venerdì 15 dicembre 2023

Il "Saggio" del mese - Dicembre 2023

 

Il “Saggio” del mese

 DICEMBRE 2023

L’autore lo conosciamo bene, così come il tema al centro del suo precedente libro (“Heidegger ed il nuovo inizio” è il suo precedente libro da noi sintetizzato come “Saggio del mese” di Maggio 2021), ossia la sua feroce critica all’attuale epoca dominata dalla tecnica, ma quello che di più ci ha spinto a proporlo come Saggio del mese è in effetti il suo, stupendo, titolo

di Umberto Galimberti

(1942, filosofo, saggista e psicoanalista, editorialista di La Repubblica)

Catturati dal titolo abbiamo però sottovalutato le dimensioni del volume (quasi 500 pagine) e soprattutto lo spessore della trattazione che rappresenta la summa dell’intero suo pensiero filosofico. Sono due aspetti inconciliabili con il taglio usuale dei nostri post, tali da averci imposto un drastico adattamento di questa sintesi. La quale si concentrerà quindi sull’ultima parte del testo, la Parte Quinta “Dallo spaesamento all’etica del viandante”, quella che sintetizza il suo pessimistico e preoccupato giudizio ultimo su quanto, a suo avviso, emerge dalle analisi sviluppate nelle quattro Parti precedenti e, accanto, la sua idea di una possibile via di uscita affidata per l’appunto alla fascinosa definizione di “Etica del viandante”. Invece ci limiteremo a riferire unicamente alcuni sintetici tratti di quanto da Galimberti esplorato nelle parti precedenti, così articolate

Introduzione

1.  Le vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente

2.  La tecnica ed il grande capovolgimento

3.  La risoluzione del “mondo della vita” nel “mondo della tecnica”

4.  La fine della modernità e il tramonto delle grandi ideazioni

Parte prima = Le vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente

In questa prima parte Galimberti ripercorre le varie concezioni dell’etica (sommariamente definita come l’individuazione e la definizione dei fini che devono guidare l’agire umano) che hanno caratterizzato il pensiero occidentale a partire da quelle che a suo avviso hanno posto le fondamenta di ogni successiva elaborazione: l’etica greca e quella giudaico-cristiana. Per i Greci antichi l’uomo, pienamente inserito nella “natura”, doveva essere guidato da una “etica della saggezza”, la dote che, riflettendo sul senso delle sue azioni, di volta in volta permetteva di distinguere il bene dal male. Il pensiero giudaico-cristiano, partendo dalla diversa idea di uomo visto come parte del creato divino e così consegnando a Dio il possesso dei fini morali, giudica la coerenza delle azioni umane in relazione ad essi, definendo in tal modo una “etica delle intenzioni”. L’inizio della modernità, segnato dall’affermarsi progressivo del pensiero scientifico, riporta sulla terra l’individuazione delle leggi che devono guidare l’agire umano, il quale è però troppo spesso ispirato da contrapposte convenienze, per porre un freno alle quali viene introdotta una “etica contrattuale(il contratto sociale) definita con riflessioni altrettanto scientifiche ed affidata, come garante, al potere del Sovrano, dello Stato (Thomas Hobbes, 1600). Il continuo evolvere della scienza, che sempre più individua le leggi di funzionamento della realtà, ha poi imposto anche all’agire morale l’individuazione “razionale” di analoghe leggi viste come sue “forme a priori”, il cui rispetto sancisce, recuperando la sfera delle individuali intenzioni, il sorgere di una “etica della ragione(Immanuel Kant, 1700). L’ulteriore impressionante sviluppo scientifico e tecnologico con le sue incredibili potenzialità impone una ulteriore svolta: la sollecitazione ad una “etica delle responsabilità” finalizzata a porre limiti morali al suo procedere (Max Weber, Hans Jonas, 1900)

Parte seconda = La tecnica ed il grande capovolgimento

Il salto avvenuto con la modernità occidentale trova, come evidenziato, la sua ragione d’essere nell’avvento della scienza. La spiegazione ultima del mondo e del posto dell’uomo in esso, che la cultura greca attribuiva alla natura e quella giudaico-cristiana a Dio, viene assunta a sé dall’uomo stesso proprio grazie al potere di conoscenza e di utilizzo della natura tutta, che la scienza gli consegna mediante l’inarrestabile progresso della “tecnica”, la sfera umana che comprende sia “l’apparato tecnologico” vero e proprio, sia la “razionalità” che presiede alla sua messa a punto e al suo impiego. La tecnica, così intesa, era in effetti nata, fin dagli albori della civiltà umana, come strumento per supplire ai limiti fisiologici dell’uomo nel suo rapporto con la “natura” fino a divenire, da subito, “condizione essenziale per la stessa esistenza umana

questo fondamentale aspetto è ben presente nel pensiero filosofico di tutti i tempi, lo si coglie ad esempio n Platone, Tommaso d’Aquino, Kant, Schopenhauer, Nietzsche. E già Aristotele coglieva in esso il presupposto per il superamento del dualismo “anima-corpo” essendo la prima nient’altro che “l’interiorizzazione dell’operare tecnico” senza la quale il secondo non potrebbe essere al mondo

Tutto ciò è valso per secoli fino a giungere alle soglie della sua “modernità” allorquando il realizzarsi delle prime significative conquiste scientifiche ha consentito, grazie all’uso libero della “ragione” e al rapportarsi con la natura basato sul “metodo scientifico”, uno straordinario sviluppo quantitativo della strumentazione tecnica. Ed è un progredire così potente da innescare un cambiamento radicale nel rapporto “uomo-tecnica” che già Hegel (nella sua “Scienza della logica” del 1812) poteva definire “capovolgimento della quantità in qualità”, intendendo con ciò che il crescere quantitativo della tecnica è tale da “mutare qualitativamente lo scenario”, visto che scopi e fini umani non si rendono più possibili se non attraverso la “mediazione tecnica”. Questo potenziamento della strumentazione tecnica trascina inoltre con sé due capovolgimenti: quello dei “beni trasformati in merci(Marx e la sua analisi del mercato capitalistico) e quello, persino più impattante, dei “mezzi (tecnici) in fini(ancora Hegel). “il mezzo tecnico si autonomizza a tal punto dallo stesso uomo e da qualsiasi suo fine fino a divenire il primo fine da conseguire”.

Parte terza = La risoluzione del “mondo della vita” nel “mondo della tecnica”

Questa radicale svolta nel rapporto tecnica-uomo è tale da chiamare in causa la categoria dell’ “assoluto” (dal latino solutus ab, sciolto da), nella quale i “fini umani” sono risucchiati e concentrati nei “risultati tecnici”, ossia i fini dell’operare in sè. Una metamorfosi tale da produrre una vera e propria “umana assenza di scopi” e quindi una “caduta del senso ultimo dell’agire umano”. E là dove un senso storicamente consolidato viene a mancare occorre inventarne uno nuovo, e la tecnica, con il suo costante progredire, non ha tardato a farlo incidendo sulle idee di “progresso(il miglioramento delle condizioni di vita) e di “sviluppo(il semplice incremento della produzione) fino a farle coincidere. Nel contempo, sorta come si è visto sulla base del metodo scientifico, ha stravolto il precedente rapporto “uomo-natura”, sostituendo l’idea di “cause finali”, le spiegazioni ultime delle componenti naturali, di per sé non calcolabili perché orientate alle loro “qualità”, con quella delle loro “quantità”, al contrario misurabili, verificabili e utilizzabili (Heidegger sintetizza questa svolta in “la ragione ridotta a calcolo”).  Ha così modificato lo stesso concetto di “verità” risolvendolo in quello di “esattezza(“esatto” deriva dal latino “exactus”, ossia misurato, pesato con precisione). Ogni sapere “umanistico” passa così in secondo piano, quando non declina del tutto, perché schiacciato dal prevalere totalitario degli aspetti tecnico-scientifici. Ciò che era nato come “mezzo” è ormai assurto a “fine unico” e l’uomo ed il suo pensare etico non possono più impedire alla tecnica “di fare tutto ciò che può fare(Emanuele Severino “Il destino della tecnica”).

Parte quarta = La fine della modernità ed il tramonto delle grandi ideazioni

Questa invadente potenza della tecnica si è progressivamente sviluppata lungo un arco temporale, che prende avvio con l’inizio della “Modernità” occidentale a cavallo dei secoli XVII e XVIII, su due presupposti di base: sulla “razionalità”, ossia la piena fiducia negli strumenti della ragione umana, e su una sua potenziale “universalità”. Sono queste le convinzioni che hanno da lì in poi ispirato il rapporto dell’uomo occidentale con la natura, con il mondo della produzione e delle relazioni sociali. Oggi ciò a cui assistiamo è però il crollo della ragione universale, posta in crisi proprio dallo sviluppo scientifico e, soprattutto, tecnologico da essa stessa messo in moto. Due eventi storici, fra di loro connessi, hanno segnato, in modo drammatico, l’innesco di tale crollo: il nazismo, con la sua programmazione “scientifica” dell’Olocausto, e la bomba atomica, emblema di una tecnologia che possiede la potenzialità di cancellare l’intera umanità (Gunther Anders “L’uomo è antiquato”). Entrambi in effetti altro non sono che il capolinea dell’illusione della ragione universale di governare il mondo ed il corso della storia tanto da aver segnato il definitivo passaggio “dalla modernità alla post-modernità”, sancito, oltre che dal crescente predominio della tecnica, anche dal parallelo superamento delle “ideologie” (il complesso di idee che definiscono la formulazione teorica di una visione del mondo ed un collegato sistema di valori) che avevano sin lì contrassegnato l’intero percorso della modernità occidentale (che, pur non potendo non coltivarle, le considerava, relazionandole al procedere razionale, “aspetti irrazionali insiti nella natura umana”). A tutti gli effetti la post-modernità ha così tanto celebrato il ruolo della razionalizzazione del mondo e della tecnica nel superare l’irrazionalità delle ideologie, da farle a loro volta evolvere in ideologia. Una forma mentis che ormai permea l’intero agire umano, a partire dall’economia (il neoliberismo altro non è che l’ideologizzazione della razionalità del mercato) con il suo imperativo della crescita (la sola ipotesi che possa arrestarsi produce inquietudine, ansia, segni tipici di un vuoto ideologico) e con il mito ideologico del consumo.  Per non dire della politica  che, ormai ancella dell’economia, non mira più a governare l’agire sociale, ma si è ridotta a strutture, ruoli e competenze (quando ci sono), obbligate ad essere compatibili con il calcolo tecnico. Fino ad incidere pesantemente sulla stessa democrazia (la dimensione politica per eccellenza della storia occidentale degli ultimi secoli) essendo le masse ormai così impossibilitate a comprendere la complessità degli scenari tecnologici da disinteressarsene. Non a caso quindi la politica sempre più delega parti delle sue competenze alla cultura algoritmica, all’intelligenza artificiale, per quanto sia evidente che la logica lineare delle macchine è incapace di recepire tutta la complessità delle relazioni umane e del “mondo della vita(l’algoritmo guarda unicamente a come “l’uomo funziona”). E in questa epoca del “tempo breve” della tecnica si è sempre più ristretto anche il sentire religioso che, per sua natura, guarda a tempi ben più lunghi. Non stupisce allora che il passaggio dalla modernità alla post-modernità segni la “fine della storia umana” nei termini che l’hanno sin qui caratterizzata (il termine storia deriva dalla radice indoeuropea “oìda” che significa “vedere”, “hìstor” è colui “che sa per aver visto”). L’assorbimento in sé di tutti i possibili fini da parte della tecnica ha infatti tolto alla stessa storia la capacità di esprimere le vicissitudini dell’etica nella storia dell’Occidente “ e le finalità da raggiungere all’interno di un orizzonte di senso”, rendendo lo scorrere del tempo privo di una consapevole direzione.

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Parte quinta = Dallo spaesamento all’etica del viandante

Lo stato d’animo che l’uomo prova quando il mondo intorno a sé si è fatto indecifrabile, quando sono venute a mancare idee certe, quando la stessa etica appare indefinita, ha un nome “spaesamento”. E sembra sempre più possibile parlare persino di uno “spaesamento della stessa etica” ormai incapace di prescrivere il giusto “fare generale” perché di fatto ridotta ad inseguire gli effetti già concretizzati del “fare tecnico”, una produttività ed una efficienza prive di un loro senso, e un “fare economico”, inteso come denaro che assorbe ogni valore. In questo scenario sorge in chi ancora guarda al senso del vivere collettivo una domanda, un dubbio: è ancora possibile nell’epoca della tecnica una morale riconosciuta e condivisa, una morale “a tutti comune”? vale a dire “la morale possibile nel mondo della tecnica”? Si tratta per certo di un percorso impervio, che impone come primo passo la consapevolezza di ciò che è venuto a mancare con l’avvento del predominio tecnologico. L’elenco (qui Galimberti riassume per punti quanto analizzato nelle Parti precedenti) è lungo e preoccupante:

*   la nozione di verità, non più definita come conformità ad un sistema di valori, ma ridotta a pura e semplice efficacia (vero è ciò che è efficace e falso ciò che è inefficace)

*   la fine delle ideologie, ridotte a preistoria dalla capacità della tecnica di svilupparsi senza riferimento alcuno a visioni del mondo dottrinali

*   la percezione del mondo, con la natura tutta completamente vista non più come paesaggio ma come semplice riserva per utilizzazioni e consumo

*   l’insignificanza del senso, reso inutile dal continuo scorrere della temporalità tecnica che ha come unico orizzonte il perfezionamento delle potenzialità tecnologiche

*   l’impotenza della morale, del tutto superflua in un’epoca in cui l’uomo è sottomesso alla (im)moralità della tecnica che ha come unico scopo il proprio potenziamento

*   la scomparsa dello scenario dell’imprevedibile nel quadro complessivo dell’agire umano in cui i processi tecnici si sono auto-definiti impermeabili al dubbio dell’imprevedibilità delle possibili conseguenze

Emerge così una sorta di “etica della tecno-scienza” che ha giustificato il “fare tutto ciò che si può fare, perché ormai conosciuto”, senza più chiedersi, come in tutte le precedenti etiche, se “un’azione, per il solo fatto di essere possibile, debba essere fatta”. L’uomo che, partendo da tutto ciò, percorre l’impervio cammino di cui si è detto sembra avere il profilo di un “viandante”, e cioè di colui che “non disponendo di mappe affronta le difficoltà del viaggio a seconda di come esse di volta in volta si presentano e con i mezzi al momento a sua disposizione”. Qui cade l’abissale differenza fra l’essere viandante o viaggiatore. Questi si muove avendo in mente una meta, un fine, e a differenza del viandante, che si limita a viaggiare, viaggia per arrivare”. L’etica della tecno-scienza, ormai l’unico fine del viaggio umano, ha infatti privato di direzione il percorso dell’uomo, rendendolo per l’appunto un viandante alla affannosa scoperta di sé e di quello che potrebbe/dovrebbe essere il suo cammino. Lungo questa nuova strada il primo passo dell’attuale viandante non può che consistere nel fare i conti con il suo “antropocentrismo”, la consolidata idea, propria dell’uomo occidentale, di un primato dell’uomo su tutto il resto del creato, della natura. Una nuova etica del viandante deve cioè rinunciare alla presunzione del dominio umano sulla terra, all’idea di un umanesimo che sta davvero condannando l’uomo a non avere un futuro. Per farlo è necessario fare i conti con l’eredità culturale delle due visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana, che, seppure in modo differente fra di loro, sono ambedue alla base dell’antropocentrismo. In quella greca la natura era un orizzonte insuperabile che limitava l’agire tecnico ed etico dell’uomo, il quale pur tuttavia si auto-poneva al suo centro, in quella giudaico-cristiana, con la natura consegnata all’uomo dalla volontà creatrice divina, anche tale orizzonte diveniva superabile. Il progressivo fondersi di queste due visioni nella comune cultura europea, all’interno della quale la tecnica, dote da sempre indispensabile alla stessa sopravvivenza umana, non ha tuttavia prodotto mutamenti radicali stante il suo limitato perfezionamento. E’ l’umanesimo rinascimentale che prepara il terreno all’affermarsi dell’antropocentrismo occidentale (esemplare è il “De hominis dignitate” di Pico della Mirandola che celebra la superiorità dell’uomo su tutte le altre forme di vita) e alla successiva nascita della moderna scienza (per Bacone, considerato assieme a Cartesio il genitore filosofico del metodo scientifico, l’uomo grazie ad essa può divenire il “soggiogatore  della necessità”). Tutto il successivo sviluppo della cultura occidentale fino ai giorni nostri prende le mosse da questo intreccio divenendo la base intellettuale dell’atteggiamento antropocentrico. Oggi però lo sguardo del viandante può ben cogliere che l’evoluzione, più volte già evidenziata, della tecnica da mezzo a fine sta mettendo a dura prova questi presupposti umanistici dell’antropocentrismo proprio mentre continua a rafforzare, tecnologicamente, l’intenzione antropologica di dominare la natura. L’etica antropocentrica, che assume l’uomo come fine di tutte le cose, sta cioè definitivamente implicando la sostituzione dell’ancestrale timore della natura, dall’uomo spesso vista come ostile, con quello delle conseguenze che la natura stessa presenta per il suo eccessivo consumo, per la sua usura (e d’altronde già gli antichi greci, per bocca di Sofocle nella sua “Antigone”, dicevano “molte sono le cose inquietanti, ma nessuna più dell’uomo”). Al viandante allora non resta che essere consapevole che è tempo di percorrere la terra senza la pretesa, sempre più insostenibile, di possederla, e di pensare ad un’etica che abbia al suo centro non più l’uomo, ma la natura, la vera fonte della vita. L’etica del viandante deve quindi sostituire l’antropocentrismo con il “biocentrismo”.

I primi viandanti che dovrebbero abbracciare il biocentrismo, peraltro sostenuto dalla “legge dell’entropia” (tutta l’energia passa da forme utilizzabili a forme inutilizzabili) da loro ben conosciuta, sono gli scienziati che non possono più (auto)definirsi neutrali per predisporsi con convinzione a raccogliere l’invito di Jonas al “principio di responsabilità”, al costante interrogarsi etico sugli esiti del loro operare

Il biocentrismo trascina con sé un secondo passo da compiere: cambiare l’idea di tempo. L’uomo occidentale da sempre vive nella “storia”, in una idea dello scorrere del tempo che, come prevede la cultura giudaico-cristiana, acquista senso solo guardando al suo esito finale nella salvezza divina (l’eschaton, il tempo ultimo prima della fine dei tempi). Per il viandante, ed il suo nuovo intendere, sembra ormai più familiare il tempo biologico, ossia quello scandito dal ritmo naturale del vivere. Egli è costretto a questo cambiamento perché constata che il primato del tempo storico, così proiettato su un futuro indefinibile, ha in effetti lasciato spazio all’avvento della modernità tecnica che, al contrario tutta concentrata sul presente, rischia di cancellare ogni possibile futuro. Il viandante non ripudia la storia, perché non si può ripudiare il tempo in cui si è nati ed in cui si vive, ma si sottrae alla tirannia del presente tecnico perché guarda ad un diverso futuro, che non è quello della “salvezza(l’eschaton), e neppure quello dell’infinito “progresso(l’illusione illuminista di una ragione che con il tempo avrebbe condotto ad una salvezza terrena), ma quello di un diverso modo di abitare la terra (il biocentrismo). Il viandante sa bene che i giochi per il futuro non sono mai fatti in modo definitivo, sa che è possibile “turbare il futuro” per ridare un senso al suo camminare nel presente sapendo meglio giudicare i passi compiuti nel passato. Così facendo si asterrà inoltre dal riproporre l’idea occidentale che il proprio modo di essere, di vivere, debba valere per l’intera umanità. La supponenza europea di un “primato della propria cultura(l’eurocentrismo) altro non ha significato che l’impedire, negandole, ogni altra appartenenza culturale. Ed in più ha troppo spesso comportato l’introduzione forzata, con una contraddizione evidente, dello stesso concetto di “democrazia”, attuando in effetti una unificazione coatta del mondo proprio attraverso la tecnica e la sua appendice del “mercato”. Il viandante, ammonito da questo passato che ha giustificato la pretesa occidentale di un infrangibile “noi” fuori dal quale ci sono solo degli indistinti “loro”, legittima tutte le persone e tutti i popoli che incontra lungo il suo cammino proprio perché “ognuno di loro ha la sua narrazione”.  (si è dovuto attendere l’affermarsi della “antropologia culturale” per capire quanta cultura, e di quanto valore, sia rintracciabile, se si usa uno sguardo pulito da ogni preconcetto, nei popoli che l’arroganza occidentale ha considerato, e tuttora considera, primitivi). Questo nuovo modo di stare nel mondo con “altri” deve però fare i conti con un nuovo preoccupante pericolo: l’affermarsi della “memoria informatica” che, come sviluppo peggiorativo della memoria culturale occidentale, rischia di sradicare ogni uomo, ogni etnia, ogni popolo dal pezzo di terra che abita. La memoria informatica, la memoria affidata alle “macchine”, non abita infatti uno “spazio”, perché tutti li travalica, e non possiede un “tempo”, perché riassorbe nel proprio presente tutto il passato e non di meno lo stesso futuro imprigionato nelle sue possibilità di previsione e di controllo. Eppure la memoria informatica altro non è che una pura raccolta di dati, di informazioni, che assunti asetticamente, non contestualizzati, non possono spiegare il mondo. Ciononostante essa pretende di possedere una sicurezza di “conoscenza”, come se la riduzione del “pensiero a calcolo(Heidegger) fosse in grado di cogliere l’imprevisto, il sorprendente, l’emozionante, quel di più, non omologabile rispetto al dato nudo, che molto, se non tutto, spiega dell’uomo e del suo vivere. Queste considerazioni spingono il viandante ad affrontare di petto il tema della scienza e della sua vantata potenza cognitiva. Lo sguardo del viandante deve perciò risalire molto addietro, a quando con Socrate e Platone nacque il pensare per “concetti astratti”, intesi come la capacità di unificare il molteplice (ad es. usando il concetto di albero per rappresentare tutti gli alberi indipendentemente dalle loro variegate forme), per consentire così facendo una sorta di “controllo” sulle cose da conoscere. Questa “logica concettuale” rappresenta a tutti gli effetti il primo passo vero il “pensiero scientifico”, ed è ancora Platone a fornire la sua ragione giustificativa là dove evidenzia che solo così si può costruire un “sapere universale e valido per tutti”, un sapere che però non può che basarsi su rappresentazioni oggettive come numeri e misure raccolte da un “osservatore esterno” che si pone “al di fuori” degli oggetti da conoscere. 

Questo aspetto è considerato da Galimberti decisivo per comprendere l’evoluzione del pensiero scientifico occidentale tanto da essere al centro della sua lettura dell’elaborazione filosofica di Heidegger (come si può cogliere nel nostro “Saggio del mese” di Maggio 2021 che sintetizzava il suo testo “Heidegger ed il nuovo inizio”) e non di meno di quelle di Hegel, Marx, Freud e Nietzsche

A fronte di tutto ciò, nel momento di capire quale diversa etica possa guidare i suoi passi, diventa comprensibile lo sconforto del viandante: ovunque volge il suo sguardo trova ostacoli da rimuovere, pericolose tendenze in atto da fronteggiare. Si rende cioè conto di essere ad un punto di non ritorno, il suo viaggio è tutto da inventare. Neppure volgere lo sguardo verso le stelle, verso l’infinità dell’Universo sembra essergli di sostegno. Proprio la scienza, con i tanti progressi dell’indagine sul cosmo, ha dimostrato la casualità dei processi che lo agitano, la Terra stessa non ha futuro, per quanto distante possa essere quel momento il Sole si spegnerà e l’umanità scomparirà, con tutto il pianeta, nel nulla. Il viandante sa di non poter dare un senso all’Universo, né questo può dare un senso a lui. Eppure una via d’uscita c’è ed il viandante la trova proprio nell’essere compagno del viaggio verso l’inevitabile assieme a tutto ciò che anima questo suo pianeta. Questa consapevolezza accresce le ragioni per congedarsi dall’etica antropocentrica e dalla insostenibile presunzione umana di una sorta di diversità esistenziale. Non l’uomo allora, ma la “vita della Terra” deve diventare la misura ultima di tutte le cose, di tutte le sue azioni, assumendo così come centrale anche una inedita “etica planetaria”. Non basta infatti ridurre il potere distruttivo umano nei confronti della natura per sperare di salvare sé stesso, sarebbe riaprire una finestra all’antropocentrismo per quanto più gentilmente declinato. Il viandante sa che deve divenire cosa unica con tutto il mondo e tutta la natura. Certo, egli è consapevole della portata di una simile svolta filosofica, ma sa anche che non sarebbe una visione mai delineata, il senso profondo del “Cantico delle creature” di San Francesco d’Assisi (ripreso da un altro contemporaneo Francesco) stava proprio nel suo celebrare l’interdipendenza di tutto quanto si muove sulla Terra. L’etica planetaria per divenire vera fonte ispiratrice deve però necessariamente coinvolgere l’intera umanità e deve quindi superare anche le etiche tradizionali che pur guardando a valori condivisibili avevano un orizzonte ristretto nei confini della cultura che esprimevano. La domanda sorge spontanea: come conciliare l’universalità dell’etica planetaria con il “multiverso delle culture”, così differenti per lingua, etnia, religione e così fondanti identità e appartenenza? La terra che il viandante ha alle spalle è quell’Occidente di cui si è detto, ma è proprio lì che è rintracciabile una prima, decisiva, risposta: la rinuncia da parte dell’Occidente alla presunzione di ritenere la propria cultura, ed i valori etici che essa esprime, la forma più alta di civiltà finora raggiunta e quindi in diritto di essere ovunque esportata per essere imposta a tutte le altre culture (l’attuale globalizzazione economica altro non è che il definitivo compimento di questo processo). Se mai questa convinzione iniziasse ad muovere passi concreti si porrebbe però da subito la necessità di conciliare identità e appartenenze comunitarie, dimensione irrinunciabile per tutti gli uomini della terra, con l’irrazionalità delle artificiali divisioni fra Stati. Storicamente questi sono da sempre entità istituzionali fragili, provvisorie, dannose per i conflitti che innescano per la loro innata pretesa di difendere, se non allargare, linee di separazione fra umani, i confini, che a ben vedere non hanno nessuna ragione di essere. “Etica cosmopolitaè il termine per definire questo diverso sistema di relazioni fra culture diverse indispensabile per sostenere l’etica planetaria, un obiettivo che non potrebbe essere mai raggiunto se si puntasse ad un accordo tra i differenti valori che da secoli, millenni, sostengono le diverse culture. La strada maestra da seguire altra non è che quella di puntare a soluzioni che mitighino, risolvano, i conseguenti “conflitti di interessi” pratici e concreti. Non diversamente dalla logica che ha sostenuto la nascita degli Stati moderni, vale a dire la rinuncia di un parte delle libertà individuali per avere in cambio sicurezza e pace sociale, si potrebbe allora pensare ad analoghi “contratti” tra Stati che, per salvare umanità e pianeta, rinuncino ad una parte dei loro interessi. Nemmeno tanto paradossalmente un fondamentale contributo potrebbe, in questa ottica, venire proprio da “mercato e tecnica” che da sempre operano nel segno della “deterritorializzazione”, e che, va da sé per i propri fini, da tempo stanno svuotando di potere gli Stati. Immaginati questi primi due passi il viandante comprende che il terzo, conseguentemente, non può non consistere che nella definizione e realizzazione di una “etica del trascendimento”. La trascendenza alla quale guarda il viandante non ha il senso religioso dell’eschaton, ma è un aspetto strettamente legato all’immanenza, alla realtà intrinseca del vivere umano. E’ stato il filosofo tedesco Karl Jaspers a introdurre il concetto di “trascendenza immanente” intendendo con questa sorta di ossimoro che la trascendenza umana si annuncia nella realtà del vivere, e quindi nella sua immanenza, per quel tanto di incompiutezza di senso percepita dall’uomo. Come dire che questi non si esaurisce nella sua essenza anatomica, fisiologica, psicologica e sociologica, perché è nella sua natura essere costantemente portato ad evolvere sé stesso rispetto a quello che è, l’uomo quindi è costituzionalmente un essere incompiuto votato al cambiamento. Non si tratta del generico desiderio di un futuro esistenziale migliore, ma della tensione verso un costante completamento di sé.

un tratto che Nietzsche ha tradotto nella sua idea di “Ubermensch” strumentalmente tradotto, nella vulgata fascista e nazista,  in “superuomo” mentre la sua interpretazione corretta, come evidenziato da Gianni Vattimo nel suo libro su Nietsche “Il soggetto e la maschera” , e “Oltre-uomo

E’ proprio la trascendenza immanente che induce il viandante, nel suo rifiuto dell’etica antropologica e nel suo sostituirla con l’etica planetaria e l’etica cosmopolita, a completare il senso del suo viaggio con un’ulteriore evoluzione culturale finalizzata a far diventare reale il possibile, a dare cioè traduzione concreta alla sua pulsione vero un pieno completamento di sé. L’evoluzione umana ha sempre coniugato l’aspetto biologico con quello culturale, con la radicale differenza rispetto all’adattamento biologico che questo secondo aspetto evolve per decisioni e libere scelte capaci di dare risposte nuove a situazioni nuove. Ciò significa che le negative novità del nostro tempo richiedono che l’uomo sia ispirato anche da una “etica del trascendimento”, capace di includere in sé le norme morali dell’etica planetaria e dell’etica cosmopolita. Questo significa però che la tensione al cambiamento, al completamento, nel contesto attuale non può realizzarsi se l’ “io individuale” non viene fatto precedere dal “noi collettivo”. L’etica del trascendimento impone che tutte le decisioni etiche siano ispirate dal senso di “fraternità” rivolto a tutti gli altri uomini, ma non di meno alla natura tutta.

L’etica del viandante non è pertanto, come un tempo, un appello, un auspicio, una speranza, ma una necessità imposta dalla sopravvivenza della specie. E’ questa la ragione per cui il viandante, con la sua etica, può essere punto di riferimento per l’umanità a venire, per un nuovo uomo sempre meno soggetto alle leggi del territorio perché fa appello a valori che trascendono le frontiere ed i confini che spartiscono la Terra e separano gli uomini che, nella storia, hanno per questo sempre regolato i loro rapporti secondo la logica del nemico non rendendosi così conto che nei confronti della Terra il nemico siamo noi



venerdì 1 dicembre 2023

La Parola del mese

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

DICEMBRE 2023

E’ da sempre considerata una delle peggiori calamità naturali, in molte parti del mondo è purtroppo una tragica costante storica, ma soprattutto il suo diffondersi ed il suo accentuarsi sono considerati una preoccupante conferma del cambiamento climatico in corso e  una delle più impattanti  emergenze naturali, e quindi economiche e sociali, che investiranno l’umanità nei prossimi decenni. La Parola di questo mese è

SICCITA’

dal vocabolario on line Treccani

Siccità = sostantivo femminile, dal latino siccitas derivato da siccus (secco) = Mancanza o scarsezza accentuata di pioggia che si protrae per un periodo di tempo eccezionalmente lungo

La nostra attenzione è comprensibilmente rivolta a capire quanto, e con quali conseguenze, il fenomeno della siccità evolverà nel prossimo futuro in conseguenza del riscaldamento climatico e, non di meno, quali accorgimenti dovranno essere adottati per contenerla e gestirla. Per farlo ci siamo appoggiati ad un saggio di recente uscita con titolo omonimo dal quale abbiamo tratto le considerazione che di più ci sono sembrate utili per meglio leggere ed ancor meglio affrontare questo fenomeno

il cui autore è Giulio Boccaletti

(Giulio Boccaletti è saggista, ricercatore onorario alla Smith School di Oxford e Senior Fellow del Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici. Laureato in fisica a Bologna, ha conseguito un dottorato a Princeton. È stato ricercatore all’MIT, dove si è occupato di sicurezza idrica con governi e istituzioni internazionali. Nel 2014 il World Economic Forum di Davos lo ha nominato Young Global Leader per il suo lavoro sull’acqua, che nel 2020 è stato oggetto del documentario di PBS H2O: The Molecule That Made Us. Il suo libro Acqua. Una biografia (Mondadori, 2022), è stato selezionato come uno dei migliori libri del 2021 da The Economist)

I fenomeni siccitosi che da sempre angosciano l’umanità stanno conoscendo una drammatica accelerazione nell’attuale era dell’Antropocene e del cambiamento climatico. E’ ormai dato acquisito che una delle più preoccupanti conseguenze di questo fenomeno consiste proprio nell’accentuazione e nella estensione dei fenomeni estremi: siccità e precipitazioni disastrose, due facce della stessa medaglia, si alterneranno ovunque sempre più frequentemente. Va da sé che la loro vera mitigazione non può che consistere in interventi radicali sulle cause ultime, quelle antropologiche, dell’innalzamento della temperatura globale, ma ciò scontato non sono meno importanti, sul breve periodo, ragionati interventi di adattamento ai cambiamenti in corso, che richiedono, per fronteggiare siccità e fenomeni estremi, di ripensare in modo radicale il nostro rapporto con l’elemento acqua, con l’intero suo ciclo di trasformazione, partendo da una prima confortante evidenza: le molecole di acqua sulla Terra non sono scarse, il nostro pianeta dispone di una enorme quantità d’acqua (il nome “pianeta blu” si spiega proprio per questa caratteristica) sostanzialmente immutata dal suo formarsi miliardi di anni fa. Ma, valutandola dal punto di vista umano, essa è una sostanza di complesso utilizzo per alcune inaggirabili sue caratteristiche: l’acqua si muove incessantemente nello spazio e nel tempo assumendo sempre forme diverse. Deriva da questo dato di fatto una prima decisiva considerazione: la relazione dell’umanità con l’acqua è conseguentemente sempre stata, e sempre sarà, la risposta collettiva a questa complessità ed è pertanto un fatto politico, che consiste nella scelta delle modalità, dei criteri, delle logiche, delle istituzioni, adottate per attuarla. L’attenzione di Boccaletti si concentra proprio su questo aspetto. Lo fa con uno sguardo globale partendo, per meglio coinvolgere il lettore italiano al quale questo saggio si rivolge, dalla situazione che interessa il nostro paese. In questo senso colpisce una prima affermazione: l’Italia non è povera d’acqua. Per capirlo vale il raffronto con Il Regno Unito, paese che ha fama di essere quanto mai piovoso: ebbene il suolo inglese riceve la stessa quantità dal cielo che cade sul suolo italico (tra 250 e 300 miliardi di metri cubi all’anno). La differenza, che c’è, non si spiega quindi nella quantità assoluta di acqua piovana, ma nel modo in cui essa attraversa il paesaggio (con le sue specifiche caratteristiche geologiche) e nell’intensità idrica (vale a dire il modo in cui piove, nel Regno Unito ciò avviene in modo più costante ed equilibrato, in Italia invece in modo molto più variabile e con maggiori picchi di intensità). E’ solo un esempio utile a precisare che, coerentemente a quanto poco sopra anticipato, nell’era del cambiamento climatico, l’acqua non sarà globalmente scarsa perché mancherà, ma perché sarà sempre più difficile averla quando e dove serve. Questo aspetto si collega ad una correlata constatazione storica: l’umanità da sempre ha cercato di costruirsi una vita prevedibile in un contesto naturale che del tutto prevedibile non è, in particolare proprio per la disponibilità controllabile di acqua. La sicurezza idrica, vale a dire avere acqua quando e dove serve, è quindi sempre stata il prodotto di abitudini, istituzioni e infrastrutture create per tenere sotto controllo questa discrepanza naturale. E’ questo il quadro storico di base nel quale si sono innestati gli attuali fenomeni estremi che, come tali, non hanno solo sconvolto il comportamento naturale dell’acqua, ma hanno drammaticamente evidenziato la fragilità delle logiche sin qui alla base dell’impalcatura artificiale creata nella speranza di raggiungere un accettabile standard di sicurezza. I problemi legati alla siccità vanno allora visti come il risultato non solo della pur rilevante penuria di precipitazioni, ma anche, se non soprattutto, di uno sfasamento tra bisogni e disponibilità spiegabile proprio con l’inadeguatezza delle modalità sin qui seguite per la gestione del ciclo dell’acqua.

sul quale già incidono in misura importante le specifiche caratteristiche ambientali nelle quali avviene. Ad esempio in Italia, dei 250/300 miliardi di precipitazioni la vegetazione ne intercetta, prima che confluiscano in corsi d’acqua e falde, tra un terzo e la metà, la cosiddetta “acqua verde”, quella usata dalle piante, riduce l’ “acqua blu” a circa 100/150 miliardi. Ciò avviene perchè. l’Italia ha una significativa copertura boschiva. Dei circa 30 milioni di ettari di superficie totale 3 milioni, il 10%, sono urbanizzati, 15 milioni (il 50%) sono terreni agricoli, pascoli, aree non utilizzate, i restanti 12 milioni (il 40%) sono bosco misto

Tali modalità sono state ovunque storicamente calibrate in relazione a specifici fabbisogni che si sono nel corso del tempo via via modificati in conseguenza del mutare delle attività, agricole/industriali/civili, fino a determinare l’attuale status quo. Sempre restando all’esempio italiano il prelievo umano sul patrimonio d’acqua realmente disponibile è così articolato: il 49% per usi agricoli, il 21% per usi industriali, il 19% per usi civili, il restante 11% per il settore energetico. Su questi volumi di prelievo si articolano due modalità, ben distinte, di utilizzo: “uso” e “consumo”, il 49% prelevato dal settore agricolo è interamente consumato, il restante 51% viene usato, ma non interamente consumato per tutti i restanti fabbisogni, una parte infatti, in misura più o meno significativa, rientra come scarico nel ciclo dell’acqua. Questo dato italiano vale, al di là del nostro particolare interesse, per capire che ovunque la reale disponibilità di risorse idriche, localmente garantita dalle specifiche impalcature artificiali concretamente realizzate per ottenere la maggior disponibilità possibile, va commisurata al suo reale utilizzo finale. Vale a dire che la siccità deve essere sempre e ovunque valutata non solo in relazione al dato quantitativo delle precipitazioni ma anche alla intrinseca sostenibilità, ed efficienza, dello specifico ciclo di “uso e consumo”.

per quanto concerne l’efficienza il caso italiano si presta ad una precisazione relativa alla quota di acqua  potabilizzata non utilizzabile per  “perdite di rete” da molti additate come la causa  principale delle penuria idrica.. Dal punto di vista del ciclo complessivo dell’acqua la dispersione causata dalle falle della rete idrica di volumi, che comunque attraverso il suolo in qualche misura in esso rientrano, è un danno più economico che idrologico. Si parla di valori significativi, in Italia in media circa un terzo di acqua potabilizzata va disperso, seppure con variazioni fra zona e zona che vanno dal 10% al 70%. Va però tenuto conto che non esistono nel mondo reti che non perdano, anche se va riconosciuto che altre nazioni si comportano meglio dell’Italia. Ad esempio la Germania perde in media solo il 10%, ma è un dato che ancora una volta rimanda all’aspetto economico, mentre in Italia l’acqua potabile costa mediamente 1,5 euro al metro cubo, in Germania si sale a 4,5 euro, e non a caso quindi le risorse destinabili ad una manutenzione efficiente sono tre volte tanto

Sono questi gli aspetti di base per capire l’accelerazione che il fenomeno della siccità ha assunto e le conseguenti logiche che devono ispirare un cambiamento radicale nel modo di gestire il ciclo dell’acqua. Deve essere chiaro che si tratta di una svolta radicale che dovrebbe da subito tradursi in un insieme complesso e variegato di azioni concrete, che vanno ad esempio dall’aumento di produttività per unità d’acqua (che consiste non solo nell’efficientamento della rete, ma anche nell’ottimizzazione dell’agronomia modificando i sistemi di irrigazione, ad esempio investendo, quando possibile, in quella goccia a goccia e soprattutto adottando una maggiore diversità di coltivazioni), alla radicale riorganizzazione degli enti gestionali unificandoli in un’unica regia che permetta scambi e sinergie (rimettendo in discussione tutti gli attuali enti, ottimizzando in primis le autorità di bacino) , e all’ampliamento delle strutture  di raccolta e stoccaggio, i cosiddetti invasi

attualmente la capacità di quelli italiani, in grave diminuzione a causa dell’interramento (la sedimentazione  di suolo e rocce erose nel bacino) copre a malapena la metà del fabbisogno irriguo annuale, in Spagna, non meno investita da carenze idriche equivalgono a due anni e mezzo di fabbisogno. Va però precisato che ogni sistema idrico per puntare alla migliore efficienza possibile non deve puntare alle sole infrastrutture, ma deve ottimizzare l’intero ciclo delle acque in ogni singolo ampio bacino idrico

Sono queste solo alcune delle possibili azioni concrete da mettere in atto, ciò che resta fondamentale è che maturi in fretta una piena consapevolezza della gravità e della complessità del problema che sappia tradursi in un percorso politico capace di inserire la questione “siccità” nel più ampio contesto dell’ aspetto e della struttura del territorio, vale a dire che non è sufficiente un semplice rafforzamento dei capitoli di spesa, si deve ripensare l’intera nostra relazione con il territorio ed il paesaggio. Non diverso, ma anzi strettamente connesso, deve essere l’approccio all’altra faccia della medaglia: l’intensità crescente delle precipitazioni che si alternano ai periodi di siccità e che inesorabilmente provocano disastri idrogeologici (ne è tristissimo esempio italiano l’alluvione  che ha colpito buona parte dell’Emilia-Romagna nel mese di Maggio 2023 quando in un giorno e mezzo è caduto un terzo dell’acqua che di norma precipita in un anno trovando un terreno reso particolarmente duro ed impermeabile da diversi mesi di caldo siccitoso). Non è certo un problema dovuto solo alla cattiva gestione di fossi, tombini piuttosto che alla scarsa pulizia degli alvei fluviali, la questione vera consiste nel fatto che i crescenti eventi estremi degli ultimi anni non sono fronteggiabili dalle, pur eccellenti, strutture di contenimento e canalizzazione delle acque che per secoli hanno mantenuto sotto buono controllo il regime delle acque. Il successo nel governare l’acqua non si misurerà più nell’auspicata assenza di catastrofi, che anzi aumenteranno in quantità ed in gravità (non per nulla stanno colpendo tutti i paesi, quelli ipertecnologici come il Giappone, e quelli tecnologicamente arretrati), ma in una nuova capacità di gestire la diversa normalità. Bisogna cioè mettere mano ad una modifica radicale delle logiche che hanno sin qui guidato, peraltro con innegabili successi, quella che si può definire “l’ingegnerizzazione del territorio” italiano. Storicamente l’intervento umano sul paesaggio italiano è stato finalizzato alla realizzazione di modifiche utili a favorire la crescita economica e a ottimizzare gli insediamenti umani (l’area vasta di Milano è un esempio emblematico. situata tra due fiumi, l’Adda ed il Ticino, si è progressivamente allargata grazie ad intense opere di canalizzazione delle loro acque). Il risultato finale che la storia ci consegna si sta però rivelando inadatto ai nuovi scenari creati dal riscaldamento climatico, e la sua indispensabile, ed urgente, modifica richiede che preliminarmente siano chiare le nuove finalità che la debbono ispirare. Ed è in questo inaggirabile passaggio che si manifesta la natura politica del problema. La soluzione non può infatti scaturire automaticamente dalla tecnologia, alla quale spetta sicuramente un ruolo centrale come strumento per attuare scelte di lungo periodo che non possono non essere che politiche. Questa è la vera sfida sul tappeto: l’intera società, attraverso le sue istituzioni ed i suoi processi decisionali, è chiamata per fronteggiare siccità e eventi estremi, così come per l’intera emergenza ambientale e climatica, a decidere e attuare risposte tanto condivise quanto davvero efficaci.

poco aiuta in questo senso il fatto che la proprietà privata dei terreni agricoli, di coltivazione e di allevamento, sia la principale istituzione umana che di fatto governa il territorio. Questo dato comporta uno sforzo aggiuntivo nel ridefinire le sinergie per attuare azioni che avranno senso e speranza di successo solo se coinvolgeranno convintamente tutte le parti in causa

E qui il discorso si allarga perché occorre anche capire la scala geografica appropriata per risolvere queste sfide che comunque travalicano la sfera locale. Sono cioè necessarie azioni, da calare in ogni specifico ambito, che al contempo sappiano guardare al contesto generale. Lo impongono sia lo stretto intreccio tra la valenza globale dei fenomeni da affrontare sia la evidente enorme rilevanza dei volumi di investimento necessari.

vale la pena ricordare che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change, organismo ONU) avverte nei suoi sempre più precisi studi che il cambiamento climatico colpirà l’Europa più che il resto dell’emisfero settentrionale, la sua regione mediterraneo più che il resto del continente europeo, e l’Italia più che altri paesi mediterranei

Trattandosi, come si è appena evidenziato, di scelte politiche appare allora evidente che la scala geografica, ed istituzionale, alla quale guardare non può che essere l’Europa Unita, in quanto principale strumento politico chiamato a intervenire in modo coordinato sulle conseguenze del cambiamento climatico che stanno investendo l’intero continente. Va purtroppo constatato che al momento non si colgono segnali confortanti in questo senso: nell’attuale bilancio settennale UE e nello stesso NextGenEU non emerge un intervento lucido e lungimirante di adattamento del continente ai cambiamenti in corso. L’attenzione che, giustamente, si è messa in moto sulle problematiche della transizione energetica non trova in effetti adeguata corrispondenza per quanto riguardo la mitigazione delle conseguenze di siccità e fenomeni estremi. Eppure uno sforzo condiviso in questa direzione potrebbe in aggiunta rappresentare un importante contributo anche per superare l’innegabile impasse nel percorso di una vera Europa Unita. Nel momento in cui il cambiamento climatico sta (ri)portando il territorio in primo piano l’attenzione all’ambiente che è dichiaratamente al centro del progetto europeo (la Carta Europea dei diritti fondamentali del 2000 e 2007 lo esplicita con chiarezza) impone che la UE si faccia parte attiva per raggiungere la sicurezza idrica e climatica ed ogni paese, Italia compresa, deve muoversi in modo coordinato con riferimento alle indispensabili linee guida che saranno fissate a livello europeo. Un altro aspetto, in gran misura sottovalutato, conferma lo stretto intreccio fra globale e locale per quanto concerne il ciclo generale dell’acqua: il mondo intero è attraversato da una sorta di “grande fiume virtuale” che sposta quantità enormi di acqua da una parte all’altra del pianeta senza che di essa se ne abbia la giusta contezza. Si tratta dell’acqua contenuta nella miriade di merci, soprattutto prodotti agricoli e di abbigliamento, che compongono il grande flusso del commercio mondiale.

l’agricoltura e la coltivazione utilizzano quantità di acqua che sono vari ordini di grandezza più grandi di quella contenuta nel prodotto finale. Ad esempio una maglietta di cotone contiene circa tremila litri di acqua usati per coltivare il cotone di cui è fatta, e un hamburger ben quindicimila litri, quelli impiegati per il foraggio dei bovini usati per produrlo

Quando le aree del mondo, ovunque esse siano, nelle quali sono concentrate queste attività vengono investite dai fenomeni estremi climatici di cui si è detto si possono innescare pesanti turbative sia sulla loro disponibilità sia sui loro prezzi e sia sulla loro sostenibilità operativa dalla quale dipendono intere popolazioni. E’ allora evidente che il contenuto di questa acqua virtuale lega un luogo, quello della produzione, con un altro, quello del consumo, che possono essere anche fra di loro distanti migliaia di chilometri. Una interrelazione che chiama in causa le conseguenze di una eventuale siccità nel primo ed al tempo stesso anche il suo rapporto politico, di potere e subordinazione, con il secondo. Tutto ciò dovrebbe quindi indurre a rivedere abitudini, stili di vita e di consumo, flussi commerciali, (ri)valutandoli anche in relazione al loro contenuto di acqua, di fatto “reale”.

L’Italia  è pienamente inserita nel fiume virtuale dal quale attinge ogni anno circa cinquanta miliardi di metri cubi d’acqua, più del doppio di quanto mediamente attinge dalle sue risorse idriche per irrigare i propri campi.

Rientra in questo contesto anche il tema delle “guerre per l’acqua”, invocata ogni qualvolta si innesca un conflitto armato connesso anche ad un problema idrico. L’oggetto a contendere si crea quando una risorsa idrica, fiume o lago, alimenta il fabbisogno di due o più paesi che si trovano lungo il suo percorso piuttosto che sulle sue sponde. Nel pianeta esistono oltre trecento bacini che presentano tali caratteristiche (l’Italia gestisce il solo caso del fiume Isonzo, che in parte scorre in Slovenia, e condivide con la Svizzera il Lago Maggiore ed il Lago di Lugano). Se è indubbio che nell’era dei fenomeni estremi la certezza della disponibilità d’acqua si è fatta quanto mai aleatoria, e che quindi la gestione delle risorse idriche, quando comuni, rischia di alimentare contenziosi anche di forte rilevanza, è pur vero che l’innesco di conflitti armati ha sempre avuto anche altre motivazioni quasi sempre più decisive

storicamente la gestione di questo tipo di controversi si è basata su tre opposte dottrine di diritto internazionale: la sovranità territoriale assoluta, che sancisce il diritto di un paese di utilizzare a proprio piacimento le acque del suo territorio, l’integrità territoriale assoluta, i paesi a monte devono sottostare a vincoli per non danneggiare quelli a valle, ed infine la sovranità territoriale limitata, l’idea che quando l’acqua travalica più confini nessuna delle parti può vantare diritti assoluti

E’ difficile prevedere i possibili sviluppi futuri, ma è storicamente certo che l’accesso alle risorse idriche, da solo, non è mai stato la sola causa scatenante di conflitti armati, ma è sempre coesistito con altre ragioni di contrasto tali da essere la vera spiegazione dell’innesco di guerre. Lo attestano tutte le controversie fra Stati per ragioni idriche quali, ad esempio: la guerra Arabo-Israeliana del 1967 (quella che i media per prima definirono “guerra per l’acqua”) legata alle acque del fiume Giordano, quella di lunga durata fra India e Pakistan per il fiume Indo, quella fra la Cina e tutti gli stati a valle del fiume Mekong (finora mai sfociata in conflitto armato ad ulteriore conferma di questa tesi), quella per interposta persona fra Egitto ed Etiopia per le acque del Nilo Azzurro, e la stessa attuale guerra fra Russia e Ucraina per le sponde del Dnipro. Sono tutti conflitti spiegabili con ragioni ben più determinanti del solo controllo di risorse idriche, e sono tutti casi in cui un vero sforzo di cooperazione per la gestione dell’acqua avrebbe con buona probabilità contribuito a smorzare le tensioni. E d’altronde ben si sa che l’acqua, a differenza degli uomini, non conosce confini. Anche in questo caso, come più volte già sottolineato, è la politica ad essere chiamata in causa, così come, e a maggior ragione, passando alla gestione delle conseguenze dei periodi di siccità così come degli eventi estremi. Finora ovunque si sono di norma attuati gli interventi consolidati del caso, ma il riscaldamento climatico rappresenta una urgenza di natura totalmente diversa, quello che oggi avviene, ancora saltuariamente, è una anticipazione su scala ridotta di quello che potrebbe, abitualmente, verificarsi nel prossimo futuro. A maggior ragione, come già evidenziato, servono allora strategie di lungo periodo capaci di mettere in atto interventi di “adattamento” da affiancare a quelli, di più ampio respiro, di mitigazione delle cause scatenanti. Occorre soprattutto che la politica definisca appropriate azioni immaginate con quello stesso fervore e spirito, seppure con finalità del tutto diverse se non opposte, che nel corso del 1800 e del 1900 ha contribuito a mettere a punto strategie di gestione idrica capaci di sostenere sul lungo periodo lo sviluppo della produzione e dei consumi. Al momento, come già evidenziato per la UE, non sembrano emergere, ovunque nel mondo, adeguate tendenze in questo senso, ben lo testimoniano i modi con cui la politica recepisce le avvertenze che la scienza del clima da tempo sta lanciando

sono fondamentali in questo senso i rapporti periodici sull’avanzamento del riscaldamento globale pubblicati dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Chiange)  l’organismo costituito nel 1988  dalla Organizzazione metereologica mondiale e dall’ONU

In molte, troppe stanze della politica (così come nella stessa narrazione mediatica), sembra ancora prevalere la percezione che questi dati siano semplicemente l’espressione scientifica di un eccesso di sensibilità ambientale. Non è per nulla così: le radici della scienza del clima non affondano nell’ambientalismo bensì in più vecchi interessi di sicurezza civile (ed anche militare). E’ stata proprio l’evidenza di un processo di riscaldamento globale fornita dai dati raccolti a sollecitare gli ambienti scientifici a concentrarsi sul suo studio, raccogliendo e analizzando sempre più informazioni che dicono di un progressivo cambiamento radicale del pianeta (e l’acqua sarà una delle componenti ambientali più interessata da questo cambiamento). Non mancano nella discussione globale sul tema accenti catastrofisti, ma non in ambito scientifico, però spesso indotti dal disperato tentativo di smuovere attenzioni e politiche adeguate che ancora sembrano difettare. Siamo cioè ancora nella situazione evidenziata da molti della difficoltà strutturale della politica, nell’ambito della democrazia rappresentativa, a farsi parte davvero attiva a causa di una sua congenita titubanza nei confronti di segnali provenienti da ambiti non politici (la vicenda della pandemia da Covid-19 è un’altra inoppugnabile testimonianza in questo senso). Non aiuta neppure la scarsa consapevolezza delle popolazioni, soprattutto quelle, Italia compresa, della parte ricca del mondo che, restando anche solo al tema dell’acqua, considera scontata la disponibilità di questa risorsa e che, almeno per ora, è ancora marginalmente coinvolta. Il dramma dell’acqua che manca, per siccità prolungate, o che tutto distrugge, per eventi estremi, interessa invece in modo drammatico, da sempre, i popoli che vivono al di fuori della fascia di benessere. Si parla soprattutto di due miliardi di persone (su una popolazione mondiale di otto miliardi) che già non hanno accesso all’acqua potabile. Si tratta di un dato sconfortante che, riguardando non solo l’uso civile ma anche la possibilità di sostenere una qualche economia produttiva, continua a condannare questo quarto della popolazione mondiale a impossibili condizioni di vita e quindi, in molti casi, a inevitabili migrazioni. Una situazione che l’attuale innalzamento delle temperature, con le conseguenti siccità, rischia di peggiorare ulteriormente,

la quasi totalità di queste persone vive di agricoltura e pastorizia di sussistenza, due attività che la mancanza prolungata di acqua rende insostenibili. L’Alto Commissariato ONU per i rifugiati riferisce che i disastri naturali, principalmente legati all’acqua, hanno provocato, dal 2008 in qua, il progressivo spostamento di oltre ventisei milioni di persone all’anno

Una tragedia epocale che però non si spiega solamente con fattori ambientali, incidono in modo altrettanto decisivo da una parte i moltissimi casi di malgoverno locale e dall’altra le inadeguate politiche di sostegno internazionale

anche solo guardando ai sostegni finanziari il quadro è poco confortante: nel 2009 i paesi ricchi del mondo, Italia inclusa, sancirono nell’ambito della COP 14 (il termine COP è acronimo di “Conferenza delle Parti” che riunisce tutti i Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) l’impegno a fornire ogni anno cento miliardi  di dollari per finanziare l’adattamento delle nazioni povere al cambiamento climatico, promessa rinnovata sei anni dopo alla COP 21 di Parigi e poi ancora alla COP 26 di Glasgow. Quindici anni dopo dalla COP 14 l’impegno è stato in grandissima misura disatteso

….. nel suo fluire attraverso il territorio l’acqua sostiene ecosistemi, comunità umane e le loro produzioni connettendo il tutto in un sistema inseparabile, l’intersezione di tutti queste componenti è forte, regolarne una significa regolarle tutte. Si fa quindi un grave errore di categoria a pensare che la siccità, o le alluvioni, siano un problema meramente tecnico. Siamo chiamati da questi fenomeni a cambiare l’intero nostro territorio, se non lo faremo noi sarà il clima stesso a farlo. Può sembrare inimmaginabile che l’Italia, e con essa il mondo intero, possa compiere un’operazione simile, ma se lo facesse non sarebbe la prima volta. Nei secoli precedenti le aspirazioni di sviluppo economico hanno portato a sfruttare fiumi e bonificare paesaggi fino a convertire il clima in risorsa. Si può quindi farlo di nuovo, anche se in senso opposto. Ma per farlo serve una buona “politica”, la sola che possa governare tale intersezione. Assumere questo compito come quello prioritario renderà chiaro a tutti noi che solo una piattaforma politica, in stretta connessione con il sapere scientifico, è in grado di dare le giuste risposte a problemi finora mai affrontati dall’umanità.