sabato 26 dicembre 2015

Breve guida per una lettura del Corano (a cura di Giancarlo Fagiano)

Segnalo la seguente guida alla lettura del Corano trovata nell'ambito di una ricerca in Rete sul tema. Seguono indicazioni anche queste reperite in Rete, nel sito IslamItalia, sulle edizioni in italiano del testo coranico. Sono ovviamente graditi altri consigli in grado di aiutare una lettura attenta e valutativa.

 
Il sacro testo del Corano. Storia, esegesi e teologia    (a cura del Centro Studi Francescani)
Per capire il significato storico, giuridico, teologico, religioso e culturale del Corano è conveniente lasciar parlare il testo stesso. Un bel numero di sure (i capitoli in cui il libro del Corano si divide, sono ben 114) lo presenta come il libro sacro che viene da Dio (cf. sure 3,4.7; 4,82; 6,114.155-157; 7,2; 18,1; 20,2-4; 21,50; 29,46-49; 32,2; 38,1-8; 40,2; 41,2.41-42; 42,17; 45,2; 46,2). In alcuni passi, poi, il sacro testo del Corano viene presentato come la “Madre del Libro”, cioè il prototipo (o meglio, in arabo, matrice) del Corano che è già presso Dio, quasi una sorta di Parola eterna che viene da Dio, l’Unico (cf. sure 13,39; 43,4; 56,77-78; 80,13-16; 85,21-22). Addirittura, si trovava già nei libri sacri degli antichi (cf. sura 26,196). Esso, infatti, conferma i libri precedenti, cioè l’AT e il NT (cf. sure 10,37; 12,111; 16,44).
Il Corano

martedì 22 dicembre 2015

"Violenza e Islam" - Libro di Adonis (consiglio di lettura di Giancarlo Fagiano)


Sollecitati, in modo purtroppo tragico, a meglio comprendere la cultura islamica molti di noi stanno, faticosamente, cercando voci, racconti, esperienze, storie, analisi che aiutino in questo percorso di conoscenza. Con non poche difficoltà: il mondo islamico è molto variegato, presenta intrecci e sovrapposizioni complicate, difficile, forse impossibile e metodologicamente sbagliato, tenere distinti gli aspetti storici, sociologici, culturali e religiosi. Appare in particolare evidente che non si può “capire” se non si riconosce alla religione dell’Islam il ruolo di perno centrale che indubitabilmente essa ricopre. Si impone quindi, assieme ad altri approfondimenti, uno sforzo di conoscenza dei fondamenti religiosi islamici, fatto coniugando il dovuto rispetto con obiettività laica di giudizio. Una sorta di fantasma, buono, aleggia nelle tante discussioni che, a vari livelli, si sono avviate in modo diffuso: l’Islam moderato. Il doveroso scrupolo di non identificare automaticamente pratiche e concezioni radicali con l’intero mondo islamico, in contrasto con alcune becere affermazioni strumentali, induce alla ricerca del conforto di testimonianze che attestino la consistenza, la diffusione, la validità, del cosiddetto Islam moderato. Una ricerca che, come la conoscenza più ampia di cui si è detto, deve prendere in considerazione situazioni ed elementi storici, culturali, sociali e politici. E, in coerenza con quanto sopra, convinzioni religiose. Occorre, in questo quadro, dare per scontata la presenza di voci discordanti, di analisi divergenti, di opinioni anche fortemente contrastanti. Potremmo anche qui, in questo blog, fornire qualche aiuto per questa ricerca. Personalmente, dopo altre letture troppo legate a risvolti immediati, propongo un agile libro che mi sta fornendo interessanti spunti di riflessione. Sto parlando di “Violenza ed Islam” di Adonis (in conversazione con Houria Abdelhouahed, psicanalista docente all’Università Paris Diderot) recentemente uscito per i titoli di Guanda. Adonis è da molti decenni considerato uno dei più grandi poeti viventi. Forse in una cultura come quella islamica così fortemente basata sulla “parola” la sensibilità di un poeta può essere un efficace filtro analitico. Peraltro non mancano ad Adonis profonde conoscenze da saggista che da sempre (vedi la brevissima nota che segue) lo fanno muovere con ruolo da protagonista nel mondo culturale arabo. E’ una lettura che consiglio e che, se ce ne sarà occasione, potrebbe aprire un dibattito in questa sede ed essere lo spunto per altri approfondimenti e altre letture

[Adonis,  poeta e saggista siriano, attivissimo nel dibattito politico-culturale, estetico e filosofico del mondo arabo, è tra i fondatori del gruppo Tammuzi (nome di una divinità babilonese) che punta alla rinascita culturale araba, rileggendone il patrimonio (sia quello islamico che quello del Vicino Oriente antico) in una chiave non nazionalistica o religiosa, ma di apertura alla modernità. (estratto sintetico da Wikipedia)]

sabato 12 dicembre 2015

Commenti a margine del seminario "Utopia e distopia, - Lettura ed interpretazione del libro di Paul Auster - Nel paese delle ultime cose" tenuto dal Prof. Gianluca Cuozzo


Un folto pubblico ha partecipato al seminario in cui il prof. Gianluca Cuozzo ci ha condotti, attraversando con appassionata competenza i territori a lui ugualmente congeniali della filosofia e della letteratura, ad individuare quel particolare confine, invisibile ma denso di assai concrete conseguenze, che sta fra l’utopia – intesa come slancio del pensiero umano che non presupponendo la realtà come un dato assoluto e immodificabile ci spinge ad andare oltre, figurandoci una diversa idea di mondo – e la distopia, sua controparte e complemento, che ci mostra le conseguenze potenzialmente esiziali di tendenze già avvertibili nel presente, ponendosi come specchio deformante il cui attraversamento ci consente di diventarne più consapevoli. Non a caso la copertina del romanzo distopico di Paul Auster, che il prof. Cuozzo ha scelto per illustrare la tensione inesausta fra queste due polarità di un medesimo slancio ideale inteso a porre rimedio ad una realtà avvertita come ingiusta e destinata all’implosione, rappresenta con un chiaro intento allegorico un occhio femminile che guarda attraverso una piccola fessura circolare. Davvero stretto è infatti il passaggio da quella che chiamiamo realtà al suo controcanto distopico, e richiede dunque per individuarlo uno sguardo attento agli snodi critici della contemporaneità. Nel romanzo l’occhio che guarda è quello di una giovane donna, Anna Blume, protagonista di un viaggio senza ritorno in una landa desolata che della città da cui lei è partita rappresenta solo più una spaventosa parvenza, quasi fosse la sua terribile Ombra: e in effetti Auster ce la rappresenta come la controparte notturna e luttuosa del mondo diurno della crescita indefinita e della produzione capitalistica, che sotto l’apparenza luccicante di quelle merci che sembrano rispondere ad una promessa di felicità senza fine tradisce in realtà questa stessa speranza di bene, perché ne ignora i costi ambientali e umani producendo a dismisura quegli scarti da cui noi spesso distogliamo lo sguardo, ma che la protagonista della storia è costretta ad incontrare senza possibilità di scampo. Di questi resti vive infatti quella che potremmo chiamare la Città della Distruzione, i cui abitanti sono costretti a muoversi all’interno di una equazione mortale in cui ogni tentativo di sopravvivere avvicina sempre più alla morte; un luogo in dissoluzione dove le cose via via scompaiono, e dopo le cose le parole per dirle così che diventa praticamente impossibile utilizzare quelle facoltà che ci rendono davvero “umani” e di cui si avvale ogni slancio utopico: la memoria, l’immaginazione, la capacità di comunicare e di stringere legami con gli altri… Pur tuttavia, ad uno sguardo più attento anche nel Paese delle ultime cose è ancora possibile ritrovarne un’eco in quei frammenti in cui Anna crede di scorgere a volte una nuova potenzialità di vita, oltre che in alcuni personaggi che sanno ancora narrare, attraverso gli oggetti di un tempo perduto, una storia che li comprenda. E’ proprio in queste forme residuali che secondo il prof. Cuozzo noi possiamo intravedere, uscendo dalla finzione letteraria, la possibilità di un nuovo corso del mondo, cogliendo in esse quanto resta di senso, tornando a quegli snodi della nostra civiltà in cui altre scelte potevano essere compiute, usando tutte le risorse della memoria e dell’immaginazione per farne emergere una visione emancipatrice che defatalizzi lo spazio angusto del presente. Solo così, a suo giudizio, potremo risvegliare quella tensione utopica indirizzata verso un nuovo divenire dell’uomo nella storia e un nuovo abitare la terra secondo la prospettiva dell’ecosofia, attenta all’uomo come al cosmo. E’ con indicazioni di speranza dunque che si è concluso un intervento di grande spessore concettuale e di forte impatto emotivo, in cui il prof. Cuozzo ha davvero attivato per noi tutte le risorse dell’immaginazione, facendo spazio ad un ampio ventaglio di suggestioni letterarie e cinematografiche che hanno appassionato tanto il pubblico adulto che gli studenti del Liceo Pascal di Giaveno.

Commenti a margine del seminario "Franz Kafka, ai confini dell'umano" tenuto dal Prof. Gianluca Cuozzo


Numerose le persone che sono intervenute giovedì 3 Dicembre al seminario tenuto dal prof Cuozzo su Kafka; un grazie speciale va ai professori e ai tanti ragazzi dell’Istituto B. Pascal di Giaveno. Abbiamo già avuto modo di conoscere l’anno scorso il modo chiaro e appassionato con cui il prof. Cuozzo espone le proprie argomentazioni. Il relatore ha sottolineato l’attualità del testo di Kafka, la sua prosa infatti ci aiuta a comprendere il nostro mondo e quello che noi siamo. Kafka è un lettore attento alle trasformazioni della realtà a lui contemporanea (primi del 900) e non, come una certa critica corrente lo descrive, un inetto, una persona distante dal mondo. Kafka come politico, partecipò ai circoli anarchici di inizio secolo, denunciando la pandemia burocratica che pervadeva la società, il taylorismo, la trasformazione tecnologica e il conseguente controllo biopolitico sugli individui. W. Benjamin, riferendosi al mondo di Kafka, lo definisce come un mondo dove la legge vige senza significare, che comanda senza contenuto. Ancora oggi ci troviamo in questa situazione: i percorsi della burocrazia limitano il potere della nostra immaginazione, oggi più che mai infatti il concetto di utopia è totalmente assente dalle nostre vite. Il racconto ‘La metaformosi’ inizia in medias res, con il risveglio di un uomo qualunque che si ritrova trasformato in insetto. Sia il risveglio che l’insetto sono dimensioni di confine. Il primo é confine tra mondo onirico e mondo vigile sul quale ha presa la nostra coscienza. Il sonno e il sogno ci fanno regredire ad uno stadio pre-umano, regno degli istinti, e al risveglio dobbiamo essere prontissimi ad afferrare la nostra vita, quella che abbiamo lasciato la sera precedente. Il secondo, l’insetto, è il confine in cui la vita organica e la pura movenza meccanica si confondono: al risveglio Gregor Samsa si ritrova con delle gambette sulle quali la volontà non ha più alcuna autorità ma sono un meccanismo a sé stante, puramente reattivo. In questo insetto/meccanismo c’è un’assonanza con la fabbrica tayloristica. Infatti Gregor Samsa, risvegliandosi insetto, ha come prima preoccupazione quella di non potersi recare al lavoro e prova un forte senso di colpa! Il lavoro è percepito dal protagonista come una punizione, un castigo. E’ una colpa ereditata dal padre il quale ha contratto un debito con il suo datore di lavoro. Anche qui nuovamente i confini tra una responsabilità personale e una responsabilità generazionale. Il corpo di Gregor è l’oggetto dove tutto il disagio lascia una traccia indelebile: non vi è nessuna redenzione, nessuna salvezza è prevista, la morte é l'unica soluzione. Nella poetica kafkiana non c’è salvezza, la pena diventa espiazione ma senza redenzione, il mondo è per Kafka "l’esito di una cattiva giornata di Dio". Kafka intuisce che la società dei consumi, nella quale tutti siamo trasformati in macchine di produzione in perenne corsa contro il tempo, porta con sè una inevitabile rescissione dei legami vitali: se usciamo dalla catena di montaggio veniamo abbandonati a noi stessi, sotto la soglia dell'umano.

giovedì 10 dicembre 2015

La metafora della corsa - Thomas Hobbes


Thomas Hobbes (15881679) filosofo e matematico britannico, ricordato in particolare per l'opera di filosofia politicaLeviatano”.
 
Nella sua opera “Elementi di legge naturale e politica, I, IX, 21, pp. 75-76” per rappresentare la vita usa una metafora di straordinaria efficacia: una corsa, priva di meta e senza nessun premio in palio se non quello della soddisfazione di essere sempre davanti

 
Lo sforzarsi, è l’appetito.
Il mancar d’energie, è
la sensualità.
Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria.
Guardare quelli che stanno davanti, è
umiltà.
Il perdere terreno per guardarsi indietro, vanagloria.
L’essere trattenuti,
odio.
Tornare indietro, pentimento.
L’essere in fiato, speranza.
L’essere affaticato, disperazione.
Sforzarsi di superare chi sta immediatamente davanti,
emulazione.
Soppiantare o far cadere,
invidia.
Decidere di aprirsi a forza in un ostacolo visto davanti, coraggio.
Aprirsi a forza un varco in un ostacolo improvviso,
ira.
Aprirsi a forza un varco con facilità, magnanimità.
Perdere terreno per piccoli impedimenti,
pusillanimità.
Cadere all’improvviso, è disposizione al pianto.
Vedere un altro cadere, disposizione al riso.
Vedere sorpassato uno che non avremmo voluto, è
compassione.
Vedere uno, che non avremmo voluto, sorpassare gli altri, indignazione.
Seguir d’appresso un altro, è
amare.
Spingere colui che così segua d’appresso,
carità.
Farsi male per troppa furia, è vergogna.
Essere superato continuamente, è infelicità.
Superare continuamente quelli davanti, è felicità.
E abbandonare la pista, è morire.



sabato 5 dicembre 2015

Nel paese delle utlime cose - Libro di Paul Auster (presentazione di Enrica Gallo)


PAUL  AUSTER:

NEL PAESE DELLE ULTIME COSE

 

L’AUTORE:

 Nato nel 1947 a Newark, nel New Jersey, da una famiglia ebrea benestante di origine polacca e austriaca, Paul Auster è non solo scrittore, saggista e poeta, ma anche sceneggiatore, regista, attore e produttore cinematografico, testimoniando in questa multiforme attività un costante impegno civile e politico.

Nell’ambito narrativo è considerato uno degli esponenti più importanti della letteratura americana contemporanea e viene ascritto, con Don De Lillo e Thomas Pynchon, al cosiddetto “postmodernismo”. Nei suoi romanzi, tesi ad esplorare le nevrosi e la solitudine dell’uomo contemporaneo, fonde spunti diversi che vanno dall’esistenzialismo alla psicanalisi, dalla letteratura gialla e poliziesca alle notazioni autobiografiche (ricordiamo fra gli altri la “Trilogia di New York”, la sua opera più famosa, “La musica del caso”, “L’invenzione della solitudine”, “Follie di Brooklyn”).

Oltre a collaborare alla sceneggiatura di film come “La musica del caso”, “Smoke” e “Blue in the face”, ha diretto personalmente “Lulu on the Bridge” e  “La vita interiore di Martin Frost”.

(N.B. = tratto da Vikipedia)

 IL LIBRO:

 “Nel paese delle ultime cose” è stato pubblicato nel 1987, a due anni di distanza dall’uscita de “La città di vetro” e quasi contemporaneamente alle altre due parti della “Trilogia di New York”, che ha lanciato Paul Auster sulla scena letteraria dopo una difficile gavetta.

Si tratta di un romanzo distopico*, in cui la protagonista, Anna Blume, racconta in prima persona e in forma epistolare la sua allucinante esperienza in un luogo di cui non vengono date precise indicazioni geografiche (nel testo si allude ad esso semplicemente come alla città, facendogli assumere una funzione metaforica, in coerenza con la natura del romanzo) e in cui è stata intrappolata senza speranza di poterne uscire. Da qui scrive ad un vecchio amico, pur sapendo non solo che la sua lettera difficilmente potrà pervenirgli, ma che quanto le è dato di vedere e di vivere gli risulterà presumibilmente incomprensibile. Troppo lontano e folle e disperato è infatti questo paese perché possa comprenderlo chi vive in un mondo normale, in gran parte ordinato e prevedibile – quello in cui lei stessa ha vissuto prima di imbarcarsi in questa folle avventura. Nondimeno scrive, senza sapere bene neanche lei perché lo fa e perché si è risolta a farlo in questo preciso momento. E’ passato ormai molto tempo da quando si trova in questo luogo, anche se non saprebbe dire quanto: non si può conservare la consapevolezza dei giorni e degli anni, nel paese delle ultime cose… Ma forse, dice, scrive perché è giusto che qualcuno sappia ciò che lì accade, e per non perdere del tutto quel poco di ragione che le resta. Davvero allucinante è in effetti  la storia che Anna racconta.

                                                                                                      

Appunti sparsi sulla DISTOPIA - a cura di Enrica Gallo


APPUNTI SPARSI SULLA DISTOPIA
 
                               

Che cosa intendiamo  quando parliamo di DISTOPIA
 

1. PRESENTAZIONE   (da Wikipedia)

 

ETIMOLOGIA E SIGNIFICATO:

Con il termine “distopia” (dal greco dis = cattivo e tòpos = luogo), coniato nel 1868 dal filosofo John Stuart Mill (un termine diverso ma con lo stesso significato, cacotopia, era già stato utilizzato nel 1818 dal filosofo Jeremy Bentham) si intende la descrizione  - in genere ambientata nel futuro, o in un presente che si è evoluto in modo diverso e peggiore di quello reale - di una società immaginaria altamente indesiderabile o spaventosa in cui alcune tendenze del presente sono esasperate e portate ad esiti negativi.

Viene dunque associato a termini come utopia negativa, antiutopia, controutopia, sebbene da punto di vista etimologico il termine “distopia” sia più precisamente opposto ad  “eutopia”, nel suo significato di “luogo eccellente”. In effetti, mentre nell’eutopia l’autore esprime le sue speranze su di un futuro positivo della società umana, indicando che un altro mondo  buono e giusto è possibile, nella distopia espone  invece i suoi timori sul futuro o critica i modi concreti in cui l’utopia realizzata si è presentata.

 

Appunti sparsi sull'UTOPIA - a cura di Enrica Gallo


APPUNTI SPARSI SULL’UTOPIA

 

Che cosa intendiamo  quando parliamo di    UTOPIA

 

1. PRESENTAZIONE (da Wikipedia)

 

ETIMOLOGIA:

Il termine “utopia” deriva dal nome immaginario di un paese ideale, descritto dal letterato e filosofo inglese Thomas More nel suo “Libellum… de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia” (1516). Si tratta di un neologismo formato con le voci greche (non) e tòpos (luogo): significherebbe pertanto “ luogo che non esiste”.

In questa parola peraltro è presente, fin dall’inizio, un gioco di parole con l’omofono inglese “eutopia”, derivato dal greco èu (buono) e tòpos (luogo). Nell’uso corrente i due significati si sono fusi, dando alla parola”utopia” il significato di un luogo buono e irraggiungibile (“l’ottimo luogo che non è in nessun luogo”)

SIGNIFICATO:

Secondo l’enciclopedia on line Treccani, con il termine “utopia” si intende la formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello. Il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia). Per estensione, il termine utopia indica un ideale, una speranza, un’aspirazione che non può avere attuazione.

Anche Wikipedia presenta questo termine nella doppia accezione cui abbiamo fatto cenno, e cioè  sia come punto di riferimento su cui orientare azioni pragmatiche praticabili sia come illusione e falso ideale. Utopista può dunque essere tanto colui che costruisce le sue preferenze e le sue scelte ideologiche esimendosi dal confronto con le dinamiche della realtà, quanto colui che indica un percorso ritenendolo auspicabile e perseguibile. Si fa inoltre presente che sebbene l’universalità non sia una componente essenziale del concetto, molte utopie presentano caratteri universalistici, anche se esistono utopie di natura settaria o comunque non inclusive.

martedì 1 dicembre 2015

La parola del mese - Dicembre 2015


LA PAROLA DEL MESE

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

DICEMBRE 2015


La (filosofia) teoretica
(dal greco theoréo, = "guardo", "osservo")

 
dal Vocabolario Treccani

1. ciò che appartiene o che si riferisce alla teoria o alla teoresi (accentuazione del carattere speculativo astratto)

2. Nella tradizione didattica universitaria, indica più specificamente la pertinenza ai fondamenti generali dottrinarî della scienza: è da un lato la filosofia della conoscenza, ma dall’altro anche una teoria generale della realtà, distinta sia dalla filosofia morale, o filosofia della pratica, sia dalla storia della filosofia.

 (da Wikipedia)……

La filosofia teoretica può in un certo senso essere definita la parte più generale della filosofia. È difficile dare una descrizione esatta dei principali problemi della filosofia teoretica, poiché qualunque descrizione di questo tipo già presuppone l'adesione e la formulazione di una ben precisa impostazione teoretica, come del resto qualsiasi tentativo di definire la filosofia e i suoi specifici settori. Certo è che l'altissimo livello di generalità della filosofia teoretica ha delle ricadute su tutte le altre "aree" della filosofia, perché è proprio essa ad occuparsi specificamente della definizione degli ambiti in cui esse si trovano ad operare, e dei metodi che esse devono adottare per risolvere i propri problemi specifici. In generale si può indicare che la filosofia teoretica si rivolge al tema fondamentale dei criteri della Conoscenza e a quelli della Filosofia della scienza anche se rispetto a questi due settori ha uno sguardo più generale. Inoltre è possibile dire che il compito primo, e tuttora ben lontano dall'esser portato a termine, della filosofia teoretica è definire l'oggetto della Filosofia e il metodo della sua ricerca. In questo senso è possibile differenziarla dalla Metafisica, la quale ha sin dall'inizio conosciuto una delimitazione ben precisa del suo ambito di applicazione. Potremmo quindi definire la filosofia teoretica una “filosofia della filosofia” o anche una "filosofia prima" (ancorché questo epiteto venga sovente ascritto all'opera Metafisica di Aristotele): infatti fa parte certamente dei suoi compiti trovare una caratterizzazione adeguata del concetto stesso di filosofia, di quali siano i suoi temi specifici e i suoi metodi. Ma proprio su questa caratterizzazione la comunità dei filosofi non ha mai raggiunto il benché minimo accordo, e anzi è oggi più che mai uno dei problemi più scottanti, sul quale vertono le discussioni. La filosofia va continuamente alla ricerca del proprio compito. Centrale per molti è il carattere metodologico della filosofia teoretica: essa è più un modo di affrontare certi problemi, un atteggiamento che un uomo assume nei confronti del mondo e di ciò che sappiamo di esso, più che un insieme consolidato di dottrine nelle quali credere, come la scienza naturale, la religione, il diritto o la critica artistica e letteraria. In realtà la migliore definizione che si possa dare di questa "disciplina filosofica" è l’esposizione di alcuni dei suoi principali problemi.

Ci sono due questioni centrali che definiscono la filosofia teoretica in senso moderno, le cui prime esposizioni possono trovarsi in autori come Cartesio; esse sono strettamente legate tra loro: la prima è "Qual è la struttura ultima della realtà?"; è la domanda della metafisica, ed una risposta positiva ad essa costituisce una ontologia - la seconda domanda riguarda la possibilità della conoscenza e può essere così formulata: "È possibile conoscere questa struttura ultima?", o anche "è possibile una conoscenza autentica, che non sia mera opinione ma scienza?". È la domanda della teoria della conoscenza, o gnoseologia

domenica 29 novembre 2015

A spasso tra i rifiuti - Libro di Gianluca Cuozzo (sintesi di Enrica Gallo)


Gianluca Cuozzo:
Docente   di Filosofia Teoretica  presso   l’Università di Torino.

 “A spasso fra i rifiuti”
                                                                                                                                                        
                                

Presentazione:
E’ una passeggiata davvero singolare, quella che l’autore ci invita a compiere con alcuni inediti “angeli delle obsolescenze” - dal robottino Wall-E  a Walter Benjamin, da Italo Calvino ai personaggi che animano le storie di Ted Botha e di Michel Tournier.
Sarà con essi che entreremo, con Gianluca Cuozzo in funzione di novello Virgilio, in luoghi sicuramente “reali” (le discariche urbane in cui giacciono gli scarti della nostra società dei consumi, vera controparte immobile, oscura, notturna della produzione giornaliera senza sosta delle merci) che assumono peraltro in questo testo tanto rapido quanto appassionato un valore potentemente allegorico e potenzialmente salvifico.
Sta infatti nel residuale, secondo l’interpretazione dell’autore, la sola speranza di una trasformazione profonda e redentrice dell’esistente. Solo volgendo lo sguardo tanto a ciò che abbiamo lasciato indietro nella vita personale, in nome della coerenza e della continuità dei vissuti, quanto a quello che abbiamo sacrificato come civiltà in obbedienza al mito di un progresso inesauribile, solo cercando fra le pieghe della memoria e dell’immaginazione potremo scorgere quelle alternative respinte, e pur tuttavia ancora attualizzabili, che ci permetterebbero di modificare profondamente i nostri vissuti e le nostre scelte di vita, fermando il piano inclinato su cui la nostra civiltà sta scivolando verso la propria  autodistruzione.
Cap. 1 -  DALL’ ANGOSCIA PARALIZZANTE DA SPREAD  ALLA SPERANZA NEL RESIDUALE
Cap. 2 -  DELL’ ALTRO  ME  STESSO, O  DEL  MIO  “DOPPIO  PATTUMIERA”
elogio della “melancolia” come risvolto interno di un’utopia realizzabile
Può sembrare a prima vista sconcertante, che un testo intitolato “A spasso tra i rifiuti” inizi con un elogio della malinconia (anzi, della “melancolia”, perché Cuozzo usa questo termine più desueto).
Se peraltro seguiamo con attenzione le argomentazioni poste con appassionata abilità discorsiva e con riferimenti che spaziano in molte direzioni, questo accostamento verrà ad apparirci come perfettamente coerente con la tesi di fondo dell’autore, che considera il residuale come la sola speranza di una trasformazione positiva dell’esistente.
La sua riflessione parte da alcune considerazioni sulla società dei consumi, che nel momento del suo apogeo esibiva, come motivo conduttore, una sorta di  variante capitalistica del discorso del Grande Inquisitore dostoevskiano in cui si celebra l’indulgenza verso ogni debolezza umana come strumento di potere: essa aveva infatti come scopo dichiarato quello di suscitare i desideri, garantendone la soddisfazione  indefinita – o almeno, illudendoci rispetto a questa possibilità.
 Non era certo vista di buon occhio, allora, la riflessione ponderata e critica da parte di chi, dice Cuozzo, “si rifiuta di considerare necessario ciò che esiste solo per il fatto che esiste”, per sbagliato o ingannevole che possa sembrargli, e sicuramente la melancolia non trovava posto fra gli atteggiamenti considerati consoni allo spirito del tempo.  Nondimeno, la crisi economica di questi ultimi anni ha drammaticamente interrotto questa specie d’incantamento, ridando spazio a quella “insofferenza melancolica” che nell’interpretazione dell’autore non si configura come una rassegnazione fatale, destinata ad inibire l’azione e a rendere sterile ogni progetto, ma piuttosto come uno sguardo rivolto all’indietro, verso ciò che pur essendo possibile non è stato realizzato (uno sguardo dunque simile a quello di Baudelaire, per cui la melancolia assume la forma di un “radioso rimpianto”,  di un “anelito all’inversione del tempo” da cui  emerge il ricordo dell’inadempiuto).
Sottolineiamo quest’ultima parola, che nella riflessione dell’autore assume un’importanza centrale, perché  a suo giudizio è solo a partire dall’inadempiuto  che si può configurare un’utopia concreta, non disgiunta dalla realtà, in quanto basata su di un residuo di realtà da portare all’esistenza; solo facendo dell’inadempiuto una chance, dice, noi potremo pensare alle alternative possibili di un mondo in cui l’economia sembra essere diventata un’entità mitica su cui si fonda l’intero ordine dell’universo, e in cui le uniche speranze di futuro vengono riposte in una crescita orientata all’infinito.
Ora capiamo dunque perché l’autore abbia dato così importanza all’atteggiamento melancolico: la melancolia si configura appunto in questa accezione come una specie di risvolto interno del nastro dell’utopia, volto a cogliere i punti di svolta,  i luoghi  dove altre scelte erano possibili.
Sappiamo bene infatti come ogni percorso umano sia fatto di scelte: scelte compiute per continuità con l’esistente, per non variare quello che ci sembrava assicurare l’ordine del mondo, scelte scartate perché considerate non coerenti col nostro generale sistema di senso e che spesso tendiamo a dimenticare, ma di cui invece dobbiamo tenere conto dal momento che ogni progetto umano lascia sempre dietro a se un reietto, un residuo, uno scarto.
il residuale come “perturbante”  che apre alla possibilità del cambiamento
Soffermiamoci pertanto su quest’ultima parola, che assume nella riflessione dell’autore una duplice valenza, fisica e metaforica. Sono estremamente fisici e concreti, infatti, gli scarti della società dei consumi, che riempiono ormai le nostre discariche fino a saturarle testimoniando l’incapacità di scelte consapevoli e responsabili (scarti che non possiamo non osservare con la stessa malincolia di Wall-E, il robottino spazzino ideato dalla Pixar Animation, testimone della tragica insipienza umana che ha devastato il pianeta riducendolo ad un cumulo di rifiuti. Lo sguardo compassionevole che esso sembra posare su alcuni oggetti che affiorano qua e là ci fa  pensare, dice Cuozzo, all’Angelo della storia di Beniamin, che guarda un mondo ridotto a mero “deserto senza grazia” dello stato creaturale…). 1*
Ma sono anche scarti, pur appartenendo alla sfera psicologica dell’umano, le alternative di vita che abbiamo lasciato via via cadere, ripudiando le possibilità di cui avrebbero potuto essere portatrici in nome della coerenza e della continuità dei vissuti. E come a volte dalle nostre discariche deborda e fuoriesce un liquame scuro, denso e maleodorante, che ci pone di fronte drammaticamente ed   angosciosamente alle nostre responsabilità inevase di fronte al pianeta in quanto casa comune, così ciò che abbiamo scartato e rimosso nella nostra vita personale, e che pur tuttavia non ci ha abbandonati - rimanendo affiancato a noi come un’Ombra o un temibile Doppio - può riemergere all’improvviso come il perturbante freudiano, determinando una sensazione angosciosa e spiazzante, ma potenzialmente liberatoria.
Il rimosso ci ricorda infatti quello che avremmo potuto essere, ci costringe a scavare nelle pieghe della memoria e dell’immaginazione, l’unico luogo da cui può emergere, secondo Cuozzo, una visione emancipatrice che peraltro non comporta necessariamente un cambiamento plateale.
Così come nella vita di un individuo basta a volte un piccolo aggiustamento, perché la realtà interna si riassesti, così portare all’esistenza una virtualità finora inoperante può pregiudicare, secondo Cuozzo, il mondo intero, riconfigurandolo senza bisogno di una trasformazione violenta (come farà il Messia ipotizzato da Benjamin, che ritornerà nel mondo non per operarvi un’ immane apocatastasi ma soltanto “per aggiustarlo di pochissimo”…).
Se diamo spazio a questo sguardo sul residuale, prosegue Cuozzo, sarà come entrare nel Palazzo dei Destini immaginato da Leibniz: in esso si raccolgono tutte le virtualità dell’esistenza, così che ciascuno di noi vi può contemplare le trame di vita che avrebbe potuto imbastire in un mondo del tutto simile al nostro, da cui ci separa solo un lievissimo scarto - sufficiente peraltro per renderlo totalmente Altro – e da cui possiamo attingere la forza per ripensare alla nostra vita e trasformarla.
Una simile visione naturalmente ha senso solo se intendiamo, come Leibniz, che le possibilità siano qualcosa che attiene al reale, pensabile dunque senza contraddizione (mentre per Hegel nel percorso dello Spirito razionale ogni ulteriorità, anche solo virtuale, resta esclusa dalla storia e dall’ irrevocabilità del destino). Saremo infatti pronti a fare spazio ad un’alternativa già respinta ma ancora pronta a rivendicare i suoi diritti solo se ipotizziamo che nel mondo possano esistere il caso, la possibilità, la contingenza, i resti di senso, solo se consideriamo lecito ripensarli nella direzione di un cambiamento praticabile nel momento in cui il sistema globale, chiuso in una logica asfittica, si avvicina al punto di non ritorno, solo  se non pensiamo al presente come ad una struttura mitica da accettare così com’è, nonostante le sue ingiustizie (con un atteggiamento, dice Cuozzo, simile a quello di Esther, la ragazza amata dal protagonista del bel romanzo distopico di Michel Houellebecq “La possibilità di un’isola”,  che vive il presente con innocenza animale, badando solo ad estrarne il massimo del piacere possibile).
fra Michelangelo e Leonardo: il gesto che dà forma separando, il pennello che rivela lo scarto
Se assumiamo lo scarto nel significato di separare, togliere, rifiutare, possiamo identificarlo nel gesto emblematico di Michelangelo, che presagendo con l’audacia dell’immaginazione la figura che verrà, toglie con il suo scalpello quello che ad essa è estraneo, superfluo, inservibile, facendo affiorare dal marmo grezzo la forma (venendo così a ripetere col suo gesto secolarizzato, osserva Cuozzo, il “Fiat” divino, che separa la luce dalle tenebre, la terra dalle acque…).
Solo in Dio peraltro questo gesto non contempla alcun pentimento che modifichi il progetto originale di senso: non così per l’uomo, in cui ogni togliere e scartare vuol dire lasciare da parte un’ alternativa che resta sempre operante, anche se respinta, anche se apparentemente dimenticata. In ogni vita riuscita accade infatti quello che possiamo vedere nei dipinti di Leonardo, che osservati al microscopio lasciano ancora scorgere i pentimenti e le trasformazioni del progetto originario….
 Cap. 3  - ITALO CALVINO E  WALTER  BENJAMIN:  IL VALORE PROFETICO DELLE PAROLE MAI SCRITTE, DELLE PAGINE MAI PUBBLICATE
la costruzione  dell’identità attraverso la separazione:
In questo capitolo Cuozzo, facendo intervenire due “testimonial” d’eccezione, approfondisce il tema della costruzione dell’identità attraverso un processo di separazione. Riprende pertanto la metafora dello scultore, ritenendola quanto mai adatta a rappresentare quel processo che l’esistere, l’uscire dall’indifferenziato (esisto = ex- sisto) impone all’uomo, obbligandolo a definirsi attraverso un instancabile togliere da sé quello che non gli sembra coerente con l’immagine che vuole presentare al mondo.
Un processo in cui gli scarti, le spoglie di ciò che non abbiamo voluto essere vengono gettate, come il marmo in eccesso, in una sorta di pattumiera  - la “poubelle agréée”, come la chiama Calvino in un suo scritto  originale, sottilmente ironico e pur tuttavia profondo 2* - che  rappresenta a suo giudizio “ la parte del nostro essere e avere che devo quotidianamente sprofondare nel buio perché un’altra parte del nostro essere e avere resti a godere la luce del sole” : del resto è solo grazie alle tenebre, aggiunge, che la luce della conoscenza illumina. Soltanto buttando via noi possiamo infatti erigere un confine fra ciò che siamo e ciò che percepiamo come estraneità irriducibile, e lo compiamo infatti senza stancarci mai, affidando pezzi della nostra vita al sacrificio domestico e municipale della spazzatura…
Lo stesso processo avviene per la creazione letteraria: anche la scrittura, come la vita - è sempre Calvino a parlare - è fatta di scelte “selettive e luttuose”, di parole e di pagine cancellate, di storie che non abbiamo scritto per far posto ad altre, e che talvolta escono dal mondo infero dove le abbiamo confinate a reclamare il loro diritto ad esistere...
Parimenti accade, dice Beniamin, con le pagine bianche di un diario, in cui c’è il silenzio di una vita mai vissuta, di un tempo che non abbiamo consumato, anche se resta ancora a disposizione della memoria. Ed è proprio lì, commenta Cuozzo, fra le pieghe del mai scritto, del mai pronunciato, del mai vissuto, in quelle possibilità esistenziali che abbiamo giudicato improprie al fine di dire “Io Sono”, che sta la nostra immagine controfattuale: un Alter-Resto che può uscire dai recessi tenebrosi della psiche e fare breccia fra le sedimentazioni di ciò che siamo diventati, dandoci la possibilità di una autentica metamorfosi.
 un viaggio salvifico nella  “discarica del dimenticato”:
Ma perché questo accada, perché la chance rappresentata dall’incompiuto possa realizzarsi, trasformandosi da virtualità in realtà e producendo un tempo altro, un tempo redento che nasca da quel “non ancora”, occorre essere disposti a pagare lo scotto per ciò che abbiamo sacrificato, ponendosi nell’ottica di una vera e propria conversione, di un “reversement créateur”– che ridesti le promesse mancate, trasformandole in altra cosa (come quello che accade non già negli inceneritori, dove ogni memoria delle scorie viene perduta, ma nel riciclaggio intelligente che riutilizza, trasformandoli, i materiali affidati alla discarica). In altre parole dobbiamo diventare, secondo  Cuozzo, rigattieri di noi stessi, ad imitazione del Dio del salmo 88, che rovista nelle pieghe di ogni anima alla ricerca di ciò che manca alla salvezza.
E’ davvero un viaggio, quello che l’autore ci invita a compiere per raggiungere un luogo che definisce, utilizzando una felice immagine di L.B. Alberti, “la discarica del dimenticato” (il luogo, posto sulla faccia nascosta della Luna, dove le anime giungono nel sogno e in cui giacciono tutte le cose rimosse e perdute, da cui si irradia la promessa di una felicità mai data ma che rappresenta la variante salvifica del nostro esistere nel tempo) 3*.  Un viaggio certamente non facile, ma che dobbiamo compiere, dice Cuozzo, perché come noi abbiamo lasciato in nome della nostra coerenza interna infiniti atti mancati che ci hanno impoverito, così in nome della stessa coerenza senz’anima anche il nostro mondo sta scivolando verso l’apocalisse, appiattito com’è su di una visione del progresso che si è imposta come razionale ed efficiente, ma che in realtà si affida sempre più ai tratti di irrazionalità di una visione mitica.
Potremo peraltro approfittare dell’aiuto di coloro che Cuozzo presenta come degli inediti  “angeli delle obsolescenze”: oltre a Walter Benjamin – già più volte citato, il cui pensiero è teso a demistificare la struttura mitica della nostra visione storica, Michel Tournier e Ted Botha, che in modi diversi hanno rivolto la loro attenzione alla possibilità di cercare la salvezza fra i detriti del tempo. A questi due autori sono pertanto dedicati gli ultimi due capitoli del testo.
 Cap. 4  -  IL DANDY  DEL  PATTUME: COME  VIVERE  IN  UN  MONDO  ALLA  ROVESCIA
Cap. 5  -  LE  AVVENTURE  DELL’IMMONDIZIA:  AURA  E  SALVEZZA  NELLA  SPAZZATURA
Allo sguardo compassionevole del robottino Wall-E e dell’angelo di Benjamin, che scorge nelle spirali di macerie alte fino al cielo i cascami di una storia dell’uomo cui  solo per un errore prospettico, dice Cuozzo,  noi diamo il nome di “progresso”,  si aggiungono ora altri sguardi, decisamente originali, che offrono nuova linfa alla tesi del libro facendo un più preciso riferimento al titolo. Veniamo infatti invitati ad andare letteralmente “a spasso fra i rifiuti” con Alexandre, il protagonista di un libro del 1975 di Michel Tournier (Les metéores), che girovagando con l’andamento languido ma con la vista acuta  di una sorta di dandy esteta e filosofo fra le discariche urbane – ricevute inopinatamente in eredità per via della morte del fratello - riesce a cogliere l’ oscura e pur tuttavia molto espressiva  trama rovesciata  della nostra società dei consumi. Al suo sguardo attento si offre infatti, come in uno specchio, l’immagine distorta di un mondo votato allo spreco, e pertanto  sul punto di essere sopraffatto dai propri scarti, che rivela nell’ombra la sua vera essenza.
Come per Alexandre, anche per Cuozzo le discariche rappresentano un luogo privilegiato in cui possiamo leggere, ancora più che nel mondo diurno e solare della produzione, un’idea di benessere che sta mettendo a repentaglio la vita stessa del nostro pianeta. Nondimeno, a suo giudizio, c’è negli scarti un potere salvifico che potrebbe attualizzarsi, se facciamo tesoro di questo sguardo approfittando dell’immobilità in cui stanno le cose quando escono dal ciclo frenetico della produzione e del consumo, se facciamo nostra l’attitudine di certi personaggi che Alexandre incontra via via e che popolano anche un libro di Ted Botha (Mongo) 4*: cenciaioli, rigattieri, antiquari, collezionisti, che dalle discariche non distolgono il volto come noi tendiamo a fare, ma anzi in esse lo fissano alla ricerca dei loro tesori, comportandosi come veri e propri “redentori delle obsolescenze”. 
I collezionisti descritti da Botha raccolgono infatti gli oggetti più disparati, cogliendo in essi una storia di cui portano ancora le impronte e da cui emana una sorta di richiamo a cui sono sensibili. Può sembrare in molti casi un po’ folle, questa loro ricerca: e però, osserva Botha, nella loro ossessione, assai più della possibilità di prendere qualcosa che non costa nulla, forse è presente  l’idea che si possa dare un assetto diverso al mondo, soprattutto quando con questi oggetti riciclati si costruiscono nuove e originali cose - nella critica in controluce al consumismo imperante c’è indubbiamente un potenziale sovversivo - e c’è anche una sorta di tensione alla permanenza dell’essere che può avere un afflato quasi religioso.
Può sembrare eccessivo, parlare di tensione religiosa in un discorso sulle discariche: eppure, dice Cuozzo facendo suo un pensiero di Philip K. Dick  (Valis), è possibile che il divino abiti anche lì,  che  lì si mimetizzi “come un seme nascosto in una massa irrazionale”, aggredendoci e ferendoci nel suo ruolo di antidoto contro l’illusione tecnocratica di una società che corre  verso la propria distruzione.
Note:
1* = Nel testo “ Sul concetto di storia” Benjamin fa riferimento ad un acquerello di Paul Klee, “Angelus novus”. Benjamin scrive che l’angelo di Klee dà le spalle al futuro, mentre il suo sguardo triste e malinconico è volto alle macerie della storia poste davanti ai suoi occhi: vorrebbe forse redimerle,  riconnettendone gli sparsi frantumi, ma viene impedito da un forte vento che lo spinge lontano, verso un futuro che non conosce.
2* = La novella “La poubelle agrééé”  è contenuta nella raccolta “ La strada di San Giovanni”
3* = Il testo cui si fa riferimento  è  “Le intercenali”  (IV 1 Somnium)
4* = “Mongo” è un termine tipicamente newyorkese che viene usato per definire gli oggetti che dopo essere stati buttati via vengono raccolti, ritrovati, salvati

Dopo i tragici fatti di Parigi - Intervento di Edgar Morin


Questo testo è l’intervento che l’autore ha tenuto al convegno internazionale di Rimini organizzato da Edizioni Erickson.........
 
 
Per capire cosa succede nel mondo islamico è necessario avere una cultura storica: senza storia infatti non può esserci alcuna comprensione degli avvenimenti  Bisogna sapere, per esempio, che nell’antico Califfato c’era piena libertà religiosa sia per i cristiani che per gli ebrei, mentre l’intolleranza più cieca riguardava solo il mondo cristiano: basti pensare alle Crociate, all’Inquisizione, alle persecuzioni anti- ebraiche.
In realtà il vero problema del mondo arabo è stata la sua colonizzazione durata secoli, dalla fine del 400 dopo Cristo alla decomposizione dell’Impero ottomano. Da queste macerie nacque un sogno: il sogno di ricostruire e unificare il mondo arabo, il sogno di Lawrence d’Arabia. Un progetto che però si è andato a infrangere contro le mire egemoniche di paesi europei come la Gran Bretagna e la Francia, che per perseguire i propri interessi nazionali in Medio Oriente “crearono” paesi tra loro diversi: la Siria, il Libano, l’Iraq. Ed è stato un peccato, perché una nazione unificata araba avrebbe potuto svilupparsi in senso multietnico, visto che in ognuno di quei territori avevano sempre convissuto islamici, cristiani ed ebrei. Questa nazione avrebbe potuto consolidarsi, svilupparsi in un clima di libertà religiosa.
Le cose sono andate diversamente. Prima con la frantumazione in Paesi differenti, ognuno inserito in una differente sfera d’influenza. E poi, molto più recentemente, con gli effetti della strategia americana, con la seconda guerra del Golfo che è servita solo a distruggere lo stato iracheno. Ora da una parte c’è la componente sciita; dall’altra quella curda, decisa a diventare indipendente; e infine quella sunnita.
In questo contesto esplosivo — e con le conseguenze di una serie di fenomeni storici come il fallimento del socialismo arabo, il fallimento delle nuove democrazie, il problema palestinese irrisolto, il sottosviluppo economico e un sentimento diffuso e generalizzato di umiliazione collettiva — si è arrivati alla situazione attuale. In cui perfino nei “laici” Territori occupati la radicalizzazione del conflitto e la disperazione hanno portato a una crescita del potere dei fattori religiosi. A questo punto, serve in primo luogo una risposta di tipo culturale. Dobbiamo introdurre nei nostri paesi l’insegnamento delle religioni, non del cattolicesimo ma di tutte le diversità: perché la religione non è, come pensava Voltaire, un’invenzione della cura, ma, come diceva Karl Marx, è il sospiro della creatura infelice. In altre parole, è l’infelicità umana che alimenta la religione. In secondo luogo, per favorire l’integrazione degli studenti musulmani, bisogna mostrare come la Francia — proprio come l’Italia, o la Spagna — sia in realtà una nazionale multiculturale. In Italia ad esempio non ci sono solo discendenti dei latini, è una nazione composta da popoli diversi, siciliani, piemontesi, trentini. E ci sono molti ebrei. L’Italia insomma non ha una razza unica, ma tante diverse, con lingue diverse che col tempo si sono integrate. È la vera eredità dell’universalismo dell’impero romano. La storia insomma deve aiutare anche i giovani a capire come l’integrazione, nel tempo, sia possibile.
Terzo tema: cosa fare oggi con la parola “terrorismo”? Una parola che in realtà non è quella giusta, perché è vuota. Una parola che non contiene in sé una vera fede, una vera passione, ma solo un mondo dalla realtà rovesciata. Era così anche in fenomeni terroristici di altro tipo, come le Brigate Rosse e l’eversione nera in Italia. Le persone non nascono terroriste, si comincia magari per seguire un qualche ideale di salvezza. Come succede con l’Is: dal disagio storico e sociale si passa a pensare di essere al servizio di Dio. E nel caso degli estremisti islamici, il fuoco, il carburante che alimenta la loro follia è la questione irrisolta del Medio Oriente. Questo fuoco è come un cancro, che fa metastasi ormai nell’intero pianeta. Ecco perché bisogna risolvere una volta per tutte il problema mediorientale. Imponendo la pace a tutti le componenti che alimentano questa guerra civile. È questo l’unico modo per isolare il fanatismo di Daesh e del sedicente Califfato.
Ma come fare? A questo punto, ricostruire l’integrità della Siria e dell’Iraq appare impossibile. L’unica soluzione allora è riprendere, tornare a far vivere il sogno di Lawrence d’Arabia, promuovendo una grande Confederazione del Medio Oriente in cui sia ripristinata la libertà di culto. Se decidiamo che è davvero questo lo scopo da raggiungere, allora possiamo portare avanti una grande coalizione che promuova la pace. Solo così quel concetto vuoto che chiamiamo “terrorismo” potrà essere progressivamente liquidato. Questa è una missione vitale, non solo per i francesi o gli europei, ma per tutta l’umanità.
 

domenica 22 novembre 2015

Commenti a margine della conferenza sulla Bosnia


Mercoledì 18 abbiamo ascoltato con molto interesse l’intervento della dott.ssa Donatella Sasso su “Il caso Bosnia” di cui i media parlano assai raramente. Abbiamo apprezzato la chiarezza con cui sono stati affrontati temi assai complessi resi ancora più ostici dalla nostra scarsa conoscenza delle dinamiche politiche e culturali dell’area balcanica. Partita da un doveroso inquadramento storico Sasso si è soffermata sui protagonisti: Milosevic, Tudjman e Izetbegovic accomunati dalla medesima appartenenza alla nomenclatura di regime. Quindi non uomini nuovi per una rifondazione della ex Iugoslavia, ma uomini noti, che secondo l’interpretazione proposta, hanno cercato una ricollocazione negli spazi di potere lasciati liberi dalla crisi interna e internazionale del comunismo. Costoro con l’aiuto del revisionismo storico non hanno esitato a cavalcare la tigre del nazionalismo identitario che tanti lutti ha prodotto in una terra ricca di intrecci etnici in cui nei precedenti 40 anni i matrimoni misti erano stata realtà piuttosto diffusa. L’ultima parte dell’intervento è stata dedicata alla presentazione dell’attuale Bosnia Erzegovina per come quest’ultima è uscita dagli accordi di Dayton del 21 novembre 1995. Gli accordi, che hanno portato la pacificazione, hanno nello stesso tempo introdotto in una Costituzione, che si definisce democratica, un principio di rappresentanza su base etnica che oltre a ledere i diritti di cittadinanza, che dovrebbero essere universali, rende farraginosa e inefficiente la macchina della politica ed eccessivo il peso della burocrazia. In questo quadro le tensioni e i conflitti vecchi e nuovi si riaccendono. Su questa ultima parte sarebbe interessante continuare l’approfondimento perché la conoscenza di un modello identitario fallito può metterci in guardia rispetto a coloro che vedono nello stato identitario/etnico la soluzione di tutti i mali che ci affliggono, intrecciando questa prospettiva con uno spunto fornito da Claudio Vercelli su cosa significhi essere uno stato democratico al tempo delle società multietniche prodotte dalla globalizzazione.