venerdì 15 settembre 2023

Il "Saggio" del mese - Settembre 2023

 

Il “Saggio” del mese

 SETTEMBRE 2023

Completiamo con quest’ultima sintesi il nostro viaggio nei molteplici spunti di riflessione contenuti nella raccolta di saggi

dell’ormai a noi familiare David Graeber

(David Graeber, 1961-2020 antropologo e saggista statunitense)

In questo saggio Graeber affronta dal punto di vista dell’antropologia (uno sguardo universale sull’uomo, sulla sua storia, sulla sua cultura che sempre di più ci pare in grado di cogliere aspetti che sfuggono alle altre discipline umanistiche) un tema, da sempre presente nella storia dell’umanità, che assume una rilevanza particolare in questa fase che impone svolte radicali in campo economico, sociale, culturale e politico, da Graeber riassunto nel concetto di “creatività sociale” ….. con creatività sociale intendo la creazione di nuove forme sociali e organizzazioni istituzionali …. E sua esplicita convinzione che ogni evoluzione sociale umana sia sicuramente sollecitata da fattori di ordine vario che impongono, con tempistiche più o meno accelerate, modifiche nelle strutture delle relazioni e delle istituzioni che le formalizzano. Ma, al tempo stesso, questi cambiamenti, spesso in forma inconsapevole, sono a loro volta in grado di influenzare i fattori che li stanno determinando … gli esseri umani creano nuove forme sociali allo scopo di promuovere specifici obiettivi, ma in effetti questi stessi obiettivi emergono proprio grazie alle istituzioni che creano ….. Consiste esattamente in questa duplice influenza il ruolo della creatività sociale che richiede, di conseguenza di essere analizzata, in quanto tale, nelle sue forme, nelle sue articolazioni, nei suoi modelli preesistenti e contemporanei. Graeber per meglio illustrare questa sua convinzione cita un esempio esemplare di creatività “sociale (e politica)”: il concetto di “rivoluzione” elaborato da Karl Marx basato sulla sua idea che, nella fase moderna della civiltà occidentale, siano rintracciabili due paradigmi di creatività sociale: la produzione “capitalistica” di merci e la collegata rivoluzione “borghese”. Questi due episodi, ormai giunti al loro pieno compimento, hanno prodotto benefici cambiamenti e collegate contraddizioni, ingiustizie, conseguenze ambientali e climatiche, tali da richiedere un nuovo cambiamento che necessariamente avra' forma di una rivoluzione (intesa nella sua accezione più pura di svolta radicale) la quale, ed in questo passaggio consiste il valore esemplificato che Graeber trova interessante, ….. può avvenire solo coniugando capacità critica e creativa nella dimensione, che le unifica, di una immaginazione riflessiva” …..

Marx cita l’esempio dell’architetto che, a differenza dell’ape, costruisce un edificio nella sua immaginazione prima che nella realtà. Ma se la capacità rivoluzionaria emerge dall’esercizio critico dell’esistente, il rivoluzionario non può agire come l’architetto, non è infatti suo compito ideare dei modelli di una società futura per poi realizzarli (Marx definisce questo atteggiamento sterile “utopismo”), ma deve creare le condizioni per un movimento reale di cambiamento autonomamente capace di individuarli e realizzarli proprio grazie all’esercizio della “creatività sociale”

Questa idea marxiana di “immaginazione riflessiva”, ben presto soffocata dall’eccesso di dogmatismo teorico dei suoi inadeguati eredi, è stata poi ripresa, e posta al centro della sua elaborazione filosofica, da Castoriadis (Cornelius Castoriadis, 1922-1997, filosofo, sociologo, economista, psicanalista greco naturalizzato francese) il quale, convinto di questa involuzione del marxismo post-Marx, riteneva che ….. le società si auto-istituiscono, ma sono cieche della loro stessa creatività, una società veramente rivoluzionaria è una società che si auto-istituisce, ma esplicitamente … Graeber, da antropologo, si interroga in questo suo saggio, su quale contributo possa venire dalla antropologia per tentare di sanare questa insufficiente comprensione e valorizzazione della “creatività sociale”, e lo fa chiamando in causa un concetto all’apparenza lontanissimo dal tema: quello del ”feticismo”.

Perché il “feticismo”?

Feticismo è senza dubbio un termine che può generare equivoci in quanto declinato in accezioni molto diverse. Nato per indicare usanze strane, primitive, persino scandalose per l’etica occidentale (come si avrà modo di esaminare) ha poi assunto un più marcato significato di natura psicologica-sessuale dopo l’uso che, in questo senso, ne ha fatto Sigmund Freud (nella psicanalisi freudiana è riferito ad oggetti che attraverso processi di simbolizzazione assumono significato sessuale per rappresentare, accentuandole, difficoltà insuperate di relazione). Graeber, prima di entrare nel merito del suo utilizzo in ambito antropologico, ne recupera piuttosto la versione provocatoria usata da Marx per definire il fenomeno tipico del capitalismo in base al quale le merci non rappresentano semplici oggetti fisici definiti dal loro vero valore d’uso, ma divenendo per l’appunto autentici feticci giungono a celare i rapporti sociali ed economici in esse contenuti estremizzando, e alterando, lo stesso loro reale valore di scambio. E’ questa d’altronde la visione prevalente nella antropologia moderna che, seppure con accentuazioni diverse, si è concentrata sulle ragioni che possono spiegare la trasformazione di semplici oggetti materiali in oggetti di desiderio tali da assumere un valore eccessivo e inappropriato. Graeber è particolarmente interessato (proprio per coglierne la capacità di offrire spunti di riflessione sulla creatività sociale) a sviluppare la tesi, inizialmente formulata da Pietz (William Pietz, 1951, storico  e antropologo statunitense) che nella cultura occidentale l’idea di feticcio, e quindi di feticismo, sia il prodotto dell’incontro, con reciproche influenze, tra due tradizioni, quella europea e quella africana, avvenuto nel corso del 1500 in coincidenza con l’esplosione globale della fase mercantile. Furono in effetti dei navigatori e mercanti europei i primi ad usare tali termini per definire la diversità di calcolo del valore commerciale dei prodotti scambiati con le popolazioni africane con le quali entravano in contatto, a fini meramente speculativi, in quel secolo. Stupiva soprattutto il valore attribuito, peraltro dopo attenta e non improvvisata valutazione, a merci di ben scarso valore secondo i parametri europei, e colpiva il fatto che questi oggetti venissero trattati come cose vive, dotate di personalità e poteri, tali da meritare un nome e da essere spesso persino adorati. Non furono certo questi navigatori e mercanti, ma nei secoli successivi i primi seri studiosi delle culture “primitive”, a presupporre le possibili spiegazioni per comportamenti così bizzarri che Pietz ha riassunto nei termini di una …. congiuntura casuale tra un desiderio, un proposito, ed un oggetto balzato all’attenzione del desiderante che da lì in poi lo adotta però  come amuleto che gli consentirà di realizzare tale desiderio ovvero di portare a buon fine il proposito …. Un concetto ovviamente troppo raffinato e approfondito per appartenere a uomini interessati unicamente a realizzare i massimi di profitti commerciali (non di rado truffaldini) e che, convinti della presunta superiorità della propria cultura europea, descrivevano tali pratiche in termini di scherno e di disprezzo, Peraltro gli stessi termini usati, ed è qui che si innesta un primo spunto di rilevante interesse per le finalità di questo saggio, per raccontare le forme africane di governo e di potere descritte come caotiche, improvvisate, incomprensibili, prive di una qualsiasi apparente sistematicità. Anche se ammettevano che tali leggi e norme, fissate con procedure quantomeno originali, venivano da tutti rispettate con uno zelo volontario sconosciuto in Europa. E a maggior ragione sfuggiva del tutto ai quei primi interessati osservatori di culture diverse che i meccanismi di attribuzione del valore ad oggetti, così come le giustificazioni delle forme di potere e di governo, potessero essere, a ben vedere, molto più vicine dell’immaginato a corrispondenti concezioni della cultura europea. Lo erano perché da una parte l’attribuzione del valore alle merci, agli oggetti, sempre dipende da una valutazione soggettiva, che travalica ogni oggettivo valore intrinseco, basata su criteri culturali e valoriali specifici di ogni civiltà, e perché dall’altra, seppure con istituzioni rese altrettanto diverse dai rispettivi contesti storici, la finalità ultima del potere, in Europa come in Africa, è sempre stata sostanzialmente finalizzata a tenere sotto controllo la “guerra di tutti contro tutti(che le relazioni sociali concorrenziali sempre e comunque provocano) che Hobbes (1588-1679 filosofo politico inglese fondatore del contrattualismo moderno e teorico dello Stato assoluto) ha non a caso posto alla base della sovranità e del moderno Stato europeo.

E’ curioso il fatto che Hobbes abbia contribuito in modo determinante alla ridefinizione dei concetti di potere, di sovrano, di Stato, di contratto sociale, proprio a metà del 1600 (“Il Leviatano” viene pubblicato nel 1651), ossia negli stessi anni in cui i racconti di navigatori e mercanti parlavano di sistemi di relazioni sociali delle popolazioni africane non molto dissimili da quelli da lui delineati. Va però precisato che Hobbes nulla sapeva di tali situazioni

In questo quadro di sostanziale omogeneità di fondo di due culture non così contrapposte sembra comunque a prima vista emergere una rilevante diversità che richiama in causa il significato di fondo dei feticci e del feticismo: mentre in tutte le teorie politiche, quella di Hobbes compresa, che hanno ispirato la nascita dello Stato moderno la giustificazione del ruolo del potere risiede ancora e sempre nella volontà divina, e quindi in un valore che trascende l’ordinario umano, nelle pratiche delle popolazioni africane tale giustificazione viene affidata proprio al ruolo dei feticci di volta in volta individuati. Questa diversità bene spiega l’evidente maggiore strutturazione sistemica del potere in Europa e al contempo l’innegabile apparente improvvisazione delle forme di potere in Africa, meglio comprensibile proprio se si tiene nella giusta considerazione la natura mutevole dei feticci. Ma anche per questo aspetto Graeber invita ad andare oltre l’apparenza e a cogliere, ancora una volta, una sostanziale convergenza. Si può infatti sostenere che, a ben vedere, questa diversità comunque evidenzia la comune convinzione che la pace sociale, il valore universale a cui si tende regolando gli inevitabili contrasti e finalizzando ad esso le varie forme del potere, sia una “questione di accordi” il cui rispetto è affidato al condiviso riconoscimento di un potere superiore, di natura sovrannaturale, al quale non è lecito sfuggire

Graeber inserisce a supporto di queste considerazioni numerosi significativi esempi ricavati nel corso delle sue osservazioni da antropologo sul campo. Per lunghi anni ha infatti studiato le modalità con cui popolazioni africane, nord e sudamericane, gestivano i loro rapporti sociali e comunitari ed il collegato ruolo dei rispettivi feticci. Sono annotazioni molto particolareggiate che qui non sono riportabili nel loro dettaglio per non deviare questa sintesi dall’aspetto del saggio qui ritenuto il più interessante

Nel giro ampio delle suggestioni antropologiche che Graeber passa in rassegna per cogliere il ruolo del feticismo come reale pratica di creatività sociale emerge un altro aspetto, sempre collegato alle ragioni di fondo giustificative del potere, che assume una significativa importanza: le forme con le quali il potere si manifesta e si rende evidente e riconosciuto. Ricompare qui un concetto ampiamente studiato da Graber (e in questo blog sintetizzato nella Parola del mese di Agosto scorso)la gerarchia. L’aver istituito una stretta relazione tra potere e sistema dei feticci implica (elemento che emerge in tutte le popolazioni studiate da Graeber) che la figura a cui viene consegnata l’autorità di regolazione dei rapporti sociali comunitari, essendo totalmente giustificata, e rafforzata, dal rapporto con un determinato feticcio, non richiede, a differenza di quanto emerge nella cultura europea, di altre manifestazioni di riconoscimento del ruolo. A maggior ragione quindi questo indissolubile legame tra potere e feticcio, con quest’ultimo che è per natura mutevole variando di volta in volta, diventa di fatto un meccanismo che rende l’intero sistema gerarchico soggetto a continui mutamenti. Secondo Graeber diventa quindi possibile ricavare dall’insieme delle considerazioni sin qui svolte (solo apparentemente lontane dal tema della creatività sociale) alcuni elementi analitici:

*   in tutte le varie forme storiche assunte dal sistema del potere questo sembra trovare la sua giustificazione ultima in un principio strutturale costituito da qualcosa esterno ad esso, di norma con carattere trascendentale (per quanto sin qui esaminato) che può consistere nella volontà divina alla base degli Stati europei nati nella modernità piuttosto che nel sistema dei vari feticci africani (e di altre popolazioni e civiltà)

*   la dinamica evolutiva del potere è universalmente determinata, fermo restando quanto sopra, dal relativo specifico sistema di relazioni sociali ed economiche (in primis commerciali) che di norma si forma, universalmente,  in una ampia gamma di soluzioni che si collocano all’interno di due opposti poli: la “guerra totale(quella di tutti contro tutti) ad un estremo e all’altro “la reciprocità totale(di fatto il comunismo)

restando nel campo degli studi antropologici quest’ultimo aspetto emerge soprattutto nel lavoro di Marcel Mauss (1872-1950, antropologo, sociologo, storico delle religioni, francese. I suoi studi si sono concentrati soprattutto sulla magia, sul sacrificio e sullo scambio del dono)

Con riferimento a questi due elementi di validità universale, ed eterna, Graebre riprende il tema inizialmente posto della creatività sociale tornando e all’idea marxiana del “feticismo delle merci” di Marx, per meglio capire come oggi essa possa essere declinata nel sistema di relazioni sociali ed economiche basato sul “mercato capitalistico”. Marx aveva elaborato questo suo concetto riflettendo, su basi economiche e sociali, su aspetti esasperati, ma caratterizzanti, della produzione e del consumo capitalistici per poi confermarlo, e rafforzarlo, nell’ultima parte della sua attività analitica nella quale aveva iniziato ad addentrarsi in studi antropologici. Queste sue intuizioni e questa definizione hanno poi trovato una certa rispondenza nelle osservazioni antropologiche sul campo qui sinteticamente riportate, dalle quali emerge, in ultima analisi, un dato di fondo: la relazione con il feticcio, e con il suo rapporto fondativo del potere, è solo all’apparenza inconsapevole, al di là della ritualità che sancisce il nuovo ordine sociale, come si è visto garantito proprio dall’adozione di un nuovo feticcio, quest’ultimo una volta scelto vive di vita propria e viene visto, e vissuto, come dotato di un potere proprio. La sequenza di fondo – le persone creano una cosa e poi agiscono come se quella cosa avesse potere su di loro, è proprio il tipo di sequenza a cui pensa Marx quando parla di feticismo (delle merci). E’ questo un passaggio importante per meglio cogliere il rapporto tra feticismo e creatività sociale che ha mosso il percorso di questo saggio. Il punto cruciale infatti non consiste tanto nel fatto che gli oggetti elevati a rango di feticci siano già di per sé stessi il frutto di una forma di creatività sociale, e che quindi possano esistere solo in uno “spazio di rivoluzione(la forma più alta di creatività sociale), ma piuttosto nel fatto che essi siano di per sé stessi “oggetti rivoluzionari”. Nella fattispecie delle popolazioni africane (e delle altre civiltà) il feticcio (termine che a questo punto della sua analisi Graeber giudica però tecnicamente inadeguato) è sostanzialmente un “dio in costruzione”, vale a dire che la forma più alta di giustificazione del potere, presente come si è visto con identica funzione nella stessa cultura europea, è a tutti gli effetti una “costruzione creativa umana”. E pertanto il ….. feticismo diventa allora il terreno in cui cominciamo a vedere quegli oggetti che abbiamo creato o di cui ci siamo appropriati per nostri scopi come dei poteri imposti da noi su di noi proprio nel momento in cui cominciano ad incarnare un vincolo sociale appena creato …..

Graeber anche in questo passaggio riporta a sostegno alcune significative testimonianze raccolte nel corso del suo decennale lavoro antropologico

Ciò vale per lo stesso Marx, che pure ha inserito il concetto di feticismo delle merci in quello ben più ampio di “alienazione”, convinto com'era che la società sia il frutto di un’azione collettiva, alla quale ognuno contribuisce per quanto gli è possibile e consentito, che sempre più si è storicamente fatta complessa fino a rendere problematico il suo controllo ….. di conseguenza siamo pressochè costretti a sovraccaricare le nostre azioni e creazioni di una sorta di potere alieno, quando ciò avviene con oggetti materiali si parla di feticismo delle merci, e quindi come i feticistici africani creiamo delle cose e poi cominciamo a trattarle come divinità. Non a caso quindi, a suo avviso, i consumatori giungono a vedere il valore delle merci come una proprietà insita nella merce stessa dimenticando che esso altro non è che il valore del lavoro che contiene. Da qui in poi rischia di divenire inevitabile il considerare le “leggi di mercato”, piuttosto che le caratteristiche fondative di qualsiasi sistema sociale, come immutabili, al di fuori di ogni possibile nuova azione di creatività sociale perché protette da un di più che sfugge al controllo umano. Va però detto, secondo Graeber, che Marx stesso non porta alle loro più piene conseguenze queste constatazioni: per quanto convinto che la produzione di beni materiali sia sempre e comunque una produzione di relazioni personali e di rapporti sociali, e quindi un costante processo creativo in continua trasformazione, riduce però la creatività sociale alla sola azione politica per la conquista del potere comprimendo in questo modo la stessa idea di rivoluzione. E’ cioè un errore affrontare il sistema nel suo insieme sottovalutando le specificità di tutte le sue componenti ritenendo così rivoluzionaria la sola complessiva creatività generale. A ben vedere Marx smentisce sé stesso per la semplice ragione che restringere il momento rivoluzionario ad una completa svolta sistemica altro non è che ripetere lo stesso errore dell’architetto, di cui sopra, da lui stesso criticato nella sua iniziale fase più filosofica. La lezione antropologica che viene dal feticismo delle popolazioni africane si muove esattamente nella direzione opposta ed offre una visione alternativa di creatività sociale. Il costante mutamento del feticcio di riferimento era la base, altrettanto costante, per creare qualcosa di nuovo, nuovi gruppi, nuovi rapporti sociali, nuove comunità. In questo processo creativo tutti erano quindi in qualche modo coinvolti e, conseguentemente, anche la totalità da esso creata assumeva una sua maggiore validità proprio grazie a questo diffuso coinvolgimento   …… in altre parole erano momenti rivoluzionari, in una prima fase non necessariamente mirati ad una trasformazione totale, e d’altronde nessuna trasformazione è realisticamente davvero totale. Ogni atto di creatività sociale è in qualche misura rivoluzionario, ma nessuno lo è completamente. Queste cose sono sempre questioni di gradazione ….. In un processo come questo diventa più comprensibile che il feticcio, seppure rivestito dell’aura sovrannaturale che lo giustifica e lo sostiene, in fondo altro non è che la consapevolezza del fatto che le nostre azioni e creazioni hanno un potere su di noi, e che quindi rappresentano un elemento importante di cui tenere conto in ogni processo di creatività sociale. Il pericolo semmai arriva quando il feticismo viene totalmente sostituito ed annullato dal sovrannaturale che rappresenta, vale a dire quando gli dei che abbiamo immaginato esistere dietro i feticci diventano reali. Un pericolo che ha oggettivamente, e non a caso, investito soprattutto le costruzioni sociali che, mirando esclusivamente al cambiamento totale, sono state davvero immaginate come l’opera di un architetto.

……. Cosa ci insegna tutto questo? se non altro che, se si prende sul serio l’idea di creatività sociale, si dovrebbero abbandonare le presunte certezze che troppo spesso hanno ispirato processi di cambiamento. I processi di creatività sociale sono, in una certa misura, inconoscibili. Forse è meglio così. E comunque la creatività sociale deve restare il fulcro di una vera teoria sociale, soprattutto in un momento storico in cui gli eredi di quei mercanti e navigatori che deridevano gli africani ed i loro feticci sono riusciti ad imporre la loro bizzarra teologia materialistica al punto che l’unico valore riconosciuto alla vita umana è quello di essere un mezzo per produrre merci feticizzate ….  



venerdì 1 settembre 2023

La Parola del mese - Settembre 2023

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

SETTEMBRE 2023

La parola di questo mese è un neologismo di derivazione inglese inizialmente declinata in ristretti ambiti prima letterari e poi scientifici e solo recentemente più diffusamente utilizzata per definire un atteggiamento ed un comportamento collegati al cambiamento climatico, all’emergenza ambientale e all’ingiustizia sociale. La parola è……

ESCAPISMO

Escapismo = s.m. dall’inglese escapism (letteralmente “tendenza alla fuga”) indica l’atteggiamento proprio di chi costretto da circostanze, da eventi, dalle conseguenze di proprie scelte, tende a cercare vie di fuga, scappatoie, evasioni (l’inglese escape significa “evasione”)

Nasce in ambito letterario per definire, come loro limite, movimenti artistici troppo concentrati su produzioni fantascientifiche, di solito distopiche, che evidenziano una sorta di tendenza a cercare “distrazione da ciò che andrebbe invece affrontato”. Con questa stessa accezione è poi entrato nella terminologia psicologica per indicare un forma patologica di “fuga dai problemi della realtà” che porta ad un eccesso di immaginazione, di disimpegno. Negli ultimi decenni ha infine assunto una nuova specifica accezione relativa a comportamenti, a forme mentis, inerenti modalità di reazione alle problematiche ambientali e climatiche. Indica in particolare la tendenza a fuggire dalle responsabilità e dai cambiamenti che da queste derivano su stili di vita, su forme di produzione e consumo. Si tratta di un tema molto dibattuto per il suo impatto negativo sulle politiche di adattamento e di mitigazione che l’accelerazione e l’accentuazione della crisi ambientale e climatica stanno sempre più imponendo come non più rinviabili. Escapismo definisce quindi, anche in questo specifico caso, una fuga, più o meno consapevole per quanto diffusa a livello di massa, dal confronto e dalle indispensabili coerenti conseguenze con una realtà ormai innegabile. Esistono opinioni contrastanti sulle cause che stanno provocando questa forma di escapismo, ma non è certo lo spazio di una “Parola del mese” quello adatto per riportarle e valutarle. Ci è sembrato comunque interessante riportare un articolo che (commentando un recente saggio di Douglas Rushkoff, docente di media studies al Queens College di New York) esplora la declinazione di escapismo messa in atto, questa sì coscientemente, dalla componente più scandalosamente ricca dell’umanità coniugandola con l’altrettanto subdolo ritardismo (un atteggiamento strategico che mira a prolungare quanto più possibile il business as usual (il giro di affari solito) che ha di fatto sostituito l’ormai insostenibile negazionismo climatico).

Appare infatti indispensabile valutare come la componente più ricca e con la maggior influenza mediatica e politica stIa pesantemente incidendo sull’escapismo di massa.

Come i miliardari vogliono salvarsi

dalla fine del mondo distruggendolo

Articolo di Alessio Giacometti (dottorando in scienze sociali a Padova. Scrive su diverse riviste on line)  - Il Tascabile

Un manipolo di ultraricchi convoca un noto futurologo in un resort di extra lusso nel deserto. A ossessionarli è ciò che chiamano “l’Evento”, il collasso della civiltà cui si preparano da tempo senza riuscire a risolvere alcune questioni dirimenti: come mantenere l’autorità sui propri accoliti quando il mondo precipiterà nel caos? Cosa offrire ai servitori in cambio di fedeltà e protezione? Come impedire diserzioni e rivolte? I magnati ipotizzano collari per il controllo umano, robo-guardie, c’è chi propone persino il sequestro delle scorte alimentari. Riconoscono apertamente che equipaggiare il più inaccessibile dei bunker per l’apocalisse non servirà a nulla, se non saranno pronti anche a gestire l’imprevedibilità del comportamento altrui. Il futurologo rimane interdetto. E le risposte che dà non soddisfano il gruppo di ultraricchi. Non sta prendendo sufficientemente sul serio le nostre preoccupazioni, pensano loro. Così com’è arrivato il futurologo se ne va, con una scoperta decisiva però: che l’anarco-individualismo esasperato degli ultraricchi non solo è d’ostacolo alla mitigazione della crisi climatica, rischia anche di pregiudicare le iniziative collettive di adattamento al clima che si scalda.

Protagonista della vicenda descritta qui sopra è Douglas Rushkoff, docente di media studies al Queens College di New York e autore di “Solo i più ricchi. Come i tecnomiliardari scamperanno alla catastrofe lasciandoci qui (Luiss University Press, 2023), che si apre appunto col racconto in prima persona del consulto avuto con la congrega di prepper (survivalisti) miliardari. Quello dei rifugi anti-apocalittici – in versione esclusiva e militarizzata per i più abbienti, cooperativa e autosufficiente per le piccole comunità della classe media – è un business in spettacolare ascesa, soprattutto nell’America borghese, cristiana, repubblicana, che da sempre coltiva paranoie sulla fine del mondo o il tramonto dell’Occidente. Di peculiare, nel survivalismo praticato dai miliardari, c’è che i loro bunker superattrezzati non sono semplici rifugi, caverne luxury per superstiti facoltosi: parlano sfacciatamente di una forma mentis che concepisce l’adattamento in maniera competitiva, individualistica, difensiva, ostile nei confronti della vita e disconnessa dal resto società. Una mentalità da survival of the richest che, commenta Rushkoff, in un mondo trasformato dai cambiamenti climatici “ci fa immaginare un’esistenza più simile a quella in una fortezza ben difesa che a quella in un’oasi accogliente”. Il libro di Rushkoff è una allucinata sortita all’interno di questa specifica mentalità degli ultraricchi di fronte alla sfida dell’adattamento, un habitus sfrontato e prevaricante che l’autore stesso chiama “Mindset” e definisce così: il Mindset si basa su uno scientismo del tutto ateo e materialista, che crede che la tecnologia possa risolvere ogni problema, (…) ritiene i rapporti umani un fenomeno di mercato, teme la natura e le donne, pensa che i contributi del singolo non debbano nulla al passato e mira a neutralizzare l’ignoto dominandolo e privandolo di anima” . Mossi da un simile orizzonte mentale, i super-ricchi sono convinti che la crisi climatica non sia una loro colpa, che un sovrappiù di tecnologia basterà a rimettere le cose a posto, che la catastrofe rappresenti una nuova opportunità per fare affari, che in caso di collasso loro stessi meritino di salvarsi più di chiunque altro, che avranno vita lunga nella “tecno-bolla” dei loro bunker iper-artificiali, che un piano B sarà sempre possibile con una fuga nello spazio e la fondazione di una nuova civiltà in qualche remoto eso-pianeta. A detta di Rushkoff e di chi scrive, è una visione della crisi climatica e dei modi di fronteggiarla quanto mai sviante e pericolosa. Per lungo tempo i super-ricchi sono stati i più tenaci araldi del negazionismo climatico, oggi non più difendibile e perciò rimpiazzato dall’altrettanto subdolo “ritardismo”: un atteggiamento strategico che mira a prolungare quanto più possibile il business as usual ostacolando i cambiamenti necessari o procrastinando indefinitamente le misure urgenti per la de-carbonizzazione. Quando si tratta di mitigare l’impatto ambientale, gli ultraricchi tendono a favorire interventi minimi e conservativi, enfatizzano gli svantaggi economici delle politiche socialmente più trasformative, oppure spingono per enormi soluzioni tecnologiche e di mercato al riscaldamento globale che ribaltino la situazione collocandoli nuovamente in una posizione di vantaggio competitivo. Fatto equivoco, le soluzioni avveniristiche che caldeggiano promettono di realizzare un salto evolutivo per il progresso della specie e finiscono immancabilmente per concentrare nelle loro mani sempre maggiore ricchezza. Il Mindset è una strategia di ultra-accelerazione ma senza alcuna destinazione, ha fatto notare Malcom Harris in unintervista a Rushkoff apparsa su Wired: “è come voler costruire un auto tanto veloce da sfuggire ai fumi del proprio scappamento”. Oggigiorno, come ricordato da Andrew Hunter Murray sul Financial Times, non c’è praticamente miliardario che non abbia elaborato un proprio personalissimo piano per salvare il pianeta. Il più ricco tra i ricchi, Elon Musk, ha lanciato una competizione con un premio da 100 milioni di dollari per lo sviluppo di tecnologie per il sequestro del carbonio atmosferico. Ancora più ambiziosamente, Jeff Bezos ha sborsato 10 miliardi di dollari in programmi di “crescita verde” con il suo Bezos Earth Fund. George Soros, Bill Gates e Richard Branson finanziano invece progetti di ricerca applicata in geo- ingegneria (nostra Parola del mese di Giugno 2019), a dispetto delle perplessità sollevate da centinaia di scienziati del settore. Già nel 2008, il climatologo David Victor etichettava come greenfingers, “pollici verdi”, questi filantro-capitalisti, miliardari patriottici o speculatori convertiti che assurgono al ruolo di salvatori del pianeta e premono per progetti di riparazione tecnologica vasti e rischiosi, di cui ovviamente intendono conservare la proprietà intellettuale qualora gli sviluppi si rivelassero propizi. Per i super-ricchi le crisi non sono infatti che un’occasione per spremere ulteriore profitto, come avvenuto con la campagna del Grande Reset avanzata da Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, per rilanciare l’economia mondiale dopo la pandemia di COVID-19 con una nuova forma di capitalismo “consapevole”, benevolo, più direttamente coinvolto e protagonista nella risoluzione dei grandi problemi dell’umanità. È così che, piegando a proprio vantaggio le catastrofi sociali e ambientali, i super-ricchi diventano ancora più ricchi, macinando profitti stellari: negli ultimi due anni, l’1% dei più ricchi al mondo si è intascato i due terzi della nuova ricchezza prodotta a livello globale, mentre gli introiti di Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet e Meta sono aumentati del 20% (+1.100 miliardi di dollari) e le quote azionarie addirittura del 50%. Stando alla classifica stilata da Forbes, nell’ultimo anno il numero di persone con un patrimonio superiore al miliardo di dollari è cresciuto del 20% e sono oggi oltre 2.500 i miliardari a spasso per il pianeta con un una ricchezza complessiva di 13.1 trilioni di dollari, quasi quanto il PIL annuale dell’intera Unione Europea. I milionari sono invece più di 60 milioni, si concentrano come i miliardari principalmente negli Stati Uniti, e godono di una fortuna che ammonta in totale a oltre 150 trilioni di dollari, più del PIL mondiale. I super-ricchi non mancano mai di ripetere che una simile concentrazione di capitale non è un problema per i piani di mitigazione, anzi: solo una élite tecnocratica e illuminata al potere sarebbe in condizione di risolvere le sfide dell’umanità, in primis il riscaldamento globale. È vero al contrario che nulla come la ricchezza si correla all’impatto ambientale: i miliardari hanno un’impronta di carbonio migliaia di volte superiore a quella dei loro compatrioti e secondo le stime del Stockholm Environment Institute e di Oxfam, tra il 1990 e il 2015, l’1% degli individui più ricchi del pianeta ha emesso nell’atmosfera più gas serra del 50% degli individui più poveri. Da sempre i super-ricchi distolgono l’attenzione dalle loro scandalose emissioni colpevolizzando un unico fattore, quello a loro più speculare: la sovrappopolazione e la crescita demografica nei Paesi del Sud globale, peraltro in forte rallentamento. Imputano ai consumi retrivi e inquinanti dei super-poveri la maggiore responsabilità delle emissioni, ma è chiaro che una politica incisiva di mitigazione dovrebbe aggredire la forbice delle diseguaglianze da entrambi i lati, contrastando i sovra-consumi dei più ricchi e al contempo il sottoconsumo dei più poveri. Come scrive il geografo sociale Danny Dorling in Inequality and the 1% (Verso Books, 2019), i super-ricchi impoveriscono l’economia alle spese di tutti, inchiodano la società in uno schema di diseguaglianze incrollabile, compromettono gli sforzi per la mitigazione che non li vedano direttamente nella posizione di decisori o beneficiari. I governi di tutto il mondo non intervengono sui loro patrimoni perché credono che solo dal loro portfolio di investimenti possano scaturire le soluzioni necessarie, arrendendosi così al “male minore” dell’ingiustizia sociale purché i capitalisti mantengano la promessa del technological fix. Ci si dimentica però troppo spesso che la diseguaglianza economica non è un sottoprodotto detestabile del capitalismo, è il suo stesso obiettivo: come esemplifica Rushkoff, il mercato è un tavolo da poker in cui ogni giocatore mira a rimanere l’ultimo, quello che con un bluff o un colpo di fortuna riesce a sgominare gli avversari e a vincere l’intera posta in gioco. “Le società che sono arrivate a un tale livello di diseguaglianza economica non sono mai riuscite a evitare il fascismo”, avverte Rushkoff, “tantomeno una civiltà che ha massacrato il suo ambiente è mai stata in grado di sfuggire al collasso”. C’è poi un altro problema irrisolto e di lungo corso con i super-ricchi, reso palese oltre un secolo fa da Thorstein Veblen nella sua celeberrima “teoria della classe agiata: all’origine di ogni forma di proprietà e concentrazione di capitale pulsa l’istinto a emulare la ricchezza altrui, e sono perciò i ricchi a dettare mode, costumi e gusti, influenzando le aspirazioni dei più e plasmando la percezione di ciò che è ritenuto normale, irrinunciabile o auspicabile possedere. Una simile spinta agonistica all’emulazione dei ricchi e al loro reciproco superamento può innescare una deriva pericolosa: tutti pretendono di avere sempre più privilegi, anche il ricco che rifugge dalla massa di emuli con consumi ancora più ostentativi, lusso sfrenato, turismo estremo, o quello che lo stesso Veblen chiamava “ozio vistoso”. La rincorsa non può mai avere fine proprio perché i ricchi spostano l’asticella dell’emulazione sempre più in alto, contribuendo più di ogni altro fattore alla costruzione sociale dei desideri delle classi subalterne. Oltre a impedire l’attuazione di piani equi per la mitigazione e a provocare il consumismo emulativo delle masse, i miliardari promuovono una visione dell’adattamento che dipinge l’umanità come già spacciata. C’è un filo conduttore che lega il ritiro in bunker anti-apocalittici alla fuga nel metaverso e alla colonizzazione spaziale fomentate dai survivalisti miliardari, vale a dire la certezza fallace che anche nelle peggiori circostanze planetarie sarà in ogni caso possibile ricorrere a un’exit strategy per salvarsi la pelle e gli affari. Si prenda l’esplorazione spaziale: come ribadito dall’astrofisica Erika Nesvold, autrice di Off-Earth (2023) e curatrice di Reclaimed Space (2023), sono le fantasie escapiste dei super-ricchi ad alimentare oggi il mito della frontiera spaziale, tra nuovi pianeti da occupare, miniere lunari da fondare e hotel di lusso da mandare in orbita. A eccitare questa nuova ondata di avventurieri dello spazio è l’impressione che il cosmo abitabile sia potenzialmente sterminato, svincolato dalla finitudine di un pianeta Terra ormai esausto. E tuttavia l’immaginario eufemistico che propugnano aziende come SpaceX e Blue Origin dimentica colpevolmente di menzionare l’inquinamento da space junk, le emissioni insostenibili e deprecabili dell’industria spaziale, l’assoluta vulnerabilità della vita orbitale. Più esploriamo lo spazio più ci rendiamo conto di quanto ci rimanga precluso: la fuga spaziale non è possibile, anche se i miliardari continuano a fingere che lo sia. C’è poi un altro aspetto curioso nella fuga verso altri pianeti perorata dai survivalisti danarosi: lo stesso Rushkoff fa notare che ai tempi della Guerra Fredda le missioni spaziali erano sì intrise di insopportabile nazionalismo statunitense o sovietico, ma erano vissute anche come un’entusiasmante impresa collettiva. Ora non è più così: la corsa allo spazio è un business per tycoon, una dimostrazione di supremazia tecnologica e potere finanziario tra i giganti del tech. Altro che grande passo per l’umanità, il successo delle spaceflight companies segna la resa finale all’ultraliberismo: secondo Rushkoff “è la prova che viviamo in un mondo dove una persona può guadagnare abbastanza da dare vita a un programma spaziale e mettere in atto con successo la strategia di fuga definitiva”. È una visione aberrante in cui il progresso della civiltà culminerebbe quando, assoggettata la natura terrestre per mezzo della tecnologia, un pugno di ultraricchi si distaccherà dal resto dell’umanità per creare nuovi ambienti entro cui continuare a crescere. Frattanto all’élite tecnocratica del pianeta toccherà trincerarsi in bunker pattugliati e isolarsi quanto più possibile dai dannati della Terra. A giudizio di Rushkoff ciò che impensierisce di più i prepper miliardari è proprio quella folla: La folla di Washington, la folla che ha eletto Trump e la folla che devasterà i loro rifugi. I ricconi che oggi salgono sul carro della tecnologia dal volto umano non si preoccupano tanto dell’impatto delle loro piattaforme sulle persone, quanto dell’impatto potenziale delle persone sulla loro sicurezza e sui loro privilegi. Temono che si rendano conto di quel che è successo finora. La fobia per i futuri migranti climatici riflette quella speculare per i migranti di oggi: ecco perché Peter Thiel, epitome dei survivalisti più spietati, oltre ad allestire il suo personalissimo bunker in Nuova Zelanda, finanzia l’attività di gruppi alt-right contro l’immigrazione clandestina negli Stati Uniti. Allo stesso modo, i miliardari non temono l’intelligenza artificiale in sé, che loro stessi contribuiscono a sviluppare, ma le masse di esclusi che potrebbe generare e bisognerà tenere a bada in un modo o nell’altro. Il “capitalismo della paranoia” dei rifugi anti-apocalittici risponde così a un bisogno molto specifico dei survivalisti facoltosi, ossia evitare il dilemma morale dell’empatia, di decidere se aiutare o meno chi è in difficoltà. Quello dei bunker “è un business volto a fare in modo che quando si chiuderanno le porte non ci saranno molti bambini affamati a bussare”, sostiene Rushkoff: un modo per non affrontare le conseguenze etiche del proprio egoismo, placare il proprio senso di vergogna e tenere alla larga l’altrui istinto di vendetta. Per i prepper miliardari la dimensione materiale del survivalismo è scontata e banale, ben più complicato è trovare invece delle argomentazioni credibili per darsi uno straccio di giustificazione morale: cosa legittima gli ultraricchi a fuggire dalla realtà? Che diritto hanno di lasciare indietro tutti gli altri? Il Mindset dei survivalisti danarosi è rovinosamente imbevuto dei precetti della genetica delle popolazioni e del liberismo di mercato, due scienze che combinate assieme hanno dominato la modernità e condotto l’umanità alle porte del collasso dando forma al darwinismo sociale più feroce. In natura e in società a sopravvivere e riprodursi sarebbe l’individuo più egoista, competitivo, senza scrupoli, pervicace nel massimizzare i propri interessi personali a discapito degli altri. Forti di questa convinzione ipocrita e sbagliata, i miliardari sono certi di essere tali per proprio merito e promuovono un malcelato disprezzo per le masse di sconfitti che si lasciano alle spalle. Eppure, sempre secondo Oxfam, la maggior parte delle entrate dai super-ricchi non deriva da talenti personali, prestazioni lavorative retribuite o innegabili capacità manageriali, ma dal rendimento per il possesso di asset che globalmente viene tassato in media al 18%, poco più della metà dell’aliquota massima applicata in molte nazioni ai salari dei lavoratori dipendenti. Storicamente la pressione fiscale è cresciuta ovunque nel mondo, per tutti, ma in proporzione molto meno per i più ricchi – complice la teoria economica del trickle-down secondo cui tagliando le tasse alle classi privilegiate queste acquisterebbero più servizi dalle classi subalterne, favorendo così l’occupazione e il “gocciolamento” della ricchezza verso il basso della piramide sociale. Ciò che gli indicatori delle disuguaglianze ci dicono è che al contrario il gocciolamento avviene verso l’alto, solo a beneficio dei più ricchi: più che di trickle-down, si potrebbe parlare di soaking-up, di “assorbimento” della ricchezza da parte di una sparuta plutocrazia di happy few. Nulla di nuovo sotto il sole: è ciò che le teorie critiche del capitale contestano da sempre. Marx stesso parlava di “accumulazione originaria” per identificare quel momento preciso, assieme arcano e criminale, in cui una concentrazione critica di proprietà dei mezzi di produzione matura al punto da rendere possibile l’instaurarsi del modo di produzione capitalistico. Le nazioni che precorsero il capitalismo moderno – Paesi Bassi, Gran Bretagna, Stati Uniti – non divennero ricche perché i loro imprenditori erano più intelligenti o lavoravano più sodo, ma perché estorsero plusvalore dai proletari e accumularono risorse da altre nazioni, a cominciare dai combustibili fossili, senza i quali il capitalismo industriale non sarebbe mai stato possibile. Analogamente, i miliardari della Terra hanno avuto strada spianata nell’accumulare capitali così vasti che sembra oggi impossibile scalfire il loro potere, con cui pretendono di mettersi al comando di un’umanità minacciata dal collasso ambientale. Come provare a fermarli? Dalla COP27 per il clima dell’anno scorso si parla sempre più spesso di sistemi di riparazione loss and damage per indennizzare, almeno in parte, le perdite irreversibili del riscaldamento globale, ma soprattutto per rimediare al peccato originale dell’accumulazione originaria delle corporation dell’industria fossile e di altri settori inquinanti. C’è chi stima che le ventuno maggiori aziende del fossile dovrebbero decurtare dai propri profitti oltre 200 miliardi di dollari l’anno per compensare i danni causati da emissioni e cambiamenti climatici alle popolazioni più vulnerabili. Secondo un altro studio, da qui al 2050 i Paesi che hanno approfittato maggiormente del capitalismo fossile sarebbero tenuti a versare alle nazioni meno inquinanti circa 170 trilioni di dollari per riequilibrare le sperequazioni nell’appropriazione del carbon budget planetario. Anche Nicholas Stern, autore del celebre report sui cambiamenti climatici, ha calcolato assieme ad altri economisti che ai Paesi meno attrezzati servirebbero due trilioni l’anno per rendere sostenibile il proprio sviluppo. Perché non cominciare con una super-tassa ai super-patrimoni? In una lettera inviata ai leader del Nord del mondo, oltre centocinquanta economisti tra i quali Yanis Varoufakis e Jason Hickel hanno chiesto di introdurre un’imposta del 2% sui capitali dei super-ricchi, sufficiente a raccogliere oltre 2,5 miliardi di dollari con cui iniziare a finanziare un fondo di loss and damage a sostegno dei paesi più esposti ai cambiamenti climatici. Si stima che in Regno Unito una tassa del 0,5% ai patrimoni superiori al milione di sterline sarebbe sufficiente a coprire la quota dovuta al fondo dall’intera nazione. L’idea di base della giustizia climatica riparativa è che l’atmosfera sia un common, un bene comune che ad oggi è stato utilizzato in maniera iniqua e colonizzato a vantaggio di pochi. Ritardisti climatici, economisti iperliberisti e politici conservatori si oppongono ai meccanismi internazionali di ristoro che prevedano una tassazione aggressiva dei super-patrimoni, soprattutto negli Stati Uniti, ma come sarebbe altrimenti possibile sostenere i programmi di mitigazione e adattamento nei Paesi meno attrezzati? Come togliere il kerosene dalle stazioni di rifornimento di Lagos ed evitare che una marea di migranti climatici si sparga in giro per il mondo? È la realpolitik più auto-interessata e crudelmente competitiva a imporre di pensare globale, a preoccuparsi per il carburante che il più sperduto abitante di Hanoi versa nel serbatoio del suo catorcio, radiato da chissà quale Paese europeo ormai avviato alla transizione. Ci vogliono coraggio politico e coordinazione internazionale per fare in modo che i super-ricchi si facciano carico della responsabilità storica delle emissioni e dell’obbligo morale della mitigazione: sarebbe la dimostrazione che le leggi non valgono solo per chi è povero e debole, con un ritorno enorme in termini di consenso popolare. Poi c’è la sfida da far tremare i polsi di rendere eque e giuste le politiche per l’adattamento: “i nostri scopi non devono essere quelli del Mindset”, ammonisce Rushkoff al termine del suo libro, “non dobbiamo mirare a traguardi individuali, a vittorie tangibili, a fughe col malloppo, ma dobbiamo cercare invece un progresso incrementale verso una forma collettiva di coesione”. Non possiamo riparare, non esiste alcun luogo abbastanza al sicuro in cui nascondersi, e la fuga altrove non è un’opzione. I super-ricchi sperano ancora che una trovata risolutoria dell’ultima ora possa garantire loro un altro secolo di progresso senza subire le conseguenze delle proprie azioni, ma sono ormai consapevoli che i loro affari e il loro stile di vita hanno gli anni contati. “Sanno che gli edifici che hanno costruito saranno spazzati via dall’oceano”, chiosa Rushkoff laconico. La strada dellescapismo è già finita.