Il “Saggio” del mese
Prosegue, così come preannunciato con il “Saggio” dello scorso
mese, la pubblicazione di una nostra sintesi del testo di Thomas Piketty
“Capitale ed ideologia”. In questo mese potrete trovare quella relativa alla
“Parte Prima” nella quale Piketty esamina la struttura delle disuguaglianze
nelle “società ternarie”, ossia quelle basate sulle tre classi della nobiltà,
del clero e del “terzo stato”, e della loro evoluzione, in Europa, nella
“società dei proprietari”, la quale nella sua fase più matura coinciderà con il
pieno avvento del mercato capitalistico e delle sue collegate disuguaglianze.
Successivamente nella “Parte seconda”, la cui sintesi sarà qui pubblicata
appena possibile, Piketty analizzerà quella delle società “coloniali” e
“schiaviste”. Egli ritiene infatti, così come esplicitato nella “Introduzione”,
da noi sintetizzata nel “Saggio” dello scorso mese, che le attuali
disuguaglianze, alle quali aveva dedicato il suo precedente lavoro “Il Capitale
nel XXI secolo”, possano essere meglio comprese non soltanto cogliendo i
fattori contemporanei che le determinano, ma anche individuando, con uno
sguardo storico di lungo termine, i significativi retaggi ereditati da tutte le
precedenti forme di società e dalle loro
collegate strutture delle disuguaglianze. Questa “Parte prima”, unitamente a
quella che seguirà, va quindi letta con questo spirito al fine di meglio
comprendere quanto sarà successivamente analizzato nella Parte, quella centrale
in questo suo complesso e corposo saggio, che Piketty dedicherà alla “Grande
trasformazione del XX secolo”.
Parte prima
I regimi della disuguaglianza nella storia
Capitolo 1
Le società ternarie: la
disuguaglianza trifunzionale
(P. inizia ad illustrare gli aspetti di base di una forma della
società, quella “ternaria”, di fondamentale importanza nella storia delle
disuguaglianze, anticipando in particolare quelli più rilevanti ai fini del
saggio che verranno pertanto analizzati in dettaglio nelle Parti e nei Capitoli
successivi)
La logica
trifunzionale: clero, nobiltà, terzo Stato
La più antica
forma di regime societario basato sulla disuguaglianza è sicuramente quella,
definita da P. “società ternaria”, formata cioè da una ripartizione in
tre gruppi sociali: clero, nobiltà, terzo Stato. Non soltanto la più antica, la
società ternaria è stata anche la più diffusa e la più longeva articolazione
sociale, la si ritrova infatti in tutto l’Occidente, in una forma compiuta a
partire dal Medioevo, ed in tutto l’Oriente, lungo un arco temporale ancora più
lungo, per poi durare rispettivamente fino alla definitiva comparsa dei moderni Stati
centralizzati e all'avvento dell’epoca coloniale. Seppure con significative varianti,
geografiche e temporali, si può sostenere l’universale diffusione e persistenza
di uno schema sostanzialmente identico di divisione societaria in tre classi:
una religiosa e intellettuale, cui fanno capo i valori ispiratori di fondo, una
guerriera e militare, titolare del potere armato e della sicurezza, ed una
composta da tutto il resto della società, contadini, artigiani, commercianti,
all’occorrenza mobilitati come guerrieri. E’ una ripartizione, definibile anche come “trifunzionale”, che guarda alla sola parte maschile della
popolazione, con quella femminile tanto decisiva per moltissime funzioni quanto
esclusa da ogni ruolo di potere, e che si articola in un contesto territoriale
di norma di dimensioni limitate, strutturato su poche istituzioni chiave:
villaggi e piccole città con una comunità ristretta ed omogenea, ed i luoghi del
potere e del culto.
Le società
ternarie e la formazione dello Stato moderno
Interessa, ai
fini del saggio, evidenziare che nelle società ternarie il diritto di proprietà
è strettamente legato alle funzioni sociali, le due classi dirigenti sono anche
le sole classi di possidenti, con un titolo di proprietà che, quasi sempre e
quasi ovunque, inglobava oltre ai beni fisici anche le persone. Con l’ovvia
conseguenza che, in relazione con la titolarità piena del potere, tutte le
funzioni amministrative e istituzionali erano in capo alle due “classi alte”:
in particolare spettava al clero il controllo e la registrazione di matrimoni,
nascite e decessi, ed alla nobiltà guerriera la tenuta dei catasti e dei
diritti di proprietà, la gestione delle controversie civili e commerciali. In
una società trifunzionale ogni gruppo si colloca pertanto, con un proprio
preciso ruolo, in un complesso di diritti e doveri che definisce anche
formalmente il livello e le forme della disuguaglianza. Nella prospettiva di
lungo termine con la quale P. intende analizzare disuguaglianze ed ideologie la “società
ternaria” rappresenta il primo fondamentale stadio di un processo storico la
cui influenza si farà sentire ancora a lungo sugli stadi successivi, in
particolare sulle prime forme di Stato centralizzato che ingloberanno le sue
dimensioni locali.
Sull’attualità
delle società ternarie
Sono due le
ragioni che spiegano il permanere di tale influenza: la presenza di alcune rilevanti
similitudini nella struttura delle disuguaglianze, e soprattutto il peso delle
condizioni e motivazioni storiche alla base della loro scomparsa che hanno
lasciato tracce profonde sulla struttura degli stadi successivi. Lo scopo del
successivo dettagliato studio della loro struttura sarà proprio quello di
mettere bene a fuoco questi aspetti e di ripercorrere il filo logico dei collegamenti
fra le diverse forme di società. Se ha quindi senso e utilità prendere in
considerazione la “società ternaria” come iniziale paradigma pressoché
universale nella storia delle disuguaglianze, è altrettanto opportuno tenere
nella giusta considerazione le significative differenze che al suo interno contraddistinguono
le diverse situazioni, così come è rilevabile da un grafico che misura
l’incidenza in percentuale sul totale della popolazione adulta maschile delle
“due classi alte” in tre diversi paesi,
Francia, Spagna e India, al culmine della parabola storica delle
rispettive “società ternarie”:
Grafico 8
Emerge, ad
esempio, con evidenza che, seppur confinanti e legate da intense relazioni
storiche, Francia e Spagna presentano una rilevante differenza per il peso
totale delle “classi alte”, poco sopra il 2% il dato francese a fronte
dell’11,1% spagnolo, ed inoltre con una ripartizione al suo interno altrettanto
dissimile. Paradossalmente la situazione della Spagna è più assimilabile a
quella della “lontana” India. Questo
primo parziale quadro, per quanto limitato, evidenzia una diversa articolazione
sociale all’interno di una identica struttura sociale ternaria che imporrà
nelle successive analisi di tenere in debito conto le rispettive vicende storiche, sociali e politiche,
piuttosto che l’incidenza di specifici fattori etnici e ideologici.
La
giustificazione delle disuguaglianze
nelle società ternarie
Il peso della
“ideologia” appare infatti quanto mai evidente nella forma “trifunzionale”
della società. P. evidenzia in questo Capitolo alcune delle ragioni, di ordine
“ideologico”, alla base delle “società ternarie”. Per le quali occorre innanzitutto
uscire dal luogo comune di un ordine sociale basato unicamente sulla
coercizione. Come si avrà modo di meglio cogliere successivamente l’ordine
trifunzionale è stato in grado di affermarsi e di reggere così a lungo anche
grazie ad un consenso, ad una sua accettazione non solo passiva, perché altrettanto
a lungo e quasi ovunque ha rappresentato una risposta efficace a due bisogni
sociali essenziali: quello della sicurezza e stabilità e quello del “senso” di
appartenenza ad una comunità. Questa risposta di ordine “funzionale” è stata la
giustificazione tanto concreta quanto ideologica per l’assegnazione ai ciascuno
dei tre gruppi sociali di una specifica funzione in grado di assicurare la vita
della comunità nel suo insieme. Una narrazione ideologica che, non a caso, è
stata universalmente tradotta nella metafora del corpo umano, con le diverse parti
preposte a precisi compiti, con un premio, in termini di “diritto” ad avere di
più, per le due classi preposte alle funzioni ritenute altrettanto
ideologicamente di maggior valore.
Molteplicità
delle élite, unità del popolo?
P. considera meritevole di
approfondimento un altro aspetto, anch’esso di ordine ideologico e di valenza
universale, alla base delle differenze interne alle società ternarie: la giustificazione
della gerarchia fra le due “classi alte” ed il resto del “popolo” affidata
alla narrazione dell’intreccio fra due aspetti tra di loro
strettamente correlati: da una parte la molteplicità delle élite, in buona
misura derivante da una concezione “teologica” della sfera del potere, e
dall’altra l’unità del popolo, ossia la condizione comunitaria, e
identitaria, indispensabile per
l’accettazione della sua subordinazione. Vale a dire, per il primo aspetto, che
sarà importante capire come è stata concretamente gestita la convivenza,
all’interno del reciproco sostenersi, tra potere spirituale e potere temporale
e la conseguente “suddivisione dei compiti”. Un dato, fra i tanti che si avrà
modo di vedere, si impone come centrale: il celibato dei religiosi e la loro
riproduzione come gruppo sociale nettamente distinto. Emergono, in questo
senso, diversità rilevanti: i “bramini” in India, ma non diversamente il
“personale religioso” nell’Islam, soprattutto sciita, e nel giudaismo, possono
riprodursi e formare così una classe ereditaria. Diversa la situazione invece
per tutti i paesi di religione cristiana: al termine di un complesso processo
storico quelli di tradizione cattolica, ed in parte in quelli ortodossi, hanno
adottato il “celibato” del loro personale religioso ed hanno quindi meccanismi
di adesione e formazione non ereditari. Per quanto concerne invece il secondo
aspetto dell’”unità del popolo”, aspetto in qualche modo comune a tutte le
società ternarie, sarà necessario considerare aspetti specifici delle diverse
situazione, quali ad esempio, le
credenze di tipo religioso alla base delle “caste “ indiane, l’incidenza delle
diversità etniche, piuttosto che la diversa velocità europea di superamento
della schiavitù e del servaggio. Questi aspetti saranno pertanto analizzati a
fondo anche per capire quanto abbiano inciso nel rapporto ideologia/disuguaglianza
e nelle forme di società subentrate a quella ternaria
Capitolo 2
Le società dei tre ordini europee:
potere e proprietà
(In cui P inizia a dettagliare alcuni aspetti dell’articolazione della
“società ternaria” in Europa, con particolare riguardo alla situazione
francese, per fornire un quadro di insieme entro il quale analizzare
successivamente i rapporti di potere e
di proprietà delle sue tre classi)
Le società
ternarie: una forma di equilibrio dei poteri?
Tutte le
narrazioni europee, a partire da quelle medioevali, quali ad esempio resoconti
vescovili, saggi teologici, descrizioni storiche, rappresentano a tutti gli
effetti una comune giustificazione della divisione sociale in tre grandi gruppi
presentata come un “dato di natura”. Questa giustificazione, che esclude di
fatto ogni possibile scelta affidata al confronto sociale, ha, come si è appena
visto, due sostanziali obiettivi: quello di giustificare, l’autorità delle due
“classi alte” e quello di affermare una condizione unitaria, non riscattabile,
di tutti i lavoratori del “terzo stato”. E mira, sulla base di correlate
considerazioni etiche e religiose, da
una parte a richiamare clero e nobiltà al rispetto della loro missione sociale,
e quindi a non inasprire oltre il “giusto” la pressione sul “terzo stato”, dall’altra
ad affermare, lungo un percorso contraddittorio e non omogeneo per tutti i
paesi, a quest’ultimo il diritto al superamento della schiavitù e del
servaggio, tipici della originaria situazione medioevale. Questo processo di moderata
razionalizzazione delle condizioni di lavoro, per quanto finalizzato al
mantenimento dello status quo, è ormai considerato da molti storici la base
della crescita demografica che interessa tutta l’Europa nel periodo 1000-1350, al
termine del quale i dati disponibili attestano che in effetti schiavitù e
servaggio hanno ormai carattere residuale, capovolgendo in questo modo la
precedente opposta convinzione che proprio la grande peste di metà Trecento, responsabile
della morte di un buon terzo della popolazione europea e della conseguente penalizzante
scarsità di manodopera, fossero state al contrario la molla per il loro
superamento. Questi storici, Jacques Le Goff per primo, ritengono che proprio i
cambiamenti realizzati nella struttura del lavoro, già avvenuti quindi nel
periodo 1300 – 1350, e poi successivamente ancor più consolidati, abbiano
avuto, fra le altre, la conseguenza di accelerare l’affermarsi di nuove
ideologie, alternative a quelle di sostegno alla “società ternaria”, e che
pertanto siano stati i prodromi per il suo
successivo declino e superamento. P. evidenzia che è però difficile, in questo saggio, dare sostegno e
completamento analitico a queste tendenze, peraltro condivise per quanto
consentito dalle fonti descrittive, per la quasi totale mancanza di dati, in qualche
modo ufficiali, sull’evoluzione della consistenza demografica, e della
collegata quota di ricchezza posseduta, dei tre gruppi sociali “trifunzionali”
per tutto il periodo che va dal Medioevo quantomeno al XXVII secolo (non a caso
il precedente grafico si basa su dati di metà Settecento). L’unica eccezione in
questo panorama europeo di mancanza di adeguata documentazione, è rappresentata
dalla Francia, nella quale l’istituzione degli “Stati Generali”, che
emblematicamente riuniva rappresentanti dei tre gruppi sociali, in qualche modo
è stata una fonte di documentazione relativamente significativa. I resoconti
delle convocazioni ed i verbali delle sedute offrono infatti importanti
“indizi”. La prima convocazione degli “Stati Generali” fatta sulla base di un
minimo di riscontro demografico (si tenga conto che il “censimento della
popolazione” è una procedura introdotta in Europa nel 1800) è quella del 1614,
seguita, però più di centocinquant’anni dopo, da quella “storica” del 1789. E’
quindi con ampio margine di approssimazione, incrociando i dati degli “Stati
Generali” del 1614 con precedenti conteggi, molto più approssimativi e quasi
sempre effettuati a fini fiscali, del numero di casati nobiliari e di strutture
ecclesiastiche, che è possibile tracciare una curva della consistenza
demografica, in % sul totale della popolazione, delle due “classi alte”
francesi a partire dal 1380 fino al 1780:
Grafico 9
Appare
evidente una decisa curva a scendere, il grafico evidenzia infatti un costante
processo di contrazione, soprattutto dei nobili, che meglio spiega il dato
francese del precedente Grafico 8, che misurava, al 1780, la percentuale delle
due “classi alte” sulla sola popolazione adulta maschile. Si tratta di un
processo di lungo periodo indispensabile per comprendere l’evoluzione storica
delle “società ternarie” europee, alle quali è possibile, in mancanza di
controindicazioni e considerata l’omogeneità delle parabole storiche, estendere
come tendenza comune il dato francese - l’unico, come si è detto, in qualche
modo confortato da sufficienti fonti - di una contrazione che si accentua, pur
con diversità di valori assoluti fra un paese e l’altro (si veda ad
es. il dato spagnolo del Grafico 8), in modo
rilevante nel corso del 1700. La seguente tabella, che suddivide analiticamente
i dati dei due grafici precedenti, aiuta a meglio comprende tale dinamica
numerica:
Tabella 1
Come spiegare
il calo numerico della nobiltà?
Quali cause
possono spiegare tale contrazione delle “classi alte”, e della nobiltà in
particolare? In che misura queste cause si prestano ad evidenziare una
progressiva decadenza delle “società ternarie” europee? Una prima fondamentale
causa va sicuramente rintracciata nelle dinamiche di potere, interne ed
esterne, che nel corso del 1600 e 1700 hanno determinato la formazione dello
Stato centralizzato con la conseguente parziale delegittimazione delle funzioni
di clero e nobiltà. Con quest’ultima colpita in modo più accentuato anche perché
le monarchie centralizzatrici, alla costante ricerca di finanziamenti e
risorse, trovano, spesso incoraggiandola e sostenendola, una sponda sempre più
importante nelle nuove élite mercantili e finanziarie, così depotenziando di
fatto i margini di manovra economica in precedenza in capo esclusivo della
nobiltà. Non è un quindi un caso che in questi stessi secoli la “nobiltà di
toga”, dignitari a capo di funzioni amministrative fiscali e giuridiche, ed i
ricchi commercianti in grado di “comprare” titoli nobiliari, si affianchino con
progressione significativa e costante alla tradizionale “nobiltà di spada”, la
primigenia nobiltà guerriera. La quale, del suo, reagisce alla crescenti
difficoltà finanziarie, in ovvio rapporto con stili di vita ritenuti
intoccabili, con un comportamento demografico sempre più “maltusianamente”
prudente e con una tendenza a tutelare la “primogenitura”. Non a caso, come
conseguenza, cresce parallelamente la percentuale di “cadetti” che si adatta a
“carriere” ecclesiastiche. In Francia alla fine del 700 ben il 95% dei vescovi
proviene dalla nobiltà. Per quanto rappresentino un indizio significativo le
sole dinamiche demografiche non sono sufficienti a spiegare il processo di
progressivo svuotamento della società trifunzionale, altri due fattori giocano
un ruolo decisivo. La formazione degli Stati centralizzati e la crescita del
peso economico e sociale di una classe in formazione che, per quanto
temporaneamente inserita nello schema sociale ternario come “nobiltà di toga”,
hanno infatti rappresentato, già nel corso del 700, due fattori in grado di
scuotere dalle fondamenta il peso economico della nobiltà. Anche per questi due
fattori non sono disponibili molti dati affidabili, ancora una volta è la
Francia quella più ricca di fonti e quindi meglio valutabile. Alla vigilia del
terremoto rivoluzionario, al termine di un processo di progressiva decrescita, verso
il 1780, la nobiltà ed il clero francesi, vale a dire l’1,5% della popolazione,
possedevano comunque ancora il 40-45% delle terre del regno, di cui il 25-30%
in capo alla nobiltà ed il restante 15% in possesso del clero. Queste
percentuali della ricchezza posseduta salgono poi di molto se si considera la
“ricchezza mobile”; non è azzardato ipotizzare di raggiungere il 55-60% della
ricchezza nazionale francese, con la monarchia a fare da padrone della quasi
totalità della quota restante. Gli ultimi due decenni del 700 segnano una netta
inversione di tendenza al punto da poter rappresentare il limite temporale ultimo
della lunga storia delle “società ternarie” ed al tempo stesso il segnale di
una svolta radicale verso una forma di società, e di disuguaglianza, diversa.
Ancora la Francia e ancora la sua nobiltà sono un indicatore importante per
cogliere analiticamente questa tendenza. Aiuta a metterla a fuoco visivamente
il seguente grafico che pone a confronto, per il periodo 1780-1910 in Francia,
l’andamento della quota di cognomi nobiliari sul totale decessi con quelle
della quota percentuale di cognomi nobiliari nello 0,1” e nell’1% delle
successioni più ricche……
Grafico 10
A conferma di
quelli precedenti relativi alla percentuale di ricchezza immobile posseduta
dalla nobiltà anche questi dati attestano, con ovvio parallelismo, che la
classe nobiliare, la cui incidenza demografica vale mediamente l’1% della
popolazione francese, possiede, e trasmette in eredità, una quota quanto mai
significativa della ricchezza totale in qualunque modo venga valutata.
Riprendendo poi le considerazioni sulla parabola storica della “società
ternaria” l’andamento, di fatto simile, delle due curve della quota nobiliare
delle successioni più ricche attesta un trend a scendere molto significativo se
valutato nell’arco totale del periodo 1780-1910. Una importante indicazione quindi della
progressiva uscita di scena di una delle due “classi alte” alla base della
società ternaria incapace di reggere l’urto, non solo socio/economico ma anche
ideologico, della vincente nuova classe borghese. Le due curve non hanno però
un andamento di regolare discesa, ambedue presentano una significativa ripresa
verso l’alto nel periodo 1810/1820-1840/1850, spiegabili con la fase storica
della, provvisoria, “Restaurazione” che segue le ondate rivoluzionarie di fine
700 e del periodo napoleonico, e con una provvisoria fase di ulteriore
concentrazione non a caso una delle cause degli scoppi rivoluzionari del 1848.
Ed è anche questa una significativa conferma dello stretto rapporto fra
ideologia, e conseguenti concrete sul piano politico, e disuguaglianza.
La Chiesa
come organizzazione proprietarista
Altrettanto
importanti sono i dati relativi alle proprietà in capo alla seconda “classe
alta”, quella del clero, che, come indicato in precedenza, possedeva nel 1780
una quota della ricchezza immobiliare, soprattutto terre, pari al 15%, alla
quale è possibile aggiungere una percentuale del 10% di quella mobile, in gran
misura legata al “sistema delle decime” ossia una quota percentuale fissa
percepita dal clero su tutte le attività economiche e finanziarie, raggiungendo
quindi una rilevante quota del 25% totale. Vale la pena ricordare che
l’incrocio dei dati francesi, quelli più numerosi e più precisi, con quelli,
per quanto meno precisi, degli altri paesi europei consente di ipotizzare un
ordine di grandezza simile per l’intera Europa, con la significativa eccezione
dell’Italia che vedeva all’epoca una quota di ricchezza decisamente più alta in
capo alla Chiesa Cattolica. P. sottolinea però una significativa differenza fra il peso
proprietarista del clero rispetto a quello della nobiltà: nel 1780 la quota di
ricchezza in capo a quest’ultima, come si è detto, era sicuramente più alta,
praticamente del doppio, ma era frammentata su una numerosa platea di singoli
proprietari, mentre invece quella in capo al clero, stante la rigida
organizzazione ecclesiastica, era di fatto attribuibile ad un unico
proprietario: la Chiesa, o meglio ancora le Chiese. Che hanno quindi avuto
nella forma trifunzionale della società un peso proprietaristico non egemonico
come valore assoluto ma accompagnato da un ruolo di singolo operatore economico
assolutamente decisivo. P. per esemplificare questo
significativo aspetto propone un provocatorio collegamento, indicativo del
permanere ai nostri giorni di alcuni istituti tipici della “società ternaria”
che saranno successivamente esaminati in dettaglio: la quota del 25-30% di
ricchezza in capo alla Chiesa nel 1780 equivale a quella formalmente posseduta
dal Partito Comunista cinese attorno al 2010. Anche per la seconda
classe alta la fine del 700 segna comunque
l’apice del suo peso economico e del suo ruolo di “classe alta”. Non è
possibile sulla base dei dati disponibili tracciare una curva come quella vista
in precedenza per la nobiltà (Grafico 10), il processo di contrazione delle
ricchezze ecclesiastiche è stato, da lì in poi, costante e in buona misura
determinato da fattori “locali”. Per dare conto dell’impressionante cambiamento
avvenuto P. mette
a confronto in una grafico la quota percentuale di ricchezza in capo al clero
al 1780 con quella attribuibile nel 2010 alle istituzioni ecclesiastiche francesi
allargando lo sguardo alla situazione giapponese e statunitense:
Grafico 11
Il raffronto
è in buona misura forzato, troppo lontane fra di loro e con troppi cambiamenti
intercorsi nel frattempo sono le due situazioni storiche messe a confronto, ma
è visivamente adatto, per quanto non si presti a considerazioni più
approfondite, a rappresentare il radicale mutamento avvenuto. In particolare se
si tiene in debito conto, per la specifica situazione delle Chiese cristiane, la
loro, originariamente comune, dottrina della “proprietà”. L’insegnamento di
Cristo si è infatti evoluto, in stretta relazione con il diffondersi della
religione cristiana e con il suo imporsi come religione di Stato, in una
“giustificazione davanti a Dio” delle ricchezze possedute a condizione del
trasferimento di una parte di esse alla Chiesa per sostenerne la missione
salvifica e, più concretamente, le varie attività. Questa dottrina della
“proprietà” legava strettamente la ricchezza alla struttura familiare, le cui
relazioni, quali ad esempio i matrimoni fra cugini, il risposarsi delle vedove
e la stessa adozione, erano normate in modo tale da garantire il flusso di
donazioni alla Chiesa, consentendo così nel lungo periodo che va dai secoli IV
e V fino al 1600/1700 il formarsi di un enorme patrimonio ecclesiastico. E’ nel
corso del Medioevo che in Europa si consolida anche formalmente un Diritto,
economico e finanziario, finalizzato a giustificare in forma ideologica
compiuta il “possesso senza lavoro” dettagliandone tutte le pratiche lecite di
gestione del capitale così accumulato. E’ quindi di fatto il Diritto canonico
che, avvalorato dalla autorità morale della Chiesa, traduce in norma giuridica
inattaccabile la proprietà delle due “classi alte”, lasciando alla “spada” il
compito di garantirne la piena applicazione. P. concorda, sulla base di queste
constatazioni, con la tesi, sostenuta da molti storici del diritto, che il
diritto di proprietà “moderno”, anche nella sua versione emancipatrice rispetto
all’ Ancient Regime, quella che traccia la cosiddetta “grande demarcazione” fra
l’appropriazione legittima dei beni e l’appropriazione illegittima dei diritti
delle persone, molto debba alla dottrina cristiana della proprietà. Questa
dottrina ha infatti goduto a lungo di una aggiunta di credibilità derivante
dalla natura di organismo “astratto” della Chiesa stessa che non è mai,
perlomeno ufficialmente, esistita come “classe ereditaria fisica”. Questo
aspetto la differenzia in modo significativo dall’induismo e dall’Islam nel cui
ambito da sempre esistono consistenti classi clericali ereditarie il cui potere
economico, basato su reti personali e familiari, non ha pertanto richiesto un apposito
sistema dottrinale giustificativo. L’aspetto che più merita di essere
evidenziato, a provvisoria chiusa di questo primo analizzare la “società
ternaria”, consiste nel tenere nella giusta considerazione il fatto che il suo
sviluppo storico, e le basi ideologiche che l’hanno sostenuto, se da una parte
non ha retto alla prova del tempo dall’altra continua ad essere, come si avrà
modo di vedere in dettaglio, una fonte ricca di insegnamenti per comprendere
l’evoluzione successiva e non poche delle contraddizioni che caratterizzano il presente.
Capitolo 3
L’avvento delle società dei
proprietari
(In cui P, riprendendo il filo della narrazione dagli ultimi decenni del
1700, inizia ad analizzare le caratteristiche della forma di società basata
sulla “invenzione” della moderna “proprietà” nata nel contesto di rottura
radicale con la precedente “società ternaria”)
La grande
demarcazione del 1789 e l’invenzione della proprietà moderna
In alcuni
grafici precedenti si è già visto come gli ultimi due decenni del 1700
rappresentino il culmine della parabola europea della “società ternaria”. Ma
gli sconvolgimenti, per quanto radicali, intervenuti in questi anni non devono
essere intesi come la sua totale cancellazione, il superamento di questa forma
di organizzazione della società sarà il risultato di un successivo percorso di
alcuni decenni, tormentato e contraddittorio. Se resta quindi indubbio che la Rivoluzione Francese del 1789
segna in qualche modo un punto di non ritorno è altrettanto certo che non può però
essere vista come la definita instaurazione di una diversa struttura della
società. P. coglie
in questa esperienza una indicazione fondamentale per comprendere le reali
modalità con le quali, in generale, si realizzano trasformazioni strutturali di
un assetto societario, ed in particolare della idea di disuguaglianza che lo
sostiene. Coerentemente con quanto puntualizzato nell’Introduzione
relativamente alla inderogabilità di una sorta di “apprendimento collettivo”
come condizione sine qua non per la “costruzione di una ideologia” P.
precisa, proprio pensando alla concreta esperienza della Rivoluzione Francese,
che questo apprendimento, e quindi la costruzione di un nuovo paradigma
ideologico, è una complessa interazione tra eventi politici di breve periodo e
istanze politico-ideologico di più lungo termine. Dedica, proponendolo come
esempio illuminante in questo senso, alcune dense pagine a ripercorrere in modo
particolareggiato il contraddittorio percorso storico che seguì il voto epocale
della Assemblea Nazionale francese con il quale, nella notte del 4 Agosto 1789,
venne sancita “l’abolizione dei privilegi” di monarchia, nobiltà e clero. Fu
però immediatamente difficile un accordo su quali privilegi dovessero essere effettivamente
aboliti, quali con indennizzo e quali senza compensazioni. Impossibile in
questa sintesi entrare nel merito delle tormentate ed infuocate discussioni che
il composito fronte rivoluzionario dedicò a capire se e come abolire le varie
forme di privilegio: corvée, bannalità (la
gestione di un servizio collettivo quale ad esempio un mulino, o un canale di
irrigazione), affitti, lods (la
modalità amministrativa di un trasferimento di proprietà). Il punto nodale
che emerge dalla ricostruzione di P. consiste nella constatazione della oggettiva impossibilità di un
accordo fra le varie anime dell’Assemblea Nazionale che consentisse di
estendere la comune convinzione sul trasferimento allo Stato centralizzato dei
poteri sovrani (sicurezza, giustizia, uso
legittimo della violenza) anche alla compiuta definizione di un nuovo
“diritto di proprietà”, in grado di conciliare la sfera privata del possesso
con il ruolo di garante dello Stato. In accordo con quanto appena sopra P. sottolinea che la composizione disomogenea del fronte
rivoluzionario, la sua evidente divisione fra la componente della nascente borghesia
e quella del “terzo stato”, l’ancora insufficiente elaborazione di idee e
prospettive più chiare, non consentivano di delineare una visione ideologica
della proprietà già sufficientemente matura ed in grado di sostituire
organicamente i paradigmi di possesso della “società ternaria”. Anche se non
sono mancate alcune significative scelte, quelle che consentono, con ragione di
causa, di parlare di “punto di non ritorno”. Spiccano in particolare la creazione
del catasto pubblico, l’assegnazione allo Stato dei lods e delle relative tasse
di trasferimento di proprietà, e del compito più generale di proteggere “la
proprietà”, l’abbozzo di un sistema di tassazione progressiva sulle eredità.
Passaggi sicuramente innovativi e significativi ma non era oggettivamente possibile,
in quel contesto, definire le condizioni per un giusto “diritto di proprietà” a
fronte della necessità di intervenire su un altissimo livello di disuguaglianza e sulla enorme dimensione dei patrimoni delle
due “classi alte”. In sostanza se da un certo punto di vista la Rivoluzione
Francese è stato uno straordinario esperimento di trasformazione accelerata di
una antica società ternaria è altrettanto innegabile il suo fallimento sulla
questione chiave della disuguaglianza di proprietà. Un fallimento che,
congiuntamente ai contraddittori noti sviluppi più politici della vicenda
rivoluzionaria, non solo ha lasciato aperta la porta alla successiva
“restaurazione”, ma che, come si avrà modo di vedere già nel successivo
Capitolo 4, ha creato decisivi presupposti per la specifica forma che assumerà
la “società dei proprietari”. Non a caso, anticipa P., all’inizio del XX secolo, cento
anni dopo la Rivoluzione, la concentrazione di patrimoni in Francia era persino
più elevata di quanto non fosse nel 1789. Seppure in buona misura in mani
diverse.
L’ideologia
proprietaristica, tra emancipazione e giustificazione della disuguaglianza
Nel quadro
così complesso e tormentato degli questi ultimi decenni del 1700 francese è
comunque possibile cogliere i germi della nascente ideologia proprietaristica.
La quale, in una visione comunque rivoluzionaria della disuguaglianza, già
punta in questo suo primo delinearsi ad una promessa di stabilità sociale e
politica e di emancipazione individuale, basata proprio sul “diritto di
proprietà”. Un diritto, peraltro esclusivamente patriarcale, che, in radicale
diversità da quello della società ternaria, non guarda più alle origini sociali
dei soggetti, e che è posto sotto la protezione dello Stato che se ne fa garante
e difensore. Un diritto che è richiamato come fondamentale in tutte le
“Dichiarazioni” che accompagnano la fase delle Rivoluzioni di fine XVIII
secolo, da quella americana a quella francese, nella loro ideologica affermazione
dei diritti naturali ed inalienabili dell’uomo quello “della proprietà” ne è
parte insopprimibile. A conferma però della incompletezza della trasformazione
sociale ipotizzata queste stesse Dichiarazioni accettano, con identica
rilevanza sostanziale e formale, l’esistenza di “distinzioni sociali”, vale a
dire “disuguaglianze”, viste come dato naturale non eliminabile ed alle quali viene
posto il solo limite dell’essere fondate “sull’utilità comune”, ossia
“sull’interesse generale”. Vale a dire che la proclamazione della “abolizione
dei privilegi”, tassello comunque fondamentale per il superamento della società
ternaria, da sola non definisce in modo esaustivo quale sia quella
concretamente prescelta fra le tante possibili traiettorie che ne conseguono, ed
inoltre che proprio questi fondamentali documenti “ideologici”, che indicano i
principi generali che devono ispirare le future società, non si pongono certo
la finalità ideale della soppressione della disuguaglianza in quanto tale. E’
ovviamente rintracciabile in questa costruzione ideologica l’interesse “di
classe” della nascente borghesia, tanto attenta a demolire i presupposti del
potere delle due “classi alte” quanto preoccupata di contenere il temuto eccesso
di richieste da parte del “Terzo Stato”. L’argomento universalmente usato a
supporto di questa visione è il timore che un eccessivo ampiamento dei diritti,
e della platea sociale di chi ne potrebbe godere, rischi di divenire un
processo incontrollabile di disgregazione sociale, di instabilità politica, di
caos totale con la costante guerra di tutti contro tutti. Il vecchio ordine
deve essere abolito ma ciò deve avvenire in un procedere ordinato e
controllato. Non a caso la narrazione ideologica che accompagna questo
argomento è allora consistita nella “sacralizzazione della proprietà privata”,
il rispetto assoluto dei diritti di proprietà, legalmente acquisiti con la
garanzia dello Stato, a stabilire al tempo un punto di non ritorno al passato
ed una barriera verso un futuro incontrollabile. La “proprietà privata” assume
in questo modo il ruolo della “nuova trascendenza” che colma il vuoto lasciato
dalla fine dell’ideologia trifunzionale sancito dalla irruzione sulla scena
storica di un quarto soggetto: “il proprietario”. Le successive analisi dei dati e dei processi
effettivamente realizzatisi nel corso dell‘Ottocento che P.
presenterà nelle Parti e nei Capitoli successivi mirano esattamente a capire
quale effettiva idea di disuguaglianza si sia concretamente realizzata sulla
base di questa “sacralizzazione”.
Capitolo 4
La società dei proprietari: il
caso della Francia
(In cui P. sottopone alla verifica dei fatti storici
reali le ideologiche dichiarazioni d’intenti della Rivoluzione francese del
1789 analizzando l’andamento del regime delle disuguaglianze effettivamente realizzato
durante il successivo secolo XIX )
La
Rivoluzione francese e lo sviluppo di una società dei proprietari
Si è già avuto
modo di evidenziare la ricchezza francese di fonti documentali utili a
ricostruire i processi reali di distribuzione della ricchezza, questa
prerogativa pressoché unica nella situazione europea consente di verificare con
buona precisione quanto si è concretamente verificato nel corso del XIX secolo
nella patria della “Egalité”. Un primo grafico, costruito sulla base di questi dati,
fotografa l’evoluzione della disuguaglianza francese dal 1780 al 1920
evidenziando la quota di ricchezza posseduta dall’1% più ricco di Francia e
dall’1% più ricco di Parigi messa a confronto con quella posseduta dal 50% più
povero di Francia e dal 50% più povero di Parigi
Grafico 12
Appare da
subito evidente che la mitologia della Rivoluzione francese subisce un
innegabile ridimensionamento alla prova dei fatti: la contrazione della quota
di ricchezza in capo all’1% più ricco di Francia, e di Parigi, nel periodo
1780-1800 seppur significativa non appare certo di dimensioni clamorose mentre
invece quella posseduta dal 50% più povero di Francia e di Parigi, la metà
esatta della popolazione, di fatto non subisce scostamenti di rilievo.
L’effetto reale delle vicende rivoluzionarie non soltanto è stato relativo ma è
inoltre durato poco, molto poco: già a partire dal 1800 l’1% più ricco vede
risalire la sua quota di ricchezza con una progressione sostanzialmente
costante che lo porterà ad avere all’alba del XX secolo la stessa ricchezza di
inizio 1800 mentre quello parigino arriva addirittura a superarla attestandosi
oltre il 60%. A fronte di questo recupero per il 50% più povero invece praticamente
nulla cambia. I due grafici successivi aiutano a meglio comprendere questi trend
analizzando la ripartizione, nello stesso arco temporale, della ricchezza
detenuta (patrimoni) e di quella creata (reddito)
Grafico 13 Grafico 14
Anche queste
curve confermano che il XIX francese, nonostante la rottura rivoluzionaria del
1789, non ha visto una contrazione delle disuguaglianze che restano costanti,
con scarti limitati e spiegabili con avvenimenti congiunturali. Ciò vale,
relativamente alla ricchezza patrimoniale, sia per la quota in possesso al 10%
più ricco, e al suo interno per quella dell’1% più ricco, sia per la irrisoria
quota del 50% più povero. Non sembra neppure un secolo di balzo in alto per il
ceto medio che non si discosta da una percentuale media del 15-16%.
Evidentemente per le logiche economiche del tempo non era così facile un
processo di accumulazione. La letteratura dell’epoca è ricca di vicende che
raccontano la difficile, e spesso infruttuosa, scalata sociale del ceto medio.
“Papà Goriot”, di Balzac, ne è un esempio straordinario. Papà Goriot muore
povero, dopo aver dissipato una fortuna accumulata nei primi decenni del secolo
XIX commerciando in granaglie per l’ambizioso, ma insostenibile, progetto di
far sposare le sue due figlie con esponenti della migliore società parigina.
Una storia che aiuta a comprendere anche la parziale diversità della curva
relativa al reddito, alla ricchezza prodotta. Che infatti vede la quota del 10%
più ricco non scostarsi mai più di tanto dal 50%, a fronte dell’82-83% della
ricchezza patrimoniale, al suo interno la quota dell’1% più ricco evidenzia poi
uno scarto ancora più ampio con un 20-21% di reddito posseduto rispetto al
52-53% di ricchezza patrimoniale. Nulla cambia come tendenza sia per i ceti
medi che per la metà della popolazione più povera che si mantengono
rispettivamente attorno ad una media del 37-39% e del 14%, ma la loro maggiore
incidenza per quanto concerne la ricchezza prodotta, rispetto a quella
patrimoniale, attesta il loro maggiore coinvolgimento attivo nei processi
produttivi rispetto alle classi alte, le quali al contrario non contribuiscono più di tanto
alla produzione di nuova ricchezza potendo contare sulla consistente rendita
patrimoniale. L’eredità della “società ternaria” non è quindi stata scalfita
più di tanto nel secolo successivo alle Rivoluzioni ed il fenomeno, anch’esso ben
raccontato dalla letteratura, del mutamento della composizione della classe
alta, nobili decaduti sostituiti da “proprietari” arricchiti, non ha modificato
più di tanto la complessiva ripartizione della ricchezza. Si è sin qui parlato
di Francia ma è bene avere una attenzione specifica per Parigi, non a caso
evidenziata da P. nel precedente grafico 12, per la sua notevole incidenza sulla
situazione nazionale, basti pensare che alla fine del 1800 a Parigi viveva il
5% della popolazione francese ma la ricchezza privata posseduta valeva ben il
25% di quella nazionale. Uno sguardo di dettaglio sulla composizione dei
patrimoni francesi e parigini del periodo 1872-1912, reso possibile come già
evidenziato dalla disponibilità di dati fiscali molto dettagliati, consente
pertanto una valutazione utile a cogliere, al di là delle medie in percentuale
dei due grafici precedenti, i mutamenti nelle forme di proprietà e quindi delle
connesse figure sociali.
Tabella 2
E’ ad esempio
interessante notare come l’incidenza delle proprietà immobiliari, pari
mediamente al 41%, e al 43-42% per il decile superiore, rappresenti una
tipologia di possesso più facilmente attribuibile alla antica nobiltà e alla
parte più alta della schiera dei nuovi arricchiti, non a caso infatti per i
quattro decili, i ceti medio-alti, che seguono scende al 27-31%, seppure con una
tendenza a salire man mano che la ricchezza si consolida. Altrettanto
interessante il fatto di come tenda a crescere, soprattutto per il centile più
ricco, la propensione a diversificare il proprio patrimonio con investimenti su
prodotti finanziari, all’interno dei quali, importante segnale di apertura dei
mercati finanziari collegato alla fase coloniale, sempre più si investe su
titoli stranieri. Sono ambedue importanti indicazioni sulla evoluzione della
struttura delle disuguaglianze in quanto testimoniano che il progressivo
superamento della società trifunzionale, che garantiva costanti ricchezza, ma
tutta “interna”, alle due classi alte, da parte di una basata sulla
“competizione nel mercato”, implica la necessità di “far rendere” i patrimoni.
Correndo i rischi impliciti con le sue logiche, ancora una volta la letteratura
aiuta a comprendere: César Birotteau, altro personaggio balzachiano, ricco
produttore di profumi e cosmetici decide di investire il suo patrimonio in un
rischioso investimento immobiliare nel quartiere parigino della Madeleine finendo
però in rovina. I dati raccolti da P. nei due grafici e nella tabella precedenti coprono il periodo
storico che si chiude a cavallo della Prima Guerra, che segnerà, come vedremo,
l’inizio di una nuova decisiva evoluzione della struttura delle disuguaglianze,
ed i cui ultimi due decenni sono passati alla storia con il nome di “belle
époque”, l’epoca che segna il culmine della concentrazione di ricchezza che
caratterizza, come si è visto, tutto il XIX secolo. In una Francia, ed una
Parigi in particolare, sempre più attente all’evoluzione della struttura economica,
che vedono il 70% della popolazione morire praticamente
senza alcuna proprietà e l’1% più ricco detenere quasi il 70% di tutto quello
che c’è da possedere. L’incrocio fra i residui dei privilegi
dell’Ancient Règime e l’affermazione della nuova classe proprietaristica è
ovviamente alla base di questa incredibile disuguaglianza ottocentesca, la
quale però è stata possibile anche per il regime fiscale messo a punto, in nome
del “rivoluzionario diritto di proprietà”, proprio durante la Rivoluzione
francese e basato su pochissime voci di introito fiscale: una imposta di registro
per ogni compravendita di beni immobili,
i vecchi lods, e su quattro
imposte dirette chiamate, per la loro longevità, le “quatre vieilles”, le
“quattro vecchie”. Nel secolo che segue
la Rivoluzione e che vede la Francia entrare a pieno titolo nella modernità
capitalistico la ricchezza venne tassata per tutto il 1800 con una aliquota dell’1%
su qualsiasi successione e compravendita
immobiliare, mentre le “quattro vecchie”, il cui compito era di tassare tutta
la ricchezza posseduta e prodotta, consistevano in: una tassa sulle “porte e
finestre”, più una casa ne possedeva più pagava, in una tassa locale sempre
sulle abitazioni basata sul valore di locazione, in una tassa sulle “licenze”,
attività artigianali, commerciali e industriali, tarata sulle dimensioni
fisiche della azienda e sulle attrezzature utilizzate, ed infine in una imposta
fondiaria sempre proporzionata al valore teorico di locazione. Per tutto il
XIX, e fino al 1914, il prelievo fiscale sulle proprietà immobiliari non è mai andato
oltre il 3-4% sul loro reale rendimento. Tutte queste imposte inoltre avevano
carattere “proporzionale” ossia tassavano con la stessa aliquota tutte le
tipologie di ricchezza indipendentemente dal suo ammontare. Solo le vicende
rivoluzionarie del 1848 e del 1870 hanno provvisoriamente riacceso il dibattito
sulle politiche fiscali, ma le successive restaurazioni hanno impedito ogni
significativo cambiamenti, con l’unica eccezione, nel 1872, di una imposta sui
“redditi mobiliari”, ossia sul reddito reale ottenuto, ma ancora con una
impostazione proporzionale e con una aliquota unica del 3%! Questo sistema fiscale francese non ha quindi
mai esercitato alcun impatto reale sulle modalità di accumulazione e di
successione delle ricchezze essendo troppo permeato di quella ideologia
“proprietaristica” intrinsecamente legata alla stessa Rivoluzione del 1789, le
cui promesse di “egalité”, di uguaglianza, non furono pertanto mai realizzate.
La Francia deve attendere il 1914, e le impellenti necessità di finanziare la
Grande Guerra, per introdurre una imposta progressiva sul reddito, giungendo
buona ultima in un quadro, comunque ovunque molto lento rispetto alle dinamiche
di trasformazione economica, che vede l’introduzione di una simile tassazione
nel1870 in Danimarca, nel 1887 in Giappone, nel 1891 in Prussia, nel 1903 in
Svezia, nel 1909 nel Regno Unito, nel 1913 negli USA.
Il
capitalismo: un proprietarismo dell’epoca industriale
Entrati con
il XIX secolo francese nel pieno dell’affermazione del mercato capitalistico,
prima di analizzare nel Capitolo successivo le parallele situazioni delle altre
nazioni europee, P. chiarisce il legame che, in questa sua analisi, ha inteso tra
proprietarismo e capitalismo. Per meglio comprendere l’evoluzione storica della
struttura delle disuguaglianze ritiene che sia più opportuno vedere sorgere, al
culmine della parabola della società ternaria, la forma sociale del
proprietarismo, della “società dei proprietari”. All’interno della quale il
capitalismo ne diventa la forma specifica a partire dalla seconda metà del XIX
secolo ovvero con il pieno affermarsi della grande industria e della finanza
internazionale capitalistica. Gli effetti sulla struttura delle disuguaglianze,
riconducibili più propriamente al mercato capitalistico, si faranno quindi
compiutamente sentire nel XX secolo, allorquando il “Capitale” inciderà in
forma definitiva sull’accumulazione di beni e sull’estensione dei limiti della
“proprietà privata” travalicando le tradizionali forme di possesso ed i vecchi
confini nazionali. Non si tratta quindi di porre in alternativa tra di loro
capitalismo e proprietarismo, il primo in effetti nasce e si sviluppa in intima
connessione con il secondo in un legame che vede nel “diritto alla proprietà
privata” un collante indissolubile. La “belle époque” rappresenta in questo
quadro il momento storico in cui il proprietarismo originario del XIX secolo
assume definitivamente la veste del “capitalismo classico”, il quale a sua
volta, un secolo dopo, si trasformerà nell’iper-capitalismo mondiale nell’era
della rivoluzione tecnologica e digitale e della finanziarizzazione dell’economia.
Il proprietarismo è teoricamente il presupposto ideologico, ponendo il diritto
di proprietà a base della società, anche delle forme di diffuso possesso
individuale e delle ristrette e tradizionali economie locali, ma la logica
dell’accumulazione, inscindibilmente legata al diritto di proprietà, lo porta
inevitabilmente ad estremizzarsi nella forma del capitalismo. La sensibilità
della letteratura coglie perfettamente questo salto logico: i confusi e
instabili proprietari di inizio 800 raccontati da Balzac si trasformano nei
cinici e spietati capitalisti di fine XIX secolo, ed i romanzi di Emile Zola ad
esempio, si pensi al suo “Germinal”, li descrivono nei loro nuovi e veri tratti
sociali.
Capitolo 5
Le società dei proprietari:
traiettorie
(In cui P. completa la sua
analisi dell’evoluzione delle disuguaglianze nella “società dei proprietari” europea
avvenuta nel corso del XIX secolo nel resto dell’Europa individuando
significative diversità di percorso)
La
consistenza demografica del clero e della nobiltà: il caso dell’Europa
L’esperienza
francese si distingue nel panorama europeo non solo per la maggiore
disponibilità di fonti documentali ma soprattutto per le sue specifiche
modalità della transizione dalla società trifunzionale a quella dei proprietari.
Va peraltro considerato che questo processo è molto condizionato dai vari
fattori locali e che quindi, se è possibile affermare che in generale il secolo
XIX segna ovunque il compimento di
questa evoluzione, ogni paese l’ha vissuto con tempi e modalità specifici.
Nell’impossibilità di seguire in modo analitico ogni singola traiettoria
storica P. concentra in questo Capitolo la sua attenzione su due specifiche
situazioni, quella del Regno Unito e quella della Svezia, in quanto
paradigmatiche di due diversi percorsi che, unitamente a quello francese,
possono in qualche modo sintetizzare l’intera vicenda europea. Come per la
Francia il dato di partenza consiste nel delineare l’incidenza demografica
delle due “classi alte”
Grafico 15
Uno sguardo
di lungo termine consente di cogliere un dato comune alle tre situazioni
europee prese in esame: la riduzione del peso demografico del clero nell’ambito
della popolazione maschile adulta. Ma uno sguardo più attento alle singole
variazioni coglie alcune differenza significative. Si è già detto della
Francia, e del suo processo di contrazione che già nel 1780 conosce un
significativo calo, al contrario il declino in Spagna appare molto più lento,
mantenendosi su percentuali sempre molto più alte rispetto a quelle francesi e
inglesi per raggiungerle solamente in pieno Novecento. Nel Regno Unito al
contrario il processo inizia molto prima con la chiusura dei monasteri decisa
nel 1530 da Enrico VIII in vista della nascita della Chiesa Anglicana, a conferma
del difficile, e spesso molto turbolento, rapporto fra le due classi alte.
Ancor più marcata è la differenza di situazioni se si esamina la consistenza
demografica della nobiltà:
Grafico 16
Emerge con
evidenza la divisione in due gruppi: un primo, comprendente Francia, UK e
Svezia, con una esigua incidenza demografica della nobiltà sul totale della
popolazione, ed un secondo, che raccoglie tutte le altre nazioni, con un
elevato numero di nobili. Questa notevole differenza, il secondo gruppo vale mediamente
tre volte tanto il primo, si spiega ovviamente con le complessità –
territoriali, politiche, ideologiche, militari e fiscali – dei rispettivi
percorsi storici, ed ha una decisiva ricaduta sul “potere” contrattuale delle
singole classi nobiliari: a fronte di una capacità di “prelievo” di ricchezza
di fatto identico una classe numericamente più ampia implica una suddivisione
delle proprietà e del collegato peso politico, viceversa ad una classe
nobiliare di dimensioni contenute corrisponde concentrazione di ricchezza e
importanti posizioni di potere. Da questo punto di vista il Regno Unito e la
Svezia sono assimilabili, non così il rispettivo percorso di superamento della
“classe ternaria”
Il Regno
Unito e la gradualità ternaria-proprietaria
Il caso del
Regno Unito è particolarmente interessante perché riguarda la nazione che di
più ha avuto ruolo nel “colonialismo”, analizzato da P. nella prossima Parte Seconda, che è stata alla guida del pieno avvento
dell’industrializzazione, e perché rappresenta una situazione opposta a quella
francese. Mentre questa è stata caratterizzata da una brusca interruzione
rivoluzionaria nel Regno Unito si assiste al contrario ad una piena gradualità
di passaggio da una forma di società all’altra, seppur non priva di passaggi
tormentati, basti pensare alla rilevanza della “questione irlandese” di cui si
dirà a breve. Erano già non poco differenti, rispetto alla Francia, le
condizioni di partenza, in particolare le istituzioni politiche e
rappresentative: l’istituzione del Parlamento britannico ha infatti origini
antiche, tra l’XI ed il XII secolo, e già dal XIV secolo si articola su un
bicameralismo, ovviamente del tutto imperfetto, tra Camera dei Lord e Camera
dei Comuni, una impostazione che tuttora permane seppure con posizioni
invertite. Inizialmente, e per alcuni secoli, la Camera dei Lord era costituita
dalle due classi alte, i lord “spirituali”, ossia l’alto clero, ed i lord
“temporali”, vale a dire la nobiltà di più alto rango, ma la già citata
svolta del 1530 comprime in modo
decisivo il peso e l’influenza dei primi. Ricchezza e potere sono quindi da
quel momento concentrati nelle mani dell’alta aristocrazia inglese il cui peso
demografico sul totale della popolazione, come indicato nel precedente Grafico 16,
si attesta attorno all’1% nel 1800 per scendere alla quota molto bassa del 0,2%
nel 1880. Vale a dire che alla fine del XIX secolo settemila famiglie nobili
possedevano l’80% delle terre del Regno Unito, e di queste ben la metà era
nelle mani di 250 famiglie, lo 0,01% della popolazione. Il potere politico
britannico è stato ancora per tutto il 1800 saldamente concentrato nella Camera
dei Lord, la quale, in assenza di contrapposizioni significative, ha potuto
attuare una vincente difesa dei propri privilegi. D’altronde anche la Camera
dei Comuni era a sua volta costituita principalmente da membri della nobiltà.
Ancora negli anni Sessanta dell’Ottocento il 75% dei suoi seggi erano occupati
da nobili seppur di rango inferiore rispetto ai “pari” della Camera dei Lord,
mentre il restante 25% era rappresentato dalla “gentry”, la piccola nobiltà
terriera priva di titolo che, pur essendo numericamente più numerosa dell’alta
aristocrazia, non godeva di certo di un particolare peso decisionale. La
condizione sine qua non per essere ammessi, anche solo come gentry, al
Parlamento inglese era tradizionalmente collegata al possesso di terre, il che
ha comportato che anche le nuove figure sociali, quelle arricchitesi sull’onda
della nascente economia industriale, per poter in qualche modo incidere sulle
scelte politiche parlamentari, dovevano avere il “buon gusto” di acquisire
proprietà terriere le più ampie possibili. Consiste in questo aspetto, secondo P.,
la ragione per la quale nel Regno Unito si è realizzata una fusione tra logiche
aristocratiche e logiche proprietaristiche, che spiega la gradualità, lenta e
non esasperatamente conflittuale, del passaggio dalla società ternaria a quella
proprietaristica. Vale a dire che se la borghesia industriale e commerciale
britannica, condizionata dalle specifiche modalità britanniche di esercizio del
potere, almeno in parte ha fatto sue anche le logiche aristocratiche, al tempo
stesso anche l’alta nobiltà inglese non si è arroccata su posizioni di cieca
difesa dello status quo ma ha accompagnato il cambiamento imposto dal crescente
affermarsi della “società dei proprietari”. Da una parte ha infatti progressivamente
differenziato il suo patrimonio, comunque in gran misura sempre basato sul
possesso di terre, investendo nella varie attività finanziarie ed azionarie, ma
soprattutto ha avuto un ruolo centrale nell’adozione delle Enclosures Act, le
leggi di esproprio a fini privati delle terre demaniali che costituivano una
fondamentale fonte di sopravvivenza per le classi rurali di conseguenza
costrette all’inurbamento, un fenomeno accuratamente descritto da Karl Marx
perché ritenuto centrale nel processo di creazione del proletariato urbano e
della accumulazione originaria. Queste leggi furono accompagnate da un insieme
di provvedimenti liberticidi di fortissima oppressione che spiegano in buona
misura l’impossibilità di forme di protesta e reazione. Anche in questo caso,
come in Francia, alla base di questi processi sta l’ideologica esaltazione del
“diritto di proprietà”, fatto proprio, per l’appunto, dalla stessa nobiltà nel
suo percorso di ibridazione nelle logiche proprietaristiche. Ed ancora una
volta aiutano a comprendere questi fenomeni, nel dettaglio delle situazioni
raccontate, molte opere letterarie del periodo, quali i romanzi di Jane Austen,
fra i tanti ad esempio “Ragione e sentimento”, ed una particolare pubblicazione
“L’Almanacco di Burke” che, antesignana dell’attuale rivista Forbes, ha
meticolosamente illustrato per tutto il XIX secolo l’elenco dei “più ricchi”
del Regno Unito e soprattutto la composizione dei loro patrimoni. La spinta
decisiva al superamento della “società ternaria” nel Regno Unito si manifesta
quindi non tanto sul terreno degli interessi economici, vista la
compenetrazione con i “proprietari” di cui si è detto, né tantomeno sul piano
ideologico che vede le due componenti accomunate nell’esaltazione del “diritto
di proprietà”, ma sul piano più propriamente politico. Nel corso del XIX secolo
la diversità di finalità economiche, comunque esistente ed espressa in particolare
dai “proprietari” più legati alla sfera produttiva, i veri “capitalisti”,
coniugata con la necessità di contenere le crescenti spinte rivendicative delle
classi popolari, sono i presupposti per la nascita del partito liberale,
“whig”, il cui obiettivo principale è il ridimensionamento del potere della
Camera dei Lord. Un risultato raggiunto ancora una volta con un processo
graduale che vedrà il suo compimento soltanto all’indomani della Prima Guerra.
E’ interessante, per meglio cogliere la diversità dei percorsi di uscita dalla
società ternarie, il seguente grafico che mette a confronto l’evoluzione del
voto maschile nelle tre nazioni europee che per P. meglio la rappresentano
Grafico 17
Emerge con
evidenza la diversità del percorso francese, ancora una volta caratterizzato da
uno scarto improvviso e rivoluzionario, da quello britannico che, in sintonia
con il quadro tracciato, vede una costante gradualità. La situazione svedese, a
breve affrontata da P., sembra situarsi a mezza strada fra questi due
estremi. Tornando allo specifico del Regno Unito le due riforme elettorali del
1867 e del 1884 segnano il definitivo passaggio del potere politico decisionale
dalla Camera dei Lord alla Camera dei Comuni sancendo, anche istituzionalmente,
l’avvento della “società dei proprietari”. Un traguardo che viene quindi
raggiunto a ridosso del nuovo secolo e di ulteriori altri radicali cambiamenti
ideologici e della struttura delle disuguaglianze. Come anticipato in
precedenza P. ritiene significativa la vicenda “irlandese” non soltanto per il
suo indubbio peso sull’evoluzione del quadro britannico, ma anche per alcune
sue caratteristiche esemplare. L’Irlanda è stata infatti al tempo stesso una
situazione di incredibile disuguaglianza e di durissima occupazione di stile
coloniale in piena Europa a poche miglia di distanza dal cuore della nuova
modernità industriale (a causa della
quale nella carestia del 1845-1848 si contò più di un milione di morti ed un
milione e mezzo di emigrati su una popolazione di otto milioni di persone) che
testimonia la possibilità di coesistenza temporale e spaziale di forme
“moderne” di disuguaglianza con altre di natura “medioevale”. A chiusura
dell’analisi della situazione del Regno Unito P., con
il seguente grafico, ne riassume l’evoluzione della ricchezza posseduta a
conferma dell’incidenza dei fattori sin qui presi in esame
Grafico 18
Si coglie
visivamente bene come le curve della ricchezza posseduta nel Regno Unito
restino sostanzialmente invariate per tutto il XIX secolo a definitiva conferma
di un processo tutt’altro che innovativo ed incapace di incidere realmente
sulla struttura delle disuguaglianze.
La Svezia e
l’organizzazione della società in quattro ordini
Non sembra
sfuggire a questa constatazione la situazione della Svezia che, nel periodo
storico finora considerato, presenta infatti curve perfettamente analoghe a
quelle britanniche:
Grafico 19
Appare quindi
difficile comprendere come sia stata possibile, sulla base di queste premesse,
una evoluzione che ha portato la Svezia ad essere la nazione con il più basso
livello di disuguaglianza della storia. Un primo elemento da tenere in
considerazione è l’esistenza di un modello svedese di rappresentanza
parlamentare che, al di là della sua incapacità di incidere concretamente sulla
disuguaglianza ancora per tutto il XIX secolo, presentava da tempo un carattere
decisamente originale e tale da essere di base per alcuni decisivi cambiamenti
avvenuti nei primi decenni del Novecento. Già dal XVI secolo il Parlamento
svedese era infatti basato su distinti rappresentanti di quattro ordini:
nobiltà, clero, borghesia urbana e contadini proprietari di terre. E non deve
di certo stupire più di tanto il fatto che, in linea con il quadro europeo,
tale rappresentanza quaternaria sia stata, fino alla seconda metà
dell’Ottocento, di molto sbilanciata a favore della nobiltà, la quale,
altrettanto analogamente a buona parte del resto dell’Europa, era
demograficamente molto contenuta: lo 0,5% della popolazione nel 1750, sceso
allo 0,4% nel 1800 ed al 0,3% nei censimenti del 1850 e del 1900. Ed il
precedente Grafico
17 evidenzia una evoluzione del
sistema elettorale tutt’altro che accelerata. Ma la grande peculiarità del
sistema elettorale censitario svedese messo a punto negli ultimi decenni del
1800, sicuramente orientato dalla precedente suddivisione nei quattro ordini,
consiste nel fatto che gli elettori avevano un numero di voti variabile in modo
proporzionale rispetto al censo: ogni elettore disponeva di un numero di voti,
in una scala che variava da 1 voto a 54 voti, determinato dalle tasse versate,
dalle proprietà possedute, e dai redditi. Un sistema decisamente originale che
in qualche modo sanciva in modo preciso l’esistenza di una ideologia
“proprietaristica” capace di produrre ricadute effettive sulle modalità di
gestione del potere. Una logica che secondo P. ha
strette relazioni che la formula proprietaristica delle “Società per azioni”,
una delle architravi societarie delle imprese capitalistiche sorte nel XIX
secolo. Va inoltre evidenziato che questo stesso sistema se per un verso, in
armonia con il quadro visto nel Grafico 19, ha
consentito una gestione “prudente” delle politiche fiscali e sociale svedesi
già nel 1919, con l’adozione del suffragio universale (ancora solo maschile),
vede la vittoria del Partito Socialdemocratico che governerà per tutti gli anni
Venti e poi ancora ininterrottamente dal 1932 al 2006. L’esperienza svedese è
quella che meglio dimostra che l’affermazione della “società dei proprietari”
su quella ternaria non è stata un percorso monolitico e che il comune
presupposto ideologico del “diritto alla proprietà privata” ha lasciato aperta
la questione delle modalità del regime politico e ha consentito in modo altrettanto differenziato l’irruzione
di elementi ideologici alternativi alla stessa logica “proprietaristica”.
La deriva
della disuguaglianza nella società dei proprietari del XIX secolo
Il confronto
comparato fra le tre situazioni nazionali prese in esame da P.
attesta che il superamento europeo della forma della “società ternaria” non ha
prodotto durante tutto il secolo XIX una riduzione del livello delle
disuguaglianze che rimangono molto elevate, come si è visto nei grafici
precedenti, per tutto il secolo fino a raggiungono, negli ultimi decenni del
secolo, un picco estremo persino superiore a quelli dell’Ancient Règime. Per registrare
le prime significative variazioni occorrerà infatti attendere almeno fino agli
anni 20 del Novecento. I seguenti due grafici sintetizzano questo percorso
evidenziando i livelli altissimi di concentrazione delle ricchezze, da
patrimonio e da reddito, del periodo 1880-1914, gli anni della “belle époque”.
Grafico 20
Grafico 21
Sono questi i
dati, di inequivocabile lettura, che sanciscono oggettivamente l’incidenza
reale del superamento della “società ternaria” fondato sull’ideologia del
“diritto alla proprietà privata” e che rimandano quello della struttura delle
disuguaglianze, unitamente all’eredità della “società coloniale e schiavista”
che P.
analizzerà nella prossima Parte Seconda, al decisivo secolo XX.