero stati trascurati dalle classiche mappe bidimensionali, oppure sarebbero stati facilmente occultabili dalle élite politiche, come nel caso del Bahrein. Ancora più radicalmente omessi dal discorso sono tutti quei casi, in forte aumento nell’epoca del capitalismo globalizzato, in cui soggetti privati o stati-nazione possiedono risorse al di sopra o al di sotto del suolo formalmente amministrato da un altro stato: è il caso dei droni statunitensi che pattugliano i cieli del Medio Oriente, ad esempio, ma anche delle compagnie minerarie finanziate dallo stato cinese che operano in Africa. Quello che per una mappa bidimensionale è territorio iracheno o del Madagascar è, nei fatti, controllato da soggetti che operano al di fuori dei confini rappresentabili in due dimensioni. Processi analoghi si trovano nelle città in rapida trasformazione dell’America Latina. A Saõ Paulo, ad esempio, una dimostrazione dell’importanza della verticalità nell’amministrazione del potere cittadino viene fornita da Suketu Metha, che in un reportage per la New York Review of Books racconta come si sia sentito rifiutare dalla polizia la richiesta di sorvolare in elicottero la favela non pacificata di Ararà: poco tempo prima i traficantes avevano abbattuto un velivolo della polizia con armi antiaeree, in una potente negazione del potere governativo di osservare dall’alto e di rappresentare, per dirla con Graham, “il mondo di sotto come nient’altro che un infinito campo di obiettivi da identificare e distruggere”. D’altra parte Ararà, dove è in atto una vera e propria guerra tra polizia e trafficanti, è solo l’altra faccia di una medaglia che vede le favelas come ultima frontiera della gentrificazione (insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un'area urbana) (anche sulla scia di mega-eventi come i mondiali di calcio o le Olimpiadi) a seguito di un altro processo di verticalizzazione: la crescente tendenza della classe dei super-ricchi a rifuggire il pericolo delle strade delle città sudamericane spostandosi in elicottero tra un attico e l’altro. Come in una versione mai realizzata del futuro immaginato nelle metropoli occidentali negli anni Cinquanta, città come Saõ Paulo contano oggi 420 eliporti privati – il 50% in più rispetto al totale del Regno Unito. Allo stesso modo, a Guatemala City i ricchi sono tornati a vivere nel centro delle città, ma non scendono mai nelle strade infestate di criminalità, spostandosi solo tra un grattacielo e l’altro. Nel documentario Um Lugar ao Sol di Gabriel Mascaro, in una scena ambientata a Recife si vede la moglie di un miliardario commentare le scie lasciate in cielo dai proiettili traccianti provenienti da uno slum vicino paragonandole a “fuochi d’artificio” e definendole “bellissime”. Oppure l’accesso ai simboli del potere verticale può trasformarsi nel suo opposto, com’è successo nel celebre caso della Torre di David a Caracas, il secondo grattacielo più alto del paese e il centro finanziario della città la cui costruzione fu abbandonata nel 1994 in seguito al collasso del sistema bancario venezuelano. Tra il 2007 e il 2014, in una parabola a metà strada tra J.G. Ballard e il Paul Mason di Postcapitalismo, i 190 metri della torre sono stati occupati da 5000 squatters gettati sulla strada dalla crisi abitativa che il paese attraversava dall’inizio degli anni duemila. Gli occupanti sono infine stati sgomberati, ma la loro esperienza ha rappresentato un caso unico nella storia di comune autogestita lungo un asse verticale. Il caso della Torre di David è ancora più emblematico se si pensa alle conseguenze sociali che la proliferazione di grattacieli pensati come dimore dei super-ricchi e attrazioni di lusso comportano per gli abitanti di una grande città. Con un rapido incremento delle torri adibite a scopo turistico o abitativo (alberghi, ristoranti e appartamenti di lusso) e una spietata competizione planetaria per attrarre gli investimenti delle élite dei multimilionari apolidi, la progettazione di uno skyline iconico e inconfondibile si tramuta nell’immagine da cartolina della crisi abitativa che ne consegue: privatizzazione di interi settori della città, aumento dei prezzi degli affitti nelle zone più vicine ai distretti finanziari o che possono godere di vedute sulla “foresta di grattacieli”, conseguente marginalizzazione delle classi più povere ai limiti (geografici e non) della vita cittadina. Il motivo per cui i grattacieli tendono a finire nel mirino dei critici del capitalismo liberista, come anche l’11 settembre ci ha tragicamente insegnato, non ha soltanto radici freudiane ma anche motivazioni pratiche, e va ricercato in quello che Maria Kaika ha definito  il carattere di “icone autistiche” delle torri costruite dagli architetti di grido: per la studiosa rappresentano i vertici di una rete avvolta intorno al mondo da coloro che controllano i processi della globalizzazione neoliberista e che operano in un network di città globali rifiutando le limitazioni e le responsabilità implicate da una cittadinanza permanente (come capitava ancora con i Rockefeller e i Guggenheim nel XX secolo). Per questo, secondo Graham, è ancora più importante mettere in luce le relazioni che intercorrono tra il segno più e il segno meno dell’asse verticale – le altezze sempre più vertiginose dei grattacieli e le profondità sempre più abissali del sottosuolo (ad esempio i sotterranei della New York post 11 Settembre nelle fotografie di Julia Solis) e soprattutto dalle miniere dalle quali vengono estratte le materie prime utilizzate negli interni di lusso di grattacieli come il Burj Khalifa. Questa è l’idea degli high-rise come inverted minescapes, “panorami minerari al contrario”, coniata dal geografo Gray Brechin: la rappresentazione su scala tridimensionale di come il potere economico delle élite sia fondato sul lavoro semi-schiavile (ad esempio dei migranti indiani e bengalesi impiegati nella costruzione degli impianti per Quatar 2022 (per i Campionati Mondiali di football ) e sullo sfruttamento delle risorse naturali – anche se questa connessione con il “basso” è proprio ciò che il capitalismo finanziario vuole farci dimenticare. Non stupisce quindi che la stessa tecnologia che ha reso possibile i grattacieli, l’ascensore (la cui prima applicazione data il 1857 nella città dei grattacieli per eccellenza, New York) è la stessa che ha reso possibile la pratica dell’ultra-deep mining, gli scavi minerari a una profondità di oltre 2.5 chilometri. Né stupisce che Forbes possa aprire un articolo del 2007 scrivendo che “se vuoi sapere dove sono le economie più calde del mondo (…) tutto quello che devi fare è rispondere a una domanda: dove sono gli ascensori più veloci?

Nell’iperspazio postmoderno cooperano forze umane e non umane, come i satelliti e i droni, oggetti naturali e artificiali, laddove una linea di demarcazione ancora esiste.

Sempre per questo motivo il problema della verticalità si confonde con il problema del capitalismo tout court, e più nello specifico con l’uso che il capitalismo fa della natura profondamente antropizzata che fornisce il substrato materiale dei suoi successi finanziari. La classe dei super-ricchi che si sposta in elicottero tra i grattacieli di Guatemala City è la stessa che importa la sabbia australiana per estendere artificialmente la lunghezza delle spiagge di Dubai, una città che sorge come un miraggio nel centro del deserto, o che a Pechino edifica una cupola intorno al satellite dell’esclusivo Dulwich College di Londra per far sì che i figli dei facoltosi espatriati non vengano contaminati dallo smog che le aziende nelle quali i padri hanno interessi multimilionari hanno contribuito a creare nella metropoli cinese. Le conclusioni a cui arriva Graham nel suo studio non sono rassicuranti, ma non mancano di fascino. La proposta è quella di abbandonare la semplificazione della geografia piana per immergersi pienamente in quello che Frederic Jameson aveva definito già nel 1984 un iperspazio postmoderno”, uno spazio disorientante dove “viene meno la nozione di un orizzonte stabile e dotato di fondamento”. In questo spazio cooperano forze umane e non umane, come i satelliti e i droni, oggetti naturali e artificiali, laddove una linea di demarcazione ancora esiste (è naturale l’aria prodotta da circuiti di ventilazione completamente chiusi nelle città multi-livello come Hong Kong? È naturale la neve di Ski Dubai, conservata a -6 °C contro i picchi di 52 °C della temperatura esterna? Sono naturali le guerre per la sabbia in paesi pressoché completamente desertici?). In un famoso passaggio di The Language of Post-Modern Architecture del 1977, il critico dell’architettura Charles Jencks scriveva che “fortunatamente è possibile datare con precisione la morte dell’architettura moderna (…). L’architettura moderna è morta a St. Louis, Missouri, il 15 luglio 1972 alle 15:32, quando al famigerato complesso di Pruitt-Igoe (una mega speculazione edilizia avvenuta negli USA a Saint Louis negli anni sessanat) era stato dato il colpo di grazia per mezzo della dinamite”. Pruitt-Igoe non era un grattacielo, ma un complesso di case popolari, e la sua demolizione in diretta televisiva è diventata la prima di una lunga serie – un genere che ha i suoi sottogeneri, i suoi canali YouTube dedicati e la sua schiera di entusiasti.  Un’altra demolizione in diretta TV, questa volta di due grattacieli, ha chiuso l’epoca postmoderna l’11 settembre 2001. A differenza del caso di Pruitt-Igoe, che ha messo anche la parola fine al trentennio di edilizia popolare negli Stati Uniti e in Europa, l’attacco al WTC ha però solo rafforzato la spinta alla costruzione di grattacieli nelle nostre metropoli – e tuttavia per la prima volta dal 1311, quando la cattedrale di Lincoln in Inghilterra ha superato in altezza la piramide di Giza in Egitto, oggi l’edificio più alto del mondo si trova fuori dai confini occidentali. Questo nuovo iperspazio veramente globale ha bisogno di nuove categorie per essere compreso, per non cadere nell’errore di attenerci a una mappa che non rappresenta più alcun territorio reale.

Perché la saggistica in Italia non ha gran seguito? - Articolo di Gianluca Didino


Perché la saggistica in Italia
non trova gran spazio?

Articolo di Gianluca Didino


(GIANLUCA DIDINO è nato nel 1985 in Piemonte. I suoi articoli sono stati pubblicati su IL, Studio, Nuovi Argomenti. Ha curato la rubrica VALIS sul Mucchio Selvaggio e attualmente collabora con Prismo e Doppiozero)

(N.B. = di alcuni nomi citati nell’articolo presumibilmente non conosciutissimi forniamo brevissime indicazioni e traduzioni)

Against Everything (contro tutto) la raccolta dei saggi pubblicati da Mark Greif (giovane scrittore e critico culturale americano) tra il 2004 e il 2015, si apre con una passeggiata lungo il Walden Pond. Qui da bambino l’autore veniva portato dalla madre a ripercorrere le tracce di chi quel luogo l’aveva reso famoso: Henry David Thoreau, (filosofo, scrittore e poeta americano dell’800) che nella sua opera più famosa non si era stancato di ripetere che «le cose che le persone considerano superiori sono spesso inferiori» e che «la spazzatura è un tesoro». Dall’esempio del suo quasi concittadino illustre, Greif impara che «un ‘filosofo’ è una mente che non ha paura di essere contro tutto. Contro tutto ciò che è corrotto, dubbio, snervante, non veritiero per noi, ingannevole per la felicità». Thoreau, che Greif considera «il pensatore più importante in assoluto» per il proprio percorso, è anche la figura centrale della sua raccolta di saggi: la sua presenza la apre, la chiude e fa da spartiacque tra le varie sezioni di cui è composta. Il perfezionismo dello scrittore di Concord è lo stesso del suo discepolo di Boston, un’opera di continua messa in discussione dell’esistente misurata sul calibro della propria personalità. Come Thoreau anche Greif è un pensatore radicale, ma non estremista: abbandona i sentieri conosciuti per cercare un senso più profondo, ma non si allontana dalla civiltà tanto da smettere di farne parte. Come per Thoreau, anche per Grief tornare periodicamente in paese a raccontare la propria esperienza è parte integrante del lavoro filosofico. Durante le passeggiate al Walden Pond «la conversazione era il vero obiettivo di tutto, anche della solitudine e della lettura e del pensiero». La maniera in cui Mark Greif ha deciso di portare avanti questa conversazione è senza dubbio eccezionale. n+1, la rivista (semestrale di cultura e politica) che ha contribuito a fondare con Keith Gessen, Benjamin Kunkel, Chad Harbach, Allison Lorentzen e Marco Roth è quasi un paradosso, una sfida alla fisica del mercato editoriale: scritta da intellettuali insoddisfatti degli spazi angusti dell’accademia, militante senza essere ideologica, votata alla critica seria della cultura pop e capace di autofinanziarsi da più di un decennio, diventando il faro della letteratura d’avanguardia nella New York post 11 settembre. Quasi un unicum, comprensibilmente, nel panorama editoriale di inizio XXI secolo – ma un esempio che dovrebbe essere seguito più spesso, come da qualche anno hanno iniziato a fare The New Inquiry e Jacobin (altre due riviste statunitensi al centro del dibattito culturale e politico americano). L’inclinazione intellettuale che presuppone una rivista come n+1 è resa possibile nella pratica solo da una rivista come n+1, come nel proverbiale caso del gatto che si morde la coda: Greif e compagni hanno fondato la loro rivista allo scopo di «pubblicare il tipo di letteratura che non esisteva altrove», ma quella letteratura (nel nostro caso: i saggi stessi di Mark Greif) non sarebbe mai esistita se non ci fossero state riviste pronte a commissionare articoli da 50.000 battute sui Radiohead (famoso gruppo roch di avanguardia) , la storia degli hipster (tradotto come "giovani anticonformisti" o "alternativi" indica una cultura composta da giovani americani attenti soprattutto alla scena musicale jazz e alla moda) o l’ossessione per la sessualità infantile, e naturalmente a pagare gli autori in modo consono. Quella che sembrava un’illusione donchisciottesca si è rivelata una success story editoriale quando i fondatori di n+1 hanno scoperto l’imponderabile: che il loro prodotto aveva un pubblico. Ovviamente bisogna calare le esperienze nel tempo e nello spazio, e con i suoi fondatori che hanno varcato le soglie della maturità letteraria (Keith Gessen, Benjamin Kunkel e Chad Harbach sono tutti diventati romanzieri tra il 2005 e il 2011) bisognerà vedere se n+1 riuscirà a mutare, lasciandosi alle spalle l’esperienza degli anni di Occupy Wall Street (movimento di protesta statunitense sorto dopo la crisi finanziaria del 2007/2008) , di cui era diventata quasi l’organo ufficiale, per confrontarsi con le problematiche dell’epoca Trump. E alcuni dei saggi di Against Everything  sono tanto figli del proprio tempo da risultare quasi asfissianti – come quando Grief, cresciuto in una famiglia ebraica di umili condizioni sociali in un sobborgo di Boston, cerca di trovare delle giustificazioni intellettuali per usare la parola “negro” mentre impara a rappare nella metropolitana di New York, in una guerra senza speranza contro la propria inclinazione al politically correct. Da un altro punto di vista, però, un’esperienza come quella di n+1 sarebbe stata semplicemente impossibile in un contesto diverso da quello anglosassone, che ha una sintonia con la forma del saggio che la letteratura italiana, per ragioni storiche e culturali complesse, non ha mai avuto. La sintonia che fa sì che nelle classifiche dei libri più venduti dell’anno in US e UK ci siano sempre diverse raccolte di saggi e in generale molta più nonfiction che in Italia, dove il romanzo continua imperterrito a trionfare. Storicamente parlando, l’educazione al saggio è un lascito di quei paesi dove la presenza di una rivoluzione liberale ha contribuito alla nascita di una cultura dell’argomentazione: il saggio moderno nasce tra il XVI e il XVII secolo – cioè nello stesso periodo del romanzo – come strumento di indagine filosofica (Montaigne, Thomas Browne) per diventare un’arma politica durante l’Illuminismo (Samuel Johnson, Voltaire). Per questo la diffusione del saggio come forma letteraria ha presupposto per secoli una fiducia nella ragione e un contesto socio-politico dove chiunque abbia il diritto di proporre la propria visione del mondo – uno speakers’ corner  (letteralmente ”angolo degli oratori”, sono quegli spazi pubblici dove è uso radunarsi per sentire oratori improvvisati, è famoso è quello di Hyde Park a Londra) di qualche natura. Negli Stati Uniti il saggio come forma letteraria ha prodotto alcuni dei testi più rilevanti degli ultimi cinquant’anni, dal New Journalism di Hunter S. Thompson e Joan Didion ai reportage narrativi di John McPhee, dalla critica culturale di Susan Sontag a quella musicale, fino ad arrivare all’ondata post-2000 di quello che David Shields considera «la forma privilegiata della scrittura del XXI secolo», il personal essay. In Italia alcuni di questi autori sono stati riscoperti in questi anni (Didion–Joan Didion, scrittrice e saggista americana), e la creative nonfiction ha un pubblico sufficientemente ampio da permettere la traduzione, seppure parziale, di autori come Geoff Dyer, Teju Cole o Charles D’Ambrosio, o la pubblicazione di classici del memoir come Stop-time di Frank Conroy (tutti giovani saggisti americani). Ma una tradizione italiana non si è mai davvero sviluppata. L’esistenza di una tradizione radicata, con ramificazioni chiaramente distinguibili e commercialmente rilevanti, fornisce al mercato anglosassone una tolleranza eccezionale alle idiosincrasie, e dunque una possibilità di produrre saggistica più propriamente filosofica o comunque meno facilmente incasellabile (e quindi meno vendibile) che in Italia sarebbe semplicemente inimmaginabile. È questa resilienza che ha permesso a Virginia Woolf di scrivere saggi su una crepa nel muro o sulla morte di una falena, a George Orwell sull'esperienza di uccidere un elefante, ad Annie Dillard (scrittrice e saggista americana) sull'eclisse solare, a John McPhee (saggista americano) sul Monopoli, a David Foster Wallace sul destino delle aragoste, a Maggie Nelson (giovane saggista americana) sul colore blu. Oppure che permette a una meravigliosa narratrice come Marylinne Robinson (scrittrice e saggista americana, alcuni suoi libri e saggi sono  pubblicati in Italia) di scrivere libri di saggi sulla grazia cristiana e il lascito del pensiero calvinista. Questo, più che tutto il resto, è il tipo di saggio di cui abbiamo bisogno – e quello di cui in Italia siamo quasi del tutto sprovvisti: la saggistica come operazione filosofica sollevata dall’ossessione dei filosofi di scavarsi un posto nella storia della propria disciplina. Pochi generi letterari possono permettersi di mettere in discussione l’esistente con tanta libertà, precisione e trasversalità comunicativa. Vedo tre fattori che ne frenano la diffusione in Italia. Il primo è che questo tipo di scrittura presuppone un atteggiamento radicale nei confronti della realtà, e questo in Italia significa un tipo di militanza partitica o programmaticamente apartitica. n+1 è una rivista apertamente militante: è stata la voce intellettuale di Occupy Wall Street, come dicevamo, e si è espressa spesso a favore dell’amministrazione Obama. Ma il tipo di militanza che traspare dagli articoli di n+1 è più una scelta di campo presa in partenza che una dichiarazione di fedeltà a un movimento o a un’area politica. «Per me», dice Greif proprio nel saggio sul rap, «l’unica vera domanda politica è ‘Da che parte stai?’ e ogni volta devo combattere per ricordarmi che tutto deriva da questo». In Italia la militanza culturale ha spesso significato un rifiuto, più che una critica, dell’esistente: la costruzione di un sistema culturale parallelo che interpreta il proprio rapporto con l’establishment solo in termini di scontro. Questo ha portato ricchezza (la complessa galassia culturale dell’autonomia, della stampa alternativa, dei centri sociali) ma anche impoverimento (ad esempio il rifiuto fino a tempi recentissimi da parte di certi ambienti di confrontarsi con la cultura pop, come ha spiegato Remo Ceserani (Accademico e critico letterario scomparso di recente) nel suo Raccontare il postmoderno. Il secondo problema, come invece ha spiegato molto bene Francesco Guglieri (editor per l’Einaudi per la letteratura straniera, scrive sul blog MinimaMoralia) in un articolo apparso su Pagina 99, è la chiusura del sistema accademico italiano nei confronti del più ampio mondo culturale di cui fa parte. In Italia capita ancora raramente che autori accademici scrivano per un pubblico più ampio, e quando questo avviene solitamente assume le forme della divulgazione scientifica: una forma di insegnamento, più che di dialogo. La poca permeabilità tra i due mondi crea una frattura: da un lato gli accademici sono costretti a pubblicare solo all’interno dell’accademia per preservare la propria posizione lavorativa in un contesto di risorse sempre più limitate. Dall’altro gli scrittori che devono affidarsi alle logiche dell’editoria commerciale non sono incentivati a produrre una saggistica che non troverebbe acquirenti nella pianificazione a brevissimo raggio che contraddistingue il mercato editoriale nell’epoca del declino del neoliberismo. Per entrambi i settori la causa del problema è la stessa: la mancanza dei fondi (e dunque del tempo) necessari per il lungo lavoro di ricerca e scrittura. Il terzo problema è appunto editoriale, e riguarda in primo luogo le riviste, senza le quali la saggistica breve semplicemente non esisterebbe. La situazione delle riviste italiane è migliorata in maniera incommensurabile rispetto a dieci anni fa, quando ho cominciato a pubblicare i miei articoli in un panorama ridotto in macerie dal passaggio dalla carta al web: oggi ci sono grande diversificazione, fondi per gli autori, progetti editoriali innovativi e iniziative come il Premio Treccani Web – soprattutto, c’è una nuova generazione di riviste che sta cominciando a colmare il gap tra scrittura critica e scrittura giornalistica. E infatti un miglioramento nella diffusione della saggistica tra il pubblico si può già notare: con l’ottima accoglienza che sta ottenendo un libro come Americana di Luca Briasco (anche lui editor per l’Einaudi della collana Stile Libero), ad esempio, o con la pubblicazione dei reportage di Daniele Rielli (giovane romanziere) per Adelphi. Eppure resta da parte della maggioranza delle riviste una resistenza nei confronti di un approccio più teorico, un’attitudine giornalistica a rendere conto di una notizia anche laddove il termine “notizia” viene inteso in maniera ampia (la pubblicazione di un libro, o un evento politico). Anche qui, per ragioni più che comprensibili: gli articoli più brevi si leggono meglio sul web, il longform in rete non ha ancora trovato una forma veramente efficace di diffusione e il mercato è tale che gli esempi di successo sopravvivono discretamente ma non possono permettersi margini di sperimentazione. Così gli esempi migliori di riviste di nuova generazione in Italia sono stupendi archivi di frammenti di discorsi culturali, talvolta anche in dialogo tra loro, o reticoli postmoderni di storie contemporanee. Ma gli articoli che partono con l’intento di offrire un nuovo paradigma sono pochi, e generalmente scritti da poche voci che si sono guadagnate il diritto di farlo su prodotti editoriali non specificamente pensati per quello. Anche perché, come ha scritto Vincenzo Latronico (anche lui giovane scrittore)in uno di questi articolii, il pubblico più ristretto di un testo scritto in italiano comporta un guadagno minore per la rivista e per l’autore che si traduce in articoli più brevi e più facilmente spendibili. Le ragioni per cui le riviste privilegiano certi contenuti rispetto ad altri sono comprensibili, dicevo, ma mi chiedo se non nascondano anche qualche forma di pregiudizio: quello per cui gli articoli più lunghi e teorici non hanno lettori, ad esempio, oppure, in maniera più sottile, l’idea che un approccio critico sia poco al passo con i tempi frammentari e iper-accelerati di internet. Potrebbe darsi che anche le nostre riviste scopriranno un giorno quello che ha scoperto n+1 un decennio fa – che anche se sembra impossibile questo tipo di letteratura ha un pubblico. Detto questo è anche giusto guardare il presente con onestà e senza farsi illusioni. Alcuni problemi, mi pare evidente, non sono superabili: non capiterà nel futuro immaginabile che una fetta consistente di americani e britannici impari l’italiano e il pubblico delle nostre riviste cresca in maniera esponenziale. E forse ci vorranno ancora anni prima che l’editoria – da noi come nel mondo anglosassone – trovi un modello economico più sostenibile e redditizio. In altri ambiti, però, come la formazione di un pubblico per la saggistica o un l’avvicinamento tra accademia e cultura pop, si stanno già registrando buoni progressi. E io penso che sia un’ottima notizia, perché di una saggistica critica e filosofica che sappia fornire nuove chiavi di lettura della realtà abbiamo un disperato bisogno. Il mondo intorno a noi sta cambiando rapidamente e interpretarne i cambiamenti è diventata una necessità assoluta: potevamo permetterci di ignorare la teoria ai tempi della fine della storia, quando credevamo che niente sarebbe più accaduto tranne l’espansione senza limiti del libero mercato. Non oggi che sappiamo quanto quella storia fosse illusoria. Quindi credo che dovremmo guardare fuori dalla finestra, o andare in strada, e poi sederci a scrivere. E prenderci il nostro tempo per raccontare come mai questa realtà non va bene – perché la realtà non va mai bene. E dovremmo farlo parlando di Donald Trump (non ho trovato indicazioni attendibili su questo nome) o dei panni stesi nel nostro giardino, perché si può fare filosofia su qualsiasi cosa purché la si affronti con l’intento di andare fino in fondo, senza fermarsi alle apparenze. Perché viviamo in un’epoca complessa e siamo minacciati da populismi che a questa complessità vogliono sostituire una storia bidimensionale. E saper contrapporre un’argomentazione razionale alle chiamate ai forconi è forse l’insegnamento migliore che l’Occidente può lasciarci, oggi che i suoi presupposti vengono così radicalmente messi in crisi. Quando Greif dice che «la conversazione è il vero obiettivo di tutto» dice qualcosa di fondamentale, ma se non vogliamo continuare a ripeterci le idee generate dalla nostra filter bubble (letteralmente = bolla di filtraggio, è stata citata nel post che abbiamo pubblicato recentemente sulle fake news, sulle bufale)  dobbiamo assicurarci non solo che questa conversazione esista, ma anche che valga la pena intrattenerla.

venerdì 10 febbraio 2017

Ancora a proposito di "bufale" (e di "linguaggio")


Ancora a proposito di “bufale” (e di “linguaggio”): 

sarà la Rete a salvarci dalla Rete?

Un algoritmo per controllare la credibilità dei tweet

Articolo di Matthew Hutson pubblicato su Scientific American il 03/02/2017. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze.


Di fronte al proliferare di false notizie che si diffondono viralmente sui social network, un gruppo di ricercatori ha sviluppato un algoritmo che sulla base delle parole contenute nei messaggi di Twitter riesce a valutarne con buona approssimazione la credibilità. Implementato sul social media potrebbe allertare l'utente della scarsa credibilità di un tweet prima che la diffonda ulteriormente. Secondo un sondaggio realizzato nel 2016 dal Pew Research Center, il 62 per cento degli americani legge le notizie sui social media. Questa statistica aiuta a spiegare l'onnipresenza delle notizie fasulle: quando le informazioni viaggiano attraverso i social network, i normali filtri editoriali non hanno alcuna possibilità di separare il tweet di qualità dalla bufala. Lo sviluppo di strumenti che aiutino a fermare la diffusione di menzogne e false voci richiederà la collaborazione di informatici, linguisti, psicologi e sociologi. Un nuovo studio, che sarà presentato questo mese in una conferenza dell'Association for Computing Machinery, ha analizzato milioni di tweets, rivelando le parole e le frasi che sono considerate più credibili. Tanushree Mitra, esperta di informatica del Georgia Institute of Technology e prima autrice dello studio, dice che si è interessata al problema quando nel 2011 fu ucciso Osama bin Laden e circolarono numerosi messaggi su se e come fosse veramente morto. Molti sentirono parlare per la prima volta dell'uccisione su Twitter. "Sui social media questo tipo di notizie dell'ultim'ora e le relative speculazioni circolano molto prima che la notizia raggiunga i mezzi di informazione tradizionali", dice Mitra. Lei e i suoi collaboratori al Georgia Tech hanno voluto sviluppare dei sistemi automatizzati per valutare se gli eventi sono realmente accaduti, basandosi esclusivamente sul modo in cui le persone ne stavano parlando. Questi strumenti possono aiutare a rilevare voci false prima che si diffondano troppo. I ricercatori hanno costruito un database di 1377 eventi avvenuti tra ottobre 2014 e febbraio 2015 e dei tweet associati a essi. Per assegnare un punteggio di "credibilità" a ogni evento, i partecipanti allo studio leggevano alcuni tweet e, in base a ciò che sapevano o a una ricerca on- line, ne valutavano la “correttezza” dell'evento riferito. A seconda della percentuale di persone che classificavano gli eventi come "certamente corretti", questi venivano stati collocati in quattro categorie: credibilità massima, credibilità elevata, credibilità moderata e scarsa credibilità. Gli eventi scarsamente credibili includevano un giocatore di football morto dopo un placcaggio particolamente duro, e la polizia che spruzzava pepe su una folla. (Le valutazioni di accuratezza non erano perfette: la polizia aveva effettivamento usato il pepe contro la folla)
I ricercatori hanno poi analizzato statisticamente i 66 milioni di tweet relativi agli eventi, cercando correlazioni tra i punteggi di credibilità e alcune caratteristiche, come le parole che esprimono incertezza o un'emozione. Nello studio, non ancora pubblicato, elencano diversi indizi utili: gli eventi "credibili" avevano più probabilità di essere descritti su Twitter con termini come appeared, depending e guessed (sembra, stando a, si suppone), mentre gli eventi "incredibili" erano accompagnati da altri termini, come indicates, certain leveldubious (indica, in certa misura, dubbio). Alcuni dei migliori “barometri” erano vocaboli che esprimevano un giudizio: vibrant, unique e intricate (vivace, unico e complesso) lasciavano prevedere un'alta credibilità, mentre pry, awfulness e lacking  (indagare, orrore e privo) suggerivano una scarsa credibilità. (Stranamente, darn (maledizione) era associato a un'elevata credibilità, damn (dannazione) a una bassa.) E anche se termini amplificativi come without doubt (senza dubbio) e undeniable (innegabile)  facevano prevedere una scarsa credibilità nei tweet originali, ne prevedevano una alta nei retweet. Al di là di specifiche parole, lunghe citazioni nei retweet suggeriscono una scarsa credibilità, forse perché chi ripubblica i tweet di un altro è riluttante a prendersi la responsabilità dell'affermazione. Anche un elevato numero di retweet è stato associato a una scarsa credibilità. (Queste sono tutte correlazioni: i ricercatori non sanno, per esempio, se il numero di retweet ha influenzato la valutazione dei partecipanti allo studio, o se retweet e valutazioni dipendevano, in modo indipendente tra loro, dalle caratteristiche del evento supposto.)
I ricercatori hanno anche testato la capacità del loro modello di prevedere la credibilità di un evento, combinando indicatori come quelli citati.)Se l'algoritmo procedesse a caso, darebbe la risposta giusta il 25 per cento delle volte; se indovinasse sempre i casi di “credibilità elevata”- la categoria con il maggior numero di eventi – sarebbe nel giusto il 32 per cento delle volte. Ma l'algoritmo ha funzionato molto meglio di così, raggiungendo una correttezza del 43 per cento. Se poi si assegna all'algoritmo mezzo punto quando un'attribuzione è solo leggermente errata (per esempio, attribuendo “massima credibilità” a un evento con “credibilità elevata”), la precisione dell'algoritmo arriva al 65 per cento.
I ricercatori sperano di migliorare le prestazioni, combinando spunti linguistici con elementi come l'autore del tweet o i link citati. In un lavoro preliminare, Mitra ha dimostrato che le storie provenienti da una sola persona tendono ad avere scarsa credibilità.
I ricercatori considerano il loro modello uno strumento come una sorta di "occhio preliminare", che attiri l'attenzione di giornalisti e fact checkers su resconti che potrebbero interessarli, per occuparsene o per smentirli. Secondo Robert Mason - un ricercatore dell'Università di Washington che ha studiato i messaggi su Twitter a proposito dell'attentato alla maratona di Boston, ma non ha partecipato allo studio di Mitra - uno strumento del genere potrebbe anche aiutare i primi soccorritori a decidere di quali informazioni fidarsi durante un emergenza. Un'altra possibilità, dice Mason, è inserire dentro  Twitter o Facebook sistemi di alllerta che individuino quando una persona sta per condividere storie potenzialmente false, chiedendo se è sicura di volerlo fare, in modo tale da “rallentare la facilità con cui diffondiamo le informazioni”. Tuttavia, fermare la diffusione di notizie false sarà difficile anche ricorrendo all'intelligenza artificale. Mason ricorda l'adagio secondo cui una bugia può viaggiare per mezzo mondo prima che la verità si metta le scarpe. Spesso la disinformazione è più avvincente della verità. E i giornalisti sono spinti a riferire rapidamente le notizie. In ogni caso, spesso la gente ignora l'autorevolezza della fonte. "In un'epoca di social media e di informazioni in rapidissimo movimento," dice Mason, "che cos'è una fonte autorevole? Non abbiamo più un Walter Cronkite o un Edward R. Murrow che ci dicano 'Ecco come stanno le cose'. Abbiamo una molteplicità di voci che dicono che le cose stanno così. E quindi tocca a noi scegliere".

giovedì 9 febbraio 2017

In ricordo di Tzyetan Todorov



In ricordo di Tzyetan Todorov
Filosofo, saggista, scrittore


Articolo di Giancarlo Bosetti – La Repubblica del 07/02/2017
La "diversità umana" è il tema che ha attraversato tutta la vita e la vastissima produzione di Tzvetan Todorov, morto ieri a 77 anni. Era uno scrittore che univa la grazia e la modestia ad una vastissima cultura, che amava trasmettere al pubblico e non soltanto coltivare tra accademici. "Diversità" e dunque dialogo. e permanente riproporsi delle domande sugli "altri" e sul "noi". Chi sono i barbari? Riecco l'antico quesito di Montaigne. Fuggito dalla Bulgaria comunista e approdato a Parigi, Todorov vi si afferma subito nella critica letteraria, nella filosofia e antropologia, negli studi sul linguaggio; lavora con Roland Barthes, si avvicina allo strutturalismo ma, rispetto a questa corrente, è attratto dalle grandi domande morali e dalla varietà delle risposte che vi danno le diverse culture umane. Dunque sposta il centro del suo interesse su una forma di "umanismo" che gli piaceva definire "ben temperato". Che cosa significhi si capirà presto quando si manifesta quella che è forse la sua vocazione principale, quella di storico delle idee. È in questa chiave che affronta il tema che lo fa conoscere a un pubblico più vasto La conquista dell'America. Il problema dell'altro (Einaudi). L'opera non è una ricerca storiografica nuova, ma una indagine sulle idee dei conquistatori, un'analisi delle loro motivazioni, sulla mente del "noi" e sulle idee che avevano degli "altri". Protagonisti del libro sono questi "noi", i molti e diversi "noi", ciascuno con i suoi connotati culturali, ciascuno imbarcato in una diversa forma di "conquista". Per Colombo quella che è in gioco è la prospettiva di una "vittoria universale del Cristianesimo". Il gigantesco paradosso di Colombo non è solo quello geografico di "buscar el levante por el ponente", ma quello filosofico di un monista che spalanca le porte al pluralismo, di una mentalità incorreggibilmente centrata sulla sua cultura che aprirà lo sguardo europeo su altri mondi. L'"universalismo" mostra qui una incrinatura coloniale e di dominio su cui Todorov tornerà ripetutamente, individuando una severa aporia del pensiero illuministico, su cui aveva già scritto pagine celebri Isaiah Berlin. Ma altri "noi" entrano nel gioco della Conquista: Hernán Cortés, che è il capo militare, studia gli indi meglio non solo di Colombo, ma persino di Bartolomé de Las Casas (che ne diventerà il difensore) e lo fa per usare la conoscenza in funzione strategica, per dominarli, che è il suo obiettivo. Altri come Bernardino de Sahagún approfondiscono lo studio dei nativi, dei loro costumi e della loro religione, con un atteggiamento analitico, ma con l'obiettivo esplicito di estirpare l'idolatria. Altri ancora come Cabeza de Vaca, vivono avventurosamente dall'interno entrambe le culture, la propria e quell'altra, trovandosi in un vero sofferto conflitto con se stessi quando si viene alle armi. Infine Las Casas, colui che prende le parti dei nativi, prova per la loro sorte pietà e amore, si impegna in una battaglia per modificare le leggi e imporre il rispetto dei loro diritti, perché riconosce loro una cultura con la stessa dignità di quella del "noi" europeo. Las Casas smaschera e denuncia gli aspetti ingiu- sti, atroci e sanguinari dell'occupazione spagnola e ne attacca la legittimità. Anche davanti agli aspetti più cruenti della civiltà dei nativi adotta uno sguardo che oggi possiamo definire antropologico o prospettivista. La giustificazione dei sacrifici umani è un passaggio cruciale delle discussioni sul giudizio morale e sul relativismo, per Todorov, come era stato anche per Montaigne. Lo scrittore bulgaro si serve di questa chiave per smascherare l'etnocentrismo che è in agguato dietro ogni professione di universalismo. E si spinge fino a individuare un limite di "universalismo inconsapevole" che si annida nell'autore degli Essais, quando gli sfuggono valutazioni su "verità" e "ragione" che certo un autentico relativista contemporaneo non accetterebbe mai (in Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi). Ma certo, data la precoce epoca in cui il sindaco di Bordeaux ha affacciato i suoi pensieri, la seconda metà del ‘500, cinque secoli prima di Nietzsche e di Wittgenstein, Todorov gli riconosce il titolo di valido nemico dell'etnocentrismo. Negli ultimi anni questa discussione – relativismo contro universalismo – è ritornata negli scritti di Todorov, con evidente riferimento polemico al dopo 11 settembre e ai teorici dei conflitti di civiltà. Riprendendo la riflessione sull'Illuminismo francese e sui rischi di un giudizio morale generalizzante che muova da una cultura verso un'altra, decretando "superiorità", e immaginando che dietro a questo giudizio si affacci facilmente il dominio militare o economico, Todorov non intende però arrendersi all'opzione nichilista: il fatto che ciascun soggetto sia parte di una cultura e ne sia molto condizionato non impedisce di impegnarci ad attraversare mentalmente le frontiere e a liberarci da una possibile prigionia. A partire da ciascuna cultura è possibile aspirare a valori di civiltà nel nome dell'unità del genere umano, che è un fatto incontestabile tanto quanto la sua diversità culturale. Nelle discussioni roventi che hanno attraversato in questi anni l'Europa e gli Stati Uniti, Todorov si è schierato (in La paura dei barbari, Garzanti) con grande determinazione contro coloro che hanno invocato l'abbandono dell'Islam come soluzione politica individuando nelle pagine di Oriana Fallaci, di Robert Redeker, e di altri polemisti anti-islamici il vizio che ripropone il "noi" etnocentrico, con il suo ben noto orgoglio, contro la "barbarie degli altri". È l'antico problema della specie umana, quello che con Michail Bachtin, l'autore russo a lui caro, Todorov chiamava il vizio del "monologismo", grande nemico di una possibile pacifica "polifonia". Ancora nel libro recente del 2012 – I nemici intimi della democrazia – Todorov invita a cercare il problema dentro di noi non fuori tra i «barbari».
Todorov e l’arte cpme antidoto allo scontro di civiltà
Articolo di Dario Pappalardo – La Repubblica del 07/02/2017
L'arte, secondo Tzvetan Todorov, poteva salvare il mondo. O almeno contribuire a spegnere lo scontro di civiltà. È per questo che il filosofo, scomparso a Parigi a 77 anni, dopo una malattia, sosteneva che gli artisti fossero anche maestri del pensiero e di vita.
"L'artista creatore è incitato a sottrarsi al dominio del proprio interesse personale. Cosa può mettere al posto suo? L'amore del bello, rispondono i moderni, un amore modellato sul puro amore di Dio". Così scriveva nell'intervento Arte e morale, testo pubblicato adesso da Garzanti nel Caso Rembrandt, la monografia dedicata al pittore olandese, forse il più amato, ma non il solo. Per Todorov, Cézanne, nel dipingere le sue famose mele, ha dovuto "sopprimere l'amore che nutriva per tutte le mele per concentrarlo sulla mela che dipingeva". Perché - ragionava lo studioso - il vero artista non piega il mondo ai propri gusti, ma gli si sottomette. Accanto ai saggi fondamentali - da La conquista dell'America (Einaudi) a Resistenti (Garzanti), passando per La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà (ancora Garzanti, che ha tradotto gran parte delle opere) - c'è una bibliografia parallela di Todorov che attinge pienamente dalla letteratura e dalla storia dell'arte. Si può partire proprio dal saggio La bellezza salverà il mondo in cui Oscar Wilde, l'amatissimo Rainer Maria Rilke e la poetessa russa  Marina Cvetaeva rappresentano non solo tre grandi autori, ma altrettanti maestri vissuti con l'ossessione di migliorare la condizione umana. L'indagine di Todorov lungo le vie della bellezza continua con il fondamentale La pittura dei lumi, dove il filosofo di origine bulgara utilizza le immagini e i percorsi di vita di artisti come Watteau, Goya, Chardin, Hogarth e gli italiani Tiepolo, Magnasco e Piranesi per dimostrare come questi maestri siano stati fondatori di un'identità e di un pensiero comune europeo, prima del tempo. Un'analisi, questa, che Todorov approfondisce in particolare attraverso la figura unica di Francisco Goya. Al pittore spagnolo, vissuto tra Settecento e Ottocento, dedica infatti una monografia in cui lo paragona per la forza delle idee a Goethe e a Dostoevskij. Perché è un artista che "non propone rimedi, si accontenta di esplorare la condizione umana". Non cerca di imporre, "si limita a proporre. I suoi valori rimangono quelli di tutti: verità, giustizia, ragione, libertà". La verità di Goya vivrà, "ma a condizione di non dimenticare i mostri crudeli". Gli stessi che lo spagnolo aveva raffigurato nei Disastri della guerra e nelle Pitture Nere. Opere che ricordano a Todorov il mondo di oggi e i pericoli derivanti dagli scontri di civiltà nati da nuovi fondamentalismi e nazionalismi. L'arte può, ancora una volta, mettere in guardia da quel sonno della ragione che genera mostri.







sabato 4 febbraio 2017

A proposito della "parola del mese.......nei segreti del lessico di Donald Trump


A proposito della “parola del mese”………………
Nei segreti del lessico
di Donald Trump
Articolo di Alexander Stille – La Repubblica del 03/02/2017
Q UANDO due senatori repubblicani hanno osato criticare l'ordine di vietare l'entrata negli Usa di immigrati provenienti da sette Paesi musulmani, il neo presidente Donald Trump ha sparato contro di loro un paio di tweet piuttosto violenti. Li ha definiti «tristemente deboli» e li ha accusati di volere causare addirittura una Terza guerra mondiale. Così ha messo insieme due dei suoi insulti preferiti: "sad" (triste) e "weak" (debole). Ha usato poi un linguaggio simile dando della «traditrice» alla ministra ad interim della Giustizia che ha rifiutato di eseguire l'ordine presidenziale sul bando, accusandola di essere «molto debole» in fatto di immigrazione. Fino alla recente citazione dei «bad hombres», per invitare le autorità messicane a controlli più serrati sul flusso migratorio. Queste sue continue sparate possono essere interpretate in vari modi. Da una parte sono sintomi della personalità puerile e narcisistica di Trump, insulti da cortile della scuola da parte di chi non lascia mai cadere neanche una critica senza rispondere per le rime. Allo stesso tempo, certe uscite riflettono la filosofia di fondo del neo presidente; basta pensare che nel 1987 scrisse in un libro: "Se fotti me, ti fotto dieci volte". Tuttavia, su un piano più profondo, il lessico di Trump rappresenta una rivoluzione. Una rivoluzione del linguaggio politico. Un linguaggio che ha diversi aspetti caratterizzanti. È molto semplice, fatto di frasi corte e parole monosillabiche. Secondo le analisi linguistiche, Trump usa un vocabolario dal sesto grado delle scuole elementari. Ma dire che parla come un sempliciotto è troppo riduttivo. Le etichette che Trump ha inventato per i suoi avversari "Low Energy" (Bassa Energia) per Jeb Bush, "Lyin' Ted" (bugiardo Ted) per Ted Cruz, "piccolo Marco" per Marco Rubio e Crooked Hillary (Corrotta Hillary) - sembrano insulti adolescenziali, ma hanno funzionato: attaccandosi alle "vittime" e funzionando nell'opinione pubblica come delle cornici per poi vedere effettivamente tali queste persone. Anche Winston Churchill preferiva le parole monosillabiche anglosassoni alle parole lunghe di origine latina. Trump tende a mettere insieme una serie di frasi corte, una dopo l'altra come una raffica di mitra: «Il nostro Paese potrebbe funzionare molto meglio». «Abbiamo accordi commerciali pessimi». «Il nostro Paese non funziona». «Tutti vincono tranne noi». «Abbiamo bisogno di vittorie». «Non abbiamo più vittorie». «Il nostro Paese sarà grande di nuovo. Ma ora il nostro Paese ha grossi problemi ». Trump finisce le sue frasi con delle parole-chiave che vuole rimangano nella testa dei suoi ascoltatori: non funziona, pessimi, vittorie, problemi. Queste frasi sembrano dei cazzotti. Il neo capo della Casa Bianca è anche molto ripetitivo, cosa che può non piacere a taluni, ma che ha una sua efficacia, come sanno bene i pubblicitari. Ha detto il linguista George Lakoff: «Più sentiamo una parola, più viene attivato un circuito nel cervello. Trump ripete: vincere, vincere, vincere. Vinceremo talmente tanto che ci stancheremo di vincere». Trump divide sempre il mondo in una serie di divisioni binarie: molto cattivo-ottimo, stupido- intelligente, debole-forte, orribile-fantastico, perdente- vincente. Naturalmente, lui è sempre nella seconda categoria: «Se uno è molto intelligente, è molto intelligente come sono io». E la sua compagnia è «fantastica», «la migliore». Il linguaggio di Trump è super iperbolico: per lui i quartieri neri americani sono «una zona di guerra», dominati da «bande criminali, droga e povertà »; il Paese in genere assiste ad una «mattanza americana » dove «fabbriche arrugginite sono sparse per il paesaggio come tombe». Un linguaggio decisamente ombroso e negativo. Il New York Times, durante la campagna elettorale, ha analizzato una settimana di discorsi di Trump, trovando che le parole da lui usate più spesso erano: "stupido" (trenta volte), "orribile" (14 volte), "debole" (13 volte). Così lui tende ad attaccare le persone e non le istituzioni o le idee. Trump viola quasi tutte le norme di quel che molti ritengono essere un buon linguaggio politico. Indugia in violenza, volgarità, insulti, autocelebrazione, cattiva sintassi, eccessiva ripetitività. Esagera, si contraddice, viene colto in menzogne facili. Trump fa e dice cose che rappresenterebbero un suicidio politico per altri politici. Eppure, in lui, tutto questo funziona – almeno per circa la metà degli americani. Perché? Giusto perché il suo modo di fare lo distingue dagli altri politici, soprattutto dai politici tradizionali. Le cadute di buon gusto rappresentano delle rotture. Per un pubblico disilluso, i bei discorsi sembrano artefatti, studiati e fatti per ingannare. I suoi, no. Quando, in un forum online, qualcuno ha chiesto se il tanto vantarsi da parte di Trump potesse davvero far riscuotere a lui successo, c'è chi ha risposto: «Amiamo un leader che mostra sicurezza e successo, poi ci piace da morire come lui manda in bestia i liberal e gli intellettuali che ci trattano sempre con disprezzo». Così, fiducia nelle istituzioni, nella politica e nei media sono ad un punto particolarmente basso negli Usa. E non solo qui. Allo stesso tempo, si assiste ad una risalita dei valori autoritari: persone che dicono, per esempio, di apprezzare di più nei loro figli rispetto per l'autorità piuttosto che l'indipendenza. «Gli americani che hanno un orientamento fortemente autoritario sono più propensi a dire che il Paese ha bisogno di un leader che infrange le regole per mettere a posto le cose», ha scritto recentemente il commentatore Thomas Edsall. Gli italiani, in particolare, dovrebbero capire la rivoluzione linguistica-politica del trumpismo. Il fascismo è stato preceduto e accompagnato da una simile rottura nei discorsi pubblici. Gabriele D'Annunzio ha coniato molte delle frasi che sono diventate le parole d'ordine del fascismo: "Me ne frego". "A noi!". "O giungere o spezzare". Spiegando la popolarità di "me ne frego", D'Annunzio disse: «La mia gente non ha paura di nulla, nemmeno delle parole».


venerdì 3 febbraio 2017

Il Decalogo del consenso sociale - di Noam Chomsky


Il nome di Noam Chomsky, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, è comparso in un nostro post, quello della “Parola del mese di Febbraio 2017”, pochi giorni fa. E’ stato citato in quanto co-autore di una interessante teoria sulle origini, come sviluppo evoluzionistico, del “linguaggio” umano. Chomsky può ben intervenire nel merito perché universalmente riconosciuto come uno dei massimi esperti in linguistica e semantica grazie alle importanti, non meno che dibattute, teorie che ha elaborato in materia. Ma Chomsky è al tempo stesso intellettuale a tutto tondo particolarmente impegnato in campo politico e sociale su posizioni decisamente progressiste. In questa veste ha elaborato una lista delle 10 regole del controllo sociale, ovvero, strategie utilizzate dal potere (da molti poteri) per la manipolazione del pubblico attraverso i mass media, che qui pubblichiamo dopo averla ricevuta da una amica del nostro blog, Tissia, che ringraziamo per la gradita segnalazione

DECALOGO del controllo sociale

1) La strategia della distrazione = L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione, che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico da problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazione di continue distrazioni e informazioni insignificanti. La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali imprigionata da temi senza vera importanza. Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali.

2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni = Questo metodo è anche chiamato: Problema > Reazione > Soluzione. Si crea un problema, una situazione prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi una violenza urbana, organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia che richieda le leggi di sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

3) La strategia della gradualità = Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, al contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove, come il neo-liberalismo, furono imposte durante il decennio degli anni ’80 e ’90.

4) La strategia del differire = Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e necessaria, ottenendo l’applicazione pubblica nel momento, per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato: primo, perchè lo sforzo non è quello impiegato immediatamente, secondo perchè il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza di sperare ingenuamente che tutto domani andrà meglio e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo da più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

5) Rivolgersi al pubblico come ai bambini = La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e un’intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tenta ad usare un tono infantile. Perchè? Se qualcuno si rivolge a una persona come se avesse dodici anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà con una certa probabilità ad una risposta o reazione come quella di una persona di dodici anni o meno.

6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione = Sfruttare l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale. Inoltre, l’uso del registro emotivo, permette di aprire la porta di accesso all’inconscio, per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori.

7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità = Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile.

8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità = Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

9) Rafforzare l’auto-colpevolezza = Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione.

10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano = Negli anni ’50 i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il sistema ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia della sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.