giovedì 28 maggio 2020

Perchè la Rete non potrà mai sostituire le biblioteche - articolo di Carlo Ginzburg


Il “distanziamento sociale”, tanto pesante quanto necessario, che la pandemia ci ha imposto ha, fra le altre cose, accentuato di molto la presenza della Rete nelle nostre vite e nelle nostre case. Telelavoro, didattica a distanza, certo, ma anche buona parte delle nostre quotidiane necessità di informazione, di conoscenza, di acquisto, di gestione faccende varie, persino di relazione, poggiano ormai su cavi a fibra ottica. Si è così, inevitabilmente, riacceso l’annoso dibattito su quanto possa essere positivo o negativo questo cambiamento in parte imposto, ma in buona misura anche volontariamente adottato. Come sempre nel dibattito umano sono nati i due partiti contrapposti dei favorevoli e contrari. E come sempre, nel nostro piccolo contesto, CircolarMente non sceglie di schierarsi aprioristicamente. Occorre prima, su basi le più possibili oggettive, conoscere, capire e valutare. Su questi temi sicuramente avremo quindi modo di tornare con altri post e, perché no, con future iniziative. Riprendendo peraltro i notevoli approfondimenti che già abbiamo presentato sia su questo blog che con conferenze, molto partecipate, con al centro proprio queste tematiche. L’articolo che segue ci è sembrato, al di là della problematica specifica presa in esame per quanto culturalmente molto rilevante, un valido esempio del modo giusto di affrontare il tema senza partire da posizioni preconcette

Perché la Rete non potrà mai
sostituire le biblioteche
Articolo di Carlo Ginzburg – La Repubblica del 26 Maggio
A poco a poco, in tutta Italia, stanno riaprendo (più o meno) anche le biblioteche. A Bologna, la città dove vivo, la riapertura ha coinciso con lo scioglimento, deciso dal sindaco, Virginio Merola, dell’Istituzione Biblioteche, in nome della semplificazione burocratica. Del consiglio di amministrazione di quella istituzione ho fatto parte a titolo gratuito, con Daniele Donati e Anna Maria Lorusso, per più di tre anni. Negli ultimi mesi, confinato in casa come tutti dal Covid 19, ho avuto modo di riflettere su quell’esperienza e sul significato delle biblioteche oggi. Era, la mia, una situazione di vero privilegio: potevo proseguire le mie ricerche sfruttando le risorse incredibili della Rete. E tante volte mi è venuta in mente la battuta che Victor Hugo fa pronunciare a un personaggio di Notre-Dame de Paris: «Ceci tuera cela», «questo ucciderà quello», ossia: «il libro ucciderà la cattedrale». Oggi potremmo dire: «la Rete ucciderà la biblioteca». E tuttavia proprio il caso bolognese ha insegnato a un frequentatore appassionato di entrambe (biblioteche e, da qualche decennio, Rete) che le cose sono più complicate. Anzitutto, il termine “biblioteche” può designare realtà eterogenee: una biblioteca di ricerca tra le migliori del mondo, come l’Archiginnasio; una biblioteca come l’affollatissima Sala Borsa, che prevede la frequentazione di bambini da 0 a 7 anni, di adolescenti, di adulti e di vecchi; biblioteche di quartiere legate a realtà umane, culturali e sociali diversissime. E del resto, nella stessa sala di lettura dell’Archiginnasio si trovavano fianco a fianco (e si troveranno, per un po’ di tempo a debita distanza) studiose e studiosi, studenti e studentesse, quasi tutti muniti di un computer. Che cosa spingeva, e nonostante tutto spingerà, lettori e lettrici verso le biblioteche, invece di guardare lo schermo rimanendo a casa propria? La risposta è scontata: la possibilità di incontrare altre persone. Dunque le biblioteche esistono anche, se non soprattutto, in quanto luogo di incontri e rapporti sociali? Questa dimensione è innegabile, a cominciare dalle biblioteche di quartiere. Eppure nelle biblioteche (diciamo un’altra ovvietà) si continua a leggere: non tutto è, né sarà, digitalizzato. Dei libri non potremo, per fortuna, fare a meno. E la fisicità del libro rimane un dato importantissimo: sia per i bambini che non sanno ancora leggere, e guardano le figure, sia per chi fa ricerca.  Ma dietro queste banalità si nasconde un dato reale: l’avanzata inarrestabile della Rete. Bisogna dunque interrogarsi sui modi in cui la Rete ha influenzato le tecniche di lettura. Leggere significa tante cose. Per chi è alla ricerca di un’informazione la Rete è imbattibile: la risposta, velocissima (anche se non necessariamente vera) è lì a portata di mano. Ma la ricerca dell’informazione è solo un aspetto della ricerca, e più in generale della conoscenza. Non mi stancherò mai di ripetere la frase che Friedrich Nietzsche, filologo non ancora filosofo, pronunciò nella lezione inaugurale all’università di Basilea: «la filologia è l’arte di leggere lentamente». Se, seguendo Giambattista Vico, intendiamo il termine “filologia” in senso ampio, imparare l’arte della lettura lenta è un privilegio che dovrebbe essere dato a tutti. Ora, la lentezza è certamente compatibile con la velocità della Rete: ma la Rete, in quanto tale, non insegna a leggere lentamente. Quest’insegnamento implica necessariamente una mediazione umana: insegnanti, bibliotecari. Ancora una volta si torna ai libri e ai luoghi che li ospitano. La collaborazione tra biblioteche e scuole (di ogni ordine e grado) è decisiva. Fin qui ho dato per scontato un uso, diciamo così, normale, della Rete. Ma esiste anche un uso meno ovvio, diciamo pure anomalo, della Rete, che consiste nel cercare, non solo risposte alle nostre domande, ma domande inaspettate, che possono generare altre domande, portandoci ai libri attraverso strade impreviste. Si tratta di una strategia anomala, perché invece di evitare quello che nella lingua dell’informatica si chiama, se non erro, “rumore” (noise), lo cerca. Ci si inoltra a tentoni nel bosco elettronico senza sapere bene che cosa si stia cercando, per essere colti di sorpresa da qualcosa che non si aspetta. Ma qual è lo scopo di una strategia così tortuosa? La risposta è semplice. Come mi è capitato di dire tante volte agli studenti, trovare quello che si cerca, punto e basta, è troppo poco. Per contrastare quest’impulso bisogna dare spazio al caso, all’imprevedibile. Ma il caso non agisce da solo: dall’altra parte c’è chi fa ricerca, con le sue curiosità, i suoi pregiudizi. Ancora una volta, tutto questo rinvia alla formazione, e quindi al dialogo con gli insegnanti, con i bibliotecari. Anche l’uso sofisticato della Rete richiede una mediazione umana. Dobbiamo considerarlo un privilegio riservato a chi fa ricerca? Ma la ricerca può essere fatta a tutti i livelli. Non mi stanco di ripeterlo: tartufi per tutti. I tartufi sono buoni, sono rari, sono cari: tartufi per tutti. 

mercoledì 20 maggio 2020

Progetto "Passaporto IBD" - Articolo di Renzo Suriani



Riceviamo dal socio, e apprezzato relatore in alcune nostre conferenze, Renzo Suriani un articolo, che presenta una sua relazione sulla metodica dei modelli educazionali ed etici della pratica medica scritta per esser pubblicata sul periodico di AMICI (Ammalati Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali) Piemonte Onlus Al di là della specifica patologia in esame ci è sembrata una illuminante riflessione sul “rapporto democratico” tra medico e paziente, un tema reso quanto mai attuale ed importante in questi tempi pandemici

Il percorso accidentato del progetto
“ Passaporto IBD”di A.M.I.C.I. Piemonte Onlus”
 e la storia di un successo finale

Cari AMICI,

ho il piacere di comunicarVi che nel mese di maggio del 2020 è stata accettata la pubblicazione come “ letter “ sulla più prestigiosa rivista di Gastroenterologia Italiana -DIGESTIVE AND LIVER DISEASE- l’ esperienza culturale ottenuta con i sacrifici del sabato mattina durante 8 mesi di confronto nel 2020 tra Noi e i più prestigiosi Medici del Piemonte. Hanno aderito a questa iniziativa non solo eminenti Gastroenterologi come il Prof. Giorgio Verme e il dott. Angelo Pera, il prof. Giorgio Saracco, ma anche il Prof. Paola Cavallo Perin , Direttore della Clinica Medica della Città della Salute e della Scienza di Torino, Il Prof. Franco Merletti  Direttore del Centro di Epidemiologia del Cancro della Città della Salute e della Scienza di Torino,  il  dott. Luciano Bertolusso  Medico  di Medicina Generale, Salvetto Marica infermiera dell’ambulatorio di Endoscopia della Gastroenterologia dell’Ospedale Mauriziano.  La traduzione in Italiano del titolo dell’articolo in pubblicazione è questa: 

“IL PASSAPORTO IBD: UN NUOVO MODELLO EDUCAZIONALE.”

Questa le parole chiave:

·       IBD : Inflammatory Bowel Disease

·       in Italiano M.I.C.I.   Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali

·       RETTOCOLITE UlCEROSA, R.C.U e la Malattia di Crohn.

Gli Autori dell’articolo  : Renzo Suriani,  Elena Ercole , Paola Niola, Marco Astegiano, Angela Sambataro e Mauro Ravizza,  rispettivamente: A.M.I.C.I. Piemonte, Torino;  Gastroenterologia Ospedale Mauriziano, Gastroenterologia Cardinal Massaia,  Gastroenterologia della Città della Salute e della Scienza  della  Città di  Torino,  Gastroenterologia  San Luigi Gonzaga Orbassano e  Gastroenterologia  ASL Città di Torino.

Docenti in ordine alfabetico: . Argese Sara M.D., Bertolusso Luciano M.D.,  Canavese Gabriella M.D. ,  Cavallo Perin Paolo M.D., Daperno Marco M.D., Mendolaro Marco M.D., Merletti Franco M.D., Pavia Claudio M.D., Saracco Giorgio M.D., Sguazzini Carlo M.D. e Verme Giorgio M.D.

Membri di A.M.I.C.I. di Piemonte and Valle d'Aosta Onlus che hanno contribuito al progetto.  Zucco Rocco, Presidente AMICI e  in ordine alfabetico : Cesarino Limongi, Francesca Gigante, Giovanni Battista Licata, Emanuela, Massari Mauro, Nostro Generosa, Princi Domenico and Tralongo Lucia.    

Qui di seguito vorrei non solo fornire una versione con termini scientifici semplificati e spero più comprensibili  quanto pubblicato nell’articolo in lingua inglese, ma, senza  mancare del rigore scientifico che ha portato alla pubblicazione la nostra esperienza, fare comprendere  che la ricerca scientifica è anche emozione e non solo razionalità. L’impressione dei non esperti leggendo un resoconto scientifico è che la ricerca segua un percorso matematico, lineare dove uno più uno è sempre uguale a due. Niente di più falso. La ricerca, tutte le ricerche, anche quella che portato a risultati molto più brillanti della nostra come la scoperta di un nuovo virus dell’epatite eseguita dal Prof. Mario Rizzetto proprio qui a Torino,  nasce da intuizioni anche casuali, comporta emozioni, scoraggiamenti, momenti di tensione e rabbia tra chi partecipa, si sviluppa con decorsi tortuosi e a volte imprevedibili che sono l’esatta opposto di una somma matematica. Nelle pagine che seguono vorrei fare partecipi e condividere con AMICI questo percorso di cui nelle aride pubblicazioni scientifiche non vi è traccia.  L’articolo, come nella maggioranza delle pubblicazioni scientifiche, si compone di tre parti:

1.    L’introduzione   in cui si prendono in considerazione gli elementi conosciuti che  riguardano il tema che si deve affrontare e lo scopo del lavoro. In questo caso si mettono in rilievo gli elementi noti della relazione sulle conoscenze della malattia che il paziente dovrebbe possedere per essere seguito con consapevolezza dal gastroenterologo   e delle modalità con cui questi elementi di conoscenza vengono forniti al paziente.  Inoltre si descrivono i pregi e i limiti con cui queste finalità vengono perseguite nella pratica clinica corrente.   Si descrive poi lo scopo del lavoro  proponendo gli elementi di novità rispetto a quello che è svolto nella pratica clinica corrente. Nel nostro caso questo elemento innovativo è stato denominato PASSAPORTO IBD.  

2.    Nella seconda parte – Metodi e Risultati -  si illustrano le modalità con cui il progetto PASSAPORTO IBD viene attuato e i risultati finali che sono stato raggiunti.

3.    Nella terza parte – Discussione -si discutono  i risultati conseguiti ponendo in luce i lati positivi della ricerca e anche i limiti del lavoro. Si propone poi l’indicazione a nuove ricerche per chiarire i punti non risolti del lavoro pubblicato.

La pubblicazione di un lavoro di questo tipo avviene solo dopo che la redazione della rivista scientifica giudica l’idea proposta come importante e ha delle possibilità di fare evolvere in meglio le pratiche mediche già adottate. La pubblicazione avviene come titolo di merito, non avviene con il pagamento della pubblicazione degli autori della ricerca ed è a completa discrezione del giudizio dei medici che dirigono la rivista. I medici che giudicano i risultati sono un pool di esperti specialisti di fama nazionale e/o internazionale con una lunga e riconosciuta esperienza medica. Il loro giudizio è, nella maggioranza dei casi, insindacabile e non condizionato né da ditte farmaceutiche né dal titolo degli autori, che possono essere medici ospedalieri o professori universitari di qualunque nazionalità. Si può quindi ben comprendere la soddisfazione di AMICI Piemonte Onlus avere portato una novità importante a livello nazionale e forse europeo nel campo delle MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI con attenzione al rapporto medico-paziente.

INTRODUZIONE:

Il nodo centrale del problema che è stato affrontato è in sintesi molto semplice: non esiste per i pazienti una scuola per imparare cos’è la malattia cronica e in particolare cosa sono le malattie infiammatorie intestinali. I medici per imparare cos’è una malattia e come uesta va trattata vanno a scuola, frequentano l’università e ottengono una Laurea. Per i pazienti non esistono scuole per imparare ad essere “PAZIENTI” , non esiste un diploma o una laurea in “PAZIENTOLOGIA” e quindi in buona sostanza l’unico riferimento è l’esperienza personale che chi si ammala acquisisce nel corso della malattia sperimentando successi ed insuccessi. 

I medici in realtà cercano sempre di far comprendere, durante la visita al paziente, le difficoltà e le scelte che la malattia comporta, ma la spiegazione rimane una pratica individuale e non è collettivizzata in un patrimonio culturale comune.  Quindi le modalità di apprendimento del paziente possono variare in funzione delle capacità di comunicazione del singolo medico. Inoltre un secondo elemento importante è anche il limitato tempo di visita che il medico ha disposizione per ogni paziente. Oltre questa difficoltà si aggiunge un terzo problema che è forse ancora più rilevante. La stessa malattia può per lo stesso paziente presentare aspetti con aree di incertezza nella diagnosi e nella cura sia per la scelta dei farmaci che per  le opzioni chirurgiche. Ovvero, quando e in che modo è necessario passare dalla terapia con pillole orali / clismi rettali /infusione venose  alla resezione intestinale. E’ esperienza comune che allo stesso paziente possano venire proposte alternative farmacologiche diverse o addirittura una terapia chirurgica dove prima era stata data una indicazione terapeutica con sole cure mediche. Questa molteplicità di scelta può causare al paziente inesperto dei danni psicologici e stress con anche peggioramento dei sintomi della malattia. Questa incertezza di diagnosi e terapia può quindi aggravare la percezione dei sintomi propri delle IBD come la diarrea, le feci miste a sangue, dolore addominale e febbre. Tuttavia gli eventi dannosi non sono limitati a questi aspetti perché il paziente disorientato  ricorre generalmente a più visite e all’aiuto dell’informazione “ fai da te” che è reperibile in internet.  Un esempio eclatante del cattivo uso di internet è stato oggetto di una recente pubblicazione scientifica e ha riguardato gli effetti collaterali dal cambiamento di etichetta di un farmaco in Nuova Zelanda utilizzato per i disturbi della tiroide, l’Eltroxin® prodotto dalla Glaxo SmthKline.  Lo stesso farmaco prodotto dalla stessa ditta ma con cambiamento  dalla sede di produzione dal Canada  alla Germania   aveva comportato un improvviso ed ingiustificato aumento degli effetti collaterali che erano passati da 14 nel periodo dal 1973 al 2006 sino a raggiungere la quota di 2000 di eventi dannosi dal 2007 al 2008. L’aumento vertiginoso e razionalmente inspiegabile degli effetti collaterali per un farmaco sicuro, di larghissimo impiego, utilizzato da decenni con rarissimi effetti negativi, era dovuta al fatto che un farmacista in una piccola città dell’Australia aveva   ipotizzato alterazioni occultate dalla ditta farmaceutica nella formulazione del farmaco legata al trasferimento della sede di produzione.  Questa falsa notizia  amplificata e fatta  circolare in internet era stata sufficiente a scatenare il panico nei pazienti in cura da anni. Per altro l’utilizzo delle nuove tecnologie, come ad esempio, la telemedicina presenta degli aspetti positivi nel trattamento delle malattie croniche come per il cancro o le IBD. La telemedicina introducendo degli elementi nuovi nel rapporto medico- paziente si è dimostrata in grado di rafforzare e migliorare l’assistenza medica sul territorio.  L’esperienza olandese eseguita proprio nel campo delle IBD ha riportato dei risultati positivi con diminuzione dei ricoveri in ospedale e un più stretto monitoraggio dei sintomi nel paziente ambulatoriale. In Italia una rete territoriale efficiente utilizzando la telemedicina sarebbe stata utilissima nel periodo attuale di pandemia virale come indicato da medici della Lombardia e pubblicato in una rivista prestigiosa come il New England Journal of Medicine. In questo labirinto di molteplici informazioni il paziente scoraggiato può decidere di curarsi da solo o di modificare le indicazioni proposte dal curante. La mancanza di fiducia nel SSN ingenerate da questa situazione può essere dannose per la salute del paziente e comportare anche spese cospicue non rimborsate dal Servizio Sanitario Nazionale. Uno studio italiano ha evidenziato ad esempio che il 23.6 % dei pazienti con IBD utilizza delle terapie alternative come l’omeopatia o complementari come le erbe medicinali.  Degno di nota è il fatto che queste terapie sono utilizzate di preferenza da soggetti con alto titolo di studio. Inoltre la spesa mondiale per il trattamento con i probiotici, cura che non ha mai dimostrato sicuri effetti terapeutici, ha comportato una spesa a livello mondiale di 35.9 bilioni di dollari nel 2016, spesa che è quasi raddoppiata nel 2020.  Per evitare questi effetti controproducenti, in alcuni casi il medico può anche decidere di non fare conoscere al paziente il decorso della malattia e tacere delle complicanze che la malattia comporta. Il medico può suggerire al paziente un decorso di malattia lineare e sicuro pensando che il paziente ignaro dei rischi di una terapia potrebbe essere meno sensibilizzato a registrarne gli eventi negativi e la cura potrebbe risultare più efficace. Meglio dunque un paziente “ignorante” ad un paziente “istruito”?  Cosa fare di fronte a questa situazione complessa? Qual è il grado giusto di educazione da fornire al paziente? Questo aspetto già di difficile soluzione in termini teorici generali comportava qui in Piemonte un ulteriore e reale motivo di apprensione.  Nel 2015 avevo partecipato ad una ricerca condotta dalla dott.ssa Gabriella Canavese Anatomo-Patologo della Città della Scienza e della Salute di Torino condotta sulle endoscopie e gastroenterologie del territorio Piemontese. In questa ricerca emergeva che i clinici di 13 centri raramente fornivano informazioni endoscopiche e cliniche corrette all’Anatomopatologo e quindi la prima diagnosi istologica sulle biopsie ottenute dopo la colonscopia era inconclusiva in quasi il 50% dei casi.  Era corretto portare questo risultato deludente ai pazienti?  Un risultato di questo genere avrebbe scoraggiato i pazienti dalla necessità di eseguire la colonscopia?   Questo dubbio veniva amplificato pensando al concetto di Placebo e Nocebo. Le aspettative del Placebo o Nocebo sono le aspettative del paziente verso l’utilizzo di una sostanza inerte sui rispettivi effetti  positivi e negativi che riguardano la salute. Il Placebo comporta un beneficio da una sostanza inerte, il nocebo comporta un effetto di danno e pericolo sempre da una sostanza inerte. Anche una goccia d’acqua in alcune situazioni può attenuare i sintomi di malattia (placebo) o aggravarli (nocebo). A prima vista l’effetto placebo-nocebo sembrerebbe cosa di poco conto, marginale o addirittura non scientifica, invece la pratica medica dimostra esattamente il contrario. Infatti la maggioranza degli studi clinici a supporto degli effetti positivi di un farmaco, viene eseguita paragonando gli effetti ottenuti con la valutazione di un gruppo di controllo che adotta come termine di paragone proprio il placebo. Il risultato positivo risulta dalla differenza di guariti dal farmaco rispetto ai guariti spontaneamente dopo placebo. Inoltre gli effetti del Placebo-Nocebo possono essere anche deleteri per la salute del paziente. Un esempio per tutti: Il betabloccante atenolo che è utilizzato per i disturbi cardiaci e per l’ipertensione può causare in casi limitati, come effetto collaterale, la disfunzione erettile. Ora è stato dimostrato che i pazienti consapevoli degli effetti collaterali del farmaco presentavano il peggioramento dell’erezione del pene due volte di più di quelli che non erano stati avvertiti di questo effetto negativo. Per valutare gli effetti reali della terapia scissi dalla componente soggettiva del paziente (effetto placebo-nocebo) e per fornire indicazioni condivise tra medici esistono a livello internazionale linee guida  che hanno il compito di uniformare il più possibile le indicazioni per il trattamento delle malattie croniche. In particolare per le IBD esistono linee guide Italiane della società di Gastroenterologia(IG-IBD) ed Europee (ECCO), ma ancora Inglesi e Statunitensi ecc. che differiscono in genere di poco, ma tengono in conto le diverse realtà socio-politiche delle nazioni in cui vengono implementate. Queste linee guida sono in continuo aggiornamento a fronte dell’innovazioni terapeutiche.  Quasi in contrapposizione a quanto avviene in campo medico, manca o è troppo generica una uniformità di linee guida proposte per fornire una corretta informazione ai pazienti. In pratica i medici devono trovare e sperimentare in modo autonomo quale sia il metodo migliore per aiutare nella vita reale il paziente a decifrare il proprio stato di malattia e la complessità delle alternative terapeutiche.  Tuttavia i medici esperti non sono insensibili a questo problema perché è consuetudine per le società scientifiche organizzare degli incontri medici-pazienti in cui vengono spiegate con lezioni magistrali da uno o più specialisti, assunti a ruolo di docenti, i quadri più comuni della malattia e i farmaci maggiormente utilizzati. Anche nella nostra esperienza come AMICI Piemonte Onlus ci siamo uniformati a queste iniziative di divulgazione scientifica seguendo questo approccio tradizionale almeno dal 2000 sino a circa il 2017-18. Abbiamo organizzato dei meeting dedicati ai pazienti nei principali ospedali del territorio piemontese, Asti, Cuneo, Orbassano, Torino. Queste iniziative dimostravano un notevole interesse con percentuali di presenza anche superiori alle 100 persone. Di questi numerosi meeting si trova traccia nella pubblicazione del giornalino della Società AMICI Piemonte in cui sono raccolti negli ultimi anni il resoconto degli eventi organizzati. Tuttavia la mia esperienza personale mi faceva cogliere, anche nelle migliori conferenze, aspetti di dubbio sulla metodologia adottata. In breve notavo al termine della lezione e dopo gli applausi, anche dopo applausi calorosi e non rituali, che quando si lasciava la parola ai pazienti emergeva una situazione di difficile gestione tra il medico-docente e i pazienti che ponevano domande specifiche. Era abbastanza usuale che un paziente riferisse della propria malattia riportando le opinioni contrastanti di specialisti a cui si era affidato. In genere il docente aveva difficoltà a rendere ragione dei diversi e apparentemente contrastanti pareri espressi dai sui colleghi senza smentirne le opzioni. Coglievo nei pazienti un senso di disagio che si acuiva proprio quando il docente era particolarmente preparato e comunicativo perché il paziente si rendeva conto che alle risposte ai quesiti specifici, in quella sede e con quelle modalità, non si poteva dare una risposta soddisfacente. Insomma il discente-paziente percepiva che anche il docente più preparato non riusciva a dare una risposta conclusiva non per una sua possibile personale incapacità, ma per un difetto di metodologia di comunicazione.  In altre parole osservavo che la lezione cattedratica o lezione magistrale aveva dei grossi limiti. Se la mia osservazione era corretta erano proponibili delle alternative di metodo? In caso di risposta affermativa quali potevano essere queste alternative? Se proponevo dei metodi alternativi svelando gli effetti negativi della terapia quali rischi aggiuntivi facevo correre ai pazienti? I pazienti a cui sarebbe dovuta essere spiegata la valutazione del rischio-beneficio in termini di percentuale di probabilità come avrebbero reagito? Avrebbero perso fiducia nella medicina, nei medici qualificati e si sarebbero rivolti alle terapie alternative aggravando la propria salute? A questo punto della situazione mi rendevo conto di due fattori: la responsabilità di prendere una decisione e il fatto che da solo non c’è l’avrei proprio fatta. Qualche volta la fortuna aiuta e in questo caso la mia fortuna è stata di avere trovato ascolto nella figura del Presidente di AMICI, dott. Rocco Zucco e nel gruppo di Dirigenza dell’Associazione. In una delle tante riunioni, nel 2018, proprio qui a Torino, nella sede di AMICI, in via Antinori n. 3 esponevo queste mie osservazioni e proponevo l’adozione di una metodologia “sperimentale” di apprendimento che avrei chiamato “Passaporto IBD” . Con mia grossa soddisfazione l’idea di un percorso educativo continuativo per un anno con frequenza mensile da tenersi proprio nella sede di AMICI veniva accolta con gioia. Io in realtà non sapevo se essere spaventato dalla proposta che avevo fatto e che aveva ottenuto consenso oppure se essere felice.  Mentre mi arrovellavo in questi pensieri nelle settimane successive al mio intervento, nella sede di AMICI, veniva abbattuto un muro divisore, la stanza originale veniva ampliata con il posizionamento di circa 25 sedie, veniva installato un impianto computerizzato con un grosso schermo, veniva posizionata una pedana, sopra la pedana al posto della cattedra un leggio e infine veniva approntato un impianto audio con microfono. Insomma l’aula didattica era pronta, erano pronti i pazienti-discenti, mancavano i docenti mentre Io non avevo ancora deciso esattamente cosa fare.

Metodi/Risultati      

A spingermi a proseguire in questa iniziativa, oltre l’affetto e l’entusiasmo dei volontari dell’associazione AMICI, vi erano almeno due altre considerazioni. In uno dei tanti congressi medici nella prima decade degli anni 2000, avevo avuto la fortuna di cenare con un famoso epidemiologo danese a cui avevo espresso le mie ansie riguardo la possibilità che la divulgazione scientifica potesse nuocere ai pazienti. La sua risposta era stata molto semplice: non si doveva temere della conoscenza fornita ai pazienti perché questi dovevano essere considerati soggetti pensanti e avrebbero comunque ricercato informazioni con loro canali autonomi che andavano dall’informazione interpersonale paziente-paziente e/o in Internet. In secondo luogo avevo letto sulla più importante rivista europea in campo IBD, JCC, di una ricerca di un gruppo di medici Irlandesi che avevano adottato come approccio di ricerca nel campo della divulgazione scientifica ai pazienti una metodologia denominata “Grounded Theory”. In buona sostanza questi medici partendo dall’idea di dover educare i pazienti, avevano adottato un metodo non prefissato e statico, ma dinamico e flessibile. Mano a mano che si procedeva nell’insegnamento con i pazienti si proponevano nuove soluzioni e si introducevano nuovi accorgimenti. Inoltre io avevo per così dire ben più di due assi nella manica: ottimi rapporti con il dott. Angelo Pera che avevo seguito come allievo medico presso l’ospedale di Rivoli quando Io ero studente e lui ancora non il luminare attuale. Conoscevo a fondo Il prof. Paolo Cavallo Perin, già Direttore della Cattedra di Medicina Interna a Torino con una altissima capacità divulgativa e maestro di Metodologia Medica, lo psichiatra dott. Claudio Pavia con cui avevo condiviso lunghe discussioni sul binomio corpo-mente durante le lunghe notti in cui eravamo entrambi di turno in Pronto Soccorso ed infine il prof. Franco Merletti attuale Direttore della Cattedra di Epidemiologia dei Tumori all’Università. Con quest’ultimo avevo condiviso a tempi dell’università le lotte studentesche con occupazione della facoltà di Medicina di Torino “ per una medicina democratica contro la baronia dei professori universitari ” proprio contro quello che Io, poi Primario di Gastroenterologia presso l’ospedale di Rivoli e Lui, Professore Universitario,  saremmo diventati negli anni futuri. Potevo inoltre avvalermi del dott. Mauro Ravizza, gastroenterologo per un periodo con me a Rivoli che aveva eseguito un ciclo di studi negli Stati Uniti con piena padronanza quindi della lingua inglese oltre che fidato collaboratore.  Con questi elementi a disposizione perché non pensare ad un approccio educativo in due tempi: un primo ciclo di lezioni di medicina generale in cui venivano affrontate in termini teorici generali i problemi della malattia cronica negli aspetti di empatia medico-paziente, dei rischi della scelta terapeutica nelle malattie croniche e un secondo ciclo dedicato in modo specifico alle IBD con discussione di casi clinici reali? Il primo ciclo sarebbe potuto essere propedeutico a mettere in luce le difficoltà di diagnosi e terapia che incontra il medico di fronte alla malattia del paziente mentre nel secondo ciclo si sarebbe discusso più del paziente come soggetto con i dubbi e le difficoltà della vita reale.  Il primo ciclo avrebbe potuto chiarire il perché di opinioni contrastanti dei medici espresso in termini teorici. Inoltre e di prima importanza avrebbe attenuato l’impatto negativo di scelte terapeutiche errate o difficili che sono il pane comune nella pratica clinica reale. La prospettiva di un approccio educativo non ancora sperimentato mi spaventava, era rischiosa, ma per me entusiasmante. Siamo quindi passati dopo discussioni condivise dalla teoria ai fatti.  29 pazienti si sono dimostrati disponibili alla frequenza delle lezioni con una media di assiduità a tutte le lezioni superiore al 70%. Il livello di scolarità era ben distribuito tra scuola primaria e titolo di scuola superiore, il 62 % era costituito da donne e l’età media era di 51 anni. 19 docenti avevano dato disponibilità gratuita a tenere le conferenze e in tutte le lezioni Io avrei fatto la parte del moderatore. In realtà più che moderatore io mi assumevo il compito di porre quesiti imbarazzanti ai docenti. Uno di questi che mi ricordo con lucidità per le reazioni di stupore che aveva provocato nell’uditorio era stata questa: perché un paziente giovane con IBD mal controllata e una bassa qualità di vita non deve suicidarsi? Il dott. Claudio Pavia, da ottimo psichiatra qual è, non si era minimante sconvolto e la sua risposta era stata accompagnata da gesti inequivocabili di assenso e condivisione dei pazienti. Insomma il mio ruolo era costantemente di provocazione per tenere “sulle spine” i docenti e allievi, ruolo che peraltro mi riusciva benissimo perché in accordo con la mia personalità di rompiscatole. Paradossalmente i più provati da questa esperienza erano i medici in cui vedevo, al termine di questi conferenze-dibattito, segni di stanchezza sul volto come dopo una intera giornata di duro lavoro. L’esperimento tuttavia funzionava perché al termine di tutte le sessioni chiedevo di rispondere ad un questionario in cui si chiedeva in forma anonima di formulare un giudizio sull’interesse all’argomento e sulla bontà delle informazioni fornite.  Il gradimento era uguale sia per le lezioni teoriche del primo ciclo sia per quelle più difficili del secondo ciclo in cui emergevano, come atteso, anche difficoltà di diagnosi e terapia.  Inoltre al termine del ciclo di ciclo di lezioni nel dicembre del 2019 la maggioranza dei pazienti avevo espresso la volontà di proseguire con questa metodologia indicando solo dei miglioramenti che non mettevano in nessun caso in dubbio la bontà strutturale dell’impianto teorico del progetto.

Discussione  

Il nostro progetto pilota dimostrerebbe la possibilità di una comunicazione medico-paziente alternativa all’educazione tradizionale eseguita con lezioni magistrali proponendo un modello bidirezionale con discussione delle probabilità statistiche delle diverse strategie decisionali in campo diagnostico e terapeutico. Suggerisce la necessità di superare un modello di educazione individuale come comunemente fatto durante la visita medica in favore di modelli collettivi di apprendimento. Se d’un lato il gradimento di AMICI Onlus Piemonte e la pubblicazione su una rivista medica di prestigio è di conforto per la bontà della metodologia adottata, il nostro progetto educativo presenta dei grossi limiti. E’ stato sperimentato solo in un piccolo gruppo di pazienti, circa il 2% dei 1600 aderenti all’associazione e non ne abbiamo valutato l’impatto sul miglioramento sulla qualità di vita dei pazienti. Inoltre manca un gruppo di controllo della qualità del processo educativo raffrontato con una metodologia di lezione frontale. Insomma manca un gruppo “di controllo” come si fa per un farmaco contro placebo, ma abbiamo soltanto confrontato gli stessi pazienti in due momenti successivi. Abbiamo messo in comparazione il prima con il dopo che in termini di rigorosità scientifica non è la metodologia più appropriata. Qual è la mia personale impressione del lavoro eseguito? La vorrei fornire con le parole del dott. Angelo Pera che dopo avere revisionato l’articolo con il Prof. Paolo Cavallo Perin mi ha detto: perché Renzo non prosegui l’esperienza della discussione dei casi clinici con la presenza contemporanea di due medici che sostengono di fronte ad un’aula di pazienti due opposte opzioni cliniche?  Io sono sbiancato, per fortuna ero al telefono con Angelo e spero che Lui non se ne sia accorto.

Condove 17 maggio 2020

Renzo Suriani                                 

I rischi del contagio, conoscerli per evitarli - Articolo di Erin Brumage


Riportiamo i passaggi più significativi di un articolo recentemente comparso sulla rivista online “L’Internazionale”, segnalato dalla nostra socia Daria Bosio, che riteniamo possano essere una utile e pratica indicazione sulla modalità di trasmissione del virus cvd19. Poche e scarne considerazioni in grado però di essere di ammonimento, in questi primi giorni di “riapertura”, a chi troppo in fretta si sta lasciando alle spalle prudenza e buon senso ma anche a chi è forse frenato da un eccesso di “panico da contagio” (già sentito parlare di “sindrome della capanna”? ossia delle remore ad uscire dal proprio guscio per affrontare il mondi di fuori)

Articolo di Erina Bromage, immunologo,
 pubblicato nel sito online “L’Internazionale” 15 maggio

Questo articolo è un post del blog di Erina Bromage professore associato di biologia all'Università del Massachusetts, specializzato in immunologia. Da quando è stato pubblicato, il 6 maggio, è stato visto più di tredici milioni di volte.

In questo momento pare che molte persone stiano tirando un sospiro di sollievo, e non sono sicuro del perché. Una curva epidemica ha una fase ascendente relativamente prevedibile, e dopo aver raggiunto l’apice anche la fase discendente può essere intuibile.  I dati relativi alla Cina e all’Italia mostrano che la curva della mortalità cala lentamente e che le persone continuano a morire per mesi. Supponendo di aver raggiunto il picco dei decessi, intorno ai settantamila, è possibile che nelle prossime sei settimane ci siano altri settantamila morti mentre la curva scende. Questo è quello che può succedere in un contesto di confinamento. Ora negli Stati Uniti ci sono singoli stati che stanno allentando le misure restrittive, dando al virus più occasioni per diffondersi, e ogni previsione perde validità. Capisco le ragioni dietro la riapertura delle attività economiche ma, come ho già sottolineato, l’economia non potrà riprendersi se prima non risolviamo i problemi legati alla biologia. Sono poche le zone che hanno registrato un declino stabile nei contagi. Anzi, il 3 maggio erano in aumento nella maggioranza degli stati che, malgrado tutto, hanno avviato la riapertura. Come semplice esempio della tendenza negli Stati Uniti, se si tolgono i dati di New York e si osserva il resto del paese, il numero di casi giornalieri aumenta. Dunque, l’unica ragione per cui la curva del totale di nuovi casi negli Stati Uniti sembra piatta in questo momento è perché l’epidemia di New York era molto grande e ora è stata contenuta. Questo significa che nella maggior parte del paese la riapertura getterà benzina sul propagarsi del virus. Non posso fare nulla per cambiare le decisioni delle autorità, ma posso provare a spiegarvi come evitare le situazioni più rischiose.

Dove è più facile ammalarsi?

Sappiamo che la maggior parte dei contagi si verifica nelle abitazioni: di solito una persona contrae il covid-19 all’esterno e lo porta in casa, dove i contatti prolungati con i familiari favoriscono la trasmissione. Ma quali sono i contesti esterni in cui è più facile essere infettati? Sento parlare spesso dei supermercati, delle passeggiate in bicicletta e dei runner sconsiderati che non indossano le mascherine… Ma davvero sono queste le situazioni a rischio? In realtà non è così. Mi spiego. Per contrarre il covid-19 è necessario essere esposti a una dose infettiva di virus. In base agli studi sugli altri coronavirus sembra che per trasmettere la malattia sia sufficiente una piccola dose. Secondo alcuni esperti sarebbero sufficienti mille particelle infettive di Sars-cov.2. È importante sottolineare che questi dati non sono stati verificati al livello sperimentale, ma possiamo comunque usarli per illustrare le modalità di trasmissione del virus. Il contagio può verificarsi con l’inalazione di mille particelle virali attraverso un singolo respiro (o toccandosi gli occhi), attraverso dieci respiri con cento particelle virali ciascuno o ancora cento respiri con dieci particelle virali. Ognuna di queste situazioni può portare a un’infezione.

Quanto virus finisce nell’ambiente?

Colpo di tosse = Un singolo colpo di tosse rilascia circa tremila goccioline, che possono viaggiare a ottanta chilometri all’ora. La maggior parte delle goccioline è di grandi dimensioni e precipita rapidamente a causa della gravità, ma alcune possono restare nell’aria e attraversare una stanza in pochi secondi.

Starnuto = Un singolo starnuto rilascia circa trentamila goccioline che possono raggiungere la velocità di 300 chilometri all’ora. Le goccioline degli starnuti sono generalmente piccole e coprono grandi distanze (attraversano facilmente una stanza). Se una persona ha contratto il covid-19, le goccioline di un singolo colpo di tosse o di uno starnuto possono disperdere nell’ambiente fino a duecento milioni di particelle virali.

Respiro = Un singolo respiro rilascia tra le cinquanta e le cinquemila goccioline. Nella maggior parte dei casi i droplet sono lenti e precipitano immediatamente. La respirazione nasale rilascia una quantità di goccioline ancora più bassa. È importante notare che la scarsa forza di esalazione di un respiro impedisce l’espulsione delle particelle virali provenienti dal tratto respiratorio inferiore. Diversamente dai colpi di tosse e dagli starnuti, che rilasciano una grande quantità di materiale virale, i droplet respiratori presentano livelli contenuti di virus. Non abbiamo ancora dati certi relativi al Sars-cov-2, ma possiamo basarci sulle caratteristiche della comune influenza. Diversi studi hanno dimostrato che una persona affetta da influenza può rilasciare fino a 33 particelle infettive al minuto, ma per semplificare i calcoli prenderò come punto di riferimento 20 particelle al minuto.

Ricordate la formula: infezione = quantità di virus x tempo = Se una persona starnutisce o tossisce, quei duecento milioni di particelle virali si diffondono in ogni direzione. Alcune particelle restano nell’aria, altre si depositano sulle superfici mentre la maggioranza precipita al suolo. Quindi se vi trovate a conversare a distanza ravvicinata con un’altra persona che improvvisamente starnutisce o tossisce, è abbastanza facile capire come sia possibile inalare mille particelle virali e infettarsi. Anche se lo starnuto o il colpo di tosse non sono diretti verso di voi, alcuni droplet infetti (i più piccoli) possono restare sospesi in aria per qualche minuto, riempiendo di particelle virali ogni angolo di una stanza di dimensioni ridotte. Basta entrare in quella stanza pochi minuti dopo il colpo di tosse o lo starnuto e fare qualche respiro per inalare una quantità di particelle virali sufficiente ad ammalarsi. Tuttavia, se ci limitiamo alla respirazione – con 20 particelle virali al minuto e anche ammettendo che ogni singola particella finisca nei vostri polmoni, caso improbabile – servono comunque cinquanta minuti per assumere le mille particelle necessarie per il contagio. Quando parliamo, la quantità di goccioline respiratorie rilasciate nell’atmosfera aumenta di quasi dieci volte, portando il conto delle particelle virali a circa duecento al minuto. Anche in questo caso, presupponenendo di inalare tutte le particelle, per raggiungere la dose minima infettante bisognerebbe parlare faccia a faccia per circa cinque minuti. La formula “quantità x tempo” è alla base del tracciamento dei contatti. Qualsiasi persona con cui un individuo infetto abbia parlato a distanza ravvicinata per più di dieci minuti è un potenziale caso di contagio. Lo stesso vale per chiunque condivida uno spazio con una persona infetta per un arco di tempo prolungato, per esempio un ufficio. Per questo è estremamente importante restare a casa quando si manifestano sintomi riconducibili alla malattia. I colpi di tosse e gli starnuti producono una dose infettante talmente elevata da contagiare potenzialmente un’intera stanza piena di persone.

Qual è il ruolo delle persone asintomatiche nella diffusione del virus? = Le persone con sintomi non sono le uniche a poter diffondere il Sars-cov-2. Sappiamo che almeno il 44% ei casi di contagio – la maggioranza di quelli avvenuti all’interno di comunità – è provocato da persone che non presentano sintomi, ovvero le persone asintomatiche o presintomatiche. Un individuo positivo può disperdere il virus nell’ambiente per almeno cinque giorni prima della comparsa dei sintomi della malattia. Le persone infette sono presenti in ogni fascia di età, e ognuna diffonde una carica virale diversa. La quantità di virus diffusa da una persona infetta cambia durante il corso della malattia e differisce da un individuo all’altro. La carica virale solitamente aumenta progressivamente fino alla comparsa dei primi sintomi. Subito prima di manifestare i sintomi, l’individuo infetto rilascia la dose massima di virus nell’ambiente. È interessante notare che il 99 per cento della carica virale che potrebbe essere rilasciata nell’ambiente proviene da appena il 20 per cento delle persone infette.

Il nocciolo della questione: dove sono i pericoli derivanti dalla riapertura? = Se vi chiedo dei focolai, quali sono i primi che vi vengono in mente? La maggior parte delle persone indicherebbe le navi da crociera, sbagliando. I focolai sulle navi, per quanto gravi, al momento non rientrano tra i cinquanta peggiori casi registrati. Mettendo da parte la drammatica situazione delle case di riposo, notiamo che negli Stati Uniti i focolai peggiori sono esplosi nei penitenziari, durante le cerimonie religiose e negli ambienti di lavoro come gli impianti per la macellazione della carne e i call-center. Qualsiasi ambiente chiuso con una scarsa circolazione dell’aria e un’elevata densità crea problemi.

Elementi in comune tra i focolai = Analizzare i diversi focolai ci permette di evidenziarne i punti in comune. Tutti i contagi si sono verificati in spazi chiusi, con un’elevata densità e un’abbondanza di conversazioni, urla e canti. I principali ambienti del contagio sono le case, i luoghi di lavoro, i trasposti pubblici, gli eventi sociali e i ristoranti. Nel complesso in questi contesti è avvenuto il 90 per cento dei contagi. Al contrario, la diffusione attraverso lo shopping sembra responsabile per una piccola percentuale dei contagi tracciati.  È importante notare che nei paesi che svolgono un tracciamento adeguato è stato registrato solo un focolaio collegato a un evento che si è svolto all’esterno (meno dello 0,3 per cento dei contagi accertati).

Torniamo al pensiero originale di questo mio intervento = Gli spazi chiusi e affollati, con un ricambio limitato o con il ricircolo dell’aria, presentano un elevato rischio di trasmissione del virus. Sappiamo che la presenza di sessanta persone in una stanza grande quanto un campo da pallavolo ha provocato numerosi contagi. Lo stesso vale per un ristorante e un call-center. Le linee guida sul distanziamento sociale sono inefficaci negli spazi chiusi in cui si trascorre molto tempo, come dimostra il fatto che nei casi analizzati sono state infettate anche persone posizionate a diversi metri di distanza. Il concetto fondamentale è quello dell’esposizione prolungata al virus. In tutte le situazioni prese in esame le persone sono state esposte al virus presente nell’aria per un periodo prolungato (ore). Anche se si trovavano a 15 metri di distanza (coro e call-center) e la dose infettante era ridotta, il contatto prolungato con il virus è stato sufficiente a provocare il contagio e in alcuni casi la morte. Le regole del distanziamento sociale servono a proteggere l’individuo in caso di breve esposizione o di interazioni all’aperto. In queste circostanze, a due metri di distanza e con uno spazio aperto capace di ridurre la carica virale, il covid-19 non ha il tempo sufficiente per diffondersi. Il sole, il caldo e l’umidità sono tutti fattori che ostacolano la sopravvivenza del virus e minimizzano il rischio di trasmissione all’aperto. Quando valutiamo il rischio di contagio (respiratorio) nei supermercati e nei centri commerciali dobbiamo considerare il volume dello spazio (elevato), il numero di presenti (ridotto) e la quantità di tempo che le persone trascorrono in quello spazio (la giornata intera per i dipendenti, circa un’ora per i clienti). Gli elementi connaturati all’atto di fare la spesa – la scarsa densità, l’elevato volume dello spazio e il tempo limitato che si trascorre all’interno del negozio – fanno in modo che la probabilità di ricevere una dose infettante sia ridotta. Per i dipendenti, invece, aumenta la probabilità di ricevere la dose infettante e di conseguenza il lavoro diventa più rischioso. Ora che riprendiamo l’attività lavorativa e cominciamo a uscire più spesso, magari per tornare in ufficio, faremmo meglio a valutare attentamente il nostro ambiente di lavoro: quante persone ci sono? Qual è il ricambio dell’aria? Per quanto tempo resteremo in quell’ambiente? Se lavorate in un grande ufficio insieme a molte persone fareste meglio ad analizzare attentamente i rischi (volume, persone, flusso d’aria). Se il vostro lavoro vi impone di parlare (o peggio, urlare) a distanza ravvicinata dall’interlocutore dovete assolutamente riflettere su quali potrebbero essere le conseguenze. Se invece lavorate in uno spazio ventilato con pochi dipendenti il rischio è piuttosto basso.

sabato 16 maggio 2020

Identikit di un assassino. I complessi meccanismi biologici di Sars-Cov-2 - articolo di David Cyranovsky (segnalato da Antonietta Fonnesu)


Il seguente articolo, segnalato da Antonietta Fonnesu, presenta un importante punto della situazione del complesso studio dei meccanismi biologici del cvd19. Un aspetto decisivo per comprendere e neutralizzare il più possibile, i meccanismi attraverso i quali il virus si evolve ed aggredisce le altre forme di vita. Si evince che, lungi dall’aver risolto tutte le complesse questioni, alcuni significativi passi in avanti si stanno facendo.


Identikit di un assassino:

i complessi meccanismi biologici di SARS-CoV-2


Articolo di David Cyranovski – Rivista Le Scienze (Nature ed orig.))

Ricercatori di tutto il mondo stanno lavorando per ricomporre, pezzo per pezzo, il puzzle del virus alla base della pandemia di COVID-19: in che modo agisce, da dove è venuto e come potrebbe evolvere in futuro. E sono ancora senza risposta pressanti domande sulla sua origine

Nel 1912, alcuni veterinari tedeschi si interrogavano perplessi sul caso di un gatto febbricitante dall’enorme ventre rigonfio. Oggi si pensa che quello sia stato il primo esempio riportato nella letteratura scientifica della capacità dei coronavirus di debilitare le proprie vittime. A quei tempi i veterinari non lo sapevano, ma c’erano anche coronavirus che causavano bronchiti nei polli, e una malattia intestinale che uccideva quasi tutti i porcellini sotto le due settimane di età. Il collegamento fra questi agenti patogeni fu scoperto solo negli anni sessanta, quando in Gran Bretagna e negli Stati Uniti alcuni ricercatori isolarono due virus che provocano il raffreddore comune negli esseri umani e che sono dotati di strutture di forma simile a una corona. Gli scienziati notarono ben presto che i virus identificati negli animali malati avevano la stessa struttura ispida, costellata di protuberanze proteiche spinose, o spicole. L’aspetto al microscopio elettronico somiglia a quello di una corona solare, e per questo i ricercatori coniarono, nel 1968, il nome “coronavirus” per l’intero gruppo. Era una famiglia di assassini particolarmente dinamici: il coronavirus dei cani era capace di far ammalare i gatti, e quello dei gatti di devastare l’intestino dei maiali. I ricercatori hanno creduto che negli esseri umani i coronavirus causassero solo sintomi blandi, finché un focolaio epidemico di una grave sindrome respiratoria acuta (SARS) non ha rivelato, nel 2003, la facilità con cui questi versatili virus possono uccidere le persone. Adesso, mentre sale il tributo di morti imposto dalla pandemia di COVID-19, i ricercatori si affannano a scoprire tutto il possibile sulla biologia del più recente dei coronavirus, SARS-CoV-2. Il suo profilo si sta già delineando. Gli scienziati stanno capendo che in questo virus si è evoluta una serie di adattamenti che lo rendono assai più letale degli altri coronavirus fin qui incontrati dall’umanità. A differenza dai suoi parenti stretti, SARS-CoV-2 può attaccare facilmente le cellule umane in più punti, e prende a bersaglio soprattutto i polmoni e la gola. Una volta entrato nel corpo, il virus si avvale di un diversificato arsenale di molecole dannose. E i dati genetici fanno pensare che se ne sia stato nascosto in natura forse anche per decenni. Ma ci sono molti aspetti cruciali ignoti di questo virus, come il modo esatto in cui uccide le vittime, se evolverà in qualcosa di più – o meno – letale e cosa può rivelare sulla prossima volta che si farà vivo un membro della famiglia dei coronavirus. “Ce ne saranno altri; o sono già in giro là fuori, o si stanno formando”, dice Andrew Rambaut, che studia l’evoluzione dei virus all’Università di Edimburgo

Una gran brutta famiglia

Fra i virus che attaccano gli esseri umani, i coronavirus sono grandi. Con un diametro di 125 nanometri, sono relativamente grossi pur essendo virus il cui materiale genetico è costituito da RNA, il gruppo da cui viene la maggior parte delle nuove malattie emergenti. Ma la vera particolarità dei coronavirus è il genoma, che con 30.000 basi è il più grande fra tutti quelli dei virus a RNA: tre volte quello dell’HIV o del virus dell’epatite C, e più del doppio di quello dei virus influenzali. I coronavirus sono anche tra i pochi virus a RNA dotati di un meccanismo di correzione degli errori di replicazione del genoma che impedisce al virus di accumulare mutazioni che potrebbero indebolirlo. E questo potrebbe essere il motivo per cui i comuni antivirali, come la ribavirina, che riescono a contrastare virus come quello dell’epatite C, non sono riusciti a domare SARS-CoV-2. Il farmaco indebolisce il virus inducendo delle mutazioni, ma nei coronavirus il meccanismo correttore le può eliminare.
Le mutazioni possono anche offrire dei vantaggi ai virus. Quello dell’influenza muta oltre tre volte più spesso di quello dei coronavirus, e ciò gli permette di evolvere rapidamente ed eludere i vaccini. Ma i coronavirus hanno un trucco speciale che dà loro un dinamismo letale: si ricombinano di frequente, scambiando tratti del proprio RNA con altri coronavirus. Di solito si tratta solo di un insignificante scambio di parti tra virus uguali. Ma quando due coronavirus imparentati alla lontana finiscono in una stessa cellula, la ricombinazione può condurre a tremende versioni inedite capaci di infettare nuovi tipi cellulari e saltare ad altre specie, dice Rambaut. Spesso la ricombinazione avviene nei pipistrelli, portatori di 61 virus di cui è nota la capacità di infettare l’uomo; certe specie ne ospitano, da sole, ben 12. Nella maggior parte dei casi i virus non danneggiano i pipistrelli; vi sono diverse teorie sul motivo per cui il sistema immunitario di questi animali riesce a tener testa agli invasori.
Un lavoro pubblicato nel febbraio scorso sostiene che le cellule di pipistrello infettate da questi virus emettono rapidamente un segnale che le rende in grado di ospitare il virus senza ucciderlo. Le stime sulla nascita dei primi coronavirus variano molto: tra i 10.000 e i 300 milioni di anni fa. Gli scienziati ne conoscono oggi decine di ceppi, sette dei quali infettano gli esseri umani. Fra i quattro che provocano il comune raffreddore, due (OC43 e HKU1) provengono da roditori, e gli altri due (229E e NL63) dai pipistrelli. I tre che causano malattie gravi – SARS-CoV-1 (a cui si deve la SARS), quello della sindrome respiratoria mediorientale MERS-CoV e SARS-CoV-2 – vengono tutti dai pipistrelli. Ma gli scienziati ritengono che di solito ci sia un intermediario: un animale infettato dai pipistrelli che poi trasmette il virus agli esseri umani. Per la SARS, si ritiene che a fare da intermediari siano stati gli zibetti, venduti vivi in alcuni mercati alimentari della Cina. L’origine di SARS-CoV-2 è ancora una questione aperta. Il virus ha il 96 per cento del materiale genetico in comune con un virus trovato in un pipistrello di una grotta dello Yunnan, in Cina: un buon motivo per pensare che venga dai pipistrelli, dicono i ricercatori. Ma c’è una differenza cruciale. Delle proteine delle spicole dei coronavirus fa parte un elemento detto dominio di legame ai recettori, che è essenziale perché riescano a entrare nelle cellule umane. Il dominio di legame di SARS-CoV-2 è particolarmente efficiente e presenta differenze importanti rispetto al virus dei pipistrelli dello Yunnan, che sembra non infettare gli esseri umani. A complicare la faccenda, si è scoperto che il pangolino può ospitare un coronavirus dotato di un dominio di legame ai recettori pressoché identico alla versione umana. Il resto del virus, però, ha con essa somiglianza genetica appena del 90 per cento, e quindi alcuni ricercatori sospettano che l’intermediario non sia stato il pangolino. La contemporanea presenza di mutazioni e ricombinazioni complica i tentativi di tracciare un albero genealogico. Alcuni studi diffusi in questi ultimi mesi, ma non ancora sottoposti a peer-review, suggeriscono che SARS-CoV-2 – o un suo antenato poco diverso – se ne sia stato nascosto in qualche animale per decenni.
Secondo
un lavoro pubblicato online a marzo,  la linea di discendenza dei coronavirus da cui proviene SARS-CoV-2 si sarebbe separata più di 140 anni fa da quella, strettamente imparentata, che si trova oggi nei pangolini. Poi, in un qualche momento degli ultimi 40-70 anni, i progenitori di SARS-CoV-2 si sono separati dalla versione dei pipistrelli, che in seguito ha perduto l’efficace dominio di legame ai recettori che era presente nei suoi antenati (ed è tuttora presente in SARS-CoV-2). Uno studio pubblicato il 21 aprile arriva a risultati assai simili con un metodo di datazione diverso.  Questi risultati suggeriscono una lunga genealogia, con parecchi rami di coronavirus nei pipistrelli, e forse nei pangolini, dotati dello stesso letale dominio di legame ai recettori di SARS-CoV-2; alcuni di essi potrebbero essere in grado di causare pandemie, dice Rasmus Nielsen, biologo evoluzionista all’Università della California a Berkeley, e coautore del secondo studio. “C’è bisogno di una sorveglianza continua e un’accresciuta vigilanza sul possibile emergere di nuovi ceppi virali per trasferimento zoonotico”, dice.

Due porte aperte

I coronavirus umani noti possono infettare numerosi tipi cellulari, ma tutti causano soprattutto infezioni respiratorie. La differenza sta nel fatto che i quattro che provocano il raffreddore comune attaccano facilmente il tratto respiratorio superiore, mentre MERS-CoV e SARS-CoV trovano maggiori difficoltà a stabilirsi in questa sede ma riescono meglio a infettare le cellule dei polmoni. SARS-CoV-2  purtroppo riesce a fare entrambe le cose con grande efficienza. Ciò gli offre due zone in cui stabilire una testa di ponte, dice Shu-Yuan Xiao, patologo all’Università di Chicago, in Illinois. Un colpo di tosse che lancia dieci particelle virali verso di voi può bastare a far partire un’infezione nella vostra gola, ma i peluzzi delle cellule ciliate che ne ricoprono la superficie probabilmente faranno il loro lavoro ed elimineranno gli invasori. Se però il colpo di tosse è più vicino e di particelle virali ne lancia 100, il virus potrebbe riuscire ad arrivare fino in fondo ai polmoni, dice Xiao. Queste diverse capacità spiegano forse il motivo per cui i malati di COVID-19 vivono esperienze così diverse. Il virus può partire dalla gola o dal naso, dare tosse e disturbi del gusto e dell’odorato, e fermarsi lì. O invece può trovare la strada per arrivare ai polmoni e debilitarli. Come ci arrivi, se spostandosi di cellula in cellula o per qualche forma di trasporto, non si sa ancora, dice Stanley Perlman, immunologo all’Università dello Iowa, che studia i coronavirus. Clemens-Martin Wendtner, infettivologo alla München Klinik Schwabing, in Germania, dice che a consentire al virus di infiltrarsi nei polmoni potrebbe essere un problema del sistema immunitario. La maggior parte delle persone produce anticorpi neutralizzanti prodotti espressamente dal sistema immunitario per legarsi al virus e impedirne l’entrata nelle cellule. Alcune persone però, dice Wendtner, sembrano incapaci di produrli. E questa potrebbe essere la ragione per cui qualcuno guarisce dopo una settimana di sintomi leggeri e altri sono colpiti da una malattia polmonare a insorgenza tardiva. Ma il virus può anche saltare le cellule della gola e arrivare direttamente ai polmoni. In quel caso i pazienti possono sviluppare la polmonite senza gli usuali sintomi lievi come tosse e febbre leggera che altrimenti si presenterebbero per primi, aggiunge Wendtner. Il fatto di disporre di due punti di accesso significa che il virus può coniugare la facilità di trasmissione dei coronavirus del raffreddore comune con la letalità di MERS-CoV e SARS-CoV. “E’ la sfortunata e pericolosa combinazione di questo ceppo di coronavirus”, conclude. La capacità del virus di infettare il tratto respiratorio superiore e riprodurvisi è stata un po’ una sorpresa, dato che un suo parente stretto come SARS-CoV ne è privo. Il mese scorso, Wendter ha pubblicato dei risultati sperimentali in cui il suo gruppo è riuscito a coltivare il virus prelevato dalla gola di nove malati di COVID-19, mostrando che in quella sede il virus si riproduce attivamente ed è infettivo. Ciò spiega una cruciale differenza tra i due virus strettamente imparentati. SARS-CoV-2 può rilasciare particelle virali dalla gola nella saliva prima ancora che comincino a presentarsi i sintomi, e queste particelle possono passare facilmente da una persona all’altra. SARS-CoV era assai meno abile in questo salto e si trasmetteva solo quando i sintomi erano molto evidenti, il che ne ha facilitato il contenimento. Queste differenze hanno dato origine a una certa confusione sulla letalità di SARS-CoV-2. Alcuni esperti e vari resoconti giornalistici lo descrivono come meno letale di SARS-CoV perché uccide circa l’uno per cento delle persone che infetta, mentre SARS-CoV ne uccide una percentuale circa 10 volte maggiore. Ma questo, dice Perlman, è un modo errato di vedere la cosa. SARS-CoV-2 è assai più efficiente nell’infettare la gente, ma in molti casi l’infezione non arriva fino ai polmoni. “Una volta arrivato ai polmoni, probabilmente è altrettanto letale”, dice. Quello che fa quando arriva ai polmoni per alcuni versi è ciò che fanno tutti i virus respiratori, anche se c’è ancora molto da chiarire. Come SARS-CoV e i virus influenzali, infetta e distrugge gli alveoli, i minuscoli sacculi polmonari da cui l’ossigeno passa nel torrente circolatorio. Quando la barriera cellulare che divide gli alveoli dai vasi sanguigni cede, i vasi perdono liquidi che bloccano il passaggio dell’ossigeno nel sangue. Altre cellule, fra cui i globuli bianchi, intasano ulteriormente le vie aeree. Una forte risposta immunitaria può spazzare via il tutto in alcuni pazienti, ma un’eccessiva reazione del sistema immunitario può anche aggravare il danno ai tessuti. Se l’infiammazione e il danno tissutale sono troppo gravi, i polmoni non riescono più a recuperare e la persona muore o resta con i polmoni lesionati, dice Xiao. “Dal punto di vista della patologia, non si vede granché di particolarmente insolito.” E, come per SARS-CoV, MERS-CoV e i coronavirus animali, il danno non si limita ai polmoni. L’infezione da SARS-CoV-2 può scatenare una reazione immunitaria eccessiva detta “tempesta di citochine”, che può a sua volta a condurre a insufficienze d’organo multiple e alla morte. Il virus può infettare anche l’intestino, il cuore, il sangue, lo sperma (come MERS-CoV), gli occhi e forse il cervello. I danni a reni, fegato e milza osservati nei malati di COVID-19 fanno pensare che il virus possa essere trasportato dal sangue e infettare vari organi e tessuti, dice Guan Wei-jie, pneumologo all’Istituto di malattie polmonari dell’Università medica del Guangzhou, in Cina, istituzione ampiamente lodata per il suo contributo alla lotta contro il COVID-19. Il virus potrebbe essere in grado di infettare vari organi e tessuti, dovunque arrivi il sangue, dice Guan. Ma anche se il materiale genetico del virus si ritrova in vari tessuti, non è ancora chiaro se a danneggiarli sia il virus o una tempesta di citochine, afferma Wendtner. “Nel nostro centro sono in corso le autopsie. Presto avremo altri dati”, aggiunge. Sia che infetti la gola o i polmoni, SARS-CoV-2 fa breccia nella membrana protettiva delle cellule ospiti mediante le proteine delle sue spicole. In primo luogo, il dominio di legame ai recettori si lega a un recettore detto ACE2, che si trova sulla superficie della cellula ospite. ACE2 è espresso in tutto il corpo sul rivestimento interno dei vasi sanguigni, che percorrono tutti gli organi; ma è particolarmente presente sulle cellule che rivestono gli alveoli polmonari e l’intestino tenue. L’esatto meccanismo non è noto, ma i dati suggeriscono che, una volta legatosi il virus, la cellula ospite tagli la proteina della spicola in uno specifico “sito di taglio”, esponendo così dei peptidi di fusione: brevi catene di amminoacidi che contribuiscono ad aprire la membrana della cellula ospite in modo che la membrana del virus possa fondersi con essa. Una volta che il materiale genetico dell’invasore penetra nella cellula, il virus si impadronisce dei meccanismi molecolari dell’ospite per produrre nuove particelle virali. Questa progenie, poi, fuoriesce dalla cellula per andare a infettare altre cellule.

Spicole potenziate

Il virus SARS-CoV-2 è particolarmente ben attrezzato per aprirsi la strada fin dentro la cellula. Come SARS-CoV, SARS-CoV-2 si lega al recettore ACE2, ma il suo dominio di legame ai recettori vi si adatta particolarmente bene: si lega ad ACE2 con una probabilità 10-20 volte più alta rispetto a SARS-CoV. Wendtner afferma anzi che SARS-CoV-2 è così efficace nell’infettare il tratto respiratorio superiore da far pensare che potrebbe esserci anche un secondo recettore usato dal virus per lanciare il suo attacco. Ancor più preoccupante è il fatto che durante l’attacco, per tagliare la proteina virale della spicola SARS-CoV-2 sembra avvalersi di un enzima dell’ospite detto furina. Questo è preoccupante, dicono i ricercatori, perché questo enzima abbonda nel tratto respiratorio ma è presente un po’in tutto il corpo. È lo stesso enzima che usano per entrare nelle cellule altri terribili virus, fra cui l’HIV e i virus dell’influenza, della dengue e di Ebola. Le molecole usate da SARS-CoV per il taglio, di contro, sono assai meno comuni e non altrettanto efficaci. Gli scienziati pensano che il coinvolgimento della furina possa spiegare perché SARS-CoV-2 riesca a passare così bene di cellula in cellula, da persona a persona e forse da un’animale all’altro. Robert Garry, virologo alla Tulane University di New Orleans, stima che ciò dia a SARS-CoV-2 una probabilità da 100 a 1000 volte maggiore di arrivare in profondità nei polmoni rispetto a SARS-CoV. “Quando ho visto che SARS-CoV-2 ha questo sito di taglio, ho passato una gran brutta nottata”, dice. Il mistero è da dove siano venute le istruzioni genetiche per questo particolare sito di taglio. È probabile che il virus le abbia ottenute per ricombinazione, ma questo particolare arrangiamento non è mai stato trovato in altri coronavirus, in nessuna specie animale. Individuare la sua origine potrebbe essere l’ultimo pezzo mancante per determinare quale animale ha fatto da ponte per consentire al virus di arrivare agli esseri umani.

Come andrà a finire?

Alcuni ricercatori sperano che il virus si indebolirà nel tempo attraverso una serie di mutazioni, grazie alle quali si adatterà a persistere negli esseri umani. L’idea è che diventerebbe meno letale e avrebbe più possibilità di diffondersi. Ma finora i ricercatori non hanno trovato alcun segno di un simile indebolimento, probabilmente a causa degli efficaci meccanismi di riparazione genetica del virus. “Il genoma del virus del COVID-19 è assai stabile, e io non vedo cambiamenti di patogenicità dovuti a mutazione del virus”, dice Guo Deyin, impegnato nella ricerca sui coronavirus all’Università Sun-Yat-sen del Guangzhou. Anche Rambaut dubita che il virus si attenuerà nel tempo, risparmiando i suoi ospiti. “Non è così che funziona”, dice. Fino a che riesce bene a infettare nuove cellule, riprodursi e trasmettersi ad altre cellule ancora, se danneggia l’ospite non importa, dice. Altri pensano però che vi sia una possibilità che il risultato finale sia migliore. L’infezione potrebbe lasciarsi alle spalle degli anticorpi che offriranno una protezione almeno parziale, dice Klaus Stöhr, che ha diretto la divisione dell’Organizzazione mondiale della sanità dedicata all’epidemiologia e alla ricerca sulla SARS. Stöhr dice che l’immunità non sarà perfetta: le persone reinfettate svilupperanno comunque qualche lieve sintomo, come succede adesso per il raffreddore comune, e vi saranno rari casi di malattia grave. Ma la presenza di un meccanismo di correzione significa che l virus non muterà rapidamente, e le persone infettate manterranno una valida protezione, aggiunge. “Lo scenario di gran lunga più probabile è che il virus continuerà a diffondersi e infetterà la maggior parte della popolazione mondiale in un periodo relativamente breve”, dice Stöhr, cioè al massimo entro un paio d’anni. “Poi, il virus continuerà a essere diffuso nella popolazione umana, probabilmente per sempre.” Come i quattro coronavirus umani generalmente poco dannosi, a quel punto SARS-CoV-2 circolerebbe costantemente provocando soprattutto blande infezioni del tratto respiratorio superiore, dice Stöhr. Per questo motivo, aggiunge, non ci sarà bisogno di vaccini. Alcuni precedenti studi appoggiano quest’idea. Uno di essi ha mostrato che quando si inoculava in alcune persone il coronavirus del raffreddore comune 229E, i relativi livelli anticorpali toccavano un picco dopo due settimane e dopo un anno erano solo lievemente elevati. Questo non preveniva l’infezione l’anno dopo, ma in queste infezioni successive i sintomi erano lievi o assenti, e il virus veniva trasmesso per periodi più brevi.
Il coronavirus OC43 offre un modello di quello che potrebbe essere il successivo percorso di questa pandemia. Anche questo virus provoca negli esseri umani il raffreddore comune, ma le ricerche genetiche compiute all’università di Lovanio, in Belgio, suggeriscono che ai suoi tempi OC43 potrebbe essere stato un vero killer. Lo studio indica che il virus è passato all’uomo dalle vacche, che lo avevano preso dai topi; e gli scienziati suggeriscono che sia stato responsabile di una pandemia che provocò più di un milione di vittime in tutto il mondo nel 1899-90, in precedenza attribuita al virus influenzale. Oggi OC43 continua a circolare ampiamente e può darsi che sia proprio la continua esposizione al virus a mantenere immune verso di esso la grande maggioranza della popolazione, Ma anche se questo processo ha reso OC43 meno letale, non è ancora chiaro se davvero accadrà qualcosa di simile con SARS-CoV-2. Uno studio sulle scimmie ha rivelato la permanenza degli anticorpi contro SARS-CoV-2, ma i ricercatori hanno parlato solo dei primi 28 giorni dopo l’infezione, quindi resta poco chiaro quanto duri l’immunità. Le concentrazioni degli anticorpi contro SARS-CoV inoltre, calano significativamente nel giro di due-tre anni.  Se questi livelli più bassi possano bastare a prevenire l’infezione o a ridurne la gravità non è stato verificato. Gatti, mucche, cani e polli non sembrano diventare immuni ai coronavirus, a volte letali, che li infettano, e quindi i veterinari negli anni si sono dati molto da fare per realizzare dei vaccini. Malgrado tutte le incertezze su se e quanto le persone rimangano immuni a SARS-CoV-2, alcuni paesi stanno promuovendo l’idea di dotare i sopravvissuti di un “passaporto immunitario” che consenta loro di uscire di casa senza timore di essere infettati o infettare gli altri. Molti scienziati per ora si riservano il giudizio sull’ipotesi che i coronavirus più “mansueti” siano stati un tempo virulenti quanto SARS-CoV-2. A tutti piacerebbe pensare che “gli altri coronavirus erano tremendi e poi si sono moderati”, dice Perlman. “È un modo ottimistico di guardare a quello che sta succedendo, ma di prove non ce ne sono.”