venerdì 18 settembre 2020

Scenari globali e locali del cambiamento climatico

 

Non si può certo sostenere che la scienza non continui a lanciare messaggi sempre più chiari, mirati ed approfonditi, sull'incessante procedere del cambiamento climatico. E, in drammatico controcanto, è altrettanto evidente l’insufficiente, lenta e contraddittoria, reazione che tali allarmi dovrebbero suscitare. La stessa pandemia da Covid19 è una testimonianza inattaccabile della strettissima relazione che esiste fra l’umanità, le sue attività ed il suo futuro, con lo stato di salute del pianeta Terra. Per quanto non confortata da un ascolto adeguato la scienza non demorde. Recentemente sono apparsi due studi molto seri ed articolati che precisano ulteriormente gli scenari che l’aumento della temperatura globale inevitabilmente provocherà se non verranno attuate, in fretta e seriamente, misure di contenimento. Li pubblichiamo nel nostro blog quantomeno per mantenere alta l’attenzione sul drammatico futuro, e sempre più anche sul presente, che l’attuale umanità sta creando per le generazioni che seguiranno. Il primo, sintetizzato in un articolo pubblicato dal Sole24Ore, è uno studio della Accademia delle Scienze statunitense che analizza le ricadute dell’innalzamento climatico in particolare sulla “fascia climatica” nella quale vive la pressochè totale umanità. Il secondo riassume in un report l’accurata analisi svolta dalla Fondazione CMCC sugli scenari specifici per l’area mediterranea e per il nostro paese

Agire sul clima per evitare una crisi peggiore del virus

Articolo di Ivan Manzo (giornalista, laureato in Economia dell’Ambiente)

Il Sole24ore on line - 03 Giugno 2020

(Articolo pubblicato originariamente su Futuranetwork)

La pandemia in corso sta dimostrando che la specie umana è molto più vulnerabile di quel che si pensava. Per correre ai ripari e salvare più vite possibili i governi di (quasi) tutti il mondo sono stati costretti a imporre il lockdown delle attività socioeconomiche dei rispettivi Paesi. Eppure la diffusione del Sar-Cov2, virus appartenente alla numerosa famiglia dei Coronavirus, era stata per certi versi annunciata. La comunità scientifica da anni ci avvisava sullo “spillover”, il salto di specie animale-uomo compiuto da un virus, e sullo strettissimo legame che intercorre con la distruzione dei nostri ecosistemi. È piuttosto evidente che non le abbiamo dato ascolto. Un po' sulla falsa riga di quello che sta accadendo sul fronte climatico, una minaccia ancor più grave della “crisi pandemica”, ricordano gli scienziati, per un semplice motivo: una volta superati i “limiti planetari”, il riscaldamento globale è in grado di innescare una serie di processi irreversibili, capaci di mettere in discussione persino la vita dell'umanità sul Pianeta. È questo, in sostanza, il motivo per cui non possiamo permetterci di rimandare di nuovo la battaglia climatica, ma bisogna mettere in campo ora, per la ripartenza post Covid-19, una serie di misure in grado di evitare i più gravi impatti generati dai cambiamenti climatici. Anche perché siamo fortemente in ritardo, e a ricordarcelo sono una serie di studi poco confortanti sull'evoluzione del fenomeno. Va in questa direzione il rapporto “Future of the human climate niche”, pubblicato il 5 maggio sulla rivista Pnas (Proceedings of the National Academy of sciences of the United states of America), che costruisce degli scenari per ogni aumento di un grado centigrado di temperatura. Secondo il team di ricerca “per ogni più 1°C segnato dalla temperatura media globale” potrebbero esserci un miliardo di persone costrette a spostarsi, oppure a vivere sotto la costante minaccia di un “calore insopportabile”. Il rischio più grande, se dovesse realizzarsi lo scenario più catastrofico, è quello di costringere un terzo della popolazione mondiale a vivere in aree calde come il deserto del Sahara entro i prossimi 50 anni. Nella prospettiva più rosea, invece, sarebbero “solo” 1,2 miliardi di persone a vivere al di fuori della “fascia climatica” definita abitabile, quella che ha permesso agli essere umani di prosperare da 6mila anni a questa parte. “Sono numeri sbalorditivi”, ha dichiarato uno degli autori dello studio, Timothy M. Lenton dell'università di Exeter, “Studio da tempo i ‘tipping points' climatici (i punti di non ritorno che la comunità scientifica avverte di non superare per scongiurare i più gravi disastri imposti dalla crisi climatica), quelli che vengono considerati apocalittici, ma questo mi ha colpito maggiormente. I risultati pongono la cosa in termini molto umani”. E in effetti lo studio invece di porre la questione da un punto di vista prettamente fisico o monetario (per esempio quando si parla di danni e perdite economiche per via del clima che cambia), fornisce un taglio diverso all'argomento. Sebbene la totalità del Pianeta sia stata ormai “antropizzata”, basti pensare che l'uomo ha modificato in modo significativo il 75% delle terre emerse e il 66% degli ecosistemi marini, la stragrande maggioranza della popolazione ha sempre vissuto in luoghi dove la temperatura media variava tra i 6°C e i 28°C, sia a tutela della propria salute, sia per garantire la produzione alimentare. Ma al ritmo attuale supereremo i 3°C di aumento medio della temperatura globale entro fine secolo e, trattandosi di una media, rischiamo di vedere un aumento di temperatura di ben 7,5°C in alcune aree. Zone dove, tra l'altro, ci si aspetta una crescita maggiore della popolazione, come in Africa e Asia. Un fattore che porterebbe di sicuro a una maggior consistenza del fenomeno migratorio, con tutta una serie di problemi per i sistemi di produzione alimentare. “Al di sopra dei 29°C di temperatura media globale le condizioni sono invivibili”, ha affermato Marten Scheffer dell'università di Wageningen, altro autore del rapporto. “Siamo stupefatti da queste conclusioni, pensavamo fossimo meno sensibili, ma in effetti abbiamo sempre vissuto all'interno di una nicchia climatica. A questi ritmi ci saranno più cambiamenti nei prossimi 50 anni che negli ultimi 6mila. Dovremmo quindi muoverci o adattarci, ma ricordiamo che anche l'adattamento conosce limiti.” E proprio su un fenomeno collegato all'attività di adattamento fa il punto della situazione un'altra ricerca pubblicata recentemente su Nature, l'8 maggio, che descrive gli errori commessi sulle previsioni dell'innalzamento del livello del mare. Secondo “Estimating global mean sea-level rise and its uncertainties by 2100 and 2300 from an expert survey” anche rispettando i 2°C dell'Accordo di Parigi, cosa che al momento appare improbabile dato che le proiezioni ci portano a un aumento medio della temperatura di almeno 3,5°C entro fine secolo, il livello del mare potrebbe alzarsi di circa due metri. Una previsione diversa da quella effettuata dall'Ipcc (l'ente scientifico di supporto alla Conferenza Onu sul cambiamento climatico), che ha sottostimato nel tempo la portata di tale fenomeno, come ricorda l'autore dello studio Stefan Rahmstorf, dell'Istituto di ricerca sull'impatto climatico di Potsdam: “Nei suoi studi l'Ipcc tende ad essere molto cauto e conservativo, motivo per cui ha dovuto correggersi verso l'alto già diverse volte. Basti pensare che le proiezioni sul livello del mare nel rapporto di valutazione Ipcc del 2014, erano già del 60% superiori a quelle della precedente edizione”. Lo studio ricorda che se dovessero completamente fondere i ghiacciai dell'Antartide e della Groenlandia il livello marino potrebbe addirittura salire di 50 metri. Di questo passo, comunque, rischiamo di avere 5 metri in più da qui al 2300. Periodo piuttosto lontano, ma usato per farci comprendere come l'attività antropica, continuando con il business as usual, sia in grado di modificare le caratteristiche geofisiche del nostro Pianeta per i prossimi secoli, se non millenni. A farci tornare di nuovo ai “giorni nostri”, restando comunque in tema inondazioni e riscaldamento globale, è la nuova analisi portata avanti dal World resources institute (Wri) che, tramite la piattaforma “Acqueduct” avverte: dal 1980 le alluvioni fluviali hanno causato danni per oltre mille miliardi di dollari a livello globale e il numero di persone colpite dal fenomeno è destinato a raddoppiare nel 2030, rispetto al 2010. Se infatti erano 65 milioni gli individui costretti a fare i conti con le alluvioni su suolo urbano nel 2010, si prevede toccheranno quota 130 milioni nel 2030. Stesso discorso per le inondazioni che interessano le zone costiere: da 7 milioni si passerà a 15 milioni di persone coinvolte. Un danno che, una volta trasformato in termini monetari, ci aiuta a capire la portata del problema: parliamo di 535 miliardi di dollari di costi al 2030 (rispetto ai 157 miliardi di dollari del 2010) per le aree urbane martoriate da alluvioni, e di 177 miliardi di dollari sempre nel 2030 (e rispetto ai 17 miliardi del 2010) per le zone costiere minacciate da inondazioni e aumento del livello del mare. Tra i diversi responsabili delle inondazioni, troviamo sempre più spesso i cicloni tropicali, via via sempre più distruttivi, anche a causa dell'aumento del livello del mare. È ormai chiaro, infatti, che per ogni centimetro di acqua in più la forza distruttiva degli uragani aumenta di parecchio, una volta che questi raggiungono la costa e che il riscaldamento globale ha un ruolo centrale nella distribuzione dei cicloni tropicali.Ulteriore conferma arriva proprio negli ultimi giorni, il 4 maggio, dalla ricerca “Detected climatic change in global distribution of tropical cyclones”, anche questa pubblicata su Pnas. Lo studio ha analizzato la distribuzione dei cicloni tropicali degli ultimi 40 anni e l'influenza su di essi sia dei fattori antropici sia di quelli naturali. Per il team di scienziati è la prova ulteriore che, anche su questo aspetto, il cambiamento climatico indotto dall'uomo è stato in grado di modificare potere e distribuzione dei cicloni tropicali. Soprattutto per quanto riguarda il dove e il come: in pratica al momento c'è sicurezza sul fatto che l'azione umana distribuisce in modo diverso e rende più distruttivi questi fenomeno estremi, mentre si sta ancora cercando di capire se ne amplifichi anche il numero totale a livello globale. I risultati mostrano che mentre nel nord Atlantico e nel Pacifico centrale nel periodo 1980-2018 gli uragani aumentavano leggermente, nell'Oceano indiano e nel Pacifico settentrionale questi diminuivano. Inoltre viene ulteriormente dimostrato che il cambiamento climatico ha esacerbato il potere distruttivo dei grandi “singoli” tifoni come l'uragano Harvey del 2017 che si è abbattuto principalmente sul Texas e dell'uragano Katrina che ha distrutto New Orleans e le aree confinanti nel 2005. Ma anche l'Europa è al centro di questi effetti distruttivi, in particolare il nostro Paese. L'Italia è infatti vista come “hotspot” climatico: un'area geografica che è bene tener d'occhio perché, data la sua conformazione e posizione geografica, subisce più danni rispetto ad altre regioni. Mentre nel mondo l'aumento medio di temperatura è a 1,1°C, in Italia si è già sforata la soglia dei 2°C (siamo intono a 2,2°C) e, senza misure di contenimento, rischiamo di vedere parte del nostro territorio desertificato. Una questione denunciata da tempo dalla comunità scientifica, basti pensare all'allarme lanciato ormai cinque anni fa dal Centro nazionale delle ricerche sul rischio desertificazione per il 21% del territorio nazionale entro fine secolo, e su cui si sta facendo ancora troppo poco. Ricordiamo che la bozza del Pnacc, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, è stato presentato dal ministero dell'Ambiente nel 2017 ma non è mai stato approvato a livello politico. Ulteriore ragione per cui la ripresa post Covid-19 deve essere l'occasione per spingere forte sul processo di transizione, puntando su quel Green new deal voluto dalla Commissione europea e auspicato dall'Italia. Perché il rischio di uscire da una crisi semplicemente per entrare in un'altra, di proporzioni ben più drammatiche, è reale. La buona notizia è che siamo di fronte anche a un'opportunità. A spiegarlo è uno studio di un team di ricerca cinese che ricorda danni e perdite dell'inazione climatica. Dalle colonne della rivista Nature il rapporto “Self-preservation strategy for approaching global warming targets in the post-Paris Agreement era” precisa che la mancata attuazione dell'Accordo di Parigi potrebbe generare perdite al mondo intero comprese tra 126mila e 616mila miliardi di dollari entro il 2100. Al contrario, arrestare la colonnina di mercurio sotto l'asticella dei 2°C porterebbe all'economia mondiale un beneficio che si aggira tra 336mila e 422mila miliardi di dollari. Puntare sulle attività di mitigazione e adattamento al clima che cambia, evitando coste sempre più sott'acqua, nuove terre deserte, ecosistemi distrutti, diffusione di virus e l'intensificarsi degli eventi estremi, ci consentirebbe dunque di costruire un mondo non solo più resiliente ma anche più prospero.

 Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici

Report del 16/09/2020

Può valere fino all’8% del Pil pro capite, acuire le differenze tra Nord e Sud, tra fasce di popolazione più povere e più ricche, insistere su una serie di settori strategici per l’Italia: i cambiamenti climatici sono un acceleratore del rischio su molti ambiti dell’economia e della società. Pubblicato il rapporto “Analisi del Rischio. I cambiamenti climatici in Italia”. Realizzato dalla Fondazione CMCC, Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, è la prima analisi integrata del rischio climatico in Italia. Un documento che, a partire dal clima atteso per i prossimi anni, si concentra su singoli settori per fornire informazioni su cosa aspettarci dal futuro e fornire uno strumento a supporto di concrete strategie di sviluppo resiliente e sostenibile.

Il rischio connesso ai cambiamenti climatici interessa l’intero territorio italiano e tutti i settori economici. Pur con differenze tra diverse aree che sono interessate in maniera diversa, non ci sono regioni che possono considerarsi immuni dal rischio climatico che sta già crescendo in questi anni, con particolare riferimento agli eventi estremi. L’analisi realizzata dalla Fondazione CMCC parte dagli scenari climatici che, attraverso un avanzato utilizzo di modelli climatici ad alta risoluzione applicati allo studio della realtà italiana, forniscono informazioni sul clima atteso per il futuro del Paese. Queste informazioni sono poi applicate all’analisi del rischio in una serie di settori del sistema socio-economico italiano. Ne emerge un quadro in cui il rischio cresce, nei prossimi decenni, in molti ambiti, con costi economico-finanziari consistenti per il Paese e con impatti che interessano in maniera più severa le fasce sociali più svantaggiate e tutti i settori, con particolare riferimento alle infrastrutture, all’agricoltura e al turismo.

Il rischio, la conoscenza scientifica e le strategie di risposta

“Il rapporto rappresenta il punto più avanzato della conoscenza degli impatti e l’analisi di rischio integrato dei cambiamenti climatici in Italia”, spiega Donatella Spano, membro della Fondazione CMCC e docente dell’Università di Sassari, che ha coordinato i trenta autori che hanno redatto i 5 capitoli che compongono la ricerca. “L’analisi del rischio e dei suoi effetti sul capitale ambientale, naturale, sociale ed economico, consentono di prendere in considerazione le opzioni di risposta individuate dalla ricerca scientifica e di sviluppare piani di gestione integrata e sostenibile del territorio valorizzandone le specificità, peculiarità e competenze dei diversi contesti territoriali”, continua Spano. “Queste conoscenze sono frutto di ricerca innovativa, di networking tra le Università che contribuiscono alla Fondazione CMCC e di collaborazioni internazionali, nascono dall’utilizzo di una infrastruttura di calcolo di primo livello nella ricerca globale. Mettere insieme tutti questi aspetti in una prospettiva di ricerca multidisciplinare è un impegno della comunità scientifica, i cui risultati sono al servizio della società e producono conoscenza a beneficio dell’intero sistema Paese”. “La sfida del rischio connesso ai cambiamenti climatici – conclude Donatella Spano – parte dalla conoscenza scientifica per integrare l’adattamento, le soluzioni da mettere in campo di fronte al rischio, in tutte le fasi dei processi decisionali, nelle politiche pubbliche, nei programmi di investimento e nella pianificazione della spesa pubblica, in modo da garantire lo sviluppo sostenibile su tutte le scale territoriali e di governance”. Corredato da una serie di messaggi chiave, schede infografiche e un estratto di sintesi realizzati per agevolare la lettura e la fruizione dei contenuti, (disponibili per chi fosse interessato a consultarli al seguente link Analisi CMCC) il report affronta i temi che sono di seguito sintetizzati.

Il clima atteso per il futuro dell’Italia. I diversi modelli climatici sono concordi nel valutare un aumento della temperatura fino a 2°C nel periodo 2021-2050 (rispetto a 1981-2010). Nello scenario peggiore l’aumento della temperatura può raggiungere i 5°C. Diminuzione delle precipitazioni estive nelle regioni del centro e del Sud, aumento di eventi precipitazioni intense. In tutti gli scenari aumenta il numero di giorni caldi e dei periodi senza pioggia. Conseguenze dei cambiamenti climatici sull’ambiente marino e costiero avranno un impatto su “beni e servizi ecosistemici” costieri che sostengono sistemi socioeconomici attraverso la fornitura di cibo e servizi di regolazione del clima

Rischio aggregato per l’Italia. La capacità di adattamento e la resilienza in Italia sono temi che interessano l’intero territorio italiano da Nord a Sud. Anche se più ricche e sviluppate le regioni del Nord non sono immuni agli impatti dei cambiamenti climatici, né sono più preparate per affrontarli. Per quanto riguarda gli eventi estremi, la probabilità del rischio è aumentata in Italia del 9% negli ultimi vent’anni.

Costi economici, strumenti e risorse finanziarie. I costi degli impatti dei cambiamenti climatici in Italia aumentano rapidamente e in modo esponenziale al crescere dell’innalzamento della temperatura nei diversi scenari, con valori compresi tra lo 0,5% e l’8% del Pil a fine secolo. I cambiamenti climatici aumentano la disuguaglianza economica tra regioni. Tutti i settori dell’economia italiana risultano impattati negativamente dai cambiamenti climatici, tuttavia le perdite maggiori vengono a determinarsi nelle reti e nella dotazione infrastrutturale del Paese, nell’agricoltura e nel settore turistico nei segmenti sia estivo che invernale. I cambiamenti climatici richiederanno numerosi investimenti e rappresentano un’opportunità di sviluppo sostenibile che il Green Deal europeo riconosce come unico modello di sviluppo per il futuro. È il momento migliore in cui nuovi modi di fare impresa e nuove modalità per una gestione sostenibile del territorio devono entrare a far parte del bagaglio di imprese ed enti pubblici, locali e nazionali.

Le città e l’ambiente urbano. In seguito all’incremento nelle temperature medie ed estreme, alla maggiore frequenza (e durata) delle ondate di calore e di eventi di precipitazione intensa, bambini, anziani, disabili e persone più fragili saranno coloro che subiranno maggiori ripercussioni. Sono attesi, infatti, incrementi di mortalità per cardiopatie ischemiche, ictus, nefropatie e disturbi metabolici da stress termico e un incremento delle malattie respiratorie dovuto al legame tra i fenomeni legati all’innalzamento delle temperature in ambiente urbano (isole di calore) e concentrazioni di ozono (O3) e polveri sottili (PM10).

Rischio geo-idrologico. Dall’analisi combinata di fattori antropici e degli scenari climatici si evince che è atteso l’aggravarsi di una situazione di per sé molto complessa. L’innalzamento della temperatura e l’aumento di fenomeni di precipitazione localizzati nello spazio hanno un ruolo importante nell’esacerbare il rischio. Nel primo caso, lo scioglimento di neve, ghiaccio e permafrost indica che le aree maggiormente interessate da variazioni in magnitudo e stagionalità dei fenomeni di dissesto sono le zone alpine e appenniniche. Nel secondo caso, precipitazioni intense contribuiscono a un ulteriore aumento del rischio idraulico per piccoli bacini e del rischio associato a fenomeni franosi superficiali nelle aree con suoli con maggior permeabilità

Risorse idriche. Gran parte degli impatti dei cambiamenti climatici sulle risorse idriche prospettano una riduzione della quantità della risorsa idrica rinnovabile, sia superficiale che sotterranea, in quasi tutte le zone semi-aride con conseguenti aumenti dei rischi che ne derivano per lo sviluppo sostenibile del territorio. I cambiamenti climatici attesi (periodi prolungati di siccità, eventi estremi e cambiamenti nel regime delle precipitazioni, riduzione della portata degli afflussi), presentano rischi per la qualità dell’acqua e per la sua disponibilità. I rischi più rilevanti per la disponibilità idrica sono legati a elevata competizione settoriale (uso civile, agricolo, industriale, ambientale, produzione energetica) che si inasprisce nella stagione calda quando le risorse sono più scarse e la domanda aumenta (ad esempio per fabbisogno agricolo e turismo)

Agricoltura. I sistemi agricoli possono andare incontro ad una aumentata variabilità delle produzioni con una tendenza alla riduzione delle rese per molte specie coltivate, accompagnata da una probabile diminuzione delle caratteristiche qualitative dei prodotti, con risposte tuttavia fortemente differenziate a seconda delle aree geografiche e delle specificità colturali. Impatti negativi sono attesi anche per il settore dell’allevamento, con impatti sia diretti che indiretti sugli animali allevati e conseguenti ripercussioni sulla qualità e la quantità delle produzioni

Incendi. L’aumento delle temperature e la riduzione delle precipitazioni medie annue, la maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi quali le ondate di calore o la prolungata siccità, interagiscono con gli effetti dell’abbandono delle aree coltivate, dei pascoli e di quelle che un tempo erano foreste gestite, del forte esodo verso le città e le aree costiere, e delle attività di monitoraggio, prevenzione e lotta attiva sempre più efficienti. Si prevede che i cambiamenti climatici esacerberanno ulteriormente specifiche componenti del rischio di incendi, con conseguenti impatti su persone, beni ed ecosistemi esposti nelle aree più vulnerabili. Sono attesi incrementi della pericolosità di incendio, spostamento altitudinale delle zone vulnerabili, allungamento della stagione degli incendi e aumento delle giornate con pericolosità estrema che, a loro volta, si potranno tradurre in un aumento delle superfici percorse con conseguente incremento nelle emissioni di gas a effetto serra e particolato, con impatti quindi sulla salute umana e sul ciclo del carbonio. 

domenica 6 settembre 2020

Il "Saggio" del mese - Settembre 2020

                              Il “Saggio” del mese

 SETTEMBRE 2020


Prosegue, così come preannunciato con il “Saggio” dello scorso mese, la pubblicazione di una nostra sintesi del testo di Thomas Piketty “Capitale ed ideologia”. In questo mese potrete trovare quella relativa alla “Parte Prima” nella quale Piketty esamina la struttura delle disuguaglianze nelle “società ternarie”, ossia quelle basate sulle tre classi della nobiltà, del clero e del “terzo stato”, e della loro evoluzione, in Europa, nella “società dei proprietari”, la quale nella sua fase più matura coinciderà con il pieno avvento del mercato capitalistico e delle sue collegate disuguaglianze. Successivamente nella “Parte seconda”, la cui sintesi sarà qui pubblicata appena possibile, Piketty analizzerà quella delle società “coloniali” e “schiaviste”. Egli ritiene infatti, così come esplicitato nella “Introduzione”, da noi sintetizzata nel “Saggio” dello scorso mese, che le attuali disuguaglianze, alle quali aveva dedicato il suo precedente lavoro “Il Capitale nel XXI secolo”, possano essere meglio comprese non soltanto cogliendo i fattori contemporanei che le determinano, ma anche individuando, con uno sguardo storico di lungo termine, i significativi retaggi ereditati da tutte le precedenti forme di società e dalle  loro collegate strutture delle disuguaglianze. Questa “Parte prima”, unitamente a quella che seguirà, va quindi letta con questo spirito al fine di meglio comprendere quanto sarà successivamente analizzato nella Parte, quella centrale in questo suo complesso e corposo saggio, che Piketty dedicherà alla “Grande trasformazione del XX secolo”.

Parte prima

I regimi della disuguaglianza nella storia

Capitolo 1

Le società ternarie: la disuguaglianza trifunzionale

(P. inizia ad illustrare gli aspetti di base di una forma della società, quella “ternaria”, di fondamentale importanza nella storia delle disuguaglianze, anticipando in particolare quelli più rilevanti ai fini del saggio che verranno pertanto analizzati in dettaglio nelle Parti e nei Capitoli successivi)

La logica trifunzionale: clero, nobiltà, terzo Stato

La più antica forma di regime societario basato sulla disuguaglianza è sicuramente quella, definita da P. “società ternaria”, formata cioè da una ripartizione in tre gruppi sociali: clero, nobiltà, terzo Stato. Non soltanto la più antica, la società ternaria è stata anche la più diffusa e la più longeva articolazione sociale, la si ritrova infatti in tutto l’Occidente, in una forma compiuta a partire dal Medioevo, ed in tutto l’Oriente, lungo un arco temporale ancora più lungo, per poi durare rispettivamente fino alla definitiva comparsa dei moderni Stati centralizzati e all'avvento dell’epoca coloniale. Seppure con significative varianti, geografiche e temporali, si può sostenere l’universale diffusione e persistenza di uno schema sostanzialmente identico di divisione societaria in tre classi: una religiosa e intellettuale, cui fanno capo i valori ispiratori di fondo, una guerriera e militare, titolare del potere armato e della sicurezza, ed una composta da tutto il resto della società, contadini, artigiani, commercianti, all’occorrenza mobilitati come guerrieri. E’ una ripartizione, definibile anche come “trifunzionale”, che guarda alla sola parte maschile della popolazione, con quella femminile tanto decisiva per moltissime funzioni quanto esclusa da ogni ruolo di potere, e che si articola in un contesto territoriale di norma di dimensioni limitate, strutturato su poche istituzioni chiave: villaggi e piccole città con una comunità ristretta ed omogenea, ed i luoghi del potere e del culto.

Le società ternarie e la formazione dello Stato moderno

Interessa, ai fini del saggio, evidenziare che nelle società ternarie il diritto di proprietà è strettamente legato alle funzioni sociali, le due classi dirigenti sono anche le sole classi di possidenti, con un titolo di proprietà che, quasi sempre e quasi ovunque, inglobava oltre ai beni fisici anche le persone. Con l’ovvia conseguenza che, in relazione con la titolarità piena del potere, tutte le funzioni amministrative e istituzionali erano in capo alle due “classi alte”: in particolare spettava al clero il controllo e la registrazione di matrimoni, nascite e decessi, ed alla nobiltà guerriera la tenuta dei catasti e dei diritti di proprietà, la gestione delle controversie civili e commerciali. In una società trifunzionale ogni gruppo si colloca pertanto, con un proprio preciso ruolo, in un complesso di diritti e doveri che definisce anche formalmente il livello e le forme della disuguaglianza. Nella prospettiva di lungo termine con la quale P. intende analizzare disuguaglianze ed ideologie la “società ternaria” rappresenta il primo fondamentale stadio di un processo storico la cui influenza si farà sentire ancora a lungo sugli stadi successivi, in particolare sulle prime forme di Stato centralizzato che ingloberanno le sue dimensioni locali.

Sull’attualità delle società ternarie

Sono due le ragioni che spiegano il permanere di tale influenza: la presenza di alcune rilevanti similitudini nella struttura delle disuguaglianze, e soprattutto il peso delle condizioni e motivazioni storiche alla base della loro scomparsa che hanno lasciato tracce profonde sulla struttura degli stadi successivi. Lo scopo del successivo dettagliato studio della loro struttura sarà proprio quello di mettere bene a fuoco questi aspetti e di ripercorrere il filo logico dei collegamenti fra le diverse forme di società. Se ha quindi senso e utilità prendere in considerazione la “società ternaria” come iniziale paradigma pressoché universale nella storia delle disuguaglianze, è altrettanto opportuno tenere nella giusta considerazione le significative differenze che al suo interno contraddistinguono le diverse situazioni, così come è rilevabile da un grafico che misura l’incidenza in percentuale sul totale della popolazione adulta maschile delle “due classi alte” in tre diversi paesi,  Francia, Spagna e India, al culmine della parabola storica delle rispettive “società ternarie”:

Grafico 8


Emerge, ad esempio, con evidenza che, seppur confinanti e legate da intense relazioni storiche, Francia e Spagna presentano una rilevante differenza per il peso totale delle “classi alte”, poco sopra il 2% il dato francese a fronte dell’11,1% spagnolo, ed inoltre con una ripartizione al suo interno altrettanto dissimile. Paradossalmente la situazione della Spagna è più assimilabile a quella della “lontana” India.  Questo primo parziale quadro, per quanto limitato, evidenzia una diversa articolazione sociale all’interno di una identica struttura sociale ternaria che imporrà nelle successive analisi di tenere in debito conto le rispettive  vicende storiche, sociali e politiche, piuttosto che l’incidenza di specifici fattori etnici e ideologici.

La giustificazione  delle disuguaglianze nelle società ternarie

Il peso della “ideologia” appare infatti quanto mai evidente nella forma “trifunzionale” della società. P. evidenzia in questo Capitolo alcune delle ragioni, di ordine “ideologico”, alla base delle “società ternarie”. Per le quali occorre innanzitutto uscire dal luogo comune di un ordine sociale basato unicamente sulla coercizione. Come si avrà modo di meglio cogliere successivamente l’ordine trifunzionale è stato in grado di affermarsi e di reggere così a lungo anche grazie ad un consenso, ad una sua accettazione non solo passiva, perché altrettanto a lungo e quasi ovunque ha rappresentato una risposta efficace a due bisogni sociali essenziali: quello della sicurezza e stabilità e quello del “senso” di appartenenza ad una comunità. Questa risposta di ordine “funzionale” è stata la giustificazione tanto concreta quanto ideologica per l’assegnazione ai ciascuno dei tre gruppi sociali di una specifica funzione in grado di assicurare la vita della comunità nel suo insieme. Una narrazione ideologica che, non a caso, è stata universalmente tradotta nella metafora del corpo umano, con le diverse parti preposte a precisi compiti, con un premio, in termini di “diritto” ad avere di più, per le due classi preposte alle funzioni ritenute altrettanto ideologicamente di maggior valore.

Molteplicità delle élite, unità del popolo?

P. considera meritevole di approfondimento un altro aspetto, anch’esso di ordine ideologico e di valenza universale, alla base delle differenze interne alle società ternarie: la giustificazione della gerarchia fra le due “classi alte” ed il resto del “popolo” affidata alla  narrazione  dell’intreccio fra due aspetti tra di loro strettamente correlati: da una parte la molteplicità delle élite, in buona misura derivante da una concezione “teologica” della sfera del potere, e dall’altra l’unità del popolo, ossia la condizione comunitaria, e identitaria,  indispensabile per l’accettazione della sua subordinazione. Vale a dire, per il primo aspetto, che sarà importante capire come è stata concretamente gestita la convivenza, all’interno del reciproco sostenersi, tra potere spirituale e potere temporale e la conseguente “suddivisione dei compiti”. Un dato, fra i tanti che si avrà modo di vedere, si impone come centrale: il celibato dei religiosi e la loro riproduzione come gruppo sociale nettamente distinto. Emergono, in questo senso, diversità rilevanti: i “bramini” in India, ma non diversamente il “personale religioso” nell’Islam, soprattutto sciita, e nel giudaismo, possono riprodursi e formare così una classe ereditaria. Diversa la situazione invece per tutti i paesi di religione cristiana: al termine di un complesso processo storico quelli di tradizione cattolica, ed in parte in quelli ortodossi, hanno adottato il “celibato” del loro personale religioso ed hanno quindi meccanismi di adesione e formazione non ereditari. Per quanto concerne invece il secondo aspetto dell’”unità del popolo”, aspetto in qualche modo comune a tutte le società ternarie, sarà necessario considerare aspetti specifici delle diverse situazione, quali ad esempio,  le credenze di tipo religioso alla base delle “caste “ indiane, l’incidenza delle diversità etniche, piuttosto che la diversa velocità europea di superamento della schiavitù e del servaggio. Questi aspetti saranno pertanto analizzati a fondo anche per capire quanto abbiano inciso nel rapporto ideologia/disuguaglianza e nelle forme di società subentrate a quella ternaria

                                                                Capitolo 2

Le società dei tre ordini europee: potere e proprietà

(In cui P inizia a dettagliare alcuni aspetti dell’articolazione della “società ternaria” in Europa, con particolare riguardo alla situazione francese, per fornire un quadro di insieme entro il quale analizzare successivamente  i rapporti di potere e di proprietà delle sue tre classi)

Le società ternarie: una forma di equilibrio dei poteri?

Tutte le narrazioni europee, a partire da quelle medioevali, quali ad esempio resoconti vescovili, saggi teologici, descrizioni storiche, rappresentano a tutti gli effetti una comune giustificazione della divisione sociale in tre grandi gruppi presentata come un “dato di natura”. Questa giustificazione, che esclude di fatto ogni possibile scelta affidata al confronto sociale, ha, come si è appena visto, due sostanziali obiettivi: quello di giustificare, l’autorità delle due “classi alte” e quello di affermare una condizione unitaria, non riscattabile, di tutti i lavoratori del “terzo stato”. E mira, sulla base di correlate considerazioni etiche e religiose,  da una parte a richiamare clero e nobiltà al rispetto della loro missione sociale, e quindi a non inasprire oltre il “giusto” la pressione sul “terzo stato”, dall’altra ad affermare, lungo un percorso contraddittorio e non omogeneo per tutti i paesi, a quest’ultimo il diritto al superamento della schiavitù e del servaggio, tipici della originaria situazione medioevale. Questo processo di moderata razionalizzazione delle condizioni di lavoro, per quanto finalizzato al mantenimento dello status quo, è ormai considerato da molti storici la base della crescita demografica che interessa tutta l’Europa nel periodo 1000-1350, al termine del quale i dati disponibili attestano che in effetti schiavitù e servaggio hanno ormai carattere residuale, capovolgendo in questo modo la precedente opposta convinzione che proprio la grande peste di metà Trecento, responsabile della morte di un buon terzo della popolazione europea e della conseguente penalizzante scarsità di manodopera, fossero state al contrario la molla per il loro superamento. Questi storici, Jacques Le Goff per primo, ritengono che proprio i cambiamenti realizzati nella struttura del lavoro, già avvenuti quindi nel periodo 1300 – 1350, e poi successivamente ancor più consolidati, abbiano avuto, fra le altre, la conseguenza di accelerare l’affermarsi di nuove ideologie, alternative a quelle di sostegno alla “società ternaria”, e che pertanto siano stati i prodromi per  il suo successivo declino e superamento. P. evidenzia che è però difficile, in questo saggio, dare sostegno e completamento analitico a queste tendenze, peraltro condivise per quanto consentito dalle fonti descrittive, per la quasi totale mancanza di dati, in qualche modo ufficiali, sull’evoluzione della consistenza demografica, e della collegata quota di ricchezza posseduta, dei tre gruppi sociali “trifunzionali” per tutto il periodo che va dal Medioevo quantomeno al XXVII secolo (non a caso il precedente grafico si basa su dati di metà Settecento). L’unica eccezione in questo panorama europeo di mancanza di adeguata documentazione, è rappresentata dalla Francia, nella quale l’istituzione degli “Stati Generali”, che emblematicamente riuniva rappresentanti dei tre gruppi sociali, in qualche modo è stata una fonte di documentazione relativamente significativa. I resoconti delle convocazioni ed i verbali delle sedute offrono infatti importanti “indizi”. La prima convocazione degli “Stati Generali” fatta sulla base di un minimo di riscontro demografico (si tenga conto che il “censimento della popolazione” è una procedura introdotta in Europa nel 1800) è quella del 1614, seguita, però più di centocinquant’anni dopo, da quella “storica” del 1789. E’ quindi con ampio margine di approssimazione, incrociando i dati degli “Stati Generali” del 1614 con precedenti conteggi, molto più approssimativi e quasi sempre effettuati a fini fiscali, del numero di casati nobiliari e di strutture ecclesiastiche, che è possibile tracciare una curva della consistenza demografica, in % sul totale della popolazione, delle due “classi alte” francesi a partire dal 1380 fino al 1780:

Grafico 9



Appare evidente una decisa curva a scendere, il grafico evidenzia infatti un costante processo di contrazione, soprattutto dei nobili, che meglio spiega il dato francese del precedente Grafico 8, che misurava, al 1780, la percentuale delle due “classi alte” sulla sola popolazione adulta maschile. Si tratta di un processo di lungo periodo indispensabile per comprendere l’evoluzione storica delle “società ternarie” europee, alle quali è possibile, in mancanza di controindicazioni e considerata l’omogeneità delle parabole storiche, estendere come tendenza comune il dato francese - l’unico, come si è detto, in qualche modo confortato da sufficienti fonti - di una contrazione che si accentua, pur con diversità di valori assoluti fra un paese e l’altro (si veda ad es. il dato spagnolo del Grafico 8), in modo rilevante nel corso del 1700. La seguente tabella, che suddivide analiticamente i dati dei due grafici precedenti, aiuta a meglio comprende tale dinamica numerica:

Tabella 1



Come spiegare il calo numerico della nobiltà?

Quali cause possono spiegare tale contrazione delle “classi alte”, e della nobiltà in particolare? In che misura queste cause si prestano ad evidenziare una progressiva decadenza delle “società ternarie” europee? Una prima fondamentale causa va sicuramente rintracciata nelle dinamiche di potere, interne ed esterne, che nel corso del 1600 e 1700 hanno determinato la formazione dello Stato centralizzato con la conseguente parziale delegittimazione delle funzioni di clero e nobiltà. Con quest’ultima colpita in modo più accentuato anche perché le monarchie centralizzatrici, alla costante ricerca di finanziamenti e risorse, trovano, spesso incoraggiandola e sostenendola, una sponda sempre più importante nelle nuove élite mercantili e finanziarie, così depotenziando di fatto i margini di manovra economica in precedenza in capo esclusivo della nobiltà. Non è un quindi un caso che in questi stessi secoli la “nobiltà di toga”, dignitari a capo di funzioni amministrative fiscali e giuridiche, ed i ricchi commercianti in grado di “comprare” titoli nobiliari, si affianchino con progressione significativa e costante alla tradizionale “nobiltà di spada”, la primigenia nobiltà guerriera. La quale, del suo, reagisce alla crescenti difficoltà finanziarie, in ovvio rapporto con stili di vita ritenuti intoccabili, con un comportamento demografico sempre più “maltusianamente” prudente e con una tendenza a tutelare la “primogenitura”. Non a caso, come conseguenza, cresce parallelamente la percentuale di “cadetti” che si adatta a “carriere” ecclesiastiche. In Francia alla fine del 700 ben il 95% dei vescovi proviene dalla nobiltà. Per quanto rappresentino un indizio significativo le sole dinamiche demografiche non sono sufficienti a spiegare il processo di progressivo svuotamento della società trifunzionale, altri due fattori giocano un ruolo decisivo. La formazione degli Stati centralizzati e la crescita del peso economico e sociale di una classe in formazione che, per quanto temporaneamente inserita nello schema sociale ternario come “nobiltà di toga”, hanno infatti rappresentato, già nel corso del 700, due fattori in grado di scuotere dalle fondamenta il peso economico della nobiltà. Anche per questi due fattori non sono disponibili molti dati affidabili, ancora una volta è la Francia quella più ricca di fonti e quindi meglio valutabile. Alla vigilia del terremoto rivoluzionario, al termine di un processo di progressiva decrescita, verso il 1780, la nobiltà ed il clero francesi, vale a dire l’1,5% della popolazione, possedevano comunque ancora il 40-45% delle terre del regno, di cui il 25-30% in capo alla nobiltà ed il restante 15% in possesso del clero. Queste percentuali della ricchezza posseduta salgono poi di molto se si considera la “ricchezza mobile”; non è azzardato ipotizzare di raggiungere il 55-60% della ricchezza nazionale francese, con la monarchia a fare da padrone della quasi totalità della quota restante. Gli ultimi due decenni del 700 segnano una netta inversione di tendenza al punto da poter rappresentare il limite temporale ultimo della lunga storia delle “società ternarie” ed al tempo stesso il segnale di una svolta radicale verso una forma di società, e di disuguaglianza, diversa. Ancora la Francia e ancora la sua nobiltà sono un indicatore importante per cogliere analiticamente questa tendenza. Aiuta a metterla a fuoco visivamente il seguente grafico che pone a confronto, per il periodo 1780-1910 in Francia, l’andamento della quota di cognomi nobiliari sul totale decessi con quelle della quota percentuale di cognomi nobiliari nello 0,1” e nell’1% delle successioni più ricche……

Grafico 10

A conferma di quelli precedenti relativi alla percentuale di ricchezza immobile posseduta dalla nobiltà anche questi dati attestano, con ovvio parallelismo, che la classe nobiliare, la cui incidenza demografica vale mediamente l’1% della popolazione francese, possiede, e trasmette in eredità, una quota quanto mai significativa della ricchezza totale in qualunque modo venga valutata. Riprendendo poi le considerazioni sulla parabola storica della “società ternaria” l’andamento, di fatto simile, delle due curve della quota nobiliare delle successioni più ricche attesta un trend a scendere molto significativo se valutato nell’arco totale del periodo 1780-1910.  Una importante indicazione quindi della progressiva uscita di scena di una delle due “classi alte” alla base della società ternaria incapace di reggere l’urto, non solo socio/economico ma anche ideologico, della vincente nuova classe borghese. Le due curve non hanno però un andamento di regolare discesa, ambedue presentano una significativa ripresa verso l’alto nel periodo 1810/1820-1840/1850, spiegabili con la fase storica della, provvisoria, “Restaurazione” che segue le ondate rivoluzionarie di fine 700 e del periodo napoleonico, e con una provvisoria fase di ulteriore concentrazione non a caso una delle cause degli scoppi rivoluzionari del 1848. Ed è anche questa una significativa conferma dello stretto rapporto fra ideologia, e conseguenti concrete sul piano politico, e disuguaglianza.

La Chiesa come organizzazione proprietarista

Altrettanto importanti sono i dati relativi alle proprietà in capo alla seconda “classe alta”, quella del clero, che, come indicato in precedenza, possedeva nel 1780 una quota della ricchezza immobiliare, soprattutto terre, pari al 15%, alla quale è possibile aggiungere una percentuale del 10% di quella mobile, in gran misura legata al “sistema delle decime” ossia una quota percentuale fissa percepita dal clero su tutte le attività economiche e finanziarie, raggiungendo quindi una rilevante quota del 25% totale. Vale la pena ricordare che l’incrocio dei dati francesi, quelli più numerosi e più precisi, con quelli, per quanto meno precisi, degli altri paesi europei consente di ipotizzare un ordine di grandezza simile per l’intera Europa, con la significativa eccezione dell’Italia che vedeva all’epoca una quota di ricchezza decisamente più alta in capo alla Chiesa Cattolica. P. sottolinea però una significativa differenza fra il peso proprietarista del clero rispetto a quello della nobiltà: nel 1780 la quota di ricchezza in capo a quest’ultima, come si è detto, era sicuramente più alta, praticamente del doppio, ma era frammentata su una numerosa platea di singoli proprietari, mentre invece quella in capo al clero, stante la rigida organizzazione ecclesiastica, era di fatto attribuibile ad un unico proprietario: la Chiesa, o meglio ancora le Chiese. Che hanno quindi avuto nella forma trifunzionale della società un peso proprietaristico non egemonico come valore assoluto ma accompagnato da un ruolo di singolo operatore economico assolutamente decisivo. P. per esemplificare questo significativo aspetto propone un provocatorio collegamento, indicativo del permanere ai nostri giorni di alcuni istituti tipici della “società ternaria” che saranno successivamente esaminati in dettaglio: la quota del 25-30% di ricchezza in capo alla Chiesa nel 1780 equivale a quella formalmente posseduta dal Partito Comunista cinese attorno al 2010. Anche per la seconda classe alta la fine del 700 segna comunque  l’apice del suo peso economico e del suo ruolo di “classe alta”. Non è possibile sulla base dei dati disponibili tracciare una curva come quella vista in precedenza per la nobiltà (Grafico 10), il processo di contrazione delle ricchezze ecclesiastiche è stato, da lì in poi, costante e in buona misura determinato da fattori “locali”. Per dare conto dell’impressionante cambiamento avvenuto P. mette a confronto in una grafico la quota percentuale di ricchezza in capo al clero al 1780 con quella attribuibile nel 2010 alle istituzioni ecclesiastiche francesi allargando lo sguardo alla situazione giapponese e statunitense:

Grafico 11


Il raffronto è in buona misura forzato, troppo lontane fra di loro e con troppi cambiamenti intercorsi nel frattempo sono le due situazioni storiche messe a confronto, ma è visivamente adatto, per quanto non si presti a considerazioni più approfondite, a rappresentare il radicale mutamento avvenuto. In particolare se si tiene in debito conto, per la specifica situazione delle Chiese cristiane, la loro, originariamente comune, dottrina della “proprietà”. L’insegnamento di Cristo si è infatti evoluto, in stretta relazione con il diffondersi della religione cristiana e con il suo imporsi come religione di Stato, in una “giustificazione davanti a Dio” delle ricchezze possedute a condizione del trasferimento di una parte di esse alla Chiesa per sostenerne la missione salvifica e, più concretamente, le varie attività. Questa dottrina della “proprietà” legava strettamente la ricchezza alla struttura familiare, le cui relazioni, quali ad esempio i matrimoni fra cugini, il risposarsi delle vedove e la stessa adozione, erano normate in modo tale da garantire il flusso di donazioni alla Chiesa, consentendo così nel lungo periodo che va dai secoli IV e V fino al 1600/1700 il formarsi di un enorme patrimonio ecclesiastico. E’ nel corso del Medioevo che in Europa si consolida anche formalmente un Diritto, economico e finanziario, finalizzato a giustificare in forma ideologica compiuta il “possesso senza lavoro” dettagliandone tutte le pratiche lecite di gestione del capitale così accumulato. E’ quindi di fatto il Diritto canonico che, avvalorato dalla autorità morale della Chiesa, traduce in norma giuridica inattaccabile la proprietà delle due “classi alte”, lasciando alla “spada” il compito di garantirne la piena applicazione. P. concorda, sulla base di queste constatazioni, con la tesi, sostenuta da molti storici del diritto, che il diritto di proprietà “moderno”, anche nella sua versione emancipatrice rispetto all’ Ancient Regime, quella che traccia la cosiddetta “grande demarcazione” fra l’appropriazione legittima dei beni e l’appropriazione illegittima dei diritti delle persone, molto debba alla dottrina cristiana della proprietà. Questa dottrina ha infatti goduto a lungo di una aggiunta di credibilità derivante dalla natura di organismo “astratto” della Chiesa stessa che non è mai, perlomeno ufficialmente, esistita come “classe ereditaria fisica”. Questo aspetto la differenzia in modo significativo dall’induismo e dall’Islam nel cui ambito da sempre esistono consistenti classi clericali ereditarie il cui potere economico, basato su reti personali e familiari, non ha pertanto richiesto un apposito sistema dottrinale giustificativo. L’aspetto che più merita di essere evidenziato, a provvisoria chiusa di questo primo analizzare la “società ternaria”, consiste nel tenere nella giusta considerazione il fatto che il suo sviluppo storico, e le basi ideologiche che l’hanno sostenuto, se da una parte non ha retto alla prova del tempo dall’altra continua ad essere, come si avrà modo di vedere in dettaglio, una fonte ricca di insegnamenti per comprendere l’evoluzione successiva e non poche delle contraddizioni che caratterizzano il presente.

 

Capitolo 3

L’avvento delle società dei proprietari

(In cui P, riprendendo il filo della narrazione dagli ultimi decenni del 1700, inizia ad analizzare le caratteristiche della forma di società basata sulla “invenzione” della moderna “proprietà” nata nel contesto di rottura radicale con la precedente “società ternaria”)

 La grande demarcazione del 1789 e l’invenzione della proprietà moderna

In alcuni grafici precedenti si è già visto come gli ultimi due decenni del 1700 rappresentino il culmine della parabola europea della “società ternaria”. Ma gli sconvolgimenti, per quanto radicali, intervenuti in questi anni non devono essere intesi come la sua totale cancellazione, il superamento di questa forma di organizzazione della società sarà il risultato di un successivo percorso di alcuni decenni, tormentato e contraddittorio. Se resta quindi  indubbio che la Rivoluzione Francese del 1789 segna in qualche modo un punto di non ritorno è altrettanto certo che non può però essere vista come la definita instaurazione di una diversa struttura della società. P. coglie in questa esperienza una indicazione fondamentale per comprendere le reali modalità con le quali, in generale, si realizzano trasformazioni strutturali di un assetto societario, ed in particolare della idea di disuguaglianza che lo sostiene. Coerentemente con quanto puntualizzato nell’Introduzione relativamente alla inderogabilità di una sorta di “apprendimento collettivo” come condizione sine qua non per la “costruzione di una ideologia” P. precisa, proprio pensando alla concreta esperienza della Rivoluzione Francese, che questo apprendimento, e quindi la costruzione di un nuovo paradigma ideologico, è una complessa interazione tra eventi politici di breve periodo e istanze politico-ideologico di più lungo termine. Dedica, proponendolo come esempio illuminante in questo senso, alcune dense pagine a ripercorrere in modo particolareggiato il contraddittorio percorso storico che seguì il voto epocale della Assemblea Nazionale francese con il quale, nella notte del 4 Agosto 1789, venne sancita “l’abolizione dei privilegi” di monarchia, nobiltà e clero. Fu però immediatamente difficile un accordo su quali privilegi dovessero essere effettivamente aboliti, quali con indennizzo e quali senza compensazioni. Impossibile in questa sintesi entrare nel merito delle tormentate ed infuocate discussioni che il composito fronte rivoluzionario dedicò a capire se e come abolire le varie forme di privilegio: corvée, bannalità (la gestione di un servizio collettivo quale ad esempio un mulino, o un canale di irrigazione), affitti, lods (la modalità amministrativa di un trasferimento di proprietà). Il punto nodale che emerge dalla ricostruzione di P. consiste nella constatazione della oggettiva impossibilità di un accordo fra le varie anime dell’Assemblea Nazionale che consentisse di estendere la comune convinzione sul trasferimento allo Stato centralizzato dei poteri sovrani (sicurezza, giustizia, uso legittimo della violenza) anche alla compiuta definizione di un nuovo “diritto di proprietà”, in grado di conciliare la sfera privata del possesso con il ruolo di garante dello Stato. In accordo con quanto appena sopra P. sottolinea che la composizione disomogenea del fronte rivoluzionario, la sua evidente divisione fra la componente della nascente borghesia e quella del “terzo stato”, l’ancora insufficiente elaborazione di idee e prospettive più chiare, non consentivano di delineare una visione ideologica della proprietà già sufficientemente matura ed in grado di sostituire organicamente i paradigmi di possesso della “società ternaria”. Anche se non sono mancate alcune significative scelte, quelle che consentono, con ragione di causa, di parlare di “punto di non ritorno”. Spiccano in particolare la creazione del catasto pubblico, l’assegnazione allo Stato dei lods e delle relative tasse di trasferimento di proprietà, e del compito più generale di proteggere “la proprietà”, l’abbozzo di un sistema di tassazione progressiva sulle eredità. Passaggi sicuramente innovativi e significativi ma non era oggettivamente possibile, in quel contesto, definire le condizioni per un giusto “diritto di proprietà” a fronte della necessità di intervenire su un altissimo livello di disuguaglianza  e sulla enorme dimensione dei patrimoni delle due “classi alte”. In sostanza se da un certo punto di vista la Rivoluzione Francese è stato uno straordinario esperimento di trasformazione accelerata di una antica società ternaria è altrettanto innegabile il suo fallimento sulla questione chiave della disuguaglianza di proprietà. Un fallimento che, congiuntamente ai contraddittori noti sviluppi più politici della vicenda rivoluzionaria, non solo ha lasciato aperta la porta alla successiva “restaurazione”, ma che, come si avrà modo di vedere già nel successivo Capitolo 4, ha creato decisivi presupposti per la specifica forma che assumerà la “società dei proprietari”. Non a caso, anticipa P., all’inizio del XX secolo, cento anni dopo la Rivoluzione, la concentrazione di patrimoni in Francia era persino più elevata di quanto non fosse nel 1789. Seppure in buona misura in mani diverse.

L’ideologia proprietaristica, tra emancipazione e giustificazione della disuguaglianza

Nel quadro così complesso e tormentato degli questi ultimi decenni del 1700 francese è comunque possibile cogliere i germi della nascente ideologia proprietaristica. La quale, in una visione comunque rivoluzionaria della disuguaglianza, già punta in questo suo primo delinearsi ad una promessa di stabilità sociale e politica e di emancipazione individuale, basata proprio sul “diritto di proprietà”. Un diritto, peraltro esclusivamente patriarcale, che, in radicale diversità da quello della società ternaria, non guarda più alle origini sociali dei soggetti, e che è posto sotto la protezione dello Stato che se ne fa garante e difensore. Un diritto che è richiamato come fondamentale in tutte le “Dichiarazioni” che accompagnano la fase delle Rivoluzioni di fine XVIII secolo, da quella americana a quella francese, nella loro ideologica affermazione dei diritti naturali ed inalienabili dell’uomo quello “della proprietà” ne è parte insopprimibile. A conferma però della incompletezza della trasformazione sociale ipotizzata queste stesse Dichiarazioni accettano, con identica rilevanza sostanziale e formale, l’esistenza di “distinzioni sociali”, vale a dire “disuguaglianze”, viste come dato naturale non eliminabile ed alle quali viene posto il solo limite dell’essere fondate “sull’utilità comune”, ossia “sull’interesse generale”. Vale a dire che la proclamazione della “abolizione dei privilegi”, tassello comunque fondamentale per il superamento della società ternaria, da sola non definisce in modo esaustivo quale sia quella concretamente prescelta fra le tante possibili traiettorie che ne conseguono, ed inoltre che proprio questi fondamentali documenti “ideologici”, che indicano i principi generali che devono ispirare le future società, non si pongono certo la finalità ideale della soppressione della disuguaglianza in quanto tale. E’ ovviamente rintracciabile in questa costruzione ideologica l’interesse “di classe” della nascente borghesia, tanto attenta a demolire i presupposti del potere delle due “classi alte” quanto preoccupata di contenere il temuto eccesso di richieste da parte del “Terzo Stato”. L’argomento universalmente usato a supporto di questa visione è il timore che un eccessivo ampiamento dei diritti, e della platea sociale di chi ne potrebbe godere, rischi di divenire un processo incontrollabile di disgregazione sociale, di instabilità politica, di caos totale con la costante guerra di tutti contro tutti. Il vecchio ordine deve essere abolito ma ciò deve avvenire in un procedere ordinato e controllato. Non a caso la narrazione ideologica che accompagna questo argomento è allora consistita nella “sacralizzazione della proprietà privata”, il rispetto assoluto dei diritti di proprietà, legalmente acquisiti con la garanzia dello Stato, a stabilire al tempo un punto di non ritorno al passato ed una barriera verso un futuro incontrollabile. La “proprietà privata” assume in questo modo il ruolo della “nuova trascendenza” che colma il vuoto lasciato dalla fine dell’ideologia trifunzionale sancito dalla irruzione sulla scena storica di un quarto soggetto: “il proprietario”.  Le successive analisi dei dati e dei processi effettivamente realizzatisi nel corso dell‘Ottocento che P. presenterà nelle Parti e nei Capitoli successivi mirano esattamente a capire quale effettiva idea di disuguaglianza si sia concretamente realizzata sulla base di questa “sacralizzazione”.

 

Capitolo 4

La società dei proprietari: il caso della Francia

(In cui P.  sottopone alla verifica dei fatti storici reali le ideologiche dichiarazioni d’intenti della Rivoluzione francese del 1789 analizzando l’andamento del regime delle disuguaglianze effettivamente realizzato durante il successivo secolo XIX )

La Rivoluzione francese e lo sviluppo di una società dei proprietari

Si è già avuto modo di evidenziare la ricchezza francese di fonti documentali utili a ricostruire i processi reali di distribuzione della ricchezza, questa prerogativa pressoché unica nella situazione europea consente di verificare con buona precisione quanto si è concretamente verificato nel corso del XIX secolo nella patria della “Egalité”. Un primo grafico, costruito sulla base di questi dati, fotografa l’evoluzione della disuguaglianza francese dal 1780 al 1920 evidenziando la quota di ricchezza posseduta dall’1% più ricco di Francia e dall’1% più ricco di Parigi messa a confronto con quella posseduta dal 50% più povero di Francia e dal 50% più povero di Parigi

Grafico 12


Appare da subito evidente che la mitologia della Rivoluzione francese subisce un innegabile ridimensionamento alla prova dei fatti: la contrazione della quota di ricchezza in capo all’1% più ricco di Francia, e di Parigi, nel periodo 1780-1800 seppur significativa non appare certo di dimensioni clamorose mentre invece quella posseduta dal 50% più povero di Francia e di Parigi, la metà esatta della popolazione, di fatto non subisce scostamenti di rilievo. L’effetto reale delle vicende rivoluzionarie non soltanto è stato relativo ma è inoltre durato poco, molto poco: già a partire dal 1800 l’1% più ricco vede risalire la sua quota di ricchezza con una progressione sostanzialmente costante che lo porterà ad avere all’alba del XX secolo la stessa ricchezza di inizio 1800 mentre quello parigino arriva addirittura a superarla attestandosi oltre il 60%. A fronte di questo recupero per il 50% più povero invece praticamente nulla cambia. I due grafici successivi aiutano a meglio comprendere questi trend analizzando la ripartizione, nello stesso arco temporale, della ricchezza detenuta (patrimoni) e di quella creata (reddito)

Grafico 13

Grafico 14


Anche queste curve confermano che il XIX francese, nonostante la rottura rivoluzionaria del 1789, non ha visto una contrazione delle disuguaglianze che restano costanti, con scarti limitati e spiegabili con avvenimenti congiunturali. Ciò vale, relativamente alla ricchezza patrimoniale, sia per la quota in possesso al 10% più ricco, e al suo interno per quella dell’1% più ricco, sia per la irrisoria quota del 50% più povero. Non sembra neppure un secolo di balzo in alto per il ceto medio che non si discosta da una percentuale media del 15-16%. Evidentemente per le logiche economiche del tempo non era così facile un processo di accumulazione. La letteratura dell’epoca è ricca di vicende che raccontano la difficile, e spesso infruttuosa, scalata sociale del ceto medio. “Papà Goriot”, di Balzac, ne è un esempio straordinario. Papà Goriot muore povero, dopo aver dissipato una fortuna accumulata nei primi decenni del secolo XIX commerciando in granaglie per l’ambizioso, ma insostenibile, progetto di far sposare le sue due figlie con esponenti della migliore società parigina. Una storia che aiuta a comprendere anche la parziale diversità della curva relativa al reddito, alla ricchezza prodotta. Che infatti vede la quota del 10% più ricco non scostarsi mai più di tanto dal 50%, a fronte dell’82-83% della ricchezza patrimoniale, al suo interno la quota dell’1% più ricco evidenzia poi uno scarto ancora più ampio con un 20-21% di reddito posseduto rispetto al 52-53% di ricchezza patrimoniale. Nulla cambia come tendenza sia per i ceti medi che per la metà della popolazione più povera che si mantengono rispettivamente attorno ad una media del 37-39% e del 14%, ma la loro maggiore incidenza per quanto concerne la ricchezza prodotta, rispetto a quella patrimoniale, attesta il loro maggiore coinvolgimento attivo nei processi produttivi rispetto alle classi alte, le quali  al contrario non contribuiscono più di tanto alla produzione di nuova ricchezza  potendo contare sulla consistente rendita patrimoniale. L’eredità della “società ternaria” non è quindi stata scalfita più di tanto nel secolo successivo alle Rivoluzioni ed il fenomeno, anch’esso ben raccontato dalla letteratura, del mutamento della composizione della classe alta, nobili decaduti sostituiti da “proprietari” arricchiti, non ha modificato più di tanto la complessiva ripartizione della ricchezza. Si è sin qui parlato di Francia ma è bene avere una attenzione specifica per Parigi, non a caso evidenziata da P. nel precedente grafico 12, per la sua notevole incidenza sulla situazione nazionale, basti pensare che alla fine del 1800 a Parigi viveva il 5% della popolazione francese ma la ricchezza privata posseduta valeva ben il 25% di quella nazionale. Uno sguardo di dettaglio sulla composizione dei patrimoni francesi e parigini del periodo 1872-1912, reso possibile come già evidenziato dalla disponibilità di dati fiscali molto dettagliati, consente pertanto una valutazione utile a cogliere, al di là delle medie in percentuale dei due grafici precedenti, i mutamenti nelle forme di proprietà e quindi delle connesse figure sociali.

Tabella 2


E’ ad esempio interessante notare come l’incidenza delle proprietà immobiliari, pari mediamente al 41%, e al 43-42% per il decile superiore, rappresenti una tipologia di possesso più facilmente attribuibile alla antica nobiltà e alla parte più alta della schiera dei nuovi arricchiti, non a caso infatti per i quattro decili, i ceti medio-alti, che seguono scende al 27-31%, seppure con una tendenza a salire man mano che la ricchezza si consolida. Altrettanto interessante il fatto di come tenda a crescere, soprattutto per il centile più ricco, la propensione a diversificare il proprio patrimonio con investimenti su prodotti finanziari, all’interno dei quali, importante segnale di apertura dei mercati finanziari collegato alla fase coloniale, sempre più si investe su titoli stranieri. Sono ambedue importanti indicazioni sulla evoluzione della struttura delle disuguaglianze in quanto testimoniano che il progressivo superamento della società trifunzionale, che garantiva costanti ricchezza, ma tutta “interna”, alle due classi alte, da parte di una basata sulla “competizione nel mercato”, implica la necessità di “far rendere” i patrimoni. Correndo i rischi impliciti con le sue logiche, ancora una volta la letteratura aiuta a comprendere: César Birotteau, altro personaggio balzachiano, ricco produttore di profumi e cosmetici decide di investire il suo patrimonio in un rischioso investimento immobiliare nel quartiere parigino della Madeleine finendo però in rovina. I dati raccolti da P. nei due grafici e nella tabella precedenti coprono il periodo storico che si chiude a cavallo della Prima Guerra, che segnerà, come vedremo, l’inizio di una nuova decisiva evoluzione della struttura delle disuguaglianze, ed i cui ultimi due decenni sono passati alla storia con il nome di “belle époque”, l’epoca che segna il culmine della concentrazione di ricchezza che caratterizza, come si è visto, tutto il XIX secolo. In una Francia, ed una Parigi in particolare, sempre più attente all’evoluzione della struttura economica, che vedono il 70% della popolazione morire praticamente senza alcuna proprietà e l’1% più ricco detenere quasi il 70% di tutto quello che c’è da possedere. L’incrocio fra i residui dei privilegi dell’Ancient Règime e l’affermazione della nuova classe proprietaristica è ovviamente alla base di questa incredibile disuguaglianza ottocentesca, la quale però è stata possibile anche per il regime fiscale messo a punto, in nome del “rivoluzionario diritto di proprietà”, proprio durante la Rivoluzione francese e basato su pochissime voci di introito fiscale: una imposta di registro per ogni compravendita di beni immobili,  i vecchi lods,  e su quattro imposte dirette chiamate, per la loro longevità, le “quatre vieilles”, le “quattro vecchie”. Nel secolo  che segue la Rivoluzione e che vede la Francia entrare a pieno titolo nella modernità capitalistico la ricchezza venne tassata per tutto il 1800 con una aliquota dell’1% su qualsiasi  successione e compravendita immobiliare, mentre le “quattro vecchie”, il cui compito era di tassare tutta la ricchezza posseduta e prodotta, consistevano in: una tassa sulle “porte e finestre”, più una casa ne possedeva più pagava, in una tassa locale sempre sulle abitazioni basata sul valore di locazione, in una tassa sulle “licenze”, attività artigianali, commerciali e industriali, tarata sulle dimensioni fisiche della azienda e sulle attrezzature utilizzate, ed infine in una imposta fondiaria sempre proporzionata al valore teorico di locazione. Per tutto il XIX, e fino al 1914, il prelievo fiscale sulle proprietà immobiliari non è mai andato oltre il 3-4% sul loro reale rendimento. Tutte queste imposte inoltre avevano carattere “proporzionale” ossia tassavano con la stessa aliquota tutte le tipologie di ricchezza indipendentemente dal suo ammontare. Solo le vicende rivoluzionarie del 1848 e del 1870 hanno provvisoriamente riacceso il dibattito sulle politiche fiscali, ma le successive restaurazioni hanno impedito ogni significativo cambiamenti, con l’unica eccezione, nel 1872, di una imposta sui “redditi mobiliari”, ossia sul reddito reale ottenuto, ma ancora con una impostazione proporzionale e con una aliquota unica del 3%!  Questo sistema fiscale francese non ha quindi mai esercitato alcun impatto reale sulle modalità di accumulazione e di successione delle ricchezze essendo troppo permeato di quella ideologia “proprietaristica” intrinsecamente legata alla stessa Rivoluzione del 1789, le cui promesse di “egalité”, di uguaglianza, non furono pertanto mai realizzate. La Francia deve attendere il 1914, e le impellenti necessità di finanziare la Grande Guerra, per introdurre una imposta progressiva sul reddito, giungendo buona ultima in un quadro, comunque ovunque molto lento rispetto alle dinamiche di trasformazione economica, che vede l’introduzione di una simile tassazione nel1870 in Danimarca, nel 1887 in Giappone, nel 1891 in Prussia, nel 1903 in Svezia, nel 1909 nel Regno Unito, nel 1913 negli USA.

Il capitalismo: un proprietarismo dell’epoca industriale

Entrati con il XIX secolo francese nel pieno dell’affermazione del mercato capitalistico, prima di analizzare nel Capitolo successivo le parallele situazioni delle altre nazioni europee, P. chiarisce il legame che, in questa sua analisi, ha inteso tra proprietarismo e capitalismo. Per meglio comprendere l’evoluzione storica della struttura delle disuguaglianze ritiene che sia più opportuno vedere sorgere, al culmine della parabola della società ternaria, la forma sociale del proprietarismo, della “società dei proprietari”. All’interno della quale il capitalismo ne diventa la forma specifica a partire dalla seconda metà del XIX secolo ovvero con il pieno affermarsi della grande industria e della finanza internazionale capitalistica. Gli effetti sulla struttura delle disuguaglianze, riconducibili più propriamente al mercato capitalistico, si faranno quindi compiutamente sentire nel XX secolo, allorquando il “Capitale” inciderà in forma definitiva sull’accumulazione di beni e sull’estensione dei limiti della “proprietà privata” travalicando le tradizionali forme di possesso ed i vecchi confini nazionali. Non si tratta quindi di porre in alternativa tra di loro capitalismo e proprietarismo, il primo in effetti nasce e si sviluppa in intima connessione con il secondo in un legame che vede nel “diritto alla proprietà privata” un collante indissolubile. La “belle époque” rappresenta in questo quadro il momento storico in cui il proprietarismo originario del XIX secolo assume definitivamente la veste del “capitalismo classico”, il quale a sua volta, un secolo dopo, si trasformerà nell’iper-capitalismo mondiale nell’era della rivoluzione tecnologica e digitale e della finanziarizzazione dell’economia. Il proprietarismo è teoricamente il presupposto ideologico, ponendo il diritto di proprietà a base della società, anche delle forme di diffuso possesso individuale e delle ristrette e tradizionali economie locali, ma la logica dell’accumulazione, inscindibilmente legata al diritto di proprietà, lo porta inevitabilmente ad estremizzarsi nella forma del capitalismo. La sensibilità della letteratura coglie perfettamente questo salto logico: i confusi e instabili proprietari di inizio 800 raccontati da Balzac si trasformano nei cinici e spietati capitalisti di fine XIX secolo, ed i romanzi di Emile Zola ad esempio, si pensi al suo “Germinal”, li descrivono nei loro nuovi e veri tratti sociali.

 

Capitolo 5

Le società dei proprietari: traiettorie

(In cui P. completa la sua analisi dell’evoluzione delle disuguaglianze nella “società dei proprietari” europea avvenuta nel corso del XIX secolo nel resto dell’Europa individuando significative diversità di percorso)

La consistenza demografica del clero e della nobiltà: il caso dell’Europa

L’esperienza francese si distingue nel panorama europeo non solo per la maggiore disponibilità di fonti documentali ma soprattutto per le sue specifiche modalità della transizione dalla società trifunzionale a quella dei proprietari. Va peraltro considerato che questo processo è molto condizionato dai vari fattori locali e che quindi, se è possibile affermare che in generale il secolo XIX segna ovunque  il compimento di questa evoluzione, ogni paese l’ha vissuto con tempi e modalità specifici. Nell’impossibilità di seguire in modo analitico ogni singola traiettoria storica P. concentra in questo Capitolo la sua attenzione su due specifiche situazioni, quella del Regno Unito e quella della Svezia, in quanto paradigmatiche di due diversi percorsi che, unitamente a quello francese, possono in qualche modo sintetizzare l’intera vicenda europea. Come per la Francia il dato di partenza consiste nel delineare l’incidenza demografica delle due “classi alte”

Grafico 15


Uno sguardo di lungo termine consente di cogliere un dato comune alle tre situazioni europee prese in esame: la riduzione del peso demografico del clero nell’ambito della popolazione maschile adulta. Ma uno sguardo più attento alle singole variazioni coglie alcune differenza significative. Si è già detto della Francia, e del suo processo di contrazione che già nel 1780 conosce un significativo calo, al contrario il declino in Spagna appare molto più lento, mantenendosi su percentuali sempre molto più alte rispetto a quelle francesi e inglesi per raggiungerle solamente in pieno Novecento. Nel Regno Unito al contrario il processo inizia molto prima con la chiusura dei monasteri decisa nel 1530 da Enrico VIII in vista della nascita della Chiesa Anglicana, a conferma del difficile, e spesso molto turbolento, rapporto fra le due classi alte. Ancor più marcata è la differenza di situazioni se si esamina la consistenza demografica della nobiltà:

Grafico 16

Emerge con evidenza la divisione in due gruppi: un primo, comprendente Francia, UK e Svezia, con una esigua incidenza demografica della nobiltà sul totale della popolazione, ed un secondo, che raccoglie tutte le altre nazioni, con un elevato numero di nobili. Questa notevole differenza, il secondo gruppo vale mediamente tre volte tanto il primo, si spiega ovviamente con le complessità – territoriali, politiche, ideologiche, militari e fiscali – dei rispettivi percorsi storici, ed ha una decisiva ricaduta sul “potere” contrattuale delle singole classi nobiliari: a fronte di una capacità di “prelievo” di ricchezza di fatto identico una classe numericamente più ampia implica una suddivisione delle proprietà e del collegato peso politico, viceversa ad una classe nobiliare di dimensioni contenute corrisponde concentrazione di ricchezza e importanti posizioni di potere. Da questo punto di vista il Regno Unito e la Svezia sono assimilabili, non così il rispettivo percorso di superamento della “classe ternaria”

Il Regno Unito e la gradualità ternaria-proprietaria

Il caso del Regno Unito è particolarmente interessante perché riguarda la nazione che di più ha avuto ruolo nel “colonialismo”, analizzato da P. nella prossima Parte Seconda,  che è stata alla guida del pieno avvento dell’industrializzazione, e perché rappresenta una situazione opposta a quella francese. Mentre questa è stata caratterizzata da una brusca interruzione rivoluzionaria nel Regno Unito si assiste al contrario ad una piena gradualità di passaggio da una forma di società all’altra, seppur non priva di passaggi tormentati, basti pensare alla rilevanza della “questione irlandese” di cui si dirà a breve. Erano già non poco differenti, rispetto alla Francia, le condizioni di partenza, in particolare le istituzioni politiche e rappresentative: l’istituzione del Parlamento britannico ha infatti origini antiche, tra l’XI ed il XII secolo, e già dal XIV secolo si articola su un bicameralismo, ovviamente del tutto imperfetto, tra Camera dei Lord e Camera dei Comuni, una impostazione che tuttora permane seppure con posizioni invertite. Inizialmente, e per alcuni secoli, la Camera dei Lord era costituita dalle due classi alte, i lord “spirituali”, ossia l’alto clero, ed i lord “temporali”, vale a dire la nobiltà di più alto rango, ma la già citata svolta  del 1530 comprime in modo decisivo il peso e l’influenza dei primi. Ricchezza e potere sono quindi da quel momento concentrati nelle mani dell’alta aristocrazia inglese il cui peso demografico sul totale della popolazione, come indicato nel precedente Grafico 16, si attesta attorno all’1% nel 1800 per scendere alla quota molto bassa del 0,2% nel 1880. Vale a dire che alla fine del XIX secolo settemila famiglie nobili possedevano l’80% delle terre del Regno Unito, e di queste ben la metà era nelle mani di 250 famiglie, lo 0,01% della popolazione. Il potere politico britannico è stato ancora per tutto il 1800 saldamente concentrato nella Camera dei Lord, la quale, in assenza di contrapposizioni significative, ha potuto attuare una vincente difesa dei propri privilegi. D’altronde anche la Camera dei Comuni era a sua volta costituita principalmente da membri della nobiltà. Ancora negli anni Sessanta dell’Ottocento il 75% dei suoi seggi erano occupati da nobili seppur di rango inferiore rispetto ai “pari” della Camera dei Lord, mentre il restante 25% era rappresentato dalla “gentry”, la piccola nobiltà terriera priva di titolo che, pur essendo numericamente più numerosa dell’alta aristocrazia, non godeva di certo di un particolare peso decisionale. La condizione sine qua non per essere ammessi, anche solo come gentry, al Parlamento inglese era tradizionalmente collegata al possesso di terre, il che ha comportato che anche le nuove figure sociali, quelle arricchitesi sull’onda della nascente economia industriale, per poter in qualche modo incidere sulle scelte politiche parlamentari, dovevano avere il “buon gusto” di acquisire proprietà terriere le più ampie possibili. Consiste in questo aspetto, secondo P., la ragione per la quale nel Regno Unito si è realizzata una fusione tra logiche aristocratiche e logiche proprietaristiche, che spiega la gradualità, lenta e non esasperatamente conflittuale, del passaggio dalla società ternaria a quella proprietaristica. Vale a dire che se la borghesia industriale e commerciale britannica, condizionata dalle specifiche modalità britanniche di esercizio del potere, almeno in parte ha fatto sue anche le logiche aristocratiche, al tempo stesso anche l’alta nobiltà inglese non si è arroccata su posizioni di cieca difesa dello status quo ma ha accompagnato il cambiamento imposto dal crescente affermarsi della “società dei proprietari”. Da una parte ha infatti progressivamente differenziato il suo patrimonio, comunque in gran misura sempre basato sul possesso di terre, investendo nella varie attività finanziarie ed azionarie, ma soprattutto ha avuto un ruolo centrale nell’adozione delle Enclosures Act, le leggi di esproprio a fini privati delle terre demaniali che costituivano una fondamentale fonte di sopravvivenza per le classi rurali di conseguenza costrette all’inurbamento, un fenomeno accuratamente descritto da Karl Marx perché ritenuto centrale nel processo di creazione del proletariato urbano e della accumulazione originaria. Queste leggi furono accompagnate da un insieme di provvedimenti liberticidi di fortissima oppressione che spiegano in buona misura l’impossibilità di forme di protesta e reazione. Anche in questo caso, come in Francia, alla base di questi processi sta l’ideologica esaltazione del “diritto di proprietà”, fatto proprio, per l’appunto, dalla stessa nobiltà nel suo percorso di ibridazione nelle logiche proprietaristiche. Ed ancora una volta aiutano a comprendere questi fenomeni, nel dettaglio delle situazioni raccontate, molte opere letterarie del periodo, quali i romanzi di Jane Austen, fra i tanti ad esempio “Ragione e sentimento”, ed una particolare pubblicazione “L’Almanacco di Burke” che, antesignana dell’attuale rivista Forbes, ha meticolosamente illustrato per tutto il XIX secolo l’elenco dei “più ricchi” del Regno Unito e soprattutto la composizione dei loro patrimoni. La spinta decisiva al superamento della “società ternaria” nel Regno Unito si manifesta quindi non tanto sul terreno degli interessi economici, vista la compenetrazione con i “proprietari” di cui si è detto, né tantomeno sul piano ideologico che vede le due componenti accomunate nell’esaltazione del “diritto di proprietà”, ma sul piano più propriamente politico. Nel corso del XIX secolo la diversità di finalità economiche, comunque esistente ed espressa in particolare dai “proprietari” più legati alla sfera produttiva, i veri “capitalisti”, coniugata con la necessità di contenere le crescenti spinte rivendicative delle classi popolari, sono i presupposti per la nascita del partito liberale, “whig”, il cui obiettivo principale è il ridimensionamento del potere della Camera dei Lord. Un risultato raggiunto ancora una volta con un processo graduale che vedrà il suo compimento soltanto all’indomani della Prima Guerra. E’ interessante, per meglio cogliere la diversità dei percorsi di uscita dalla società ternarie, il seguente grafico che mette a confronto l’evoluzione del voto maschile nelle tre nazioni europee che per P. meglio la rappresentano

Grafico 17



Emerge con evidenza la diversità del percorso francese, ancora una volta caratterizzato da uno scarto improvviso e rivoluzionario, da quello britannico che, in sintonia con il quadro tracciato, vede una costante gradualità. La situazione svedese, a breve affrontata da  P.,  sembra situarsi a mezza strada fra questi due estremi. Tornando allo specifico del Regno Unito le due riforme elettorali del 1867 e del 1884 segnano il definitivo passaggio del potere politico decisionale dalla Camera dei Lord alla Camera dei Comuni sancendo, anche istituzionalmente, l’avvento della “società dei proprietari”. Un traguardo che viene quindi raggiunto a ridosso del nuovo secolo e di ulteriori altri radicali cambiamenti ideologici e della struttura delle disuguaglianze. Come anticipato in precedenza P. ritiene significativa la vicenda “irlandese” non soltanto per il suo indubbio peso sull’evoluzione del quadro britannico, ma anche per alcune sue caratteristiche esemplare. L’Irlanda è stata infatti al tempo stesso una situazione di incredibile disuguaglianza e di durissima occupazione di stile coloniale in piena Europa a poche miglia di distanza dal cuore della nuova modernità industriale (a  causa della quale nella carestia del 1845-1848 si contò più di un milione di morti ed un milione e mezzo di emigrati su una popolazione di otto milioni di persone) che testimonia la possibilità di coesistenza temporale e spaziale di forme “moderne” di disuguaglianza con altre di natura “medioevale”. A chiusura dell’analisi della situazione del Regno Unito P., con il seguente grafico, ne riassume l’evoluzione della ricchezza posseduta a conferma dell’incidenza dei fattori sin qui presi in esame

Grafico 18

Si coglie visivamente bene come le curve della ricchezza posseduta nel Regno Unito restino sostanzialmente invariate per tutto il XIX secolo a definitiva conferma di un processo tutt’altro che innovativo ed incapace di incidere realmente sulla struttura delle disuguaglianze.

La Svezia e l’organizzazione della società in quattro ordini

Non sembra sfuggire a questa constatazione la situazione della Svezia che, nel periodo storico finora considerato, presenta infatti curve perfettamente analoghe a quelle britanniche:

Grafico 19


Appare quindi difficile comprendere come sia stata possibile, sulla base di queste premesse, una evoluzione che ha portato la Svezia ad essere la nazione con il più basso livello di disuguaglianza della storia. Un primo elemento da tenere in considerazione è l’esistenza di un modello svedese di rappresentanza parlamentare che, al di là della sua incapacità di incidere concretamente sulla disuguaglianza ancora per tutto il XIX secolo, presentava da tempo un carattere decisamente originale e tale da essere di base per alcuni decisivi cambiamenti avvenuti nei primi decenni del Novecento. Già dal XVI secolo il Parlamento svedese era infatti basato su distinti rappresentanti di quattro ordini: nobiltà, clero, borghesia urbana e contadini proprietari di terre. E non deve di certo stupire più di tanto il fatto che, in linea con il quadro europeo, tale rappresentanza quaternaria sia stata, fino alla seconda metà dell’Ottocento, di molto sbilanciata a favore della nobiltà, la quale, altrettanto analogamente a buona parte del resto dell’Europa, era demograficamente molto contenuta: lo 0,5% della popolazione nel 1750, sceso allo 0,4% nel 1800 ed al 0,3% nei censimenti del 1850 e del 1900. Ed il precedente Grafico 17 evidenzia una evoluzione del sistema elettorale tutt’altro che accelerata. Ma la grande peculiarità del sistema elettorale censitario svedese messo a punto negli ultimi decenni del 1800, sicuramente orientato dalla precedente suddivisione nei quattro ordini, consiste nel fatto che gli elettori avevano un numero di voti variabile in modo proporzionale rispetto al censo: ogni elettore disponeva di un numero di voti, in una scala che variava da 1 voto a 54 voti, determinato dalle tasse versate, dalle proprietà possedute, e dai redditi. Un sistema decisamente originale che in qualche modo sanciva in modo preciso l’esistenza di una ideologia “proprietaristica” capace di produrre ricadute effettive sulle modalità di gestione del potere. Una logica che secondo P. ha strette relazioni che la formula proprietaristica delle “Società per azioni”, una delle architravi societarie delle imprese capitalistiche sorte nel XIX secolo. Va inoltre evidenziato che questo stesso sistema se per un verso, in armonia con il quadro visto nel Grafico 19, ha consentito una gestione “prudente” delle politiche fiscali e sociale svedesi già nel 1919, con l’adozione del suffragio universale (ancora solo maschile), vede la vittoria del Partito Socialdemocratico che governerà per tutti gli anni Venti e poi ancora ininterrottamente dal 1932 al 2006. L’esperienza svedese è quella che meglio dimostra che l’affermazione della “società dei proprietari” su quella ternaria non è stata un percorso monolitico e che il comune presupposto ideologico del “diritto alla proprietà privata” ha lasciato aperta la questione delle modalità del regime politico e ha consentito  in modo altrettanto differenziato l’irruzione di elementi ideologici alternativi alla stessa logica “proprietaristica”.

La deriva della disuguaglianza nella società dei proprietari del XIX secolo

Il confronto comparato fra le tre situazioni nazionali prese in esame da P. attesta che il superamento europeo della forma della “società ternaria” non ha prodotto durante tutto il secolo XIX una riduzione del livello delle disuguaglianze che rimangono molto elevate, come si è visto nei grafici precedenti, per tutto il secolo fino a raggiungono, negli ultimi decenni del secolo, un picco estremo persino superiore a quelli dell’Ancient Règime. Per registrare le prime significative variazioni occorrerà infatti attendere almeno fino agli anni 20 del Novecento. I seguenti due grafici sintetizzano questo percorso evidenziando i livelli altissimi di concentrazione delle ricchezze, da patrimonio e da reddito, del periodo 1880-1914, gli anni della “belle époque”.

Grafico 20



Grafico 21

Sono questi i dati, di inequivocabile lettura, che sanciscono oggettivamente l’incidenza reale del superamento della “società ternaria” fondato sull’ideologia del “diritto alla proprietà privata” e che rimandano quello della struttura delle disuguaglianze, unitamente all’eredità della “società coloniale e schiavista” che P. analizzerà nella prossima Parte Seconda, al decisivo secolo XX.