sabato 24 luglio 2021

Le catastrofi climatiche sono sempre meno "eccezionali"

 

Nel precedente post abbiamo pubblicato un coinvolgente articolo che evidenziava con chiarezza la necessità, per affrontare l’emergenza climatica ed ambientale, di attivare una vera svolta “etica e politica”. Un cambiamento radicale del nostro modo di considerare e utilizzare a nostro piacimento ambiente e natura. Altri cambiamenti si collegano a questa sfida, con il seguente articolo segnaliamo l’opportunità di adeguare anche il linguaggio utilizzato per raccontarla e quindi promuoverla. Un linguaggio più adeguato e preciso, a partire dai media e dai discorsi politici per arrivare ai nostri dialoghi comuni, …….è un passo fondamentale per operare il cambio di paradigma di cui abbiamo bisogno, e questo perché il modo in cui parliamo determina il modo in cui pensiamo, e il modo in cui pensiamo determina il tipo di sguardo che rivolgiamo al mondo…….

Le catastrofi climatiche sono sempre meno “eccezionali”

Una prospettiva linguistica sul mondo che cambia

Articolo di Levantesi Stella (giornalista, scrive su “Il manifesto”, “Wired”, “Internazionale”) e Deotto Fabio (gionalista e scrittore, segue in particolate i temi del rapporto tra scienza e cultura, il suo ultimo libro è “L’altro mondo: la vita in un pianeta che cambia” – Bompiani 2021)

Una persona, asciugandosi il sudore dalla fronte, si lamenta di come questa sia l’estate più calda degli ultimi cinquant’anni. Un’altra, accanto alla prima, con espressione sardonica risponde: “Consolati, è la più fredda dei prossimi cinquant’anni”. È una vignetta che sta circolando molto online, in questi giorni flagellati da un’infilata di eventi meteorologici estremi. Naturalmente si tratta di una semplificazione, ma la cosa interessante è il rovesciamento di prospettiva che propone. Un rovesciamento che si fatica invece a trovare nel panorama mediatico tradizionale, dove gli eventi climatici delle ultime settimane – le temperature da record nel Pacifico nord-occidentale che hanno innescato incendi e provocato il ricovero di moltissime persone; le alluvioni in Germania e in Belgio che hanno causato migliaia di dispersi e centinaia di morti; gli incendi devastanti in Australia e California, le temperature estreme in Siberia e molti altri – vengono puntualmente etichettati come “senza precedenti”, rimarcando indirettamente come i disastri che abbiamo sotto gli occhi non appartengano al mondo “normale”, ma siano da considerare eccezioni, elementi sfuggiti a una cornice che rimane integra. Ma è sufficiente dare retta a quello che i climatologi dicono da decenni per capire che, se pure ci troviamo di fronte a circostanze “senza precedenti”, perché in molti casi non si è mai assistito a nulla di analogo, questi eventi non possono più essere derubricati come “eccezionali”, sono piuttosto i sintomi di quel fenomeno incredibilmente sfaccettato, interconnesso e difficile da inquadrare che chiamiamo crisi climatica. “Senza precedenti” non è solo qualcosa di eccezionale, l’espressione descrive un evento che si è verificato per la prima volta e che può costituire un modello di situazioni analoghe. Per definizione, quindi, qualcosa che è “senza precedenti” è potenzialmente destinato a diventare il primo di altri eventi molto simili. E la prospettiva sembra essere questa: il fatto che si verifichino circostanze mai viste prima è sempre meno un fatto eccezionale. Daniel Swain, uno scienziato del clima dell’Università della California a Los Angeles, ha dichiarato al Guardian che “quest’estate sono stati stabiliti così tanti record negli Stai Uniti che ormai non fanno più notizia. Gli estremi che sarebbero stati degni di nota un paio di anni fa oggi non lo sono, perché impallidiscono in confronto agli aumenti sorprendenti delle scorse settimane”. Questo accade anche in altri paesi, ha aggiunto, anche se con meno attenzione da parte dei media. Questi eventi dunque non possono più essere considerati né isolati né eccezionali. Eventi meteorologici che si sono verificati ogni centinaio di anni stanno diventando comuni. La crisi climatica non è iniziata oggi, ma si sta manifestando in una dimensione concreta anche in zone dove non siamo abituati a inquadrarla, con modalità e dinamiche che la scienza del clima pronostica da decenni. Insomma, non è più un problema astratto che riguarda altri, altrove. È qui, ora, mentre leggete queste parole. Gli eventi senza precedenti, per quanto possa suonare paradossale, stanno diventando la norma. Ma perché il problema continui a essere visibile (e comunicabile) anche una volta che il terreno si sarà asciugato, le macerie saranno state rimosse e le case ricostruite, è fondamentale concentrarci sul linguaggio che utilizziamo per comunicarlo. Un linguaggio che, come abbiamo visto, si dimostra spesso inadatto a raccontare la complessità della questione. E se da un lato è utile smettere di parlare di eventi “eccezionali”, dall’altro è fondamentale trovare un modo di sintetizzare un fenomeno stratificato senza inciampare in pericolose semplificazioni. Nei giorni successivi alle alluvioni di metà luglio in Belgio e in Germania, non passava ora senza che spuntasse un articolo che, già nel titolo, rivelava come i climatologi stessi fossero rimasti “scioccati”, “spiazzati”, “sorpresi” da queste manifestazioni estreme, suggerendo così – in maniera consapevole o meno – che delle persone che hanno passato la vita a studiare i fenomeni climatici, siano di fatto degli sprovveduti, alla stregua di marinai in tempesta che cercano la terra usando un bicchiere come binocolo. Il che è ancora più curioso se si considera che per decenni i climatologi sono stati accusati di essere eccessivamente catastrofisti: ora che le catastrofi preconizzate si vedono, li si accusa di non essere sufficientemente precisi nel proprio catastrofismo. Il punto è che le previsioni della scienza climatica non possono anticipare cosa succederà precisamente e dove, quanto semmai prevedere che l’intensità e la frequenza di determinati eventi meteorologici aumenteranno in modo netto con l’aumento di CO2 nell’atmosfera. Se da un lato infatti gli esperti mettono in guardia dal “dare la colpa” di ogni singolo evento meteorologico estremo al cambiamento climatico, dall’altro affermano senza indugio che i cambiamenti climatici influenzano fortemente le condizioni atmosferiche, causando siccità più lunghe, pattern di precipitazione più erratici, temperature più alte in alcune regioni e inondazioni in altre. E non a caso, in questo contesto, fanno una distinzione tra “causalità” e “influenza”, due aspetti diversi che permettono di spiegare in maniera scientifica il rapporto tra riscaldamento globale e frequenza ed intensità di eventi meteorologici estremi. Esiste un campo conosciuto come extreme event attribution – attribuzione di eventi estremi – che collega il concetto apparentemente astratto di cambiamento climatico con le esperienze tangibili di eventi climatici e meteorologici. Secondo un’analisi di Carbon Brief, gli scienziati hanno pubblicato più di 350 studi sottoposti a revisione paritaria che esaminano gli estremi meteorologici in tutto il mondo, dalle ondate di calore in Svezia alla siccità in Sud Africa, dalle inondazioni in Bangladesh agli uragani nei Caraibi. Il risultato è una crescente evidenza di come l’attività umana stia aumentando il rischio eventi meteorologici estremi. Dei 122 studi di attribuzione sul caldo estremo che sono stati esaminati, il 92% ha concluso che il cambiamento climatico ha reso l’evento o la tendenza più probabile o più grave. Dagli 81 studi che hanno esaminato le precipitazioni o le inondazioni, il 58% ha riscontrato la stessa tendenza. Nei 69 eventi di siccità studiati, invece, la percentuale sale al 65%. Per questo quando si parla di “attribuzione di eventi estremi”, è importante chiarire se si tratta di una categoria di eventi – per esempio le ondate di calore – o un evento specifico – per esempio le alluvioni in Germania. E, soprattutto, è importante porre la domanda corretta. Secondo il dottor J. Marshall Sheperd, esperto di clima e direttore del programma di scienze atmosferiche dell’Università della Georgia “i media e i decision-makers devono smettere di chiedere se un evento meteorologico  sia stato causato dal cambiamento climatico”. Le domande che bisognerebbe farsi piuttosto sono altre: “eventi di questa gravità sono più o meno probabili a causa del cambiamento climatico?” oppure “in che misura l’evento è stato più o meno intenso a causa del cambiamento climatico?”  Ignorare questi collegamenti nel racconto della crisi climatica e non avere una visione comprensiva di questi elementi è un problema. Trattare gli eventi meteorologici estremi come casi isolati e scollegati dalla crisi climatica è un problema. Dare le notizie su questi eventi come fatti di cronaca che esaltano esclusivamente le dimensioni di località e temporaneità (acquazzoni torrenziali, nubifragi, bombe d’acqua) è un problema. L’abuso del termine “maltempo”, che sembra essere la parola magica, un jolly che viene utilizzato per evitare analisi, ricerca, approfondimento, è un problema. Lo è perché rinforza una narrazione della crisi climatica fuorviante che da un lato ci impedisce di vedere come il nostro mondo sia già inevitabilmente cambiato, dall’altro fornisce una sponda a chi ha interesse a procrastinare un intervento politico ed economico che invece è palesemente irrimandabile. L’impiego di un linguaggio migliore nel racconto della crisi climatica è un passo fondamentale per operare il cambio di paradigma di cui abbiamo bisogno, e questo perché il modo in cui parliamo determina il modo in cui pensiamo, e il modo in cui pensiamo determina il tipo di sguardo che rivolgiamo al mondo. Se fatichiamo a prendere atto di una minaccia esistenziale già così manifesta, è anche perché non siamo evolutivamente equipaggiati a catalogare questa minaccia come qualcosa che possa mettere a rischio la nostra sopravvivenza. Siamo i discendenti di chi sapeva scappare di fronte a pericoli immediati, ma anche di chi era in grado di mantenere il sangue freddo quando il pericolo era solamente percepito. Quegli stessi meccanismi che hanno permesso ai nostri antenati di sopravvivere in un mondo pieno di insidie senza andare in paranoia a ogni spron battuto, oggi ci paralizzano in una situazione dove, anche se a livello razionale ci viene detto che l’acqua in cui galleggiamo sta bollendo, ci lasciamo rosolare a fuoco lento perché convinti che si tratti solo di un fenomeno eccezionale. L’utilizzo di un linguaggio adeguato può aiutare a spezzare questo circolo vizioso cognitivo. L’atto di dare nomi dopotutto è una componente cruciale dell’apprendimento: i neonati imparano a stabilire connessioni più durature tra le cose che sentono, vedono e odorano una volta che possono etichettarle con un nome. Non c’è da stupirsi allora se nel maggio del 2019 Il Guardian ha chiesto ai propri collaboratori di utilizzare una nuova terminologia per parlare della questione climatica: dovevano innanzitutto evitare il termine “cambiamento climatico”, reo di suonare troppo delicato e passivo, e preferire invece “crisi climatica”, “collasso climatico” o “emergenza ecologica”, che in effetti restituiscono meglio la complessità e gravità della questione. La scelta di “linee guida” ufficiali per la comunicazione dell’argomento era funzionale dal punto di vista editoriale, ma questo non significa che vadano adottate in maniera dogmatica nella comunicazione di tutti i giorni. Perché se è vero che il termine “cambiamento climatico” può risultare meno allarmante di “crisi climatica” è anche vero che veicola una sfumatura concettuale – l’idea di essere in una fase di transizione in divenire – che nella seconda locuzione invece manca. Vietare l’utilizzo di certe parole non è necessariamente la strada giusta. Forse risulterebbe più proficuo (anche se più dispendioso) dedicare più attenzione alla complessità del problema, porsi in un’ottica di dubbio, schivare gli automatismi che rendono così allettante risolvere un pezzo parlando di “evento epocale” o di “climatologi spiazzati”. Forse, prima di descrivere un’alluvione come un evento “eccezionale” o “epocale”, sarebbe sufficiente soffermarsi un momento a riflettere: lo è davvero?

lunedì 19 luglio 2021

Perchè la lotta alla crisi climatica è una sfida etica e politica

 

Le recenti impressionanti alluvioni che hanno interessato buona parte dell’Europa centrale sono l’ennesima riprova della drammatica evoluzione del cambiamento climatico. Ed ancora una volta sono state una inequivocabile evidenza della insufficiente risposta che le comunità umane stanno mettendo in atto. Dopo diversi decenni di ripetuti e sempre più precisi richiami all’azione immediata da parte delle discipline scientifiche che studiano questi fenomeni, dopo il continuo succedersi di avvenimenti in ogni parte del mondo che confermano le peggiori previsioni, ancora si stenta a cogliere anche solo una adeguata presa di coscienza della gravità della situazione per non dire delle conseguenti azioni concrete. Si è ancora in una fase in cui prevalgono appelli e proclami, si è ancora fermi a “buone intenzioni” tradotte però in azioni concrete del tutto insufficienti ed inadeguate. Lo stesso tanto sbandierato “New green deal” europeo rischia, come attestano le cronache di questi giorni, di essere fortemente frenato da logiche nazionalistiche molto più attente ai “costi economici” che all’emergenza climatica, in linea peraltro con la contraddittoria logica che lo ispira, quella di conciliare il mantenimento ad ogni costo della “crescita” con la difesa ambientale. Per sperare di realizzare compiutamente nei prossimi dieci/vent’anni una svolta vera, in grado quantomeno di mitigare le pesanti conseguenze che in ogni caso colpiranno pesantemente l’intero pianeta, è sempre più urgente che le coscienze individuali e collettive di tutta l’umanità si interroghino con coraggio e che, conseguentemente, istituzioni e poteri adottino concrete politiche rigorose e senza sconti. E’ in buona misura scoraggiante e deprimente essere ancora fermi a questa constatazione, al dover proporre elementi di riflessione in questo senso. Eppure così è se vi pare. Anche l’articolo che qui di seguito proponiamo va in questa direzione proponendo una sintetica ricostruzione storica di quanto finora NON si è fatto, l’individuazione di alcuni fattori di vario genere che hanno fatto da freno e di altri che potrebbero essere al contrario di aiuto, ed infine una proposta di carattere istituzionale finalizzata a superare lo stallo provocato dalle logiche nazionalistiche. L’appello lanciato dai luoghi del disastro da Angela Merkel su un più marcato ruolo dalla UE ci sembra che vada esattamente in questa direzione

Perché la lotta alla crisi climatica

 è una sfida etica e politica

Articolo di Alessio Giacometti (sociologo, editorialista, attento alle problematiche ambientali, scrive su “Il Tascabile”, la newsletter MEDUSA, Le Macchine Volanti, Singola e altre riviste).

Il prossimo primo novembre è una data tra le più importanti e attese dell’anno per chi si occupa di riscaldamento globale: a Glasgow, prenderà avvio la ventiseiesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, meglio nota con l’acronimo COP29. L’evento, rimandato di un anno per via della pandemia di coronavirus, vedrà i leader della Terra riunirsi tutti allo stesso tavolo, con l’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) a portata di ciascuno, e all’ordine del giorno l’obiettivo comune di disegnare articolate geometrie politiche per stabilizzare la concentrazione atmosferica di gas a effetto serra. È un rito annuale che si ripete dal 1995, quando ad andare in scena fu la COP numero 1 di Berlino. Ma la convinzione che con la diplomazia climatica si possa far fronte al riscaldamento globale risale ancora più indietro, alla nascita della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Unfccc) in occasione del Summit della Terra di Rio, nel 1992, e all’istituzione dello stesso IPCC alla World Conference on the Changing Atmosphere del 1988.  Trent’anni e più di conferenze internazionali per il clima appaiono un lasso di tempo sufficiente per trarne un bilancio, e porre magari la più scomoda e diretta tra le domande: quella della diplomazia climatica è una storia di un lento ma incontestabile successo, oppure di un disastroso fallimento? Il giudizio di Dale Jamieson (professore di filosofia e studi ambientali alla New York University) è tagliente: i tentativi di prevenire il riscaldamento globale con la politica internazionale sono tutti immancabilmente naufragati. Nel suo “Il tramonto della ragione. L’uomo e la sfida del clima”, scritto prima dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici (tradotto e pubblicato quest’anno da Treccani) Jamieson ricostruisce la cronistoria dell’insuccesso della diplomazia climatica partendo dagli anni Sessanta, quando l’idea che i gas serra stessero destabilizzando il clima era ormai ampiamente accettata dai climatologi e i movimenti per la difesa dell’ambiente iniziavano a muovere i primi passi. Nel ventennio successivo, però, a imperare furono l’incertezza sul da farsi e la strumentalizzazione politica delle evidenze scientifiche intorno all’origine antropica del riscaldamento globale: …Tra coloro che studiavano il cambiamento climatico stava cominciando ad aprirsi una linea di faglia. Mentre alcuni mettevano in guardia contro un approccio “attendista”, altri invocavano esattamente quello. C’era chi riteneva che la scienza stesse premendo per ulteriori ricerche e finanziamenti, e c’era chi pensava che appoggiasse l’azione politica. Gli economisti tendevano a favorire la ricerca rispetto all’azione; da una prospettiva esclusivamente economica, infatti, ritardare l’azione fino all’ultimo momento possibile avrebbe implicato di agire quando fosse stata risolta la maggior parte delle incertezze, quando i costi della riduzione fossero diminuiti, e quando il rischio di mancare il bersaglio fosse minore……Qualcosa a livello internazionale si scosse soltanto sul finire degli anni Ottanta, ma la stagione dei primi accordi per il clima venne di fatto sospesa dal conservatorismo neoliberale e negazionista dei due Presidenti repubblicani che si avvicendarono in quegli anni alla guida degli Stati Uniti, Ronald Reagan e George Bush senior. Le loro politiche ambientali, osserva Jamieson, furono straordinariamente coerenti: “fare il meno possibile per il cambiamento climatico e razionalizzare il tutto sia gettando dubbi sulla scienza sia gonfiando le stime dei costi di un’eventuale azione”. Il rifiuto da parte degli Stati Uniti di un intervento precoce e determinato per abbattere da subito le emissioni ebbe un’influenza enorme sui primi trattati per il clima, e culminò nella celebre dichiarazione di Bush al Summit di Rio sulla non negoziabilità dello stile di vita degli americani. Pochi mesi dopo, Bill Clinton sconfisse Bush alle elezioni e scelse come vicepresidente Al Gore, che aveva appena dato alle stampe il suo primo bestseller ecologista: La terra in bilico. Come ricorda lo stesso Jamieson, “gli ambientalisti si sentirono al tempo stesso sollevati ed euforici”. Eppure, nel corso del suo doppio mandato presidenziale, lo stesso Clinton non fece altro che confermare il disimpegno degli Stati Uniti dalle politiche climatiche internazionali. Si deve soprattutto all’indolenza dei diplomatici americani l’improvvida clausola del pledge and review, (prometti e rinnova) ossia degli impegni volontari, non vincolanti e rivedibili che portarono il Protocollo di Kyoto del 1997 a non stabilire alcun obiettivo concreto di riduzione delle emissioni per il Paese più inquinante al mondo (la Cina) e nemmeno a trattenere nell’accordo il secondo maggiore emettitore della lista (gli Stati Uniti). Le COP successive, comprese quelle che ebbero luogo durante la presidenza di George Bush junior e Barack Obama, non furono che un impietoso tentativo di arrivare al summit successivo con un compromesso finalmente vincolante per i firmatari. Neanche l’accordo di Parigi del 2015, dinnanzi al quale si ferma la ricostruzione storica proposta da Jamieson, ha avuto la forza di scardinare lo scacchiere ossificato della diplomazia climatica. Gli Stati Uniti continuano ancor oggi a recitare la parte del giocatore cinico e baro che possiede da solo il peso sufficiente a far saltare il banco, Cina ed India si trovano nelle vesti dei principali imputati con l’alibi però di non essere tra i responsabili delle emissioni storiche, l’Unione Europea indossa invece la maschera dello scolaretto diligente e convinto d’aver fatto il suo delocalizzando all’estero le attività con maggiori emissioni, e infine il resto del mondo nel ruolo di vittima innocente e sacrificale di un riscaldamento globale causato dal progresso altrui. Sullo sfondo di questa pantomima, una curva delle emissioni di gas serra che ha sempre continuato a crescere, dalle 22 gigatonnellate di CO2 rilasciate globalmente nel 1990 alle 38 del 2019, con gracili ed estemporanee battute d’arresto soltanto in corrispondenza del collasso del comunismo nel 1991, della crisi finanziaria nel 2008 e della pandemia di SARS-CoV-2 nel 2020. Eppure, nel fallimento storico della diplomazia climatica Jamieson rileva qualcosa di più latente e profondo, identificabile con il tramonto del progetto illuminista di porre la scienza e la ragione al centro di un nuovo ordine sociale. “Anziché essere un’umanità che governa razionalmente il mondo e se stessa, scrive, “siamo alla mercé di mostri che abbiamo creato noi. Sulla ragion pratica abbiamo fondato le leggi della convivenza civile, del libero mercato e del buon governo, ma allora perché non siamo riusciti a mobilitare la sua forza anche per rispondere efficacemente e tempestivamente al riscaldamento globale? La spiegazione che azzarda Jamieson chiama in causa ostacoli all’azione di natura psicologica (“il cambiamento climatico non è percepito con i sensi, ma deve essere pensato; e noi non siamo bravi a farlo”) ed evoluzionistica (“la nostra dotazione biologica ci rende difficile non tanto risolvere, ma anche solo riconoscere questo tipo di problema”), tuttavia la motivazione forse meno astratta – e dunque più credibile e “politica” – è che il riscaldamento globale rappresenti “il più grande problema di azione collettiva mai affrontato dall’umanità”. Quello dell’azione collettiva è un classico problema da teoria dei giochi: risolverlo è nell’interesse di tutti, ma nessuno è incentivato ad agire senza la garanzia che anche gli altri facciano lo stesso. Di più: comunque scelgano di comportarsi le controparti, a ognuno converrebbe più la defezione che l’impegno comune. Abbattere globalmente le emissioni di gas serra è quindi un problema di azione collettiva che rende necessario tenere a bada i free rider della diplomazia climatica ed evitare che la responsabilità condivisa dell’atmosfera esiti nella più classica tra le tragedie dei beni comuni, poi c’è anche da bilanciare i diversi interessi intergenerazionali che gravitano intorno allo stato del clima. Spiega Jamieson: “ogni generazione è incentivata a non controllare le proprie emissioni giacché trae da esse un beneficio, scaricandone peraltro i costi sulle generazioni successive. Inoltre, poiché ogni generazione (salvo la prima) soffre per le emissioni delle generazioni precedenti, beneficiare delle proprie emissioni nel presente può sembrare una giusta compensazione”. Come se ne esce? Secondo Jamieson i motivatori più potenti di cui disponiamo per risolvere i problemi di azione collettiva sono l’economia e l’etica, ovvero la ragion pratica e la ragion pura, che tuttavia si sono rivelate clamorosamente impreparate di fronte alle grandi questioni pragmatiche e morali poste dalla scoperta del riscaldamento globale.

Salvare il mondo con la ragione

La diplomazia climatica non funziona perché da una parte non riesce a convergere sul fatto che è nell’interesse economico futuro di tutte le parti in causa agire in maniera vigorosa nel presente, dall’altra perché si fonda su una filosofia morale obsoleta, incapace di tutelare gli enti di natura. Prendiamo la motivazione economica a ridurre le emissioni: chi s’impegna a decarbonizzare oggi sostiene un costo in cambio di un beneficio futuro. Qual è il valore attualizzato al presente di quel beneficio? Quanta utilità futura potremmo trarre da ogni dollaro investito in questo momento per mitigare il riscaldamento globale? E conviene decarbonizzare subito oppure tra qualche decennio, quando (forse) avremo tecnologie più efficaci, saremo tutti più ricchi e ridurre le emissioni ci costerà proporzionalmente meno sacrificio? Com’è ovvio non esiste una risposta univoca e insindacabile a questi interrogativi, così finisce tutto per dipendere dal tasso di sconto che si decide di adottare nelle analisi economiche: se i costi futuri del cambiamento climatico sono fortemente scontati, allora nel presente sono giustificati solo modesti investimenti per la salvaguardia del clima; ma se il tasso di sconto è basso, allora sono giustificate politiche aggressive”. Sull’entità del tasso di sconto da adottare per attualizzare i costi futuri del riscaldamento globale si contrappongono due scuole di pensiero: quella “descrittiva” di William Nordhaus e quella “normativa” di Nicholas Stern, (entrambi economisti e insigni cattedratici) Stern è più cauto e pessimista, la sua analisi contempla addirittura la possibilità che la razza umana possa anche estinguersi nel giro di qualche secolo. Nordhaus lo accusa di sporcare le sue considerazioni economiche con giudizi di valore sul rischio di un collasso ambientale e sulla disuguaglianza sociale tollerata, quando dovrebbe preoccuparsi del fatto che nella realtà attuale nessuno sembra davvero disposto a farsi carico di una drastica riduzione delle emissioni. I loro tassi di sconto differiscono al tal punto che l’imposta sul carbonio ottimale calcolata da Stern è di un ordine di grandezza maggiore rispetto a quella di Nordhaus. Dalla diatriba tra i due Jamieson conclude che la teoria economica non ha le risorse per fissare il tasso di sconto in un modo che risulti conveniente su una scala temporale rilevante per il cambiamento climatico. Detto altrimenti: la razionalità economica non è in grado di stabilire da sola quanto energicamente e tempestivamente agire contro il riscaldamento globale. Il fatto preoccupante è che nemmeno l’etica, la ragion pura, appare sufficientemente reattiva al clima che si scalda. Che la ragione possa essere fonte di una sensibilità morale lo diceva già Kant: non è necessario scrivere ciò che bene e ciò che è male su monumentali codici di pietra, dal momento che la ragione in sé ci permette di sentire il bene, e dunque di sceglierlo. John Rawls, (il filosofo morale più importante del Novecento), avrebbe poi chiamato questa capacità della ragione “senso intuitivo di giustizia”: di fronte a un dilemma morale, la maggior parte degli esseri umani avverte “naturalmente” quel che è più giusto fare. In ecologia il senso intuitivo di giustizia si manifesta per esempio nel disagio misto a dolore che possiamo provare al cospetto di una foresta d’alberi abbattuti, oppure alla vista della sofferenza degli animali macellati in un mattatoio. Il senso morale che si attiva per le emissioni atmosferiche di gas serra, però, non sembra destarsi con altrettanta efficacia e prontezza: gli sconsiderati spostamenti in aereo per una vacanza in una località esotica, per intenderci, non urtano ancora con la nostra sensibilità morale e dunque non li biasimiamo, così come il possesso di una grossa automobile, anziché disturbarci ed essere socialmente stigmatizzato, viene considerato un simbolo di status desiderabile. Neanche la violazione dei protocolli ambientali internazionali ci scandalizza poi così tanto, perché? Il senso di giustizia si è evoluto per regolare i rapporti tra gli esseri umani, in società a bassa densità e con accesso a risorse ambientali percepite come illimitate, perciò strumentalizzabili ed escludibili dal dominio della valutazione morale. Le responsabilità etiche si fermano così alle mura della polis, al di fuori delle quali vengono concessi la violenza e la depredazione nei confronti tutto ciò che non è umano, clima compreso. Per Kant è l’umano a essere il fine, con la natura sempre e comunque ridotta a mezzo, mentre nella nota “posizione originaria” di Rawls, dietro al fantomatico velo di ignoranza sulla propria posizione in società, troviamo un manipolo di umani che scelgono per se stessi i principi di libertà e uguaglianza: dei non-umani non c’è la minima traccia, Rawls non ne fa alcuna menzione nella sua teoria liberale della giustizia. Tra gli eticisti del clima c’è chi suggerisce di considerare il riscaldamento globale come violazione dei diritti umani, ma si tratta ancora un a volta di una proposta viziata di un antropocentrismo ormai vetusto, incline a salvaguardare il clima soltanto perché ad esclusivo vantaggio degli umani. Bisognerebbe al contrario estendere la responsabilità morale ai non-umani, conferire al clima e agli ecosistemi diritti protetti per legge, superare la concezione strumentale degli enti di natura e fare dell’ambiente il fine, non il mezzo o lo sfondo, della condotta umana. Volendo dare all’ecologia una definizione condivisibile, questa potrebbe essere una tra le migliori. A detta di Jamieson, i nostri progressi morali di fronte al clima che si scalda sono troppo lenti perché rimaniamo ancorati a un’etica climatica che lega la responsabilità al danno. Che la “causazione del danno” abbia un ruolo centrale nella concezione della responsabilità morale è un’idea messa in circolazione due secoli fa da John Stuart Mill, ma questo caposaldo dell’etica classica non pare del tutto capace di attagliarsi al riscaldamento globale. Per esempio: la responsabilità dell’emissione è in chi produce il combustibile fossile, in chi lo consuma o in chi ne rende legale l’estrazione e l’utilizzo? La consapevolezza di quanto i propri comportamenti possano inquinare l’atmosfera fa la differenza fra la responsabilità e la colpa, i mezzi a disposizione del singolo individuo tra l’emissione evitabile e quella inevitabile. La morale dovrebbe scattare automaticamente e farci percepire come scorretto quell’atto che comporta un danno ambientale maggiore rispetto a un’alternativa facilmente disponibile. Ma siamo ancora lontani da realtà morale del genere. Diceva Rawls che proprio come una teoria scientifica viene abbandonata quando non è più vera, una teoria politica e morale dovrebbe essere modificata quando non è più giusta. Le rivoluzioni nel campo dell’etica e della giustizia non sono poi così rare: una di queste ultime fu associata all’ascesa del capitalismo, ricorda Jamiesion. Quelli che in precedenza erano considerati vizi morali (per esempio, l’egoismo) furono ridefiniti e trasformati in virtù”. Oggi ci troviamo alle soglie di un nuovo rivolgimento: col clima che si scalda ci faremo tutti utilitaristi nel senso originario, più nobile e letterale del termine, che fa coincidere la giustizia con la massimizzazione dell’efficienza sociale e la minimizzazione del dolore, compresa però anche la sofferenza recata all’ambiente e al resto del vivente. Quale autorità si farà depositaria di una giustizia globale di questo tipo, finalmente emancipata dagli interessi specisti e improntata a quelle che lo stesso Jamieson chiama “virtù verdi”? Con ogni probabilità non sarà lo Stato-nazione, l’attore al centro della diplomazia climatica contemporanea, ma qualcosa di più vasto e di là da venire, eppure già nato in quegli stessi tavoli internazionali in cui si decide oggi il futuro del clima.

Un Leviatano per il clima

Lo Stato-nazione è un assetto politico utile a mantenere il pianeta vivibile oppure un ostacolo? Nell’ultimo trentennio la diplomazia climatica ha naturalizzato l’idea che debba essere la cooperazione interstatale a occuparsi del riscaldamento globale, ridotto così a problema di giustizia tra gli Stati, ma come fa notare lo stesso Jamieson “l’atmosfera non si cura dei confini nazionali e una molecola di diossido di carbonio ha sul clima lo stesso effetto ovunque venga emessa”. Ogni tentativo Stato-centrico di risolvere il riscaldamento globale si scontra quindi con la discrepanza tra l’autorità degli attori in gioco e la portata planetaria del problema che si pone. Sarebbe però sbagliato scorgere nel susseguirsi anodino delle COP per il clima la storia di un’ingloriosa disfatta, o almeno questo è ciò che pensano Geoff Mann (professore di economia politica alla Simon Fraser University di Burnaby, in Canada) e Joel Wainwright (geografo della Ohio State University) Nel loro Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico” (pubblicato anche questo da Treccani, nel 2019), avanzano un giudizio meno critico sulle COP per il clima e in particolare sull’accordo di Parigi, considerato l’atto di nascita di una nuova autorità sovranazionale per la regolazione e il controllo delle emissioni. Un “Leviatano climatico”, appunto, espressione dell’adattamento del politico al clima che si scalda. Quella del Leviatano è una figura biblica e mitologica che Thomas Hobbes ha introdotto in filosofia politica per designare la sovranità potente e terrifica dello Stato, cui viene conferita autorità dal contratto sociale stipulato dai singoli individui per sfuggire alla vita “solitaria, povera, brutale e corta” degli esseri umani in balia della natura. Il nuovo Leviatano immaginato da Mann e Wainwright è frutto invece del contratto sociale “verde” sottoscritto dagli Stati-nazione per costituire una forma di sovranità mondiale: un Leviatano di secondo grado insomma, capace di “governare un pianeta più caldo e di gestire gli inevitabili cambiamenti economico-politici che ne scaturiranno”. Di fronte a questioni planetarie come il riscaldamento globale, infatti, i rapporti tra Stati rimangono paralizzati dai principi secolari di sovranità e autonomia nazionale, che dalla pace di Westfalia del 1648 in avanti condannano le relazioni interstatali a una perpetua anarchia caratterizzata da reciproco sospetto, incessanti preparativi per la difesa (guerra) e, nella migliore delle ipotesi, una stabilità basata sull’egemonia”. L’idea di un regime cosmopolitico che sedi le tensioni e ricomponga gli interessi dei singoli Stati non è nuova: negli anni l’hanno sostenuta per le più diverse ragioni pensatori del calibro Kant, Russell ed Einstein, ma è stata anche osteggiata da chi, come Arendt, ne leggeva l’anticamera del totalitarismo. Secondo Mann e Wainwright le pressioni esercitate dalla crisi climatica spingeranno necessariamente verso la formazione di una governance transnazionale che “assuma il comando, dichiari un’emergenza e porti ordine sulla Terra, il tutto in nome della sopravvivenza umana”. Il nuovo Leviatano godrà di un’autorità tecnica che si pone al di sopra delle parti, le cementa in un’unità compatta ma artificiale, fonde politica e morale. Ricostituirà una sovranità di ordine superiore capace di coordinare gli investimenti, distribuire le capacità produttive e distruttive e tenere a bada i free rider”, con l’obiettivo di esercitare una governance mondiale in tempi climatici turbolenti. “Quando si tratta di clima, sarà lui a decidere, ed è precisamente a questo fine che viene costituito”. Se sarà giunto il momento di applicare un qualche progetto di geo-ingegneria, sarà il Leviatano climatico a stabilirlo. Non è chiaro quale forma politica possa assumere un’entità del genere, se sarà più simile alla “repubblica mondiale” sognata da Kant per la pace perpetua dei popoli o a un totalitarismo regolatore che applicherà in ogni dove provvedimenti aggressivi di sorveglianza e rigore. A giudizio di Mann e Wainwright molto dipenderà dal ruolo che sarà riconosciuto al capitalismo: sarà trattato come un problema oppure come la soluzione ai cambiamenti climatici? Il nuovo Leviatano avrà le sembianze di una tecnocrazia centralizzata e pianificatrice oppure di una coalizione climatica internazionale che demanderà proprio al mercato il compito di occuparsi della gestione del carbonio? Per i due autori l’alternativa ad oggi più realistica, la sola forse davvero possibile, è quella di uno “Stato globale keynesiano” che affronti il riscaldamento globale con una netta intensificazione delle misure già esistenti di regolazione politica del libero mercato – sussidi alle energie rinnovabili, stimoli governativi e green new deal, tassazione del carbonio, mercato dei permessi di emissione, sistemi di compensazione e altre politiche climatiche oggi per la maggiore. Negli ultimi anni questo “keynesianismo verde planetario” ha incontrato il favore di araldi di spicco tra i quali gli economisti Thomas Piketty, Joseph Stiglitz e il già citato Nicholas Stern, ma anche di intellettuali influenti come Naomi Klein o di profeti discutibili come Jeremy Rifkin. Per Mann e Wainwright la ragione di una tale egemonia va rintracciata nella promessa di un miracolo: articolare una trasformazione rivoluzionaria senza una rivoluzione”, azzerare le emissioni senza pregiudicare la crescita del capitale. Cambierà tutto, ma in modo incruento, con la sensazione diffusa che non sarà mutato alcunché di rilevante. Anche Jamieson appare concorde nel ritenere il riformismo ambientale di uno Stato globale keynesiano la migliore delle opzioni sul tavolo, quando chiude il suo saggio raccomandando sette priorità politiche, tre principi di governo e un’azione immediata per evitare un cambiamento climatico catastrofico – un programma minimo di misure per salvare la Terra, o almeno per rendere il riscaldamento sostenibile. Congetture? Forse. Ma il prossimo primo novembre, a Glasgow, si passa ancora una volta dalla teoria alla pratica, e toccherà scegliere per davvero una linea etica ed economica comune a tutte le nazioni contro il clima che cambia.

sabato 10 luglio 2021

Il "Saggio" del mese - Luglio 2021

 

Il “Saggio” del mese

 LUGLIO 2021

Come evidenzia con lucida esattezza Enrico Donaggio (Docente di Filosofia della Storia presso l’Università di Torino) nella sua post-fazione al saggio scelto per questo mese il concetto di “lavoro” è di relativa recente adozione. E’ infatti solo con la Modernità occidentale che si assiste alla “invenzione del lavoro”, alla messa in evidenza come specifica entità a sé stante dell’attività che per millenni, senza neppure il diritto ad un nome proprio, era stata relegata in una sorta di zona d’ombra della società popolata da servi, schiavi, animali. Da lì in poi il lavoro è assurto, con innegabile evidenza, a componente fondamentale della società, come “entità economica” e soprattutto come “condizione esistenziale” per tutta, o quasi, l’umanità prima occidentale e poi universale. Ed il “lavoro” ha così occupato da allora in poi un ruolo centrale in tutte le discipline che analizzano, mirando a governarla, la vita economica, sociale e politica. In questo quadro un’attenzione specifica è da sempre stata indirizzata alle “forme del lavoro”, alla sua concreta articolazione in un contesto sempre più costituito dalle logiche dell’economia capitalistica di mercato e dalla applicazione, da queste ispirata, delle innovazioni tecnologiche alle modalità produttive. Il saggio di questo mese di Luglio si muove in questo ambito concentrando in particolare la sua attenzione sulle due forme che hanno caratterizzato il lavoro nell’ultimo secolo: quella del “taylorismo/fordismo” e quella della “globalizzazione neo-liberista


Danièle Linhart (Docente di Sociologia presso l’Università di Parigi)


partendo dalla innegabile constatazione della disumanità del lavoro nelle “catene di montaggio) e passando poi a quella che definisce la “super-umanizzazione” di quello individualizzato dell’economia neo-liberista propone una lettura fortemente critica di una trasformazione a suo avviso tutt’altro che disinteressata e positiva. In questa sintesi percorreremo le considerazioni che a suo avviso giustificano il giudizio che anticipa fin dal risvolto di copertina:

Per l’ideologia oggi in voga la disumanità del lavoro taylorista e fordista ha semplicemente smesso di esistere. Non c’è posto per lavoratori alienati e sfruttati, per un lavoro devastante, senza senso né anima, nella grande narrazione del neoliberismo. Qui dominano soltanto il benessere psicofisico, la partecipazione emotiva ed etica, l’espressione e la conquista di sé, insomma l’autonomia e la felicità di chi produce e consuma. Ma questa maniera apparentemente più umana di far lavorare i propri dipendenti altro non è che un dispositivo manageriale che, con mezzi e retoriche diversi, persegue ostinatamente gli stessi obiettivi del taylorismo e del fordismo: la sottomissione e l’assoggettamento. Attraverso la riduzione dei lavoratori non più a pezzi di un ingranaggio, ma a individui soli e vulnerabili, troppo e nient’altro che umani, incitati alla competizione, all’autosfruttamento e alla servitù volontaria. Una continuità d’intenti e ossessioni che le classiche letture del post-fordismo spesso mancano di cogliere.

Prima di addentrarci nel testo della Linhart ci è però sembrato utile ritornare ad alcuni chiarificatori passaggi della già richiamata post-fazione di Enrico Donaggio


Donaggio evidenzia, così come Piketty per definire il concetto di “ideologia”, che anche il concetto di “lavoro” è percepito in modo diffuso e consolidato grazie a “narrazioni”, a modi diffusi di raccontarlo e definirlo che, in ogni specifica fase storica, di esso mettono in luce e diffondono i tratti percepiti, in quel contesto, come quelli principali. Ciò è avvenuto fin dal Settecento, nella fase storica occidentale in cui, come si è visto, di “lavoro” si inizia a parlare. Ed è avvenuto da subito con una frontale contrapposizione, quella fra Denis Diderot (1713-1784, filosofo ed enciclopedista francese, uno dei massimi rappresentanti dell’Illuminismo europeo) e Adam Smith (1723-1790, filosofo ed economista scozzese, da molti definito il padre dell’economia capitalistica classica). Riflettendo il primo sul modo concreto di lavorare in una cartiera ed il secondo su quello di una fabbrica di spilli entrambi si chiedono se il nuovo modo di lavorare manifatturiero sia un passaggio positivo per l’uomo. Diderot risponde di si, la ripetitività del gesto lavorativo esenta dal pensare, e l’assenza di pensiero è, stranamente,  per l’enciclopedista il ….. più umano dei doni ….. Paradosso per paradosso per Smith è l’esatto contrario: la routine produttiva istupidisce e porta alla morte intellettuale ….. chi spende tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni diventa tanto stupido ed ignorante come può esserlo un essere umano …. La definizione di padre dell’economia classica sta in questo caso molto stretta per Smith, in questa sua considerazione si rintraccia infatti una delle prime, e più feroci, critiche del lavoro capitalistico. Ed un’altra sua frase, ripresa dallo stesso Marx, approfondisce vieppiù il giudizio …. tra un facchino ed un filosofo la natura ha messo meno differenza che tra un mastino ed un bracco ….. Intendendo con ciò che le differenza fra gli uomini, resi simili dalla natura, poggiano proprio sulla diversità del lavoro svolto. Di lì a poco una seconda contrapposizione aiuta a comprendere il contrastato intrecciarsi di narrazioni del lavoro: da una parte Andrew Ure (1778-1857, medico scozzese, consulente commerciale della “Confindustria” inglese del tempo) che, analizzando i costi di produzione della manifattura dei primi dell’Ottocento, evidenzia come quello umano, ed in ispecie quello minorile e femminile, ha il vantaggio non trascurabile di costare molto meno di quello delle macchine. Un considerazione così cinica da far inorridire Friedrich Engels nel suo famoso testo del 1845  “La situazione della classe operaia in Inghilterra”. Il Novecento occidentale con la definitiva e totalizzante realizzazione del lavoro conferma poi l’intrecciarsi contraddittorio di due narrazioni in apparenza inconciliabili, quella di esaltazione e quella di condanna del lavoro capitalistico. E’ proprio nelle pagine di due sensibilissimi osservatori novecenteschi che si possono ritrovare gli elementi di una narrazione che spezza definitivamente questo intreccio mettendo a nudo l’errata convinzione marxista che il lavoro, proprio perché reso crudele dalle logiche di profitto, sarebbe divenuto la molla per la ribellione dei lavoratori aprendo così la strada ad una nuova umanità. Simone Weil (1909-1943, filosofa francese) nel suo “La condizione operaia”, scritto sulla base di una sua concreta esperienza lavorativa in una fabbrica fordista, evidenzia con disillusa lucidità che non di ribellione si può parlare, ma di …… docilità rassegnata, mansueta, disumana …… e Werner Sombart (1863-1941, sociologo tedesco, uno dei più importanti scienziati sociali europei del Novecento) riflettendo sull’american way of life coniuga una formula tanto sarcastica quanto impietosa ….. davanti al roast beef e alla torta di mele l’utopia socialista va in fumo …. E’ in questa desolante constatazione che si apre la breccia per una nuova narrazione del lavoro, un racconto che però non parte più “dal di dentro la fabbrica” ma “all’uscita da essa”. Fino a divenire la base del compromesso che ha retto buona parte dei “Trenta gloriosi”, il trentennio occidentale di massima espansione produttiva, e dell’affermarsi del consumismo anche grazie alla positiva incidenza dello Stato sociale. ….. accettazione del lavoro disumano in cambio di consumo di merci ….. Poi verso la fine del Novecento in questa breccia si insinua una nuova narrazione, proprio quella analizzata dalla Linhart in questo suo saggio

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Capitolo 1 = Viaggio nel paese di imprenditori di uomini

A ben vedere la molla che sembra aver messo in moto la grande trasformazione, prima ideologica e poi concretamente attuata nella realtà produttiva, avvenuta verso la fine del XX secolo è riconducibile ad un conciso slogan “ottimizzare le risorse umane”. Una operazione che si è da subito vestita con il pretenzioso abito di una “rivoluzione umanistica” ispirata da un declamato ideale …… mettere l’uomo al centro del modello …… peccato però che, come meritata ricompensa, quest’uomo è bene che……. si impegni a fondo secondo i metodi propri di questo modello ….. La scelta dell’accattivante titolo del saggio trova già qui, in queste prime frasi, la sua spiegazione: il richiamo alla “Comédie humaine” di Balzac poggia sull’evidenza che la narrazione mainstream di un neo-liberismo idealisticamente votato a liberare, difendere e valorizzare, le potenzialità umane del lavoratore altro non è che una sfacciata “commedia”, “umana” perché ha al suo centro una precisa concezione dell’uomo. Daniéle Linhart, a lungo Direttrice del settore del CNRS (Centro Nazionale Ricerche Sociali) francesi preposto allo studio dell’evoluzione delle forme lavorative fornendo consulenze alle maggiori imprese francesi,  partecipando a moltissime iniziative e dibattiti, e inter-agendo con numerosi “Responsabili delle risorse umane” (in precedenza più prosaicamente “Direttori del personale”) ha  maturato sul campo le sue considerazioni sulla svolta “umanistica” avvenuta a cavallo del millennio nei modi di intendere il “lavoro” e nella loro concreta applicazione. Una svolta che è stata dettata dal superamento del modello fordista di produzione e di organizzazione aziendale, reso possibile dall’avvento di automazione, robotica, informatizzazione e Intelligenza Artificiale, e che si è sviluppata in stretto rapporto con l’ideologia neoliberista ed il suo porre “l’individuo” al centro dell’intero sistema sociale ed economico. Lo studio, “dal di dentro”, di questo processo le ha consentito di fissare in particolare alcuni stadi lungo i quali esso si è articolato. Un primo stadio, deliberatamente teorizzato come fondamentale premessa, consiste nel …… produrre amnesia …..Occorre cioè che “la risorsa umana” dimentichi chi era prima di entrare nel modello umanista di produzione e, se già lavorava, come e perché lavorasse. Una operazione traducibile con il termine di derivazione informatica “reset totale”. La memoria, base sulla quale più o meno consapevolmente, ogni individuo costruisce l’immagine di sé, la propria personalità, può infatti rappresentare ….. un’arma potente di resistenza ….. Questa risorsa umana, resa così potenzialmente libera da pregiudizi e resistenze, è a questo punto nella condizione ideale per entrare nel secondo stadio e divenire, con termini più volte letteralmente usati dai “responsabili delle risorse umane”: …… un militante incondizionato dell’impresa ….., vale a dire un dipendente totalmente pronto ad aderire alla “mission aziendale”. Sarebbe un errore ritenere che questa adesione sia in qualche modo imposta, resa obbligatoria con pressioni e minacce. Al contrario, ed è questo il terzo stadio, essa è resa lo sbocco naturale di una sorta di premurosa benevolenza verso la componente esistenziale della risorsa umana, la quale deve poter così sviluppare l’idea di essere “visto e trattato” come persona nella sua completezza. Il modello umanista, ben consapevole che divenire militanti incondizionati dell’impresa è operazione che assorbe l’intera personalità del dipendente, punta quindi a dare l’impressione di essere attento e disponibile a rimuovere ogni fonte di inquietudine, di disturbo, persino quelle che rientrano nelle singole sfere private. Rientra in gioco il primo stadio: la produzione di amnesia. Se si esige molto dai dipendenti e se questi inevitabilmente portano con sé un bagaglio di fattori esistenziali “interni ed esterni” che possono essere di freno alla metamorfosi diventa allora utile fornire una serie di “aiuti e sollievi”, tramite servizi di vario genere (asili e ambulatori aziendali, convenzioni con fornitori di beni e servizi, assicurazioni integrative, il cui costo, va da sé, rientra nel conteggio salariale globale) che facciano il più possibile dimenticare tali fattori ….. ridando così spazio e tempo alla totale immersione nella missione aziendale …. Ed è anche attraverso questo stadio che si sono così creati i presupposti per il quarto stadio: quello del …… patto di fiducia …… quello che deve costantemente essere alla base del rapporto fra impresa e dipendente. Quest’ultimo deve avere sempre la certezza di un quadro di relazioni, nel dare e nel ricevere, basato sulla reciproca totale fiducia del rispetto dei reciproci impegni. Un percorso così complesso, articolato, impegnativo di costruzione di un rapporto di lavoro che pone al suo centro il lato umano dei dipendenti non si costruisce in tempi brevi, ma ha richiesto e ancora richiede, un costante perfezionamento, una continua messa a punto, che chiama in causa competenze anche extra azienda. Ad esempio più volte si è letto di convegni aziendali con ospiti d’onore militari di alto livello, sportivi e personaggi pubblici di gran successo, per non dire di religiosi e missionari. Ognuno di queste “competenze”, in apparenza lontanissime dalla dimensione aziendale, portavano testimonianze facilmente leggibili di impegno, dedizione, concentrazione sugli obiettivi, gioco di squadra, fiducia reciproca, attenzione alle esigenze altrui. Tutte componenti rintracciabili nei quattro stadi sinteticamente tracciati dalla Linhart e tutte utili a formare un dipendente “imprenditore di sé stesso” pienamente votato alla missione aziendale. Il contraltare di questa presunta umanizzazione del lavoro è però rappresentato dalla cancellazione di una componente del lavoratore che storicamente era ritenuta centrale, fondamentale ….. la sua professionalità ….. Entra ancora una volta in gioco il peso delle trasformazioni tecnologiche applicate alla produzione, al lavoro in genere, che si sono grazie ad esse …… proceduralizzati …. Trasformati cioè in sequenze procedurali determinate da algoritmi e complementi automatizzati, nelle quali l’apporto professione è già calcolato, prefissato, smettendo così di essere una variabile in grado di incidere. Umanizzazione e proceduralizzazione hanno cioè resa obsoleta ….. la professionalità dei dipendenti, la loro etica professionale, il loro istinto a dare al lavoro la loro impronta, di riconoscervisi …… L’impresa è in questo modo divenuta un luogo in cui le uniche vere e decisive competenze sono nella sfera delle alte dirigenze, sono loro i veri attori del sistema, di fronte a loro, in un ruolo che solo un inganno creato ad arte, come in una commedia, può far percepire come “da protagonista” non ci sono che ….  persone con fragilità, desideri, sogni, paure, ambizioni, ricerca di riconoscimento, spirito di competizione ….. riconosciute cioè nella loro umanità, ma in questa stessa abbandonati perché resi più fragili avendo dismesso i panni del “professionista” per vestire quelli del “collaboratore”. Ai margini dell’esclusione della disoccupazione finiscono quelli già lasciati indietro dalla marginalità sociale e dal mancato accesso ai percorsi formativi, ma anche quelli che non si adattano a rientrare in questa umanizzazione del lavoro. Tutti però, nella vulgata neo-liberista, hanno perso perché non hanno saputo, o peggio ancora non hanno voluto, combattere. Ritornano allora ancora attuali le parole di Etienne de la Boétie (1560-1563, filosofo francese) che nel suo “Discorso della servitù volontaria” scriveva …… fintanto che hanno qualcosa di umano per lasciarsi assoggettare gli uomini devono essere stati o costretti o ingannati…..

Capitolo 2 = La grandezza del taylorismo e del fordismo. Dalla volontà di potere al potere della volontà

Questa costruzione di un nuovo modo di concepire ed organizzare il lavoro, non diversamente da quanto è storicamente sempre successo, si è consolidata strada facendo in una “narrazione” ideologica, volta al tempo stesso a giustificarla e a rafforzarla in modo diffuso. Questa narrazione si è basata su una fondamentale premessa: la critica alla innegabile disumanità della precedente “forma lavoro” tayloristica e fordista imponeva per contrappasso una svolta in senso  “umanista” del modo di concepire il lavoro. Una dichiarazione di intenti tanto lodevole quanto smentita alla prova dei fatti, come si visto nel precedente Capitolo 1. Ma come inaggirabile punto di partenza della nuova narrazione va comunque esaminata nelle sue forme e nella sua sostanza. Partendo da un raffronto con quelle messe in atto da taylorismo e fordismo, per meglio cogliere similitudini e diversità. E’ bene evidenziare che un adeguato esercizio critico nei confronti di taylorismo e fordismo è un’operazione culturale ancora da completare, essendo solo recentemente divenuto più approfondito nella stessa sinistra sindacale e politica occidentale. A lungo infatti anche a sinistra le pesanti condizioni lavorative ad essi connesse sono state in qualche modo accettate, se non apertamente giustificate sull’altare di un’idea di “progresso” ininterrotto in grado di ridurre povertà e di garantire …… regole scientifiche, e non più arbitrarie, di erogazione del lavoro- ….. A maggior ragione quindi è bene ripercorrerne i capisaldi teorici. Frederick Taylor (1856-1915, ingegnere ed imprenditore statunitense) mette a punto, verso la fine dell’Ottocento, un sistema di organizzazione della produzione industriale, che da lui prenderà il nome, sollecitato da una precisa constatazione: il rapporto di lavoro “classico” prevedeva la cessione di ore di lavoro ma di fatto lasciava al lavoratore, ed alla sua professionalità, le modalità concrete di erogazione della prestazione indipendentemente dai macchinari utilizzati. Per ottenere un reale aumento di produttività era quindi fondamentale immaginare un sistema di produzione capace di “espropriare” questa prerogativa e di estrarre dalle ore di lavoro il loro massimo potenziale. Il titolo del libro di Taylor, “L’organizzazione scientifica del lavoro”, pubblicato nel  1911, indica  chiaramente il fattore decisivo utilizzato per ottenere tale risultato; la scienza, la tecnologia. Si tratta di una autentica rivoluzione resa possibile dalla preliminare radicale trasformazione del “datore di lavoro”, chiamato a smettere il ruolo di “finanziatore” fin lì in gran prevalenza esercitato per assumere quello di “ingegnere” a capo della “direzione della produzione”. Un ruolo che si traduceva nello studio analitico di ogni gesto lavorativo, di ogni passaggio di lavorazione, per coglierne l’essenza e renderla “scientificamente” ottimizzabile grazie all’adozione di specifici accorgimenti tecnologici ed organizzativi. L’idea di fondo di Taylor è quindi consistita ……. nell’interporre la scienza, grazie alla tecnologia, nel vivo del rapporto tra dipendenti e datori di lavoro ….. Si comprende allora bene il suo negare ogni qualsivoglia risvolto politico del cambiamento, restando centrale la valorizzazione della dimensione tecnica resa possibile da una “scienza” neutra ed oggettiva ….. la direzione  non è autoritaria e arbitraria quando si fonda sulla scienza …… Ma fin da subito questa nuova modalità di produrre si carica, nelle stesse parole di Taylor, di una valenza etica, di un di più valoriale che investe in modo positivo l’aspetto umanistico del lavoro. Se quel che, prima, era buono per gli operai non lo era per il bene comune fino a frenare le potenzialità di sviluppo e crescita dell’economia, la nuova “organizzazione scientifica del lavoro” apriva prospettive di miglioramento produttivo in grado di creare nuovi posti di lavoro, nuova ricchezza per tutti, nuovo progresso sociale. Il risultato storico concreto ha in effetti confermato straordinari aumenti di produttività e l’immissione nel mondo della produzione di fabbrica di consistenti nuove masse di lavoratori, spesso provenienti dal sempre più marginale settore agricolo, consentendo anche maggiori consumi generalizzati. Ma ha evidenziato, vista dalla parte dei lavoratori, una terribile contropartita ……. il totale spossessamento della padronanza del lavoro ….. Il rivoluzionario modo di produrre di Taylor è infatti sostanzialmente riducibile all’aver trasformato …..gli operai di mestiere in semplici esecutori ….. in parte risarciti nella veste di  consumatori. Sulla strada tracciata di Taylor si inserisce, a suo ulteriore compimento, l’organizzazione dell’impresa e della produzione ideata da Henry Ford (1863-1947, imprenditore statunitense fondatore dell’omonima casa automobilistica). Nel 1913, due anni dopo la pubblicazione del libro di Taylor, Ford, assimilata in pieno la sua filosofia produttiva, introduce un ulteriore elemento innovativo: la catena di montaggio. Un’idea tanto semplice quanto, dal punto di vista della produttività, geniale che Ford riassume con queste parole ….. portare il pezzo da lavorare agli uomini e non più il contrario, così che un operaio non deve mai fare più di un passo e non deve mai piegarsi ….. L’incremento di produttività è spettacolare, del 70%, ma ancora una volta a prezzo di un ancor più pesante deterioramento delle condizioni di lavoro. I ritmi di lavoro imposti dalla catena, l’impossibilità di muoversi dal posto, la ripetitività ossessiva delle operazioni, diventano una sorta di incubo per i dipendenti, al punto che la malattia nervosa che ne consegue, splendidamente rappresentata da Chaplin in “Tempi moderni”, era da loro chiamata “fordite”. I ritmi di lavoro alla base di tale successo produttivo implicano un ricambio impressionante, e produttivamente penalizzante, della manodopera con un tasso di rotazione che arriva a toccare punte del 380%. Le misure adottate da Ford per contrastare queste complicazioni danno il segno più maturo della sua innovativa visione sociale: aumenti salariali, la paga giornaliera è raddoppiata, giornata di otto ore di lavoro, scavalcamento della rappresentanza sindacale, ma soprattutto controllo totale del modo di vita degli operai. Riprendendo le pratiche del “capitalismo filantropico” europeo (per il quale lo stabilimento era il centro dell’intera vita comunitaria grazie al nascere attorno ad esso di  quartieri con scuole, mense, chiese, oratori, negozi e servizi, centri dopolavoristici) Ford attua una fitta rete di strutture di controllo dell’intera “umanità” dei suoi dipendenti, ispirata tanto da pervasività che da nascondimento …… dirigere l’impresa implica una capacità di gestire l’intera dimensione di vita tenendola al contempo nascosta ….. In questa si inserisce la scelta di creare, a livello di direzione aziendale, un apposito dipartimento antesignano delle attuali “gestione delle risorse umane”, che negli anni Trenta si evolve in un corso specifico di laurea, l’Harvard School of Business Administration, che forma il quadro dirigente dei servizi di direzione e del personale. Un altro decisivo aspetto che conferma le intuizioni “moderne” di Ford è l’attenzione dedicata alla comunicazione: nasce il giornale di impresa che arriva ad una tiratura di 700.000 copie. Ford aveva in sostanza capito che un’organizzazione della produzione così esasperata e impattante necessitava di un supporto, per nulla secondario, di tipo “umanistico”, il quale da subito assume la veste del “paternalismo aziendale” finalizzato a creare consenso e a vigilare sulle condizioni di sostentamento, fisico e spirituale, della forza lavoro. (Per molti di noi, restando in ambito locale, queste caratteristiche del “fordismo” richiamano alla memoria quelle, per molti versi identiche e spesso vissute direttamente, adottate a partire dagli anni trenta nelle più grandi industrie torinesi a partire dalla Fiat). Un riconoscimento della forza attrattiva della visione taylorista e fordista viene dallo stesso campo avverso della sinistra mondiale: prima Lenin e poi Stalin sono affascinati dai livelli produttivi così raggiunti tanto da impiantare, ma con inevitabile minore efficacia gestionale, anche nella Russia sovietica “l’organizzazione scientifica del lavoro”. E lo stesso Gramsci, paradossalmente non cogliendo appieno il peso della “egemonia culturale” connesso al taylorismo e fordismo, si è limitato a criticarne la sola ripartizione dei benefici. E su questa linea si è sostanzialmente mosso per quasi tutto il Novecento anche il movimento sindacale sia statunitense che europeo. Eppure nelle pieghe minime di questa organizzazione scientifica così minuziosamente attenta ad ogni singolo dettaglio lentamente si insinua l’insopprimibile tendenza dei dipendenti di riprendersi spazi di professionalità, di abilità lavorative individuali, di capacità di mettere a nudo limiti e problematiche del modo di lavorare, ben testimoniati dalle esperienze di “sciopero bianco(una rigorosa applicazione di consegne, norme, prescrizioni che altro non produce che il blocco della stessa catena di montaggio). E’ un sotterraneo ripresentarsi di tratti di umanità sul posto di lavoro, il cui contraltare negativo, non essendo in grado di tradursi in una completa alternativa, è però consistito nella capacità delle direzioni tecniche d’impresa, sempre più scientificamente strutturate, di riappropriarsi subdolamente, ossia senza riconoscerne il merito, di queste pratiche migliorative. Per Taylor e Ford, e per tutte le imprese che hanno adottato la loro “organizzazione scientifica del lavoro” l’imperativo è sempre stato lo stesso …. gli operai devono comportarsi in rigorosa conformità ai modelli operativi e devono aderire all’idea di comportamenti anche sociali fissati dalla gerarchia …..

Capitolo 3 = Lavoro. Morale e felicità: un nuovo modello manageriale

Nuove ed ancor più efficienti innovazioni tecnologiche hanno accelerato, rendendola tecnicamente possibile, la crisi del modello di lavoro tayloristico e fordista che nel secondo dopoguerra, nei decenni (50-60-70) passati alla storia come i “gloriosi trenta”, aveva raggiunto l’apice delle sue potenzialità in termini produttivi e di controllo sociale. Le sofferenze, non solo fisiche, tipiche di tale modello di lavoro sono in gran misura state consegnate alla storia, ma altre, non meno pressanti, sembrano averle immediatamente rimpiazzate. Una prima innegabile considerazione si impone: l’organizzazione tayloristica/fordista del lavoro, per quanto ferocemente invasiva, ha sempre costituito per i lavoratori una reale dimensione collettiva. Grazie alla rete delle rappresentanze sindacali, alla condivisione oggettiva di situazioni produttive comuni, ancora per tutti i gloriosi trenta ha sempre avuto senso ragionare in termini di “lavoratori al plurale”. La prima fotografia indicativa del nuovo modo di lavorare mette invece a nudo una verità opposta…… la solitudine del lavoratore ….. Certo non mancavano in taylorismo e fordismo pratiche che miravano all’individualizzazione ma la l’insopprimibile dimensione collettiva dell’intero ciclo produttivo restava un aspetto centrale. Ed infatti solo a metà degli anni Settanta, in stretta relazione con l’introduzione di differenti modalità produttive, rese possibili dalla automatizzazione robotica ed dalla informatizzazione, iniziano ad emergere le condizioni per vedere nell’individualizzazione la dimensione lavorativa alla quale tendere. Ed è in questo quadro che prendono piede processi e fattori a ciò finalizzato: orari variabili, polivalenza delle mansioni, sistemi di incentivazione e promozione, introduzione di logiche di mercato lungo la catena di montaggio  …… ogni lavoratore deve considerarsi il cliente di chi lo precede ed il fornitore di chi lo segue ….. In questa crescente dimensione individualizzata il lavoratore sempre più deve reggere da solo il peso concreto del lavoro e sempre più da solo deve misurarsi con le ”offensive ideologiche” che accompagnano le trasformazioni organizzative. Le quali si sono sempre più tradotte in accentuata scomposizione del quadro delle mansioni, contrazione delle qualifiche classiche e parallelo incremento di quelle addette ai settori “dei servizi”, innalzamento del livello di istruzione, frammentazione delle mansioni lungo l’intera filiera di lavorazione, producendo di conseguenza una atomizzazione molto accentuata dei ruoli lavorativi. Non a caso nell’immaginario collettivo, bel oltre la reale situazione produttiva, parlare di lavoro si è sempre meno riferito a quello “operaio”, ossia il lavoro collettivo per eccellenza, e sempre più ha visto spostarsi l’attenzione alla miriade di qualifiche, in continua evoluzione, del settore dei servizi, fino a coinvolgere lo stesso non meno variegato mondo dei quadri dirigenti. L’esperienza decennale sul campo della Linhart, di cui si è detto in precedenza, avvenuta propria a partire dalla fine degli anni Settanta in piena coincidenza con il concretizzarsi di questo processo, le ha consentito di schematizzarlo in alcuni passaggi esemplari. Il primo, avvenuto all’indomani delle sconfitte dei grandi movimenti di lotta degli anni Sessanta e Settanta, è consistito nel recupero dell’immagine aziendale, della narrazione del ruolo dell’impresa presentata come una vera e propria comunità, i cui organigrammi non hanno più la classica struttura piramidale ma raffigurano al vertice…… il mercato, il cliente ….. l’obiettivo al quale tende una articolazione orizzontale dell’impresa con fianco a fianco la Direzione, i quadri e la manodopera. A questo recupero idealizzato dell’impresa è poi seguito, negli anni Novanta, la profusione di codici etici e deontologici, delle regole comuni di vita lavorativa, finalizzati a definire i corretti comportamenti del …… dipendente virtuoso …. Ed  infine a chiudere il cerchio una successiva fase nella quale la narrazione ha mirato a saldare definitivamente il rapporto tra mission aziendale e soddisfazione personale del dipendente: …… le esigenze in termini di lavoro, di impegno, di disponibilità permettono al singolo dipendente di soddisfare le sue stesse aspirazioni professionali …… Il lavoro diventa in questo modo il terreno in cui misurarsi per far vedere, avendolo innanzitutto personalmente scoperto e messo alla prova, il proprio valore. Non stupisce più di tanto che un’operazione ideologica così complessa ed articolata abbia seminato per strada non poche vittime: gli over 50 per primi. Troppo influenzati dalla ideologia precedente che fissava, al di là della retorica paternalistica, una netta separazione fra dipendente ed impresa non erano materiale umano convertibile al nuovo. Le vaste campagne di pre-pensionamenti, di incentivazione all’uscita dal lavoro altro scopo non hanno avuto che di far entrare nel ciclo lavorativo materiale umano nuovo e più formabile: i giovani. Sono innumerevoli gli studi che evidenziano la loro fisiologica maggiore ricettività delle nuove sfide, la disponibilità ad accettare orari ed impegni diversificati visti come premessa per mettersi alla prova, ad immergersi in un continuo mutare di incarichi, di spostamenti, di responsabilità, di sovraccarico di lavoro. In cui ognuno fa corsa a sé anche se si è collocati in spazi, i mitici …. open space ….. che paradossalmente propongono un’immagine di condivisione, di gioco di squadra. Ed all’interno dei dipendenti giovani una attenzione specifica in più proprio ai quadri dirigenti, la componente aziendale che di più deve essere la forza d’urto nella battaglia sul mercato. Sono queste le qualifiche che di più consentono di misurare a quali livelli sia giunta l’identificazione del successo individuale con il buon andamento aziendale, si potrebbe proprio dire che …. l’ideale di questi quadri ed il quadro aziendale ideale mostrano una totale somiglianza  …. Ma è un gioco infernale in cui il giovane quadro aziendale si illude di restarne padrone. Ma non è così: l’elenco di chi perde è straordinariamente molto più lungo di quelli che, almeno per un poco, sembrano vincere. Tutti sono comunque accomunati da una situazione esistenziale in cui è la sofferenza a prevalere, una sofferenza per nulla diversa da quella, seppur originata da condizioni lavorative diverse, che investiva i dipendenti nella precedente forma lavora tayloristica e fordista. ….. negli open space tutti sono immersi in una dura concorrenza, tutti sorvegliano tutti e sono a loro volta sorvegliati ….. Non esattamente un’isola felice. L’autonomia individuale che inizialmente poteva sembrare una sorta di ideale di successo alla lunga genera inquietudine, angoscia, dubbio di sé, mancanza di fiducia negli altri. Se il quadro esistenziale del lavoro racconta una sua mutata dimensione  non sembra, come contraltare, che si sia realizzata una corrispondente autentica rottura con il passato dei criteri di fondo di organizzazione del lavoro. Non sono infatti mutati i capisaldi della struttura aziendale che mantiene una separazione rigorosa tra il lavoro di “concezione”, riservato al “management”, e quello di “esecuzione”, affidato al resto dei dipendenti, e allo stesso modo sono rimasti fermi i principi economici “dei costi e dei tempi” quali base di valutazione di ogni fase lavorativa. Semmai sono i dipendenti stessi che devono definire i modi per applicarli al mutare delle situazioni concrete di lavoro utilizzando in prima persona tutti gli strumenti messi a punto a tal fine: ad esempio budget, tempi, margini di errore, livelli di stock, individuazione fasi morte. Sono, a ben vedere, gli stessi identici principi della tayloristica “organizzazione scientifica del lavoro”. Questo coinvolgimento attivo nella produzione è quindi in gran prevalenza il risultato di tutte le pratiche ideologiche messe in atto per far coincidere dipendente e mission aziendale. E quando queste non sono ancora state compiutamente assimilate interviene un formidabile concreto strumento di pressione: “la precarizzazione”, la sensazione trasmessa al dipendente di essere costantemente sul filo di rasoio. Lo sono per ovvia definizione i dipendenti con contratti a termine, se vogliono sperare in un rinnovo o addirittura nel passaggio a tempo indeterminato. Ma lo sono anche quelli che già “stabilizzati” restano comunque sotto la spada di Damocle di possibili cambiamenti peggiorativi. La realtà abituale del lavoro odierno è infatti costituita da un insieme di prassi che mirano esattamente a creare questo senso di precarietà: ristrutturazioni e riorganizzazioni incessanti, ricomposizione dei mestieri, fusioni, esternalizzazioni e re-internalizzazioni, mobilità sistematica, cambiamento continuo di strumenti informatici e procedure lavorative. E’ un’onda costante che genera stress e paure …. tutti i dipendenti non si sentono più a casa nel loro lavoro, nella loro impresa, con i loro colleghi, l’ambiente naturale è quello del cambiamento perpetuo ….. Il primo tratto distintivo del lavoratore che viene minato fino al suo totale annullamento è la sua professionalità, la somma delle sue precedenti esperienze lavorative. L’acquisito possesso di un mestiere, di una specifica capacità lavorativa non viene più considerata una dote, sostituita dal possesso di una prerogativa al tempo stesso più ampia e meno definita…… la competenza ….. quasi sempre traducibile in …. attitudine, capacità di adattamento, saper essere ….. Poco importa che privare il dipendente della professionalità significa di fatto sottrargli una parte decisiva della sua identità lavorativa, quello che conta è acquisire adeguata certezza della sua ….. adesione umana prima ancora che professionale …… agli obiettivi aziendali. Ed è questa la dote, la propensione, che viene valutata anche nei percorsi di selezione del personale da assumere, là dove i curricula sono scorsi per individuare non tanto specifiche abilità professionali ma il personale spirito con cui sono state vissute esperienze lavorative precedenti. Ed è in questo insieme concatenato di processi e strategie che consiste, in sintesi, la proclamata …… umanizzazione del lavoro ……, ossia, se spogliata della sua retorica ideologica, la ….. commedia umana del lavoro ….. Vale a dire che, quando professionalità e identità professionale sono di fatto negate, il dipendente è ridotto nella sua nuda umanità, con il carico di timori, di stati di pressione, di incertezze che, come si è visto, il clima diffuso e costante di precarizzazione accentua a dismisura. E che quindi, in continuità ideologica con taylorismo e fordismo, anche nella attuale fase neo-liberista si sono mantenute situazioni di lavoro finalizzate a far si che ……. I lavoratori siano più facili da contenere e da gestire in quanto uomini che in quanto professionisti ….. Sembra poi altrettanto evidente che, all’interno di questa continuità ideologica, con il neo-liberismo sia avvenuto un ulteriore salto di qualità negativo: l’individualizzazione del lavoro ha infatti cancellato ogni dimensione collettiva, di gruppo, impedendo anche quel conforto che era tutto sommato ancora rintracciabile nel modo di produrre tayloristico e fordista ……. negli attuali rapporti di produzione è proprio l’uomo, quello che la commedia del lavoro poneva enfaticamente al centro del modello, ad essere in pericolo, sempre meno associato a riferimenti collettivi, sempre più vulnerabile e fragile …..

Lottare contro l’obsolescenza programmata del futuro

Siamo solo di fronte ad una fase transitoria che, completata la sua concretizzazione, ci consegnerà ad un nuovo quadro che, seppur peggiorato, potrà consentire nuove forme di resistenza e reazione?  Sarà quindi ancora possibile immaginare forme di lavoro che siano anche fonte di costruzione personale e, perché no, di felicità esistenziale? A partire dal recupero del valore delle certezze lavorative che solo il riconoscimento della identità professionale può dare? E ancora lecito sperare che questo riconoscimento ritorni ad essere lo strumento lavorativo indispensabile a fronteggiare i continui stravolgimenti tecnologici e socio-economici? O siamo invece condannati a perpetuare un modello di lavoro in cui le qualità dei dipendenti sono considerate un ostacolo? In cui tarpare le ali ai dipendenti è considerato lo strumento ideale per realizzare efficienze e redditività? Ed in cui il lavoro appartiene unicamente ai “datori” a loro volta sottomessi a logiche che li oltrepassano? E’ attorno a queste domande che, per non consegnarci ad un futuro senza futuro, deve riavviarsi un vero dibattito sul tema del lavoro, un vero confronto di idee ed un radicale esercizio critico dell’attuale presente.