venerdì 15 luglio 2022

Il "Saggio" del mese - Luglio 2022

 

Il “Saggio” del mese

LUGLIO 2022

 Si sta sempre più delineando come uno dei temi del nostro prossimo programma di incontri. Inizieremo, perlomeno questa è l’intenzione, approfondendo la presenza ed il ruolo storicamente assunto dalle “donne nella scienza”. Ma è probabile che in programmi futuri ci sia spazio per meglio approfondire quanto sia stato - e in molti, troppi, casi ancora lo sia – irto di assurdi ed ingiusti ostacoli il cammino delle donne per avere pieno accesso, e pieno riconoscimento, anche in altri campi. Sono diverse le motivazioni che ci stanno inducendo a farlo: in primo luogo la necessità di far emergere le motivazioni di fondo che hanno storicamente dato luogo a questa ingiustizia, conoscerle ed analizzarle nel dettaglio è infatti indispensabile per rimuoverle completamente ed il prima possibile. Si aggiungono inoltre altri due aspetti fra di loro collegati: quello di dare la giusta importanza alla qualità del contributo che dalle donne, nonostante questo pesante ingombro di assurdi ostacoli, è comunque venuto, e quello di meglio comprendere e valutare l’incidenza, in termini di quantità e qualità, del punto di vista del “femminile”, della sua diversa sensibilità, sul progresso avvenuto nei diversi campi. Anche il “Saggio” di questo mese si muove guardando a queste complementari direzioni. E lo fa affrontando la presenza delle donne nel campo che di più è stato loro decisamente precluso

la cui autrice, Adriana Valerio (storica e teologa italiana. Da più di trent'anni impegnata nel reperire fonti e testimonianze per la ricostruzione della memoria delle donne nella storia del cristianesimo) non manca certo di specifiche conoscenze e competenze

Ci sembra opportuno, prima di sintetizzare l’agile, ma denso, saggio della Valerio (che ha forma di un racconto biografico di donne “testimoni e simbolo” della tematica affrontata) puntualizzare che in discussione non è un giudizio sulla “fede” in sè, ma, in sintonia con la sua stessa trattazione, la comprensione dei meccanismi di fondo che spiegano quanto, come e perché, il pieno accesso e godimento di questa stessa fede siano stati a lungo preclusi alle donne. Il racconto delle coraggiose “eretiche” guarda al sentimento religioso cristiano, della sua storia ed evoluzione, e quindi mira a far emergere le ragioni specifiche del suo ostracismo verso l’elemento femminile. Fornisce però importanti elementi per capire quanto questo ostracismo sia frutto di una più antica e consolidata idea della donna nella società, ed al tempo stesso quanto però abbia a sua volta contribuito a consolidarla ed ampliarla. Ma soprattutto come non siano mancate esperienze individuali e collettive di donne che hanno, a caro prezzo, sfidato questo stato di cose e che hanno, così facendo, arricchito la stessa fede con originali e diverse sensibilità e riflessioni. E’ quindi un racconto che va oltre lo specifico religioso per affrontare tematiche più generali che investono la riflessione laica ed agnostica non meno di quella religiosa.

Introduzione

Originariamente il termine “eresia”, da tempo entrato nel linguaggio comune per indicare una teoria religiosa che si pone al di fuori del canone dottrinale ufficiale ovvero, in senso più lato, una opinione assurda, inaccettabile, aveva un significato molto diverso. Derivata dal greco “hàiresis”- “scelta” a lungo è stata usata semplicemente per indicare una “scuola filosofica”, un “gruppo religioso”. Soltanto nei primi due secoli d.C., con il formarsi, nel cristianesimo delle origini, di un orientamento canonico ufficiale ha assunto il significato fortemente negativo, di “errore di fede”, di “setta, nemica della vera fede”. Una condanna quindi senza appello di un modo di intendere una fede discordante rispetto ai suoi, presunti, “dogmi”. I quali, per definizione ben confermata dalla storia, sono così soggetti a costanti aggiustamenti e modifiche da rendere problematica l’accettazione sine die di una avvenuta condanna per “eresia”. Una corretta indagine storica deve piuttosto cercare di comprendere il senso profondo di ogni scelta religiosa, e le motivazioni ed i comportamenti che l’hanno motivata in contrasto con le istituzioni, con l’ortodossia. Il problema che da subito si manifesta nella storia del cristianesimo, allorquando si tratta di posizioni “eretiche” assunte da “donne”, consiste nell’incontrovertibile evidenza che i canoni dogmatici, e le procedure canoniche che ne conseguono, sono sempre stati fissati solo da uomini, da “maschi”. Quanto ha inciso questa evidente particolarità nel determinare il giudizio di eresia per tutte quelle donne che nel corso dei due millenni di cristianesimo hanno voluto vivere la fede da protagoniste anche prendendo strade discordanti rispetto a quei canoni maschili? Ripercorrere la storia delle “eretiche”, dal II secolo ai giorni nostri, significa allora dare voce a donne dimenticate, denigrate, condannate, non solo per mettere in luce i meccanismi di oppressione che tutto ciò hanno consentito e giustificato, ma, soprattutto, per recuperare l’essenza del loro impegno, del loro messaggio. In alcuni casi le donne hanno sostenuto, con una loro aggiunta di interpretazione e adesione, movimenti ereticali avviati da altri, non di rado però sono state prime protagoniste di una proposta intellettuale e spirituale divergente da quella canonica. Come si vedrà nel dettaglio lo scontro tra queste donne ed i loro “inquisitori” si è sostanzialmente giocato attorno a quattro questioni:

*                 un principio di autorità = non aver fatto parte della gerarchia

*                 un ruolo profetico = il ritenersi portavoce di un annuncio di fede

*                 una esperienza mistica = l’aver enfatizzato il coinvolgimento nella fede

*            un rapporto tra legge e libertà = l’aver messo in atto comportamenti trasgressivi rispetto alle leggi non solo religiose ma sociali e culturali in senso lato.

La ricostruzione di questo complesso percorso storico parte, va da sé, da Gesù, dal suo originario messaggio alla base della nascita del cristianesimo

Capitolo primo = Gesù eretico?

E’ indubbio il ruolo di rottura che le figura di Gesù di Nazaret ha avuto nell’allora già millenaria storia dell’ebraismo. Ed al tempo stesso è altrettanto indubbio il suo strettissimo legame con la tradizione religiosa ebraica, una cultura che non ha mai rifiutato, ma che ha semmai reinterpretato. Si trova nella predicazione di Gesù, ed in questo essere a sua volta “eretico”, l’humus che alimenterà in gran misura tutte le vicende di “eretiche” esaminate dalla Valerio. La figura e le parole di Gesù, questione storica e filologica da sempre molto dibattuta, ci sono giunte soprattutto dai racconti evangelici, canonici e apocrifi, tutti redatti da “maschi”, in molti dei quali spesso emerge una sorta di “stupore” per il suo modo di rapportarsi con le donne, il suo dialogare con esse anche di questioni “dottrinali”, il suo toccare e guarire anche quelle giudicate “impure”. In tutti i racconti evangelici le donne non sono quindi mai rappresentate come una “categoria a parte”, ma come una componente a pieno titolo del seguito di Gesù, al quale partecipano non perché “chiamate” ma di “loro stessa iniziativa e volontà”. L’episodio evangelico che di più e meglio sintetizza questa incredibile novità è quello dell’incontro di Gesù con la “Samaritana” presente nel vangelo di Giovanni, quello più tardo e più lontano dal giudaismo canonico. E’, come da norma evangelica, un racconto simbolico in cui il fatto stesso che Gesù discuta con una donna di una etnia osteggiata dai Giudei, considerata quindi impura, del modo più giusto di venerare Dio, ha i caratteri di una radicale innovazione, molto dibattuta ed interpretata proprio perché affronta questioni dirimenti per la cultura religiosa del tempo quali “culto, sacrificio, sacerdozio e tempio”. Ed è soprattutto in questo episodio che si coglie come nella predicazione di Gesù prenda forma un’idea di Dio ben lontana da quella della tradizione biblica del Vecchio Testamento di un Dio “maschio”, terribile dominatore che esige sottomissione e timore, specchio quindi di strutture “patriarcali e piramidali”. Nei due successivi secoli nella definizione del canone cristiano molto poco resterà di questi sconvolgimenti. La progressiva e crescente influenza della filosofia greca e della giurisdizione romana, nelle quali l’elemento femminile quasi nulla conta, diventano la base sulla quale sarà progressivamente costruito un cristianesimo molto più rigido e strutturato, con una sua precisa gerarchia fatta di capi autorevoli che garantiscono unità ed integrità della dottrina, declinata tutta soltanto al “maschile”.  Nel secolo successivo, con l’editto di Costantino del 313 che equipara il cristianesimo agli altri culti e con quello di Teodosio del 380 che lo eleva ad unica religione dell’impero, irrompono poi logiche interne di potere che accentueranno l’ostilità verso le “eresie”, verso ogni forma di pensiero non allineato ai presunti dogmi. E’ in questo contesto, così lontano da quello della predicazione di Gesù, che prende avvio la storia delle “eretiche

Capitolo secondo = Il primato dello Spirito: Massimilla e Priscilla

Come si è visto la costruzione del canone ufficiale del cristianesimo è stato un processo complesso, tormentato, molto combattuto, avvenuto nel secolo II e III d.C. che ha, con costante carattere di provvisorietà, definito le posizioni ufficiali della Chiesa in materia di: identità divina di Gesù, legami e rotture con mondo ebraico e con quello pagano, ruoli dei credenti e della gerarchia ecclesiastica. Il ruolo delle donne viene stabilito in questo stesso periodo al termine di un dibattito molto acceso all’interno del quale la voce delle donne ha avuto, perlomeno per un certo periodo, una sua rilevanza. Non mancano nei testi evangelici, canonici ed apocrifi, e nel “corpus paolino” (le lettere di Paolo di Tarso inviate alle varie comunità cristiane del I secolo d.C. sono divise in 7 considerate autentiche e in 6, posteriori, scritte a nome suo da discepoli) passaggi che evidenziano un importante ruolo delle donne nelle prime comunità cristiane ancora prive di una loro definita strutturazione ed ancora fortemente impregnate della convinzione “apocalittica” della prossima fine dei tempi. Ad esempio lelle lettere paoline giudicate autentiche si fa esplicito riferimento a donne che gestiscono la comunità e le opere di carità, che hanno ruolo di “diacono”, che fanno opere di evangelizzazione e di proselitismo, che spiegano le Scritture, che profetizzano e che battezzano in nome di Cristo. Man mano però che l’idea della fine dei tempi si allontana, rendendo quindi necessaria la definizione di una più stabile organizzazione del crescente movimento cristiano, le consolidate preesistenti norme sociali, presenti sia nella cultura ebraica che in quella greco-romana, non tardano a prevalere sugli aspetti più innovativi riconsegnando alla componente maschile il pieno controllo e potere. Anche in questo caso le lettere paoline attribuite all’apostolo, ma in effetti redatte verso la fine del I secolo da suoi discepoli, sono una inequivocabile testimonianza di questa svolta radicale che si afferma al termine di forti dispute fra le numerose scuole di pensiero cristiane. Appartengono ad una di queste, quella denominata “montana” [dal nome del suo fondatore, Montano, è una corrente cristiana nata in Frigia nel II secolo e ampiamente diffusa -fino ad influenzare lo stesso Tertulliano (155-230) pagano convertito e considerato uno dei “Padri della Chiesa” -  che osteggiava la gerarchizzazione della Chiesa privilegiano l’aspetto profetico del messaggio cristiano] le prime “eretiche” presentate nel saggio della Valerio: Massimilla, Priscilla e Quintilla. Quello che di loro sappiamo viene da fonti di opposizione verso il “montanismo”, e sono quindi accuse che, depurate della violenza denigratoria, in effetti evidenziano il loro attivismo e le loro personalità. Massimilla (non è noto l’anno di nascita, quello della morte è il 179 d.C), è presentata come una “profetessa” che parla di sé con termini maschili per attribuirsi una forza che smentisce la presunta fragilità femminile (in tutti i testi del tempo che mirano a costruire e rafforzare la visione gerarchica e maschile della nascente Chiesa le donne sono sempre definite come “femminetta”, “donnicciuola”), ma sempre ricordando che lei come “donna” incarna il Cristo. Le viene riconosciuta una straordinaria capacità profetica e dialettica, i suoi interventi catturano e infervorano, la sua enfasi apocalittica e la sua fede nel prossimo avvento del Regno dei Cieli sono assimilate a quelle di Paolo di Tarso. Ed è proprio verso questo suo saper “parlare” alla comunità dei fedeli, e più in generale verso il diritto di parola delle donne nelle assemblee e nelle cerimonie, che si indirizzano le critiche dei testi che stanno costruendo l’ortodossia cristiana. In uno di questi (Dialogo tra un montanista e un ortodosso, anonimo del III secolo) si legge: …. non permettiamo alle donne di parlare in chiesa, o di scrivere libri, e quindi di avere autorità sugli uomini…né possono stare a capo scoperto perché ciò disonorerebbe la testa, cioè l’uomo ….. Strali ancor più pesanti sono poi indirizzati verso Priscilla e Quintilla che, profetizzando, osano parlare del Cristo sotto “forma di donna” e ricordare che Gesù stesso amava parlare di sé in termini di “chioccia”. La “mascolinizzazione” della fede non consente simili stravaganze profetiche, non c’è spazio nelle figure canoniche della gerarchia ecclesiastica per le donne, destinate a ben altri compiti. L’accusa di eresia formulata verso le profetesse “montane” si basa infatti su un precisa contestazione ben riassunta da Eusebio di Cesarea (265-339, vescovo): ….. facciamo notare che per poter profetizzare, dichiarandosi ripiene dello Spirito, esse abbandonarono i mariti ….. Il richiamo dello stesso Gesù ad abbandonare famiglie e cari per seguire lui e la parola di Dio resta  valido solo più per i maschi, le donne hanno già un loro preciso posto dove restare.

Capitolo terzo = Medioevo irrequieto: ripensare il rapporto con Dio

Con l’Editto di Teodosio del 380 il cristianesimo diventa formalmente “religione di Stato” inaugurando così una lunghissima fase in cui le attenzioni e la cura del “potere temporale” affiancano, e molto spesso sopravanzano, quelle religiose.  In questo quadro, a partire dal Medioevo e per molti secoli, “l’eresia” diventa uno strumento fondamentale della gerarchia ecclesiastica per costruire una più esatta definizione di dogmi e canoni ed al contempo per sbarazzarsi di correnti religiose non allineate, ovvero di fastidiosi avversari temporali. La combinazione di una strumentale rigidità di interpretazione religiosa e di una esasperata difesa del potere implica da qui in poi la rigorosa applicazione di crudeli condanne per il delitto di eresia. La prima vittima illustre è la matematica, astronoma, filosofa, della scuola platonica di Alessandria d’Egitto Ipazia brutalmente assassinata nel 415 d.C.

La sua orrenda morte non può a rigore essere definita come una condanna per eresia religiosa, ma sancisce tragicamente l’avvenuta definitiva chiusura della Chiesa verso ogni forma di pensiero non allineato alla formale ortodossia ecclesiastica. Ipazia con il suo insegnamento filosofico, il suo prestigio scientifico, non rappresentava in alcun modo una minaccia per i canoni cristiani, ma di certo in questi non rientrava l’accettazione del prestigio culturale di una donna. Per tutto il Medioevo non mancheranno, nonostante il crescente rigore repressivo, voci di donne che coraggiosamente “riflettono, osano, resistono”, come cita il sottotitolo del saggio della Valerio, ma prima di conoscere, in veloce rassegna, alcune di loro è indispensabile evidenziare che le loro esemplari vicende non riducono la presenza combattiva delle donne ad alcune isolate voci individuali. Lungo tutti questi secoli, erroneamente definiti come “bui”, nascono e sono attivi movimenti collettivi di religiosità popolare molto attenti alla concreta realizzazione di una vita ispirata dalla fede,  e quindi molto più attenti a recuperare l’essenza del messaggio evangelico che non a teoriche dispute teologiche. Ognuno di questi movimenti si è caratterizzato in relazione alle specificità locali in cui è sorto, ma il loro insieme definisce un impressionante processo di ampie dimensioni che per alcuni secoli ha coinvolto in modo diffuso in tutto l’Occidente migliaia e migliaia di donne attorno ad una idea di cristianesimo realizzato nelle forme “della povertà, della carità, dell’apostolato”. Il termine che meglio può riassumere questo variegato movimento storico è: “beghine(la cui etimologia è molto incerta, la versione più accreditata lo fa discendere dal sassone “beggem”, che vuol dire “pregare”), dispregiativamente definite nei testi ecclesiastici “mulierculae (donnette)” (variante delle “femminette”, “donnicciuole” di cui si è già detto). Sono donne che quindi sperimentano concretamente nel vivo della società un modo alternativo di vivere la fede, che formano comunità (chiamate beghinaggi) non chiuse come quelle degli ordini monastici, che sono autonome economicamente (producono beni primari, piuttosto che prodotti anche raffinati, sono famosi i “merletti delle beghine di Bruges”), che leggono insieme i testi sacri, ed insieme li commentano e li diffondono, che scrivono testi che evidenziano come la scrittura femminile rivoluzioni il modo stesso di parlare di Dio, che rifiutano la crescente deriva di potere e di ricchezza della Chiesa, già anticipando alcune delle tematiche del protestantesimo. E che hanno alcune “maestre di vita”: Matilde di Magdeburgo: 1207-1282, autrice di prose e poesie di alto valore stilistico e religioso, raccolte nell'opera “La luce fluente della divinità”

Margherita Porete: 1250-1310, scrittrice e teologa francese, autrice de “Lo specchio delle anime semplici”, qui ritratta da Antonello da Messina in un famoso quadro

E’ soprattutto Margherita Porete a mettere in luce l’insanabile frattura fra il vivere la fede, e la vita reale delle “anime semplici”, che insieme formano quella che chiama “La Chiesa Grande”, e l’istituzione ecclesiastica, detta invece “La Chiesa Piccola”. Per Margherita il nome di Dio è “Dame Amour” (nel francese antico “amore” era sostantivo femminile), un Dio che non va cercato nell’ascesi, nei sacramenti, nella stessa preghiera, ma nell’incontro con ogni altra persona. L’intervento repressivo della Chiesa verso queste “eretiche” non ha tardato a manifestarsi, e si è articolato in due modalità: a fronte del riconoscimento del peccato di superbia commesso l’inglobamento di tutto il beghinaggio in un ordine monastico (è quanto succede a Matilde di Magdeburgo, e alla sue consorelle, che ormai anziana si rassegna a richiudersi in un monastero domenicano), ovvero a fronte del rifiuto di pentirsi la condanna a morte sul rogo (ed è quanto succede a Parigi a Margherita Porete, fra tutti i capi di accusa a lei ascritti quello che di più decise questa condanna fu solamente la negazione del ruolo della Chiesa nel rapporto con Dio). L’esperienza delle beghine venne infine definitivamente condannata e vietata nel Concilio di Vienne del 1311. In parallelo all’esperienza delle beghine si muovono analoghi modi di intendere la fede da parte delle donne “valdesi(la religione valdese nasce attorno alla predicazione di Valdo da Lione, 1140-1217, traduttore in volgare dei brani biblici, che propone una visione della fede cristiana per molti versi assimilabile a quella del contemporaneo San Francesco d’Assisi, 1181-1226, fra l’altro come lui ricco mercante che abbandona le sue ricchezze per farsi povero al servizio del poveri. E’ interessante rilevare come Valdo sia stato perseguitato come eretico, così come per secoli tutti i valdesi, e invece San Francesco sia stato accolto come modello agiografico. Hanno inciso sicuramente il diverso atteggiamento verso la Chiesa, molto più radicale la sua condanna da parte di Valdo, e, guarda caso, il ruolo delle donne nei rispettivi movimenti). Le donne valdesi, come le beghine, insegnavano in piccole comunità, predicavano per le strade, recitavano preghiere dall’altare, dando così un contributo decisivo ed autonomo alla crescita del movimento. Non sono rimaste loro tracce scritte e biografiche, di loro sappiamo quanto riportato nelle sentenze di condanna e scomunica espresse in particolare nel Concilio Lateranense del 1179. In questo Concilio, proprio in opposizione al modo di predicare dei Valdesi (chiamati anche i “Poveri di Lione” o i “Poveri nello Spirito”), donne a maggior ragione comprese, viene categoricamente ribadito che la diffusione della fede cristiana è compito esclusivo dei sacerdoti. Questa sentenza sarà alla base di tutte le violenti repressioni verso i Valdesi (che per fuggire da quelle in terra di Francia emigreranno in massa nelle valli piemontesi, per poi aderire nel 1532 alla Riforma Protestante), così come verso i “Catari” o “Albigesi”, altro movimento religioso alternativo per analoghe motivazioni alla Chiesa, che verranno letteralmente sterminati. E’ interessante notare che gli “inquisitori”, le figure ecclesiali che indagheranno e porteranno a giudizio eretiche ed eretici, furono scelti in gran misura proprio tra i francescani. Allo stesso modo sono state violentemente cancellate successive esperienze italiane, come quella di Fra Dolcino da Novara (1250-1307), che hanno ripreso con identiche visioni le sensibilità di un ritorno all’originale messaggio evangelico in rifiuto dell’ortodossia ecclesiastica. E come quella di Guglielma da Milano: (1210-1281, mistica predicatrice collegata alla Abbazia di Chiaravalle)

La cui vicenda ereticale raggiunge aspetti paradossali. Amata e rispettata in vita, fino ad essere raffigurata nell’atto di commentare le Sacre Scritture al centro di un ammirato consesso maschile, persino venerata come possibile santa dopo la sua morte (la sua tomba nell’Abbazia di Chiaravalle era meta di pellegrinaggi) venne sottoposta a giudizio dall’Inquisizione ben vent’anni dopo. Nel 1300 un processo giudicò blasfemo il suo predicare l’idea di una Chiesa al femminile, con al suo vertice donne, sulla base dell’idea utopica (e contraria a quella canonizzata da Tommaso d’Aquino) che lo Spirito Santo, la luce della fede, può incarnarsi indifferentemente in un corpo maschile così come femminile. Il processo si chiuse con la condanna al rogo di tutti i restanti suoi discepoli, donne e uomini, ed il suo stesso corpo, vent’anni dopo la morte, fu riesumato per essere analogamente bruciato sul rogo. Un percorso inverso a quello di Giovanna d’Arco, la “pulzella d’Orléans” (1412-1431)

condannata ad esser bruciata come eretica non perché divinizzasse la femminilità, ma per aver indossato in battaglia abiti maschili, per aver cioè sovvertito “l’ordine naturale”. Vent’anni dopo ragioni di carattere politico legate al contrasto tra le diverse case regnanti europee impongono alla Chiesa una revisione del processo, peraltro già non poco inquinato da analoghe pressioni, che, non a caso, si chiude con la sua completa riabilitazione, fino alla sua santificazione (ma solo nel 1920) come simbolo della Francia.

 Capitolo quarto=Le donne e lo spirito moderno: riformare la Chiesa

Nel clima di reciproco sospetto e di paura collettiva, che la crescente presenza dell’Inquisizione inevitabilmente crea in tutti gli aspetti del vivere individuale e sociale, diventa sempre più difficile, al limite dell’impossibile, una presenza attiva delle donne nel modo di vivere e interpretare la fede cristiana. A partire dal 1400, e a maggior ragione nel 1500 con l’affermazione dello scisma protestante, mutano radicalmente le forme della resistenza femminile alla loro totale emarginazione imposta dai severissimi canoni dell’ortodossia ecclesiastica. E’ ormai diventata inattuabile una esperienza, come quella delle beghine, capace di tenere insieme ruolo sociale e fede. I due aspetti si scindono in due distinte forme di prudente, e spesso sotterranea, opposizione: da una parte quella di “donne acculturate”, benestanti se non di nobile lignaggio, che formano una catena, non organizzata ma abbastanza diffusa, di circoli ed esperienze culturali, e dall’altra quella delle “donne del popolo” che danno vita ad una concreta resistenza nei ridottissimi spazi della vita quotidiana. Da una parte quindi donne come Giulia Gonzaga (1513-1566, contessa della casata Gonzaga e sposa di Vespasiano della casata Colonna)

Molto vicina al movimento spagnolo degli “alumbrados (illuminati)è stata per tutta la vita una coraggiosa ispiratrice di cenacoli cultural-religiosi che, partendo da una lettura “femminile” delle Sacre Scritture, hanno mantenuta viva una interpretazione della fede slegata dalle rigide interpretazioni ortodosse. Come tale è stata costantemente tenuta “sotto osservazione” perché ritenuta, con la formula al tempo usata, “in odor di eresia”. Non diversamente peraltro dalla poetessa Vittoria Colonna, marchesa di Pescara (1492-1547) e dalla stessa Renata di Francia (1510-1575), moglie di Ercole II d’Este Duca di Ferrara. Va da sé che il loro alto lignaggio ha funzionato in qualche modo da scudo permettendo di diffondere, con molta cautela ed in ambiente circoscritti, il ruolo fondamentale della “lettura della Bibbia”, individuale e comunitaria. Un aspetto della fede che, alla base del protestantesimo, era ovviamente visto con grandissima preoccupazione da parte della Chiesa Cattolica che, con specifiche indicazioni del Concilio di Trento (1545-1563), aveva, per difendere la propria esclusiva dottrina, condannato ogni approccio umanistico, ogni rapporto libero e diretto, ogni uso del dubbio come modo di lettura e di interpretazione dei Sacri Testi La condanna di ogni libero approccio alla Bibbia valeva a maggior ragione per le donne, quelle incriminate per tale colpa venivano giudicate, e condannate dai tribunali ecclesiastici, per aver commesso “peccato di superbia”, ossia aver osato fare ciò che, già con molti limiti, era comunque concesso solo agli uomini. E per quelle che vivevano con grande trasporto mistico il loro rapporto diretto con la fede e con Dio, e per questo erano magari oggetto di venerazione popolare, scattava immediata la condanna per “santità simulata”. La napoletana Alfonsina Rispola (1553-1611) subita tale condanna venne internata in un monastero dove di fatto morì di stenti. Ma la stessa Teresa d’Avila (1515-1582)

prima di essere proclamata santa per il suo intenso misticismo (uno stato psicologico di totale coinvolgimento contemplativo di complessa interpretazione) subì, per questa stessa accusa, non pochi interventi censori. Dall’altra parte invece, quella delle “donne del popolo”, il modo femminile “eretico” di vivere la fede è stato storicamente tradotto, con un eccesso di schematismo, nella “stregoneria”. Si tratta, come è ormai noto, di un fenomeno molto complesso -  dentro il quale confluiscono diversi aspetti che chiamano in causa ragioni sociali, culturali, psicologiche, religiose – molto studiato, persino molto spettacolarizzato. La figura della “strega”, la cui concreta origine storica altra non è che quella delle “guaritrici”, donne esperte di erbe e di rimedi popolani spesso accompagnati da “riti” propiziatori di antichissima storia, ha però assunto a partire da inizio 1300 (Petronilla de Meath è stata la prima donna ad essere bruciata sul rogo come “strega” nel 1324 in Irlanda) e fino alla fine del 1600 (il famoso processo di Salem che portò alla condanna a morte sul rogo di ben venti presunte streghe è del 1692)

i caratteri di un’autentica ossessione repressiva. Per ben più di tre secoli si è realizzato un diffusissimo immaginario collettivo capace di coinvolgere carnefici e vittime, istituzioni e popolo, inquisitori e streghe, di giustificare un clima di delazione e sospetto di massa, di sostenere una totale trasfigurazione della realtà tale da giustificare il ricorso indiscriminato alla tortura. La presenza dell’Inquisizione è stata per tutto questo lungo periodo assolutamente capillare, basti pensare all’obbligo per i confessori di riferire agli inquisitori ogni confessione che lasciasse minimamente configurare l’ombra della stregoneria, e d’altronde, a spiegare questa sorta di delirio collettivo, va detto che anche le Chiese Protestanti non sono state esenti dalla “caccia alle streghe”. Impossibile per la Valerio citare nomi precisi di donne condannate a morte, o comunque a lungo processate e detenute in situazioni di tortura diffusa, perché accusate di “stregoneria eretica”. Il fenomeno è stato ampiamente di massa a testimoniare che sul corpo delle donne si sono di fatto riversate tutte le angosce, le insicurezze, le paure che hanno accompagnato secoli difficili con continue guerre, spaventose pandemie, in buona misura però passati alla storia come quelli del Rinascimento, dell’Umanesimo, dei prodromi della Modernità venuti dopo quelli giudicati ben più “bui” del Medioevo.

Capitolo quinto = L’esperienza mistica tra Controriforma e Illuminismo.

Quel corpo delle donne così martoriato, criminalizzato, considerato il luogo prediletto dal Diavolo dall’ossessione inquisitrice, non è stato meno temuto e condannato anche quando, in modo contrapposto, è stato elevato dal misticismo a tramite per un pieno rapporto con Dio. Certo non al rogo, ma non di meno sono state imprigionate, processate e condannate – al carcere duro, al confinamento in monasteri di clausura, se non in esilio – non poche donne che su un misticismo intrecciato con l’esigenza femminile dell’ascolto di sé al di fuori dei canoni maschili dell’ortodossia hanno costruiti correnti di pensiero, fra le quali spicca quella del “quietismo(dottrina mistica basata sulla quiete fiduciosa dell'anima indifferente alla meditazione teologica) che nella seconda metà del 1600 hanno avuto una certa diffusione nell’Europa cattolica. Jeanne Guyon (1648-1717) ne è precisa testimonianza

Scrittrice mistica francese ha posto al centro della sua fede religiosa il suo “fragile corpo parlante” rifiutando ogni mediazione ecclesiastica, nel 1699 viene arrestata, processata, giudicata “eretica” e condannata all’esilio. Ma già in precedenza, su un versante però più orientato alla dimensione sociale della fede e, a differenza del misticismo, all’importanza della logica razionale, si erano fatte sentire voci di donne che riaprivano una stagione di coraggiose prese di posizione a segnare la fine dell’oppressione inquisitoria. Angélique Arnauld (1591-1661)

Badessa dell’Abbazia di Port-Royal, centro spirituale e culturale sede privilegiata del “giansenismo” [movimento religioso, filosofico, politico, ispirato al pensiero di Giansenio (1585-1638), che pone la “grazia”, indirizzata verso il mondo e “gli altri” al centro della fede] concorre ad istituire, in coerenza con esso, “piccole scuole” propedeutiche all’Università con principi pedagogici molto avanzati e, inevitabilmente, contrastanti con l’ortodossia. Il giansenismo viene però condannato come movimento eretico nel 1656, e l’Arnauld, assieme ad altre monache, pur opponendosi a lungo, è stata infine costretta ad abbandonare Port-Royal, raso poi al suolo nel 1712. Quella ragione, il cui uso era dalla Chiesa ritenuto necessario, ovviamente nella sua articolazione canonica, per evitare l’eresia mistica, ma al tempo stesso negata, come a Port Royal, se messa al servizio di una diversa cultura religiosa, poco dopo, con la svolta illuministica, sancirà le fine dell’epoca delle “eresie”, così come intese per tutti i secoli precedenti, aprendo la strada ad una sensibilità religiosa totalmente innovativa. Con le donne ancora protagoniste.

Capitolo sesto = Le nuove eretiche

E’ storicamente innegabile la durezza dell’impatto sulla Chiesa Cattolica, sul potere temporale dei Papi, peraltro conseguenza della opposta cieca oppressione su ogni possibile cambiamento, messo in atto dalla Rivoluzione Francese. In questo clima radicalmente mutato con l’ortodossia ecclesiastica arroccata su posizioni di difesa il concetto stesso di “eresia” non scompare, ma viene gioco forza declinato e applicato con modalità totalmente diverse. Un diverso sentire religioso non può più essere perseguitato con i modi, brutali e crudeli, fin qui storicamente percorsi, ma non di meno, là e quando si manifesta, viene rifiutato, come “eretico” non appena viene percepito come un rischio per l’autorità ecclesiastica e per l’ortodossia canonica. A maggior ragione se promosso da “donne”. La millenaria convinzione dell’inferiorità femminile in materia di fede è stata ben verificata da Cristina Trivulzio di Belgioioso (1808-1871)

Giornalista, scrittrice, attiva sostenitrice del Risorgimento pubblica nel 1843  il “Saggio sulla formazione del dogma cattolico”, in cui evidenzia come l’intero complesso del canone sia privo di un libero esame e confronto con il senso del progresso storico. A questo primo fa seguire nel 1866 un secondo saggio “Della presente condizione delle donne e del loro avvenire” in cui accentua la critica del precedente per le questioni della condizione femminile. Va da sé che entrambi questi saggi sono condannati dalla Chiesa, inseriti nell’elenco dei libri all’indice (un elenco, continuamente aggiornato, di libri la cui lettura era proibita ai fedeli cattolici), sulla base dell’accusa, non dissimile da quella di superbia, di “presunzione”, una donna non ha “le doti” per esprimersi in materia di fede. E quindi, coerentemente, allor quando nel 1869, in occasione del Concilio Vaticano I, un nutrito gruppo di intellettuali donne presenta una petizione per richiedere che quanto già anticipato dalla Cristina Trivulzio diventi realtà praticata nella Chiesa, la risposta ufficiale fu quella di rifiutarlo come provocazione (protestante, socialista ed anarchica) e come corruzione della missione materna vera essenza della natura femminile. Nulla cambia sotto il papato di Pio X (Papa dal 1903 al 1914). Bene lo testimonia Antonietta Giacomelli (1857-1949)

Giornalista, scrittrice, terziaria dell’Ordine Francescano, fonda un’associazione interconfessionale “Unione per il bene”, che si propone di coinvolgere uomini e donne di tutte le religioni per promuovere una fede dialogante e caritatevole. In anticipo sui tempi propugna la celebrazione della messa in italiano, ostinatamente cerca di rompere il muro della gerarchia ecclesiastica, ma a fronte delle nette opposizioni, di ripetute condanne, di umiliante ostracismo, medita seriamente di uscire dalla Chiesa Cattolica. Ma dopo essersi guadagnata con la sua convinta ostinazione l’appellativo di “teologhessa inquieta”, e dopo essere stata formalmente “scomunicata”, pur di non rinunciare a vivere la sua spiritualità all’interno della “casa comune” inaspettatamente fece atto di sottomissione e ritrattò i suoi libri. Su identico crinale si svolge la vicenda “eretica” di Elisa Salerno (1873-1957)


Giornalista, scrittrice, si è guadagnata la fama di prima femminista cattolica italiana. Attivissima in campo sociale ha l’ardore di rovesciare l’accusa: eretica è la Chiesa Cattolica che ha della donna una visione solo negativa. Per lei non conta la tradizione, la dottrina, ma la fedeltà al messaggio evangelico, è in questo senso che la Chiesa si è posta al di fuori, in posizione per l’appunto eretica, delle proprie origini. Esclusa dai sacramenti, ridotta al silenzio, obbligata ad un atto di sottomissione, continuò fino alla sua morte, avvenuta in totale emarginazione e povertà, a battersi contro “l’eresia antifemminista”, contro la deturpazione dell’immagine femminile attuata dagli “uomini” della Chiesa. A ben vedere rientra a pieno titolo in questo, incompleto, racconto di “eretiche” la stessa Maria Montessori (1870-1952)

Pedagogista di straordinario valore innovativo, e come tale conosciuta, apprezzata ed applicata in molti paesi, di forte convinzione cristiana non ha mai espresso posizioni “eretiche”. Ciononostante il solo fatto di valorizzare nella sua visione pedagogica “la gioia, la libertà”, di aver con ciò cancellato ogni valore della visione teologica ortodossa “dell’espiazione e della colpa originaria(la teologia del peccato originale) ad essa collegata le è valsa una segnalazione al Sant’Uffizio nel 1930, che non ebbe fortunatamente seguito formale. Ma le durissime parole con le quali il Papa Pio XI commentò la sua visione educativa segnarono il declino del metodo Montessori nel mondo cattolico, obbligandola di fatto, essendo oltretutto in ovvia rotta con il fascismo, a lasciare l’Italia e a seguire le sue scuole nel mondo. La svolta, mai completamente attuata, comunque impressa dal Concilio Vaticano II ha in buona misura ridimensionato l’opposizione prevenuta e inflessibile verso una parte delle persistenti richieste delle donne cattoliche. I termini “eresia” ed “eretica” non compaiono più nei documenti ufficiali ecclesiastici per condannare i comportamenti femminili in ambito religioso. La Congregazione per la dottrina della fede (che nel 1963 su indicazione del Concilio Vaticano II ha sostituito il famigerato Sant’Uffizio) di norma interviene limitandosi a segnalare episodi di eccessivo “protagonismo femminile”, e non a caso quindi in molti significativi ambiti è ormai aspetto acquisito una maggiore presenza delle donne. Le residue resistenze ad un definitivo cambiamento si misurano in questi ultimi anni sulla questione del “sacerdozio femminile”. E’ in effetti ancora questa l’autentica svolta per sancire una pari dignità di genere nell’ambito della religione cattolica, ed è ancora questa la richiesta che trova una rigida opposizione da parte della gerarchia ecclesiastica. Nel 2002 in Baviera il vescovo Antonio Braschi ha, di sua autonoma iniziativa, conferito l’ordine sacerdotale a sette donne cattoliche. Nello stesso anno la Congregazione per la dottrina delle fede, al tempo diretta dal cardinale Joseph Ratzinger (poi nominato papa nel 2005) per invalidare l’atto ritenuto “una simulazione di un sacramento” ed un grave delitto contro “la divina costituzione della Chiesa”. A fronte del mancato pentimento delle sette (mancate) sacerdotesse la Congregazione ha poi proceduto nello stesso anno alla loro “scomunica”. La questione resta però aperta, periodicamente si registrano casi analoghi accompagnati da un crescente, e trasversale, movimento favorevole a questa rivoluzionaria trasformazione. Quella che di più potrebbe sancire che, anche in campo religioso, le donne (in questo caso quelle cattoliche) non sono più “oggetto” di riflessioni e decisioni da parte di una struttura gerarchica esclusivamente maschile, ma sono “soggetto” della propria fede per aprirla a nuove prospettive canoniche. Va da sé che una svolta simile inciderebbe innanzitutto sulla sensibilità religiosa dei credenti cattolici, ma avrebbe una così forte valenza sulle assurde ed ingiuste differenze di genere da divenire universalmente significativa.

















venerdì 1 luglio 2022

La Parola del mese - Luglio 2022

 

La parola del mese

A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

LUGLIO 2022

Inizialmente l’idea era quella di destinare questo testo a “Saggio” del mese. Si tratta infatti di un’opera di valore che analizza alcune delle più importanti tematiche filosofico-politiche del presente. Poi la sua lunghezza e la sua dettagliata complessità si sono rivelate inconciliabili con il formato standard dei nostri post ed hanno quindi consigliato, per non disperderlo, di usarlo come spunto per una “parola del mese”, quella che meglio ci è sembrata collegabile alle tematiche affrontate. Al di là di ciò si impone però una considerazione: anche questo saggio ci è sembrato una delle tante opere di innegabile valore, in grado di fornire importanti spunti di riflessione, ma strutturate in modo così complesso e di così difficile approccio da risultare davvero poco accessibili ad una sua diffusa lettura. E’ con un certo rammarico che lo constatiamo perché viviamo tempi che al contrario sempre più imporrebbero di colmare il più possibile la distanza fra la dimensione dell’approfondimento “alto” e quella del dibattito culturale “normale”. La parola scelta per riprenderlo almeno in parte ha comunque, al di là di questo scopo, una sua valenza provocatoria che ben esprime la necessità di scelte “forti” e adeguate alle attuali temperie

Rivoluzione

rivoluzióne dal latino revolutio -onis “rivolgimento, ritorno” = Mutamento radicale di un ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici. In senso stretto, il processo rapido, e per lo più violento, attraverso il quale ceti, classi o gruppi sociali, ovvero intere popolazioni, sentendosi non sufficientemente rappresentate dalle vigenti istituzioni, limitate nei diritti o nella distribuzione della ricchezza che hanno concorso a produrre, sovvertono tali istituzioni al fine di modificarle profondamente e di stabilire un nuovo ordinamento. In senso più ampio, qualsiasi processo storico o movimento, anche non violento e protratto nel tempo, attraverso il quale si determini un radicale mutamento di fatto delle strutture economico-sociali e politiche, o di particolari settori di attività

Vocabolario online Treccani

E’ sicuramente una parola da maneggiare “con cura”, sembra infatti ancora troppo ingombrante il suo significato più politico. Le grandi rivoluzioni di fine Settecento, di gran parte dell’Ottocento, per non dire di quella russa e di altre novecentesche, l’hanno in qualche modo condannata ad essere oggetto di diffidenza per il suo carattere “violento”. Eppure, come da rigorosa definizione da vocabolario, “rivoluzione” resta il termine più appropriato per definire una svolta radicale capace di modificare in profondità il corso degli eventi. In particolare, venendo alle specifiche problematiche affrontate nel saggio che l’ha ispirata, “rivoluzione” sintetizza perfettamente due processi storici fra di loro collegati: quello globalmente già avvenuto negli ultimi decenni del secolo che, come vedremo, ha assunto il carattere di una “rivoluzione passiva” , e quello auspicato per affrontare, e concretamente risolvere,  l’insieme delle svolte epocali necessarie per risolvere le questioni di fondo – emergenza ambientale e climatica, giustizia sociale, equilibri geo-politici e loro riflessi su pace/guerra, diritti individuali, collettivi e di genere -  che agitano l’attuale  scena politica globale in questo nuovo millennio. Sulla rivoluzione (passiva) già avvenuta e su quella (positiva) che dovrebbe avvenire riflette Roberto Ciccarelli

[filosofo, blogger, giornalista del Manifesto, autore di numerosi saggi (fra i quali spiccano “Primo Levi: l’atopia letteraria” e “Immanenza e politica in Spinoza”) i più recenti dei quali compongono una trilogia, sempre edita da “Derive/Approdi”: “Forza lavoro: il lato oscuro della rivoluzione digitale” (2018) – “Capitale disumano – la vita in alternanza scuola e lavoro” (2022)] e  questo ultimo appena pubblicato


Ciccarelli evidenzia da subito (nel Capitolo 1/Introduzione “La rivoluzione in tempi non rivoluzionari”) che la necessità di questa autentica “rivoluzione” si sta manifestando, e trova ragion d’essere, in tempi al contrario difficilmente definibili come quelli più favorevoli a cambiamenti radicali, per quanto questi siano sempre più indispensabili.  E’ infatti dagli anni Ottanta del secolo scorso che l’egemonia economica, sociale, culturale, ideologica e politica, del neo-liberismo globalizzato sembra aver anestetizzato ogni sussulto realmente antagonista. Non a caso già a fine anni Ottanta, con la definitiva dissoluzione del blocco sovietico, Francis Fukuyama (storico e politologo statunitense) poteva parlare di “fine della storia” aggiungendola come ultimo tassello a quella “della società e della politica” che unitamente celebravano la definitiva vittoria delle logiche del mercato capitalistico. Si è in effetti consolidato una sorta di muro all’apparenza invalicabile per ogni possibile alternativa, peraltro mai adeguatamente sostenuta da una classe politica, anche di sinistra, in buona misura così schiacciata sul pensiero “mainstream” da sottovalutare il diffuso disagio sociale colpevolmente consegnandolo a populismi e sovranismi tanto sterili quanto pericolosi. Roberto Ciccarelli invita a reagire, a leggere a fondo il presente per riprendere, nelle sue pieghe, “il filo della storia”. Il suo contributo, da filosofo della politica, in questo saggio consiste, sulla base delle numerose e approfondite considerazioni analitiche di cui si è già detto, in due particolari proposte:

*                 il recupero, e l’adattamento al tempo presente, dell’idea gramsciana dirivoluzione passiva

e

*                 consapevole che l’idea di “rivoluzione” nel contesto specifico del nuovo millennio non può certo più essere quella “classica” dell’assalto al Palazzo d’Inverno, una sorta di azzardo teorico: “l’interpretazione spinozista del marxismo della forza-lavoro e una lettura marxista dell’antropologia spinozista alla base della sua Etica(l’interesse verso questo saggio è consistito anche in questo suo recupero del pensiero di Spinoza, al quale come Circolarmente abbiamo dedicato due riusciti seminari di approfondimento proprio perché già del nostro convinti della sua persistente attualità).

Una idea di percorso, e dei suoi possibili protagonisti, che guarda quindi non a una impraticabile, e velleitaria, presa violenta del potere (il Palazzo d’Inverno non esiste più, si è frammentato e moltiplicato come un’Idra  dalle mille teste, molte delle quali si sono installate nelle stesse menti degli sfruttati e degli oppressi) ma ad una radicale trasformazione collettiva, una vera liberazione dalle gabbie che imprigionano l’umanità intera (da qui il titolo del saggio “Una vita liberata”), che parte innanzitutto dalla riscoperta e dalla valorizzazione delle profonde differenze e contraddizioni presenti nella società. Quelle che il neo-liberismo cinicamente nega ed organicamente tenta di annullare nella sua idea dell’uomo “imprenditore di sé stesso”. Per recuperare il senso e la fattibilità di questa diversa idea di “rivoluzione”, di questa autentica “liberazione”, è infatti a suo avviso necessario uscire dalla collegata idea generica di “umanità”, come quella chiamata strumentalmente in causa nel dibattito sull’emergenza ambientale e climatica: l’umanità non è un soggetto indifferenziato coinvolto allo stesso modo dalle tante emergenze dei tempi attuali, ma resta divisa tra governanti e governati, tra oppressi ed oppressori, tra sfruttati e sfruttatori. Il suo primo importante contributo analitico (che sviluppa nel Capitolo 2 “Come siamo arrivati qui”) ricostruisce pertanto le modalità, e le basi teoriche, con le quali il “neo-liberismo” si è così compiutamente affermato, da dare l’idea di un compatto monolite ideologico. In effetti uno sguardo appena più attento evidenzia invece al suo interno non poche contraddizioni e diversità frutto di un processo di costruzione tutt’altro che lineare avvenuto nel campo largo del “neo-liberalismo”. La natura più economicistica del neo-liberismo è infatti solo una parte del più ampio filone neo-liberalista che, per quanto non meno contraddistinto da rilevanti differenze fra diverse scuole di pensiero e diverse concrete esperienze nazionali, mantiene al suo centro un’idea di società ancora fondata sui valori “classici” della proprietà privata, del libero commercio, delle libertà individuali, interpretati e declinati in un senso decisamente conservatore. Questo complesso percorso, duplice ed intrecciato, presenta quindi a suo avviso un chiaro carattere di “rivoluzione passiva” nell’accezione che di essa ha dato Antonio Gramsci (che ha recuperato quella precedente proposta da Vincenzo Cuoco, 1770-1823 scrittore e storico, nella sua riflessione sul fallimento dei moti rivoluzionari napoletani del 1799) nella parte dei suoi “Quaderni dal carcere” in cui analizza alcuni caratteri specifici della ottocentesca rivoluzione borghese in Italia, e allo stesso modo della presa del potere da parte del fascismo mussoliniano. Vale a dire, in estrema sintesi, quelli di una trasformazione così radicale, per quanto conservatrice, delle strutture politiche, istituzionali, economiche e sociali da meritare la definizione di “rivoluzione”, ma messa in atto come strategia difensiva per contrastare un contrapposto processo di radicale cambiamento progressista. Quella passiva neo-liberista si è rivelata vincente anche grazie alla realizzata congiunzione di due presupposti all’apparenza contrastanti: da una parte il rifiuto di ogni forma di interventismo dello Stato in campo economico, stante la sua esaltazione della totale libertà di mercato, e dall’altra invece un forte interventismo statale in difesa dei valori tradizionali di ordine, sicurezza, famiglia, considerati la vera base della società. Una congiunzione vincente perché capace di rappresentare gli interessi dei cosiddetti “poteri forti”, ma anche di coinvolgere parti estese delle classi medie e popolari proprio perché capace di offrire l’illusione del benessere coniugato con la certezza della stabilità e della sicurezza.  In Italia, ad esempio, ha raccolto non a caso  il totale consenso del vasto mondo del capitalismo delle piccole e medie imprese familiari. E’ in questa visione di insieme conservatrice neo-liberalista, con l’individuo in totale contrapposizione ad ogni visione sociale, che la strategia economica del neo-liberismo della libertà di mercato e di impresa ha, in stretta analogia, posto al suo centro l’esaltazione di un nuovo indistinto protagonista: l’individuo “imprenditore di sé stesso, del proprio capitale umano, un “capitalista umano”. Questo protagonista (analizzato nel dettaglio nel Capitolo 4 “La società dei capitalisti umani”) vive nel mito della piena “affermazione di sé” giudicando inutile, ed anzi dannosa, ogni relazione collettiva con gli “altri” visti solo come concorrenti sul mercato. Si tratta del totale capovolgimento delle visioni di collettiva liberazione dallo sfruttamento, che al di là di limiti e contraddizioni a lungo hanno segnato la storia dei movimenti di opposizione al capitalismo, in una vita individuale che, con la piena accettazione “del rischio (di mercato)” si riduce ad un inevitabile esclusivo arricchimento di ’”. Ruolo nella società, benessere consumistico e costruzione della propria identità diventano in questo individuo “self ownership = proprietario di sé stesso” un unico percorso di vita. E’ così tramontata la “coscienza di classe”, la coscienza di condividere con altri lo stesso posto nella società, ed è sparita la “lotta di classe” sostituita dalla concorrenza fra singoli. Questa duplice cancellazione rappresenta il primo e più importante ostacolo nella individuazione di soggetti sociali capaci di essere protagonisti di una autentica “liberazione” rivoluzionaria. Ed al contempo certifica, nei concreti processi sociali, la vittoria dell’ideologia neo-liberista/neo-liberalista: quella di una rivoluzione passiva così vincente da occupare l’intero spazio politico di una possibile diversa liberazione rovesciandolo nel suo opposto dell’autosfruttamento. Un processo lento e graduale, governato scientificamente, che ha pienamente assunto il carattere culturale ed ideologico di una “sociodicea”, di un fenomeno politico che si presenta al primo sguardo in forma di rivoluzione mentre a tutti gli effetti è una “restaurazione”. E nulla cambia, e non deve quindi trarre in inganno, se questa sociodicea sia avvenuta, ed ancora avvenga, in abbaglianti tempi di innovative trasformazioni tecnologiche e comunicative che non poco hanno contribuito a rafforzare l’illusione dell’affermazione di sè. Al culmine di questo percorso di conformazione ideologica due fattori hanno però infranto questo alone di definitiva vittoria: una crisi di sistema che ha messo a nudo, nel 2008, l’insostenibilità dell’intero modello economico e soprattutto il pieno manifestarsi degli effetti della non più occultabile crisi ambientale e climatica. Come cita il sottotitolo del saggio, “Oltre l’apocalisse capitalistica” si è quindi aperta una nuova fase, che ha tutte le caratteristiche della resa finale dei conti (quella che Ciccarelli analizza nel Capitolo 3 – Il tempo della fine). Alla quale il neo-liberismo sembra reagire, dopo averne a lungo ed ostinatamente negata l’evidenza, amplificandone, per certi versi in modo all’apparenza paradossale, i caratteri più apocalittici, riadottando e riadattando in modo strumentale, teorie della “fine del mondo” peraltro da sempre presenti nella storia umana. Lo scopo è chiaro: si accentua il carattere autonomo ed incontrollabile dei fenomeni per impedire di individuarne le cause, si usa il registro terroristico di paure collettive per “serrare le fila” attorno alle logiche di sistema, che devono restare intoccabili, e per accrescere la confortante conservazione dello status quo magari appena un poco verniciato di “green”. Diventa allora indispensabile operare affinché  “l’apocalisse”, non più negata ma semmai strumentalmente esasperata, sia vissuta nel suo autentico significato etimologico di “rivelazione” (dal greco apokalypsis, apo=da + kalypto=nascosto). E’ questa la giusta lettura dei processi in corso per far si che quanto si profila all’orizzonte come una minaccia sistemica sia posto in relazione ai rapporti sociali ed economici che l’hanno provocata. In questo quadro si riaffaccia nel discorso di Ciccarelli la critica alla chiamata in causa, come responsabile della crisi, di una indistinta “umanità”, come si può cogliere dalla stessa denominazione usata per definirla: “antropocene”, l’era dell’uomo. Non mancano in questa definizione innegabili spunti di riflessione sul rapporto uomo-natura, e soprattutto sullo strumento “tecnologia” che così tanto ormai lo media, ma non può essere negato che l’apocalisse ambientale è in primo luogo il risultato di azioni prolungate sul pianeta intraprese sulla base delle logiche capitalistiche di crescita infinita. L’uomo, l’Anthropos dell’Antropocene, non è un generico “homo sapiens”, ma l’individuo creato dalla cultura e dalle logiche capitalistiche che, a partire dal 1700, ha cristallizzato una insostenibile gerarchia fra umano e non umano, così come tra gli stessi umani. L’Antropocene è, se inteso in questi termini, una questione tutta politica. La mania di classificare un processo complesso definendolo con un semplice nome ha ben poco senso, ma se proprio fosse necessario battezzare quanto è, ambientalmente – economicamente – socialmente, successo su questo pianeta negli ultimi duecento/trecento anni il termine più adatto è sicuramente “Capitalocene”. Evitando però al tempo stesso una sua interpretazione “costrittiva”: se tutto è dentro il Capitalismo, se nulla è dato al di fuori di esso, allora anche le possibili soluzioni devono avvenire al suo interno. Il primo passo resta comunque quello, ferma restando la diffusa consapevolezza della drammatica portata di quanto sta avvenendo, di rifuggire da accentuazioni apocalittiche, inutili e strumentali (che non poco spiegano, per la loro presunta ineluttabilità, la stessa apatia, lo stesso disincanto, la stessa inerzia di gran parte della società verso le problematiche ambientali) e quindi di ricondurre il tutto all’interno delle dinamiche politiche che lo hanno determinato, creando così il presupposto inaggirabile per individuare le vere cause, per intervenire su di esse e virare il modello di sviluppo e di società verso opposte direzioni. In sostanza la “rivoluzione” auspicata. Ed appare evidente, sottolinea Ciccarelli, che questa inderogabile svolta deve innanzitutto sgombrare il campo dalla sottomissione ideologica di massa che il neo-liberalismo/neo-liberismo è riuscito a realizzare con la sua rivoluzione passiva ……. oggettivamente oggi il capitalismo è convintamente sostenuto se non desiderato da molti …… Diventa allora urgente individuare chi, e come, possa divenire il nuovo soggetto politico capace di realizzare questa liberazione, questo superamento dell’apocalisse capitalista. Occorre cioè operare, nella teoria e nella prassi, per costruire e far emergere un nuovo concetto di “popolo”, composto però da concrete e diffuse figure sociali. In questo senso  Ciccarelli ritiene necessaria (nel Capitolo 5 “Classe”)  una revisione del concetto di “classe”, e di quello collegato di “forza lavoro”, alla base dello storico percorso dei movimenti di opposizione anticapitalista. Lo fa innanzitutto sottoponendo a critica l’interpretazione meccanicistica, troppo a lungo quella prevalente, di questi concetti nella loro presunta versione originale marxista. Marx non ha mai ridotto la sua idea di “classe” alla sola collocazione nel processo produttivo, alla mera condizione di “produttore senza mezzi di produzione”. Ad essa ha invece consegnato, lungo l’intero arco della sua elaborazione, la prefigurazione dinamica di un diverso ordine sociale che nasce e si forma all’interno di quello, ingiusto, esistente. Quello di “classe” deve quindi essere interpretato non riducendolo ad una tecnicistica fotografia di soggetti sociali all’interno di processi produttivi - aspetto che comunque mantiene una sua precisa valenza, ma riconsegnandogli quello ben più ampio, e comprensivo di più soggetti sociali, del soggetto politico al quale affidare il ruolo di protagonista del processo di superamento della società capitalistica. Marx lo ha fatto già nella sua fase giovanile in cui opera una distinzione fra l’idea di “classe in sé” e di “classe per sé”, con la prima ad indicare la semplice collocazione nel sistema socio-produttivo, e con la seconda che invece, grazie alla “presa di coscienza della propria condizione”, prefigura la sua evoluzione in questo soggetto politico che si fa carico della propria liberazione. Un concetto che poi rafforza ulteriormente nella sua fase più matura di elaborazione quando lo completa arricchendolo dell’insieme dei rapporti interpersonali, anche morali e culturali in senso ampio, ad esso ascrivibili. E’ in questo quadro che resta ferma la centralità del concetto di “forza lavoro”, per indicare al tempo stesso l’unica proprietà esistenziale spendibile nel mercato del lavoro - tale da costituire pertanto un primo legame fondativo dell’appartenenza di classe - e l’insieme delle caratteristiche di genere, di ruolo familiare, di appartenenza etnica e nazionale, di credenze morali e religiose, generazionali e culturali, che non di meno concorrono a completare l’idea complessiva di “classe”. La quale quindi non definisce solo un rapporto “di produzione”, bensì un “rapporto generale di potere”, nelle sua varie articolazioni che, caratterizzate da contraddizioni e limiti, attraversano in senso verticale, ma anche orizzontale, il popolo intero. In sostanza, per Ciccarelli, la “forza lavoro” non è riducibile al solo “lavoro”, essa è una più ampia “facoltà umana”, la facoltà del possesso di tutte le sua facoltà, quelle in cui è oggetto oppresso e sfruttato, ma anche quelle in cui può essere soggetto che discrimina, che opprime, che divide. Questo recupero della concezione più autentica di classe, di forza lavoro e dell’insieme dei rapporti sociali che la completano, è quello che va calato nel contesto storico attuale per meglio individuare i componenti del soggetto politico protagonista della “rivoluzione/liberazione”, possibile nell’attuale società neoliberalista/neoliberista. In questa idea di “classe” confluiscono allora figure sociali molto più articolate, diffuse, trasversali, globali, che, accomunate dall’essere “forza lavoro”, in questa sua più ampia accezione e quindi non incatenate alla sola collocazione lavorativa, possono concorrere alla liberazione. Confluiscono ad esempio in esse, restando al solo aspetto socio-economico, sia la disgregazione della “classe media”, la vera controprova del fallimento neoliberista che, con l’idea “dell’imprenditore di sé stesso”, alla sua diffusa estensione invece puntava, sia la correlata spaventosa diffusione del “precariato”, divenuto la forma standard di “lavoro". Ed è in questo stesso quadro, dove la nuova e diversa idea di rivoluzione implica una liberazione al tempo stesso collettiva e individuale, che trova sostanza la proposta di Ciccarelli della interpretazione spinozista del marxismo della forza-lavoro e una lettura marxista dell’antropologia spinozista alla base dell’Etica spinoziana. Due concezioni all’apparenza fra di loro distanti nel tempo e nella visione di fondo, ma che in effetti questa rivisitata idea di “forza lavoro rende strettamente collegabili e capaci di promuovere una autentica liberazione sia collettiva, nell’idea marxista del superamento delle classi, sia individuale, nei concetti spinoziani di “passione” e di “potenza” . Là dove l’ideologia neo-liberista ha ridotto le passioni ad una sorta di analisi di costi e benefici, ispirata dalla ricerca del puro benessere e finalizzata ad una illusoria realizzazione di un “” - così limitato e sottomesso da indurre inevitabilmente alla “tristezza” (uno dei tre affetti primari di Spinoza)  e all’intero catalogo delle spinoziane “passioni tristi” - devono divenire vero patrimonio dell’individuo le contrapposte “azioni indotte dagli affetti positivi”, quelli capaci di ispirare una vera tensione verso una piena liberazione e una vera realizzazione di sè. La passiva accettazione delle regole del gioco, l’obbedienza verso il potere del denaro, possono essere in questo modo cancellate con il compiuto passaggio dalla condizione di “servo” – colui che vive in modo passivo il ruolo che la società gli assegna - a quella piena di “uomo" -  inteso come colui che vive in modo critico ed autonomo tale ruolo -  che realizza così il suo potenziale di “potenza” con la personale declinazione del proprio “conatus” - l’innata inclinazione verso la propria conservazione ed il proprio miglioramento, la forza di esprimere e realizzare la propria essenza vitale dando forma ai propri desideri - che, secondo Spinoza, gli uomini possiedono essendo, come tutte le forme viventi, parte del creato, della potenza divina (Deus sive natura = Dio ovvero la natura). Questo percorso individuale di liberazione ispirato dal raggiungimento della “gioia” (la “letizia” di Spinoza, secondo affetto primario), che investe tutte le “facoltà” umane contenute nella onnicomprensiva facoltà “forza lavoro”, genera al tempo stesso un modo diverso di considerare “l’altro”, visto non più come un competitore sul mercato, ma come compagno di viaggio nel comune cammino liberatorio. E rende così possibile alla visione marxista dei processi storici collettivi di coinvolgere tutte le figure sociali altrettanto connettibili all’idea di “forza lavoro”, chiamate ad essere i protagonisti di una nuova e diversa prospettiva di “rivoluzione/liberazione” che chiama in causa il loro essere, individualmente e collettivamente, soggetti economici, sociali, culturali, politici, ed antropologici (nell’ultima fase della sua vita Marx accentuò il suo interesse verso gli studi etno-antropologici, proprio per dare forma più completa alla sua idea di “rivoluzione” e di soggetto rivoluzionario, senza però poter dare loro forma compiuta per la sua prematura morte). Non esistono modi prestabiliti per avviare un processo di liberazione così inteso, ma sarà sempre necessario, in ogni specifico percorso di lotta – quali da subito possono concretamente essere: la riduzione del tempo di lavoro, l’introduzione di un reale reddito di base, una riforma universale ed omogenea del welfare, un uso sociale e liberatorio della tecnologia, e appena più in là un rovesciamento dei rapporti di proprietà – tentare di coniugare strettamente ricadute individuali e collettive in un percorso rivoluzionario che non può che essere permanente. Si completa con queste ultime considerazioni la ridefinizione dell’idea di “rivoluzione” che Ciccarelli propone. Distante anni luce dalla presa violenta del potere, da un percorso deciso e guidato da presunte avanguardie, da un’idea di cambiamento concentrato alla sola struttura economica, assume il pieno carattere di una “vita liberata”, una liberazione che ……. non si chiede, si crea. Non divide a metà la vita in una sfera pubblica ed una privata, ma congiunge l’individuo e la società in una prassi che attraversa l’esistenza dell’uno e dell’altra …….