domenica 20 novembre 2022

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della eccellente conferenza tenuta da Valter Coralluzzo (Docente di Relazioni Internazionali presso l’Università di Torino) con titolo:

L’Europa di fronte alla guerra in Ucraina:

analisi delle nuove prospettive geopolitiche

Per accedere al video cliccare quiConferenza Coralluzzo

Stante la complessità del quadro geopolitico affrontato pubblichiamo inoltre, qui di seguito, la traccia scritta con i passaggi fondamentali dell’intervento del Prof. Coralluzzo:

L’aggressione russa all’Ucraina:

genesi di una guerra annunciata

Valter Coralluzzo

Quella perpetrata dalla Russia di Putin attaccando in maniera massiccia e brutale l’Ucraina è una sfacciata e imperdonabile violazione del diritto internazionale e non c’è analisi geopolitica che possa revocare in dubbio la perentorietà del giudizio che inchioda i russi alle loro responsabilità di aggressori riconoscendo agli ucraini il diritto di difendersi (e si badi: non spetta ad altri che al popolo la cui libertà sia minacciata decidere se e fino a quando combattere per difenderla). Tuttavia, il fatto che siano chiaramente distinguibili un aggressore e un aggredito non ci esime dal cercare di capire come si è arrivati a questa tragica situazione, tenendo ben fermo un punto (tanto ovvio quanto generalmente trascurato), e cioè che indagare i motivi di certi comportamenti non significa affatto giustificarli. Con buona pace di quanti, frustrati nei loro tentativi di decifrare le reali intenzioni di Mosca, lo hanno rievocato nelle loro analisi, il noto aforisma di Churchill, che nel 1939 paragonò la Russia a «un indovinello racchiuso in un mistero avvolto in un enigma», non pare potersi applicare al conflitto in corso, che al contrario esibisce tutte le caratteristiche di una guerra annunciata, alla quale si può guardare come al prevedibile (ma provvisorio) capolinea di un percorso evolutivo della politica estera della Russia post-sovietica che qui di seguito si potrà ricapitolare soltanto nelle sue linee essenziali. Se, come scrive Benedetto Croce, «è lo storico che decide da dove far partire la narrazione dei fatti», allora, nel nostro caso, sarà bene partire dalla fine della Guerra fredda e porsi il seguente interrogativo: perché, nel corso dell’ultimo trentennio, la Russia ha progressivamente mutato il proprio atteggiamento nei confronti dell’Occidente e del cosiddetto “estero vicino”, orientandosi verso una politica estera sempre più assertiva ed aggressiva?

1. Molti, anche tra i più accreditati studiosi di relazioni internazionali, pensano che l’allargamento a Est della Nato sia stato il fattore decisivo, o almeno una concausa rilevante, nel determinare il deterioramento dei rapporti tra Russia e paesi occidentali. Del resto, già nel 1998, invitato a pronunciarsi sul prossimo ingresso nell’Alleanza atlantica di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, George Kennan non aveva celato le sue preoccupazioni: «Credo sia l’inizio di una nuova Guerra fredda. Credo che i russi reagiranno gradualmente in modo alquanto avverso e che questo cambierà le loro politiche. Credo sia un tragico errore» («New York Times», 2 maggio 1998). In realtà, la questione dell’allargamento della Nato non ha pesato sempre allo stesso modo nelle relazioni della Russia con l’Occidente. Durante gli anni Novanta, sotto la presidenza di Boris Eltsin, una Russia debole, confusa, declassata internazionalmente al rango di semplice comprimario ma ancora fiduciosa di poter risollevare le sue sorti emulando il modello occidentale (democrazia liberale ed economia di mercato), evitò di opporsi apertamente ai piani di espansione dell’Alleanza atlantica, con la quale anzi firmò una serie di importanti accordi di cooperazione, dalla Partnership for Peace (1994) al Nato-Russia Founding Act (1997), in cui Nato e Russia ribadivano di non considerarsi avversarie e si impegnavano a «costruire un’Europa stabile, pacifica e indivisa, intera e libera, a beneficio di tutti i suoi popoli». Certo, la nomina di Evgenij Primakov a ministro degli Esteri (1996) e poi a primo ministro (1998) comportò, da parte di Mosca, una presa di distanza dall’iniziale postura filoccidentale in favore di un orientamento (riassunto nella cosiddetta “dottrina Primakov”) più sbilanciato in senso eurasiatista e volto, senza però antagonizzare gli Stati Uniti e pregiudicare i rapporti con l’Occidente, all’edificazione di un sistema internazionale multipolare, nel quale gli specifici interessi nazionali della Russia (a partire dal consolidamento della sua influenza nello spazio ex sovietico) fossero debitamente salvaguardati. Ma quando nel 1999 la Nato, allo scopo di far cessare le violenze etniche dei serbi contro gli albanesi del Kosovo, condusse, non autorizzata dall’Onu, un’intensa campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia (composta ormai soltanto da Serbia e Montenegro), la Russia si guardò bene dall’intervenire in difesa della Serbia, sua tradizionale alleata, e di fatto parve adattarsi a una situazione che sanciva la sua impotenza (pur covando una frustrazione e un risentimento che più tardi non avrebbero mancato di far sentire i loro effetti). Fu soltanto dopo l’avvento al potere di Vladimir Putin che il cambio di passo della politica estera russa, nel segno di una maggiore assertività e durezza di toni nei confronti dei paesi occidentali e post-comunisti, si appalesò con chiarezza. Non subito però: durante il suo primo mandato presidenziale (2000-2004) Putin, che aveva detto che chiunque non rimpiangesse l’Urss «non aveva cuore» ma chi voleva ricostruirla «non aveva cervello», fece mostra di un notevole pragmatismo, rifuggendo da ogni eccesso retorico antioccidentale e concentrandosi sulla ricostruzione di uno stato forte e di un’economia efficiente, precondizioni indispensabili per far riguadagnare alla Russia un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale. In questo periodo, egli non rinunciò a muoversi in direzioni eurasiatiche, si pensi alla trasformazione di una precedente unione doganale con Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan in Comunità economica eurasiatica (maggio 2001) e alla nascita (giugno 2001) dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, che a quegli stessi paesi (Bielorussia esclusa) aggiungeva Uzbekistan e Cina. Il principale obiettivo del Cremlino, tuttavia, rimaneva quello di integrare sempre più strettamente la Russia nella comunità euroatlantica (gorbaciovianamente concepita come estendentesi da Vancouver a Vladivostok), ma certo non in veste di ininfluente socio di minoranza dell’impero americano (come invece si auspicava a Washington), bensì su una base di parità che implicasse il riconoscimento del rango della Russia (non riducibile, per ovvie ragioni geopolitiche, a quello di semplice “potenza regionale”), il rispetto dei suoi legittimi interessi (anche nell’“estero vicino”) e la non ingerenza nei suoi affari interni. Coerentemente con questa impostazione, Putin non soltanto sottoscrisse (maggio 2002) a Pratica di Mare, auspice Berlusconi, l’accordo istitutivo del Consiglio congiunto permanente Nato-Russia (dove però, in sostanza, erano gli Stati Uniti a dare preventivamente la linea ai soci atlantici per assicurarsi che la Russia restasse isolata), ma arrivò addirittura a ipotizzare un futuro ingresso della Russia nell’Alleanza atlantica («Perché no? Faccio fatica a pensare alla Nato come a un nemico»): ipotesi non così peregrina se ancora nel 2010 Charles Kupchan la rilanciava con forza dalle pagine di «Foreign Affairs».  A ciò si aggiunga che Putin, il quale sul finire del 1999, come primo ministro, aveva dato il via a un secondo conflitto in Cecenia (segnato da massacri e crimini di guerra), usando il pugno di ferro contro i separatisti cui era stata attribuita, con sospetta sollecitudine, la responsabilità di una serie di attentati che avevano insanguinato Mosca e altre città russe (memorabile il suo annuncio: «Ammazzeremo i terroristi anche nel cesso»), fu lesto nel cogliere l’occasione offerta dagli attentati dell’11 settembre 2001 per solidarizzare (primo fra i leader mondiali) con il governo di Washington e per proporre agli Stati Uniti un’alleanza strategica in nome della comune lotta contro il terrorismo. Benché viziata da un evidente opportunismo, suggerito dalla ricerca di una legittimazione internazionale per la feroce repressione militare esercitata in Cecenia, l’approccio collaborativo del Cremlino (concretizzatosi nella messa a disposizione della coalizione a guida statunitense diretta in Afghanistan dello spazio aereo e dell’intelligence russi, nonché nella rinuncia a contrastare il dispiegamento delle forze americane nei paesi dell’Asia centrale ex sovietica) fu salutato con entusiasmo in Occidente, dove la fiducia nei confronti della Russia ricevette nuovo impulso dalle parole rivolte da Putin al Parlamento tedesco (25 settembre 2001): «La Russia è una nazione europea amichevole. Una pace stabile sul continente è per la nostra nazione un obiettivo prioritario». D’altro canto, dopo il loro primo incontro ufficiale (giugno 2001), lo stesso George W. Bush non aveva forse detto di Putin: «L’ho guardato negli occhi. L’ho trovato molto diretto e affidabile. Sono riuscito a farmi un’idea della sua anima»? Nulla di più distante dall’opinione espressa da Joe Biden durante un’intervista (16 marzo 2021) nella quale ha ammesso di considerare Putin un assassino e ha ricordato che già nel 2011, quand’era vice di Obama, aveva incontrato il leader russo e gli aveva detto di non credere ch’egli avesse un’anima (al che Putin aveva gelidamente replicato: «Noi ci capiamo l’uno con l’altro»). Come si spiega un ribaltamento di giudizio così radicale?

2. Molteplici furono i fattori che durante il secondo mandato presidenziale di Putin (2004-2008) contribuirono a incrinare le relazioni tra Russia e Occidente. Sul piano interno, la progressiva autocratizzazione del regime putiniano, in cui giocarono un ruolo centrale i concetti di “verticale del potere” e “democrazia sovrana”, creò un ambiente favorevole all’adozione, da parte di un esecutivo ormai libero dal condizionamento esercitato nel decennio precedente da una pluralità di gruppi di interesse pubblici e privati, di una politica estera più assertiva e “muscolare”, non più soltanto difensiva ma anche offensiva. Sul piano internazionale, tre eventi in particolare spinsero la Russia verso un irrigidimento delle proprie posizioni di politica estera: la guerra in Iraq del 2003, le rivoluzioni colorate (“delle rose”, “arancione” e “dei tulipani”) scoppiate tra il 2003 e il 2005 in Georgia, Ucraina e Kirghizistan (paesi nei quali, sull’onda di massicce manifestazioni di protesta, i presidenti in carica, accusati di brogli elettorali e di essere autoritari e filorussi, furono sostituiti da politici di orientamento liberale e filoccidentale) e l’ulteriore allargamento a Est della Nato (a seguito dell’ammissione nel 2004 di altri sette paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia). Da questi eventi la Russia trasse una duplice lezione. Da un lato, di fronte alla crescente propensione unilateralista ed eccezionalista della politica estera americana e all’acclarata indisponibilità degli Stati Uniti ad abdicare al ruolo di “gendarmi del mondo” e garanti dell’ordine internazionale liberale, Mosca andò persuadendosi dell’illusorietà della prospettiva di una transizione guidata e consensuale dall’unipolarismo al multipolarismo e della necessità di imboccare una strada diversa da quella che gli Stati Uniti, assertori convinti del carattere tutt’altro che effimero del “momento unipolare” e della natura “benevola” della loro egemonia, avevano tentato di farle seguire dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dall’altro, il reiterato ricorso, da parte occidentale, alla pratica dell’ingerenza negli affari interni di altri paesi e dell’imposizione forzosa ad altri popoli di un modello politico-culturale irrispettoso della loro identità e del loro diritto a scegliere un proprio autonomo percorso di sviluppo (è così che al Cremlino furono interpretate le rivoluzioni colorate, ritenute il frutto di macchinazioni ordite da poteri stranieri, in particolare americani, statali e/o privati) indusse Mosca a una difesa sempre più energica e intransigente dei propri interessi e di quelli di un “mondo russo” (russkij mir) di cui essa voleva continuare ad essere il centro di gravità, a costo di rinverdire la tradizione sovietica degli interventi militari “su richiesta” di popoli fratelli, o in risposta alla presunta oppressione esercitata in certi paesi sulle minoranze russofone. Tocca infine accennare al fatto che, giustificando la guerra in Iraq sulla base di false informazioni sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, l’amministrazione Bush finì per confermare l’opinione di quanti, in Russia, ritenevano che gli Stati Uniti fossero un paese sleale, ipocrita e inaffidabile.  Date queste premesse, non stupisce che i segnali di crescente divaricazione tra Russia e Occidente abbiano cominciato a moltiplicarsi. Uno dei più importanti fu certamente quello offerto dal celebre discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco (11 febbraio 2007). In quella occasione Putin (che già in un discorso del 2006 alla Duma aveva paragonato l’America a «un lupo che continua a mangiarsi quello che trova sulla propria strada senza prestare ascolto a nessuno») non si limitò a denunciare il modello unipolare americano, cioè l’esistenza di un «mondo in mano a uno solo», per giunta incline a un «uso eccessivo della forza nelle relazioni internazionali», ma accusò anche l’Occidente di aver tradito l’impegno, assunto dopo la riunificazione della Germania e lo scioglimento del Patto di Varsavia, a non espandere a Est la Nato (ma su questo punto si tornerà più avanti). Il significato di questo discorso venne subito colto dall’analista politico Dmitri Trenin: «La Russia, prima una sorta di Plutone nel sistema solare occidentale, è uscita dalla sua orbita spinta dalla determinazione di trovarsi un proprio sistema» (cfr. I. Krastev, Che cosa pensa la Russia, in «Italianieuropei», n. 1, 2008, p. 233). Non a caso, alla fine del 2007, la Russia sospese la sua partecipazione al Trattato sulle forze convenzionali in Europa. Tuttavia, la svolta decisiva verso il definitivo peggioramento dei rapporti russo-occidentali giunse nel 2008: prima (17 febbraio) con la proclamazione (giudicata da Putin un atto illegale e immorale) dell’indipendenza del Kosovo; poi (3 aprile) con il vertice della Nato a Bucarest, che si concluse con un comunicato di compromesso in cui, rinviando a un futuro imprecisato la soluzione definitiva del problema, ci si limitava a dare «il benvenuto alle aspirazioni euroatlantiche di Ucraina e Georgia di ingresso nella Nato», suscitando in tal modo la dura reazione di Putin e del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, i quali avvertirono l’Occidente che l’ammissione di questi due paesi, rappresentando una «minaccia diretta alla Russia», era «un errore strategico terribile», che avrebbe avuto «conseguenze pesanti sulla sicurezza dell’Europa»; infine (8 agosto) con l’intervento militare russo in Georgia a sostegno delle repubbliche separatiste dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia, che l’esercito georgiano stava tentando di riportare con la forza sotto il controllo di Tbilisi. A proposito della “guerra d’agosto”, Robert Kagan in quei giorni scrisse parole che suonano attualissime anche oggi: «L’attacco russo contro lo stato sovrano della Georgia ha segnato il ritorno ufficiale della storia allo stile ottocentesco dei grandi scontri di potere, con tanto di virulenza nazionalistica, battaglie per le  risorse, lotte per sfere d’influenza e territori, e persino ‒ anche se questo può urtare le nostre sensibilità da ventunesimo secolo ‒ l’impiego della forza militare per assicurare obiettivi geopolitici» («Corriere della Sera», 21 agosto 2008). Non parve, dunque, un mero esercizio retorico parlare, come fece Edward Lucas in un libro pubblicato proprio nel 2008, di “nuova Guerra fredda” e dei rischi e che il putinismo comportava per la comunità internazionale e per lo stesso popolo russo

3. Il prosieguo degli eventi ha decisamente confermato la fondatezza dei timori di Lucas e, in particolare, della tesi centrale sulla Russia esposta nel suo libro: «repressione verso l’interno e aggressione verso l’estero a fronte di una risposta dell’Occidente debole in modo allarmante» (E. Lucas, La Nuova Guerra Fredda, Egea, Milano 2009, p. XXIII). È un punto, questo, sovente trascurato, ma che merita di essere ben fermato: è l’involuzione autoritaria del regime putiniano (accelerata dalla crisi economica globale del 2008, che accrebbe in Putin la consapevolezza che la sua enorme popolarità interna sarebbe stata erosa dall’impossibilità di garantire una crescita come quella precedente alla crisi) la prima causa del risorgente imperialismo e della proiezione internazionale viepiù “muscolare” del Cremlino. Fatta salva la naturale propensione aggressiva in politica estera dei regimi autocratici, nel nostro caso entra in gioco anche il fatto che connotando in senso conservatore, revanscista e revisionista il proprio regime Putin sperava di riuscire a puntellare il proprio consenso interno, distogliendo l’attenzione pubblica dal fallimento dei suoi tentativi di riformare e modernizzare la società e l’economia russe. Ancora più importante è però l’altro punto richiamato da Lucas, relativo alla preoccupante inadeguatezza delle risposte fornite dall’Occidente alle sfide della Russia; sfide che, insieme a quelle poste da altre potenze autocratiche, sembrano proiettare il mondo in un’era che sarà dominata dalla competizione globale fra governi democratici e autocratici. In effetti, non si può non rimanere colpiti dal fatto che ogni segno di debolezza dell’Occidente è stato interpretato come un via libera per un’ulteriore escalation da parte di Mosca. Due esempi su tutti: in Siria l’America di Barack Obama perde credibilità per aver fissato delle “linee rosse” che il regime di Bashar al-Assad viola ripetutamente senza pagare dazio, e pochi mesi dopo la Russia si riprende la Crimea e destabilizza il Donbass; in Afghanistan le truppe occidentali abbandonano disordinatamente il paese riconsegnandolo nelle mani dei Talebani, e pochi mesi la Russia aggredisce l’Ucraina. E gli esempi potrebbero continuare. La lezione che se ne ricava è questa: non mostrarsi determinati significa lasciare campo libero a Putin; di conseguenza, dobbiamo comportarci in maniera tale che Mosca, ogni volta che si domanda se potrà conseguire i suoi fini impunemente, si veda costretta a rispondere “no”.   Dal conflitto russo-georgiano ai giorni nostri, quello apparecchiato dal Cremlino è stato, in effetti, un crescendo di azioni e dichiarazioni sempre più ostili ed aggressive (seppur inframmezzate da momenti di apparente distensione) nei confronti di Stati Uniti, Nato, Unione europea, ma anche (forse soprattutto) di quei paesi che, pur facendo parte del “mondo russo”, hanno cercato di sottrarsi, attraverso sollevazioni popolari più o meno riuscite e il rafforzamento dei propri apparati di difesa, ai pesanti condizionamenti di Mosca, preferendo abbracciare una prospettiva di integrazione (sperabilmente celere) nel sistema euroatlantico. È questo il caso dell’Ucraina, sulla quale, a partire dal 2014, si è abbattuta un’ondata di eventi drammatici (dalle violente manifestazioni filoeuropee di piazza Maidan all’annessione della Crimea alla Russia, dal conflitto fomentato nel Donbass dai secessionisti delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk al fallimento degli accordi di Minsk, fino all’attacco sferrato da Putin nel febbraio scorso) davvero impressionante. Non è però all’analisi di tali eventi, peraltro ben noti e indagati, che si intende dedicare il residuo spazio del presente articolo, bensì a una succinta disamina dei principali argomenti utilizzati dal regime di Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina. Sgomberato il campo dagli argomenti palesemente inconsistenti (russi e ucraini fanno parte della stessa nazione, Euromaidan è stata un colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti e dalla Nato, l’Ucraina ha un governo nazista, in Donbass c’è stato o è in atto un genocidio), rimane sul tavolo uno dei temi ricorrenti della narrazione putiniana sull’“operazione militare speciale” avviata in Ucraina, quello che chiama in causa l’allargamento della Nato e, più precisamente, il presunto tradimento, da parte occidentale, della promessa di non espandere l’Alleanza atlantica in direzione dei confini della Russia. Se si tratti di un’accusa fondata o campata per aria è una vexata quaestio, che non si può qui approfondire: l’opinione di chi scrive, comunque, collima con quella formulata in un libro recente (Not One Inch; America, Russia, and the Making of the Post-Cold War stalemate, Yale University Press, 2022) dalla storica Mary E. Sarotte, per la quale l’accusa di “tradimento” rivolta alla Nato, benché tecnicamente falsa (perché alla Russia sono state fornite assicurazioni verbali sui limiti dell’espansione della Nato, ma nessuna garanzia scritta), possiede una sua verità psicologica. Detto altrimenti: reale o meno che fosse, quello di non allargare a Est i confini della Nato venne inteso da Mosca come un impegno vincolante. Discorso analogo può farsi anche rispetto ad altre due percezioni largamente condivise dai russi (e alimentate ad arte dalla propaganda di regime): da un lato, quella di essere stati umiliati e trattati come sconfitti dopo la fine della Guerra fredda; dall’altro, quella di essere accerchiati e minacciati dall’Occidente. Da entrambe queste percezioni ha tratto linfa la richiesta sempre più pressante di un nuovo corso politico, che archivi definitivamente l’epoca della ricerca da parte della Russia del suo posto nell’ordine mondiale centrato su un Occidente che per cecità o per scelta ha sistematicamente ignorato le preoccupazioni e le richieste di Mosca, e inauguri finalmente una fase di «distruzione costruttiva» di quest’ordine (S. Karaganov) e di «espansione selettiva basata sugli interessi della Russia» (D. Trenin): espansione che non può non cominciare dall’Ucraina, la cui importanza risiede nel fatto che senza Kiev l’“impero” che Putin sogna di ricostruire non sarebbe un vero impero. Ora, si potrà anche pensare, insieme a Bernard Henri-Lévy, che quella dell’umiliazione russa sia solo una leggenda, un mito, «l’ultimo tranello in cui dobbiamo evitare di cadere», giacché in realtà non è facile trovare «altri esempi di un impero decaduto che abbia beneficiato di tante premure» («Repubblica», 26 febbraio 2022). Allo stesso modo, si potrà ironizzare su quella vera e propria sindrome da cittadella assediata che secondo Paul Berman «potrebbe suggerire che la Russia è assai più traballante di quanto non voglia dare a intendere» («Corriere della Sera», 28 agosto 2008). Ma non ci insegna forse il costruttivismo che ci sono dei “fatti” che, pur non esistendo materialmente, esistono perché noi crediamo che esistano e ad essi vincoliamo scelte e comportamenti? Detto ciò, e per concludere, alcune riflessioni ulteriori si impongono, a completamento di questa sommaria analisi delle cause della guerra in corso. Anzitutto, è bene osservare che l’allargamento a Est della Nato non ha mai rappresentato una minaccia reale alla sicurezza russa. A parte il fatto che non si capisce bene per quale motivo le esigenze di sicurezza della Russia debbano valere di più di quelle dei paesi limitrofi visto che il dilemma della sicurezza funziona per tutti allo stesso modo (o meglio lo si capisce, ma solo a patto di fare propria la logica realista di John Mearsheimer), il vero problema è un altro e ha a che fare con la lotta per il riconoscimento del poprio status di grande potenza condotta dalla Russia, nel senso che al Cremlino si è sempre pensato che l’espansione a Est della Nato, piuttosto che attentare alla sicurezza militare russa (ampiamente garantita da un imponente sistema di deterrenza nucleare), rappresentasse un segnale rivolto a Mosca il cui senso (tutt’altro che criptico) era questo: non siamo in alcun modo disponibili a prendere in considerazione i vostri interessi e le vostre richieste e a riconoscervi il rango a cui aspirate. Ci si potrebbe domandare, a questo punto, se sia proprio vero che i paesi occidentali hanno sempre escluso l’integrazione della Russia nel loro sistema. Secondo Fabio Bettanin, essi «l’hanno piuttosto rimandata a un domani indefinito, quando il consolidamento dei sistemi di alleanza occidentali avrebbe consentito di avviare il processo da posizioni di forza» (F. Bettanin, Putin e il mondo che verrà, Viella, Roma 2018, pp. 10-11). O, più probabilmente, essi si sono cullati nell’illusione che la transizione democratica in Russia fosse parte di un processo globale e inarrestabile di democratizzazione del mondo (la “fine della storia” di cui parla Francis Fukuyama) che non richiedeva sforzi o interventi particolari, anche in ragione del fatto che in un’economia globalizzata la necessità di competere sui mercati avrebbe prodotto la liberalizzazione economica e questa, a sua volta, avrebbe portato alla liberalizzazione anche in campo politico. Ma è proprio a quest’ultima che la Russia di Putin risolutamente si oppone. E siccome i membri della Nato devono soddisfare requisiti istituzionali e valoriali di tipo occidentale, è chiaro (e il discorso vale anche per l’allargamento a Est dell’Unione europea) che a preoccupare la Russia è soprattutto l’effetto di “contagio democratico” che la vicinanza di tali paesi potrebbe innescare. In altri termini: un’Ucraina membro della Nato e/o dell’Ue non costituirebbe una minaccia in sé ma per l’esempio di democrazia che offrirebbe: tale esempio dimostrerebbe che anche in Russia la democrazia è possibile, cosa assolutamente inaccettabile per Mosca.


giovedì 17 novembre 2022

Il "Saggio" del mese - Novembre 2022

 

Il “Saggio” del mese

 NOVEMBRE 2022

E’ sicuramente uno degli aspetti che testimoniano le difficoltà della democrazia rappresentativa occidentale nell’affrontare, con la giusta efficacia ed equità, le tante sfide di questi tempi. Ed è, purtroppo, ormai così consolidato e pervasivo da indurre molti ad una sorta di impotente rassegnazione, ma così non deve essere ed è anzi sempre più necessario opporsi alla crescente “inciviltà” nel confronto politico, giunta ormai ad un punto tale da poter apertamente parlare di “politica dell’inciviltà”. Vale a dire che quello che fino a non molto tempo addietro era pur sempre un deprecabile, ma occasionale, ricorso alla maleducazione, all’insulto, alla continua provocatoria sovrapposizione, sembra essere assurto a deliberata e sistematica modalità di gestire il dibattito politico. Per meglio capire in cosa consiste l’attuale “politica dell’inciviltà” seguiremo la riflessione sviluppata su questo tema nel recentissimo saggio con identico titolo

di Sara Bentivegna

(Sara Bentivegna insegna Comunicazione politica alla Sapienza Università di Roma. Si occupa del rapporto tra politica e rete e su questo argomento ha scritto saggi e articoli su riviste nazionali e internazionali. Tra le sue più recenti pubblicazioni, Voci della democrazia (con G. Boccia Artieri, il Mulino 2021) e A colpi di tweet (il Mulino 2015). Per Laterza è autrice di Campagne elettorali in rete (2006), Disuguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione (2009) e Le teorie delle comunicazioni di massa e la sfida digitale (con G. Boccia Artieri, 2019).

e di Rossella Rega

(Rossella Rega insegna Giornalismo e Nuovi media all’Università di Siena. Si occupa dell’impatto dei media digitali nella comunicazione politica, con particolare attenzione all’evoluzione dei rapporti tra politici e cittadini, alle trasformazioni del giornalismo e dei linguaggi politici e, più di recente, all’analisi dell’inciviltà nelle discussioni politiche online, pubblicando articoli e saggi su riviste nazionali e internazionali)

Le quali meglio definiscono in apertura del loro saggio cosa si debba intendere, in modo più appropriato, per inciviltà in politica così come emerge nell’ambito delle scienze sociali (per quanto sia opinione diffusa che, come molti concetti della politica contemporanea, anch’essa abbia natura “scivolosa”)

“Mancanza di rispetto delle norme sociali e culturali che governano le interazioni personali nonché di quelle che governano il funzionamento dei sistemi democratici”

Consiste esattamente in questo mancato rispetto delle regole fondamentali che, per quanto non sempre scritte, regolano tanto il comune riconoscimento fra persone quanto le modalità del confronto politico, l’impatto dellinciviltà politica sul funzionamento della democrazia, rendendola instabile e attivando un processo di “delegittimazione” sia dei singoli sia delle istituzioni democratiche (luoghi e meccanismi della decisione politica). Non si tratta, va detto subito, di un fenomeno mai visto, anzi. Le cronache politiche, fin dalla nascita del dibattito politico democratico, raccontano di episodi politici incivili, ma nella situazione politica contemporanea, con una preoccupante uniformità fra singoli paesi, è possibile sostenere che si è ormai passati da episodi circoscritti ad una vera e propria “strategia comunicativa”, costruita ad arte per raccogliere consensi e imporre una propria offerta politica, deliberatamente basata sulla inciviltà (intesa nell’accezione di cui sopra). L’insieme di questi due aspetti ha così contribuito a creare un quadro democratico estremamente polarizzato in cui si è “o di qua o di là” ed in cui è diventato legittimo passare dall’insulto all’esclusione, dalla sfacciata presa in giro alla sfida insolente, al descrivere il nemico con stereotipi non di rado volgari.  Non è un caso che questa evoluzione sia avvenuta al termine del lungo percorso storico in cui la polarizzazione politica aveva una base “ideologica”, poi di fatto sostituita da una sorta di “polarizzazione affettiva” declinata quasi esclusivamente in termini di sentimenti negativi verso chi non appartiene al proprio gruppo e non la pensa allo stesso modo. E’ una evoluzione in peggio, nella quale è difficile capire chi venga primo fra la politica dei partiti e l’opinione pubblica diffusa, ma che di certo si è accompagnata, in reciproco alimentarsi, con l’affermazione dei vari “populismi” e con la trasformazione dei canali di comunicazione collettiva. Parte da qui la riflessione della Bentivegna e della Rega sulle ragioni e sulle modalità che hanno consentito questo preoccupante e pericoloso salto di qualità in negativo.

Attori politici e inciviltà = L’inciviltà può sicuramente manifestarsi in relazione ad un particolare “stato d’animo”, isolato e dettato da sentimenti provvisori, ma può anche essere “attivata” in modo ragionato per raggiungere determinati obiettivi. Non sono rari nella storia della politica, locale e mondiale, episodi riconducibili alla prima modalità, mentre è solo di recente che la seconda è entrata in forma stabile, e consistente, nel confronto politico. Volendo individuare una possibile data di questa irruzione si può guardare alle modalità usate dalla governatrice dell’Alaska Sarah Palin nel corso della sua campagna come candidata del Partito Repubblicano alle elezioni presidenziali americane del 2008. Andando ben oltre una perdonabile irruenza la Palin usò, deliberatamente ed in modo organizzato, manifestazioni di autentica inciviltà nei confronti dei suoi avversari di partito all’insegna di un “modo di fare politica” diverso da quello solito e ritenuto il solo capace di rappresentare “il paese reale” contro elites e mezzi di informazione. Negli anni successivi il germe seminato dalla Palin è cresciuto in modo impressionante negli States per essere poi adottato in molte altre situazioni e paesi (le due esperienze che meglio testimoniano la sua comparsa nel dibattito politico italiano sono sicuramente quella di Umberto Bossi, da lui persino anticipata ma in forme “ruspanti”, e poi quella di Beppe Grillo con il suo Vaffa day). L’adozione dell’inciviltà come modalità standard di fare politica è spiegabile in relazione ad alcuni precisi obiettivi:

ü la costruzione di una specifica immagine personale (personal brand) = l’avvenuto assorbimento di buona parte del confronto politico nella sfera mediatica ha implicato l’avvento di una platea molto più ampia di possibili protagonisti e quindi la necessità, per emergere, di adottare forme comunicative capaci di “bucare l’audience”. L’aggressività sfrontata verso l’avversario di turno, Sarah Palin docet, si è molto presto rivelata quella più efficace in questo senso. Con l’aggravante di non poter però essere una risorsa esauribile in un singolo momento, ma di dover, per mantenere l’attenzione mediatica così catturata, essere continuamente alimentata quando non accentuata. E’ così diventato inevitabile il passaggio ad autentiche forme di inciviltà politica, capace oltretutto di fissare una sorta di canone di “autenticità” grazie al ricorso al linguaggio della quotidianità, dell’emotività, della rabbia. Si basa in buona misura su questa originaria molla del “personal brand” il ricorso a cascata alle cosiddette “brutte maniere” (bad manners) quali la demonizzazione dell’avversario, la negazione sfrontata delle verità scomode e del dovere di suffragare con dati verificabili le proprie affermazioni, la mancanza di rispetto verso le istituzioni.

ü l’attivazione di un processo di identificazione con l’elettorato (identity policies) = Per avere successo è però necessario che la costruzione di un “personal brand” basato sull’inciviltà abbia un “pubblico” (audience) già predisposto del suo a recepirlo e a premiarlo. E’ opinione diffusa nelle analisi sociologico/politiche che la “classica” scelta di campo basata sull’adesione a proposte politiche valoriali ed ideologiche sia stata, nell’ultima parte del secolo scorso, progressivamente sostituita da inclinazioni elettorali fondate di più sulle identità sociali e culturali percepite come propria appartenenza sociale. La realizzazione di un personal brand richiede allora che gli attori politici modulino le forme del suo conseguimento avendo in contemporanea individuato i segmenti dell’elettorato con i quali è più premiante la costruzione di una vera e propria “identificazione” (identity policies). Questo processo di identificazione chiama in causa, ben più che una razionale valutazione politica, elementi come l’identità etnica e razziale, quella di genere, le appartenenze religiose, le paure irrazionali di cambiamenti in peggio o di minacce al proprio status. L’ulteriore rafforzamento del ricorso all’inciviltà in questo quadro si rivela allora efficace nella misura in cui si dimostra, e come tale viene vissuta, come il modo per testimoniare e rafforzare proprio la piena identificazione

ü la mobilitazione elettorale nella forma del “di qua o di là”(in group – out group) = Inevitabilmente la progressiva affermazione di questi due fattori porta con sé la “polarizzazione” del confronto politico che, condizionato com’è dall’affermazione personale del soggetto politico e dalla individuata appartenenza sociale, non può non evolversi in uno scontro aperto con chi viene percepito, non più come semplice avversario politico, ma come autentico nemico. Soprattutto sulle tematiche che fondano la costruzione del brand personale e della corrispondente identificazione non può infatti esserci mediazione, reciproche concessioni, ma prevale inevitabilmente la logica del “con me o contro di me” (in group – out of group). Si vedranno qui di seguito le forme specifiche di questa polarizzazione, e la loro relazione con l’inciviltà politica, dalla parte dei “cittadini”, restando per ora concentrati sui partiti non si possono non rilevare le evidenti conseguenze sulla definizione di programmi politici e proposte elettorali e sulla selezione e formazione del personale politico, nella quale le “visioni politiche” sono sostituite dalla mera ricerca di consenso a breve. Non a caso inoltre si sono sempre più ristretti gli spazi per un corretto confronto piuttosto che per la formazione di alleanze. In questo senso la polarizzazione ha acquistato valenze più generali tali da far diventare sempre più evidente la necessità di ridefinire i percorsi politici istituzionali ed il ripristino di un confronto politico basato su programmi e rispetto reciproco. Appare però improbabile che ai partiti, ai soggetti politici, sia sfuggito il suo crescente peso e le possibili conseguenze negative sulla generale tenuta democratica. Non sembra quindi, al momento, percepibile una volontà di (auto)regolazione in tal senso. Pesa molto di più l’esigenza di confermare le proprie posizioni e di rafforzare le identificazioni costruite, anche a costo di tollerare, ovvero di perseguire deliberatamente, crescenti dosi di inciviltà.

Lo spettacolo dell’inciviltà = La diffusione dell’inciviltà politica trova quindi logiche interne di raccolta consenso e non appare pertanto corretto ridurla, sulla base di una lettura superficiale del problema, alle sole possibilità di comunicazione consentite delle nuove tecnologie. Le quali hanno sicuramente moltiplicato le occasioni di interazione sia a livello orizzontale, tra cittadini, sia a livello verticale, tra cittadini e soggetti politici.  Se è innegabile che nell’attuale variegato mondo dei media sono molto ampi gli spazi in cui già circola un preoccupante livello di generale inciviltà, non è meno vero allora che molte delle forme e dei linguaggi dell’attuale inciviltà politica hanno trovato ispirazione proprio in questo contesto comunicativo. Occorre poi rilevare che i protagonisti (i grandi network della comunicazione) di quello che è ormai definito “il mercato dell’attenzione(esiste infatti un vera battaglia fra le imprese del settore per conquistare la merce per loro più preziosa: “l’attenzione degli utenti) quasi mai fissano parametri stringenti di “buone maniere”, ed anzi livelli più o meno accentuati di inciviltà possono tranquillamente essere veicolati proprio perché premiati dall’audience. In generale, dopo alcuni decenni di vita delle nuove forme di comunicazione mediatica, sembra inoltre possibile rilevare che questo vasto mondo comunicativo, orizzontale e verticale, sia sempre più caratterizzato da una grande “frammentazione dell’audience”, correlata ad una “specializzazione dei contenuti”. All’interno delle quali il singolo utente tende a fare riferimento quasi esclusivo a quelli che di più già percepisce in sintonia con i suoi valori e le sue opinioni (in un rapporto che è comunque di reciproca alimentazione, i media a loro volta consolidano quei valori e quelle opinioni). Per quanto concerne la comunicazione politica ciò significa che, in stretta connessione alla “polarizzazione delle posizioni politiche” di cui si è detto, di norma si seguano le fonti informative, definite “media partigiani”, che di più sono già in sintonia con consolidati punti di vista politici. In questo ambito espressioni di inciviltà comunicativa risultano normali, accettati, perché non percepiti come tali, ma al contrario visti come una modalità di supporto/difesa delle proprie opinioni. E’ questo ormai un dato acquisito che riguarda buona parte del mondo della carta stampata, piuttosto che specifiche trasmissioni su specifici canali televisivi, o meglio ancora “gruppi su social” e “blog con i loro eserciti di followers”. Ma è purtroppo sbagliato pensare che l’inciviltà sia un tratto esclusivo dei “media partigiani”, l’esasperata concorrenza mediatica fa sì che anche quelli “neutri” consentano, quando non deliberatamente adottino, forme di confronto politico estremizzate, in cui l’insulto, la lite, la delegittimazione reciproca, diventino normali modalità per ottenere l’agognata “attenzione”. E’, anche questa, una inevitabile conseguenza del quasi totale trasferimento dell’intera vita sociale, del confronto politico, in un mondo mediatico che, proprio per meglio catturare “l’attenzione”, tutto enfatizza, volgarizza, spettacolarizza.

L’inciviltà dal basso: i cittadini = A questo mondo mediatico, ed al web in particolare, viene associata, negli studi sociali, la definizione di “discarica emozionale”. Quanto fin qui evidenziato rende questa definizione difficilmente contestabile, ma sarebbe un errore ritenerla un aspetto esclusivo dell’attuale contesto comunicativo, forme analoghe di sfogo collettivo sono infatti già in precedenza rintracciabili. Ad esempio ha fatto storia la vicenda, del 1986, di Radio Radicale che, in crisi finanziaria, decise, come modo di pubblicizzare tali difficoltà, di sospendere le trasmissioni lasciando libero accesso, non filtrato, al proprio canale a chiunque volesse lanciare un messaggio. Seguirono ininterrotte ottocento ore di insulti e volgarità a sfondo razziale, sessuale, politico, e via discorrendo, definite già al tempo come uno “spettacolo inquietante”. Se quindi un qualche fuoco già covava sotto la cenere diventa ancor più importante, negli attuali tempi del web, cercare di individuare le ragioni che spingono “il basso”, i cittadini, a comporre, unitamente “all’alto, il quadro di quella che da “inciviltà nella politica” si sta trasformando nella “politica dell’inciviltà”. In prima battuta non sembra essere spiegazione sufficiente la possibilità dell’ “anonimato”, consentita al tempo da Radio Radicale ed oggi dal web. Espressioni di inciviltà non mancano infatti anche in piattaforme molto partecipate come Facebook e Twitter in cui l’anonimato, il mascheramento, non rappresenta la regola. Semmai sembra più interessante capire cosa inneschi questa sorta di senso di “disinibizione” che spinge molti a forme aggressive e incivili di comunicazione. Possibili spiegazioni consistono nella assenza di “contatto visivo (non si colgono cioè in tempo reale inibenti segnali di disapprovazione), piuttosto che nel vivere la presenza “on line” come una “realtà parallela” nella quale sono consentite maniere diverse da quelle praticate nella realtà vera. Ma per quanto siano aspetti di una certa rilevanza si resta ancora nel campo di manifestazioni di inciviltà spontanee, improvvisate, dovute ad una foga momentanea (non di rado infatti, quando individuati, molti protagonisti di affermazioni incivili e aggressive si pentono ribadendo però i sentimenti di frustrazione e le ragioni di rabbia che le hanno provocate) che semmai evidenziano come l’inciviltà sia divenuta una risorsa comunicativa “a basso costo”, semplice da utilizzare e alla portata di tutti. Se “nel basso” è da escludere, a livello del singolo, il ricorso sistematico ad essa come risorsa strategica (così come si è invece visto per “l’alto) uno sforzo di approfondimento può essere comunque tentato esaminando tre dimensioni diverse: quella del singolo, quella di gruppo, quella specifica della mobilitazione politica:

ü la dimensione individuale = nella quale un ruolo significativo è giocato dalla “angoscia dell’anonimato” che, nella società della visibilità spettacolarizzata, spiega l’ansiosa ricerca di qualche spicciolo di “notorietà”. La quale – ormai uscita dai confini classici delle arti, dello spettacolo e dello sport - sembra in effetti spingere molti ad “agire in forma performativa” anche nella normale sfera sociale (è ad esempio impressionante il numero di coloro che si inventano attività improbabili pur di guadagnare buoni numeri di “followers”). L’inciviltà appare, in questo quadro, una modalità semplice e di effetto immediato per raggiungere, per quanto provvisoriamente, lo scopo. Incentiva poi non poco il successo riscosso, nel suo utilizzo, da parte dei soggetti politici (soprattutto quelli di riferimento) capace di innescare un processo di emulazione (nella sferadell’alto, corrisponde, come si è visto in precedenza, la tendenza alla “identificazione). Questa accentuata ricerca di notorietà non si limita all’ambito politico, ma (anche se è difficile stabilire nette linee di separazione) è forse persino più legata, in senso positivo o negativo, ad altre forme di appartenenza: etnica, razziale, di genere, nell’ambito delle quali, nel rivolgersi cioè ad un pubblico “amico” piuttosto che “nemico”, l’inciviltà si rivela un ottimo veicolo per raccogliere, nel primo caso, consenso, nel secondo per dare spazio a sfoghi, cinicamente incontrollati e manifestati, di aggressivo dissenso.

ü la dimensione del gruppo = è evidente, in quanto appena evidenziato, il ruolo centrale dell’“individualità”, che non sembra però essere vissuta in alternativa alla dimensione del “gruppo”, ma anzi vissuta in un rapporto di vicendevole alimentazione. E’ questione quanto mai complessa, perché difficilmente misurabile, l’individuazione dei meccanismi che possano spiegare le ragioni del successo di una azione individuale sulle masse. Quel che gli studi sociali comunque indicano è che, per quanto qui interessa, sembra esistere nella massa un tendenza ad essere più facilmente attratti dalle manifestazioni di inciviltà politica. Una possibile spiegazione consiste nella sua “capacità” di innescare, molto di più di adesioni razionali e civili, l’interazione attiva, la costruzione di legami più stabili e la nascita di forme di complicità. Le quali comunque, per consolidarsi e completarsi, richiedono che sia chiaramente identificato il “nemico” sul quale indirizzare l’ostilità del gruppo, non necessariamente definito in termini precisi (non per nulla in molti casi il nemico è identificato in un generico “loro”).

ü Individuo e gruppo nella conflittualità politica = L’adesione, sia a livello individuale che di gruppo, a pratiche politiche incivili indirizzate “verso e contro” il nemico di turno non di rado innesca una vera e propria mobilitazione. Che, in qualche modo fisiologica nei momenti elettorali, può raggiungere livelli persino più alti e più accesi in campagne legate a fatti e situazioni specifiche (lo testimoniano ad esempio i casi di atti violenti verso insediamenti rom piuttosto che verso le comunità ebraiche, oppure ancora nelle campagne no-vax). In questa mobilitazione si condensano e si accentuano tutte le caratteristiche dell’inciviltà politica sin qui esaminate, ad un livello tale (vere e proprie campagne d’odio verso “l’altro”) da far emergere in esiti violenti la sotterranea propensione in tal senso (l’inciviltà, quando applicata strategicamente e costantemente, tende fisiologicamente alla violenza anche fisica). Ciò che si rivela preoccupante è la constatazione che sono sempre più numerose le occasioni in cui l’inciviltà del confronto/scontro fra opposte fazioni si rivela matrice di possibili evoluzioni violente (l’assalto a Capitol Hill dei sostenitori di Trump ne è la più eclatante testimonianza). Questa tendenza tradotta in termini di psicologia delle masse evidenzia come l’uso scientifico e sistematico dell’inciviltà, dalla parte alta dei “leader”, possa produrre “comportamenti tribali” nella parte bassa dei comuni cittadini (il comportamento del “singolo individuo” all’interno della “folla” è al centro del nostro “Saggio del mese” di Novembre 2019 “Il volto della folla. Soggetti collettivi, democrazia, individuo” di Michela Nacci)

 L’inciviltà come forma di lotta = L’insieme delle considerazioni sin qui svolte sull’emergere, crescente ed accentuato, di forme di inciviltà in politica giustifica ampiamente la preoccupazione che tali forme, con i caratteri specifici assunti in questa fase storica, si impongano come la modalità ordinaria e privilegiata del confronto politico, che il loro incontrollato dilagare consenta, come anticipato in precedenza, che l’inciviltà in politica si trasformi in una strutturata “politica dell’inciviltà”. Tutto ciò fermo restando è però altrettanto vero che questa riflessione non può esaurirsi in questa preoccupazione, la storia delle democrazie, della democrazia, attesta infatti come l’inciviltà, se intesa come ribellione alle norme consolidate, abbia giocato un ruolo importante per lo stesso consolidamento di pratiche democratiche allargando la partecipazione, rendendo possibili conquiste sociali e politiche, consentendo a gruppi sociali emarginati di reclamare ed ottenere diritti e inclusione. Esiste allora un qualche “valore dell’inciviltà”? quali sono le discriminanti che, a differenza di quella attuale, consentono di giudicare epiisodi di inciviltà una “forma di lotta” positiva?  Un primo decisivo passo per rispondere a queste domande consiste nel meglio comprendere in cosa consiste, in cosa è storicamente consistito, il suo opposto, la “civiltà in politica”:

ü Diventa allora difficile negare che le sue forme, le sue regole, siano state, quasi sempre ed ovunque, definite ed utilizzate dalle gerarchie sociali e politiche come “strumento per silenziare il dissenso e le richieste di cambiamento”. Non sorprende infatti che tutti i movimenti di opposizione e di richiesta di cambiamento, ben compresi quelli che hanno allargato la democrazia e la giustizia sociale, e le modalità delle loro lotte, a loro volta condizionate dagli spazi di azione praticabili, siano stati bollati dal potere di turno come incivili e violenti. Fermo restando il ricorso ad ogni forma di violenza, fisica e morale, appare evidente che i comportamenti civili, appropriati, con toni e maniere misurati, ritenuti caratteristiche vincolanti della “civiltà in politica” mal si addicono a chi è costretto da una struttura di potere anti-democratica ad azioni di lotta per ottenere diritti e giustizia. Si può pertanto sostenere che la patina della cortesia e delle buone maniere, in questi caso, maschera “rapporti di potere disuguali”, e l’appello al loro rispetto sia strumentalmente messo in atto per restringere l’efficacia di una innovativa azione politica, per mantenere uno “status quo” di potere. Vale a dire che ogni manifestazione di inciviltà, intesa come mancato rispetto della “civiltà di parte” tende a spostare sul piano delle forme la reale controversia su fatti reali. I concetti di civiltà e inciviltà in politica non hanno quindi una definizione ed una valenza astratta valida per ogni situazione ed in ogni tempo, ma vanno considerati in relazione al contesto sociale e politico in cui si manifestano.

ü Un importante aspetto del complicato rapporto tra ottenimento di diritti e giustizia sociale e civiltà/inciviltà consiste nel fatto che il percorso storico della democrazia occidentale attesta come la presunta “violazione delle norme di civiltà”, costruite come si è appena visto, sia stata quasi sempre deliberatamente messa in atto proprio sulla base della consapevolezza dell’impossibilità di procedere altrimenti nelle rivendicazioni. Ed inoltre che solo in determinati contesti tale violazione ha assunto connotati di contestazione violenta. Nella stragrande maggioranza dei casi, soprattutto nella attuale fase storica di più piena democrazia, l’inciviltà è consistita un comportamenti e accorgimenti che, anche se infrangevano le proclamate norme di civiltà, si sono concretizzate in contestazione sicuramente accese, e molto spesso “fantasiose” (si pensi ad esempio ai Gay Pride), finalizzate esclusivamente a raccogliere la giusta attenzione e riconoscimento per la lotta in corso. In questo contesto una forma, sicuramente definibile incivile sulla base dei suddetti canoni, ma di alto valore democratico, è sicuramente rappresentata dalla “disobbedienza civile”, un’azione pubblica, non violenta, che consiste nel rifiuto di obbedire a determinate leggi ritenute ingiuste e nell’accettare, consapevolmente, le possibili conseguenze legali (si pensi ad esempio a casi come quelli di Julian Assange e Edward Snowden incriminati per aver diffuso via web notizie di indebite violazioni dei diritti democratici). In questo senso si è persino parlato di una “etica dell’inciviltà”. Una interpretazione che richiede ovviamente la giusta attenzione per valutare in termini oggettivi determinati comportamenti. Anche in questo caso deve quindi essere dato il giusto peso al “contesto” in cui essi avvengono.

ü Tornando in chiusura alla “politica dell’inciviltà”, della indiscutibile inciviltà esaminata in precedenza, confortano non poco alcune reazioni che si sono attivate proprio come rigetto di tali forme di prevaricazione. Per restare nel nostro paese, ed a tempi recenti, si pensi ad esempio al movimento delle “Sardine” che, al di là della valenza politica inevitabilmente assunta, è nato e si è rapidamente diffuso con un successo sorprendente, proprio sulla base della condanna e del rifiuto di un dibattito politico sempre più scomposto, rissoso, per l’appunto incivile. Colpisce inoltre in questa esperienza il fatto che sia nata nel web, culla dell’inciviltà, ma che abbia immediatamente richiamato all’importanza della “presenza fisica” per la difesa degli spazi di vera democrazia. 




giovedì 10 novembre 2022

L'alba di tutto - Libro di David Graeber e David Wengrow

 

Leonard Mazzone, apprezzato relatore nella nostra conferenza del 27 Ottobre scorso, citò, rispondendo ad una domanda del pubblico, un saggio definendolo “il miglior libro che ho letto ultimamente”. Il saggio in questione è:

Si tratta di un testo, edito in Italia da Rizzoli a Febbraio di quest’anno, sicuramente ambizioso, il suo sottotitolo cita infatti “una nuova storia dell’umanità”, che non ha, finora, ricevuto qui da noi la stessa attenzione raccolta in molti altri paesi (per molte settimane in testa alle classifiche di saggistica in diversi paesi, USA in primis) forse perché le sue dimensioni (752 pagine) ed il suo spessore intellettuale hanno ulteriormente scoraggiato i lettori italiani già del loro non poco pigri verso questo genere di testi. Premesso che meriterebbe una specifica riflessione il fatto che negli ultimi anni siano usciti (a partire da quello famosissimo di Noah Harari “Sapiens, da animali a dei, breve storia dell’umanità”) diversi saggi che ripercorrono l’intera storia umana (in questo nostro blog abbiamo pubblicato a Giugno 2022 la sintesi di quello di Oded Galor con titoloIl viaggio dell’umanità”). Forse che le attuali epocali scelte (in tema di ambiente, clima, giustizia sociale, equilibri geo-politici, accelerazione tecnologica, modello di sviluppo economico) stiano imponendo uno sguardo storico molto più lungo di quelli soliti proprio per meglio capire come e perché si sia arrivati a questo punto? Va detto che al successo di “L’alba di tutto” non poco ha contribuito la fama già consolidata di uno dei suoi due autori, di molto poi accresciuta dalla sua improvvisa scomparsa a soli cinquantanove anni. Parliamo di David Graeber (1961–2020, antropologo accademico, attivista anarchico statunitense)

David Graeber. è stato, soprattutto negli USA e nel Regno Unito, uno dei più amati e citati studiosi degli ultimi anni. Esploratore iconoclasta della società contemporanea, dichiaratamente anarchico, tra i fondatori del movimento “Occupy Wall Street”, ha lasciato una decina di libri dalle tesi sempre provocatorie, scritti con uno stile tanto dissacrante nei toni quanto solido nell’argomentazione. La sua improvvisa morte per infarto, avvenuta nel 2020 proprio in Italia, a Venezia, non poteva non sorprendere e amareggiare i suoi moltissimi estimatori.  Se da una parte questo lutto può quindi aver creato un di più di attenzione verso questa sua ultima opera dall’altra va detto che ha scompaginato un progetto di ben altre dimensioni. L’idea originaria di Graeber, condivisa con il coautore di “L’alba di tutto”, David Wengrow (1972,  archeologo britannico, professore di archeologia comparata presso l'Institute of Archaeology, University College London)

consisteva in un’opera di ampissimo respiro articolata su diversi volumi e costruita su una mole impressionante di dati - relativi a storia, sociologia, antropologia, filosofia, economia e scienze politiche - raccolti dai due autori nell’arco di molti anni a formare una ricostruzione  della storia, e della preistoria, pluri-millenaria dell’umanità. Il cui scopo ultimo era quello di rispondere ad alcune fondamentali domande: la storia dell’umanità, fin dalle sue più lontane origini, può davvero essere concepita come un avanzamento lineare che non poteva avere altro esito che gli attuali modi di concepire e gestire la società, l’economia, l’intera cultura? è possibile che la sua ricostruzione classica sia in effetti la storia di un “mito” più o meno strumentalmente costruito proprio per sostenere l’idea di un progresso lineare dall’esito scontato? Quanto ha pesato il fatto che questa idea del procedere umano sia sostanzialmente maturata nell’ambito della cultura occidentale anche grazie alla totale dimenticanza di altre idee, di altre concezioni della storia umana? Il concetto stesso di diseguaglianza, la cui accettazione come fattore fondante delle società umane, come “fatto naturale”, non ne è forse il prodotto inevitabile? Non diventa allora importante recuperare altri punti di vista, altre narrazioni, altri miti capaci di spiegare diversamente quanto sin qui successo? Sono tutte, va da sé, classiche domande “da far tremare vene e polsi”, ma erano esattamente quelle che hanno motivato Graeber e Wengrow a costruire una loro analisi storica multidisciplinare ad ampissimo raggio, sinceramente mossi dalla convinzione che “qualcosa è andato storto” nella storia dell’umanità se oggi le evidenze esterne parlano di un futuro segnato in senso negativo. Come si è detto la scomparsa di Graeber ha bloccato questo ambizioso progetto obbligando Wengrow, anche come omaggio postumo all’amico e collega, a sistematizzare per quanto possibile in un solo volume, “L’alba di tutto, il comune lavoro sin lì svolto. Ne è così nato un saggio provocatoriamente ponderoso, ma scritto con un accattivante stile narrativo (tipico della saggistica americana, a differenza di quello della saggistica europea non di rado inutilmente ricercato), capace comunque nel suo insieme di mettere in atto una critica feroce di non poche ricostruzioni storiche forzate e di comodo e di mettere sul banco degli imputati la convinzione culturale europea di essere la depositaria del vero e del giusto. Si coglie anche, ed era comunque prevedibile, una costruzione ancora solo accennata di possibili alternative adeguatamente chiare e praticabili. L’alba di tutto resta, pur nella sua incompletezza, un testo di riferimento nell’ambito della revisione critica delle idee che hanno giustificato e motivato il mito dello sviluppo/crescita infinito e della presunzione culturale occidentale ed europea in particolare. 

Per offrire uno spaccato più articolato delle tesi sviluppate nel saggio presentiamo il seguente “collage” di commenti e recensioni apparsi in diversi siti (fra gli altri quello di Fabio Malagnini in Pulplibri.it e quello di Dario Inglese in Istitutoeuroarabo.it):

.............. C’è una storia che viene raccontata ogni giorno. Una storia di progresso lineare che, dall’alba dell’ominazione, narra come gli esseri umani siano diventati quel che sono oggi. Nei testi scolastici e nella divulgazione scientifica, l’epopea della nostra specie su questo pianeta sembra quasi un percorso obbligato che, al netto di inevitabili deviazioni e vicoli ciechi, si impone con una accecante autoevidenza. La storia suona pressappoco così: all’inizio di tutto, durante il Paleolitico, gli esseri umani vivevano in piccole bande nomadi dedite alla caccia e alla raccolta. I membri di questi gruppi erano sostanzialmente tutti uguali, senza differenze di status politico-economico o di genere. Poi, nel corso del Neolitico, queste bande hanno iniziato ad ingrandirsi e, soprattutto, a stabilirsi in villaggi e città e ad organizzarsi in domini e Stati. A provocare questo mutamento una scoperta rivoluzionaria: l’invenzione dell’agricoltura ………… Ma è andata davvero così? Questo racconto è storia o piuttosto mito? Già Claude Lévi-Strauss (1908-2009, antropologo francese, considerato il padre della moderna antropologia) in “Mito e significato “sosteneva che il grandioso racconto sulle origini dell’uomo e della civiltà tenda a riprodursi acriticamente proprio come un mito che, per definizione, è sempre uguale a sé stesso. Non diversamente Graeber e Wengrow (G/W) affermano perentoriamente che è proprio attraverso la forza del mito che tale racconto si è imposto come unico e ineluttabile ………. Nel far ciò, si confrontano con i divulgatori che continuano a reiterare il racconto mitico delle origini (Jared Diamond, Francis Fukuyama, Yuval Noah Harari, Steven Pinker, per citarne alcuni) e, mettendo in fila dati su dati, offrono una nuova interpretazione delle stesse e, soprattutto, pongono nuove domande ………  Affermare, ad esempio,  che l’invenzione dell’agricoltura abbia innescato un irreversibile processo a cascata che ha condotto direttamente fino a noi è vero solo se: a) distorciamo o ignoriamo i dati in nostro possesso; b) proiettiamo la nostra incapacità di immaginare un altro modo di vivere agli albori della storia; c) non ci facciamo le domande giuste e diamo per scontata l’idea che le società umane si possano catalogare “secondo fasi di sviluppo, ciascuna con le sue tecnologie e forme di organizzazione caratteristiche” …………. Per tracciare una diversa ricostruzione G/W scelgono innanzitutto di afferrare subito per le corna il toro filosofico, a loro avviso non tanto rappresentato dal Leviatano di Hobbes quanto dal suo apparente opposto speculativo: il “mito del buon selvaggio”, germogliato in seno al pensiero del ‘700 e codificato da Jean Jacques Rousseau nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini”. Questo mito (strettamente intrecciato con la visione della storia come mito di cui si è detto) tuttora avvolto da un’aura benevola e progressista nel senso comune, avrebbe offerto all’Illuminismo, e in particolare a economisti come Turgot e Smith, la piattaforma teorica per descrivere il cammino “storico” della civiltà occidentale come una specie di sviluppo per fasi, con un’unica direzione di marcia. Ma le cose non sono andate esattamente così: l’illuminismo, con il suo corollario di tolleranza, di uguaglianza e di riforme sociali, in realtà non nasce nella testa di alcuni intellettuali bianchi particolarmente brillanti. O, meglio, vi nasce sì, ma solo dall’incontro con filosofi di un tipo completamente diverso. Ai primi del Settecento infatti i voluminosi resoconti e i libri di viaggio di missionari ed esploratori dal nuovo continente, riportavano dialoghi e conversazioni con “filosofi nativi americani” che molto hanno influenzato la nascente moderna cultura europea. G/W ricostruiscono il pensiero di uno di loro, Kandiaronk (“Topo muschiato”), appartenente al popolo Wendat (Uroni), filosofo americano approdato in Europa nel ‘600. (episodio espressamente citato da Leonard Mazzone nella sua conferenza)  che delle società europee ricavò un’impressione particolarmente negativa, ma non nei termini di “diseguaglianza” ma di assenza di libertà e di solidarietà. Kandiaronk era stupito che gli europei avessero rinunciato alle tre libertà che lui considerava irrinunciabili: la libertà di muoversi e spostarsi in altre collettività; la libertà di non ubbidire agli ordini sgraditi; e quella di dare vita a nuove relazioni sociali. E si stupiva ancora di più che in Europa la gente, invece di adottare le misure collettive necessarie per realizzarle, fosse propensa a vivere in un mondo dove ognuno pensava a sè stesso inseguendo cose futili …... Parte da qui la ricostruzione del cammino dell’umanità visto non come una marcia trionfale verso lo sviluppo, ma come un’interminabile passeggiata sperimentale, un’avanti e indietro a zig zag ……….. G/W guidano il lettore lungo un maestoso itinerario nello spazio e nel tempo (dal Medio Oriente all’Asia all’Oceania; dall’Europa all’America; dal Paleolitico ai nostri giorni) alla ricerca di reperti e tracce in grado di sostenere una diversa interpretazione dei fatti …….. Scopriamo, ad esempio, che nel Paleolitico superiore (50.000-15.000 a.C.) l’uguaglianza assoluta all’interno delle bande non era affatto la norma e che la ricerca archeologica ha restituito sepolture sfarzose con inequivocabili segni di stratificazione sociale (i siti di Sungir in Russia e di Dolnì Vìstonice in Repubblica Ceca, la sepoltura del Giovane Principe in Liguria, etc.) …………Oppure che non tutte le bande praticavano un rigido nomadismo: come testimoniano i resti di strutture architettoniche monumentali (ad es. i templi in pietra dei monti Germus o i recinti megalitici di Göbekli Tepe in Turchia), pare proprio che certi gruppi si stabilissero in determinate aree per periodi di tempo più o meno prolungati raggiungendo anche dimensioni ragguardevoli ……. A testimoniare una grande variabilità di soluzioni politico-sociali che i nostri progenitori sono stati in grado di adottare secondo le circostanze e i bisogni e con il concetto di “stagionalità(ovvero la concentrazione di tante persone nello stesso spazio in un dato periodo, con possibile sviluppo di gerarchia, seguita da una dispersione, con possibile dissolvimento del precedente ordinamento basato sulle differenze di status) ……. E con il concetto di stagionalità prende corpo l’ipotesi che le scelte di quegli esseri umani fossero autocoscienti e consapevoli esattamente come le nostre e non certo meccaniche e/o passive come spesso tendiamo a immaginarle …….. altre prove archeologiche degli ultimi 30 anni offrono molti solidi indizi in questo senso. I siti come quelli di Poverty Point (Louisiana) o di Nebelivka (Ucraina) comprovano l’esistenza di grandi comunità preistoriche, e non solo di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori.

…….. Per diversi millenni le comunità sembrano privilegiare negli stili di vita e nelle culture l’alternanza dei cicli stagionali, con stagioni dedicate alla caccia e altre alle attività sedentarie, senza apparentemente aderire alla rigida dicotomia che opporrebbe popolazioni nomadi e stanziali ……… La stessa “rivoluzione agricola”, nel mito illuminista assurta a decisiva svolta radicale verso la presunta “civiltà”, fu tutto fuorché una rivoluzione. Non solo essa impiegò millenni per diffondersi capillarmente (anche nella sua conclamata culla, la Mezzaluna Fertile), ma gli stessi gruppi che iniziarono a servirsene lo fecero, soprattutto all’inizio, con noncurante indifferenza ……..gli esseri umani del Neolitico, affermano  G/W, sembrano essersi serviti dell’agricoltura quasi “per gioco” . Soprattutto sembrano essere stati davvero molto attenti ad evitarne i pesanti effetti collaterali (sfruttando a lungo, ad esempio, i meno impegnativi terreni alluvionali della valle del Giordano o dell’Eufrate, rispetto ai campi fissi; oppure, come in Amazzonia, indugiando a lungo «dentro e fuori dall’agricoltura) ……….. Ad uno sguardo storico più attento, e quindi meno stereotipato,  alcune delle implicazioni derivanti dalla invenzione della agricoltura (sedentarietà, urbanizzazione, burocrazia, gerarchia, patriarcato), non sembrano essere state così automatiche: l’aumento della popolazione e la necessità di coordinare i lavori in spazi sempre più grandi non hanno prodotto immediatamente e ovunque disuguaglianze e segregazione femminile ……… Resti di “città egualitarie sono stati portati alla luce in varie parti del mondo (ad es. i megasiti in Ucraina e Moldavia risalenti al IV millennio a.C., le "democrazie primitive" nei centri urbani mesopotamici tra la fine del IV e l’inizio del III millennio a.C., i ritrovamenti nella Valle dell’Indo e in Cina, i casi repubblicani di Teotihuacan e Tlaxcala in Messico, etc.), a testimonianza del fatto che non c’è mai stata alcuna rigidità automatica dietro l’adozione, la domesticazione, la conservazione e l’uso delle sementi, né alcun rapporto causale tra dimensioni e disuguaglianza nelle società umane …... Pare quindi che dal Neolitico la storia non abbia preso una piega obbligata e che gli esseri umani non siano diventati immediatamente, e ovunque, schiavi del lavoro e della gerarchia salutando definitivamente un originario “stato di natura” ……….. Le crescenti evidenze archeologiche, insomma, scaricano l’onere della prova sui teorici che parlano di legami causali tra le origini delle città e l’ascesa di Stati stratificati, sebbene essi, incantati dalla forza della loro stessa narrazione mitica, non se ne curino ………… G/W continuano con una serrata argomentazione sul perché fare storia attraverso la “ricerca delle origini” conduca a letture teleologiche e ideologiche del passato sganciate da prove archeologiche ed etnografiche ………….. Data la fluidità con cui per millenni gli esseri umani sono passati da un sistema socioeconomico all’altro e la creatività con cui hanno plasmato e riplasmato le loro identità culturali ha poco senso andare alla ricerca di fittizie “entità pure e originarie”.  E’ allora molto più utile osservare come la sfera politica si sia di volta in volta sviluppata secondo tratti differenti ……… G/W individuano, come possibili basi del potere sociale,  tre forme elementari di dominazione: controllo della violenza, controllo delle informazioni e carisma personale,  che, nel tempo e nello spazio, si sono associate in forma variabile con le tre libertà fondamentali citate da Kandiaronk:  libertà di circolare, di disobbedire agli ordini e di riorganizzare i rapporti sociali ………..Nello Stato moderno, sostengono G/W queste tre forme di dominazione si sono fuse fino a rendersi indistinguibili e a generare un potentissimo dispositivo fondato sulla dialettica tra assistenza e controllo e sulla limitazione delle libertà (o meglio sullo svuotamento delle tre libertà fondamentali e sulla sacralizzazione di un concetto astratto di libertà) …….. Ciò, tuttavia, non implica una discendenza diretta dai primi “sistemi statali “ in quanto le tre forme elementari di dominazione hanno avuto origini differenti e soprattutto, per buona parte della storia, hanno prodotto apparati amministrativi “ con un raggio d’azione piuttosto limitato cui non era poi così difficile sottrarsi, nulla di paragonabile all’odierno controllo burocratico ….. All’ alba della storia umana non troviamo quindi bande, clan e tribù, né troviamo accampamenti, villaggi, città, domini, Stati, Imperi. Perché allora dare la caccia a questi “fantasmi” quando le prove scientifiche ci restituiscono semmai la creatività tutta umana di pensare e costruire mondi possibili? ……. Emerge quindi sempre di più, che la ragione per cui i vecchi paradigmi hanno ancora tanto successo non sta nel loro valore probatorio, bensì nella “difficoltà di immaginare una storia che non sottintenda che gli assetti attuali siano inevitabili” …….. Da questa prospettiva, affermano risolutamente G/W, dovremmo chiederci non già quale sia l’origine della disuguaglianza (o della civiltà o dello Stato), ma “come abbiamo fatto a restare bloccati”, e cioè perchè ad a un certo punto della nostra storia non siamo più stati capaci di passare facilmente da una forma di organizzazione all’altra, perché abbiamo smesso di concepire nuovi modi, diversi e flessibili, di fare società, perché, in definitiva, un modo di vivere concepito in Europa in età moderna, quello fondato sulla stratificazione sociale, il patriarcato e forme più o meno accentuate di violenza strutturale, sia divenuto il destino ineluttabile per quasi ogni angolo del globo ……. Lungo la rotta tracciata da G/W archeologia ed etnografia assolvono due compiti fondamentali. Il primo è ovviamente scientifico e ha a che fare con la produzione di una nuova sintesi teorica su Homo Sapiens (e la sua capacità di creare universi sociali, politici, economici, simbolici) più fedele possibile ai fatti, anti-teleologica e rispettosa delle specificità geografiche e culturali. Il secondo è invece apertamente politico: guardare alle tracce del passato e agli spazi di alterità del presente per vedere ciò che oggi non riusciamo più a notare; per concepire nuove forme di socialità lontane tanto da un’acritica nostalgia primitivista, quanto dallo strisciante evoluzionismo sociale che continua a permeare (più o meno consciamente) il nostro sguardo …… C’è un aforisma di dubbia paternità (recentemente attribuito da Mark Fisher a Slavoj Žižek) che recita così “è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo” …….. L’alba di tutto fornisce una possibile chiave interpretativa per questo paradosso e lo fa mostrandoci come l’ineluttabilità dello stile di vita occidentale sia uno degli ultimi grandi miti rimasti.  Il mito, com’è noto, è uno strumento potente in grado non solo di conferire ordine e significato all’esperienza, ma anche di orientare e guidare l’azione. Riconoscere che dietro il racconto del passato si cela anche una sottostruttura mitica, inevitabilmente costruita a partire dal presente, può servire allora a “non restare bloccati” e a formulare nuovi interrogativi e ad immaginare altre strade.

N.B. = Per meglio comprendere la lunga genesi de “L’alba di tutto” è interessante una lunga intervista (che qui non riproduciamo per ovvie ragioni di spazio) di David Graeber del 2018 (e quindi di tre anni precedente questo saggio) reperibile (anche on-line) riportata nel n° 1277 de L’Internazionale, nella quale sono dettagliatamente anticipati molti dei temi poi sviluppati nel saggio