sabato 30 maggio 2015

Babel - Sintesi per Capitoli


BABEL
Libro/dialogo di Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro

La crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”

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Per Capitolo 1 vedi post precedente

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CAPITOLO 2

Dentro uno spazio smaterializzato

 

EM – E’ pur vero però che una somma di generosità individuali non forma una cultura collettiva, mancano i soggetti capaci di trasformare una tendenza in movimento, manca cioè la politica. Lo dimostra, ad esempio, l’evoluzione negativa delle disuguaglianze, che non sono solo un dato economico, di reddito, denuncia la paurosa riduzione di opportunità, dei cosiddetti “ascensori sociali”. L’esclusione è la nuova forma della disuguaglianza. Ebbene, al di là delle occasionali forme di solidarietà, è maturata una sorta di accettazione dell’esclusione. Ed ancora una volta chi latita in modo clamoroso, per l’appunto, è la politica, paradossalmente in primo luogo quella di sinistra. Il conservatorismo di destra, che svaluta il welfare, in qualche modo prevede uno spazio di attenzione agli esclusi, la sinistra non pronuncia più una parola che era suo patrimonio fin dai suoi albori: uguaglianza.

ZB – Dobbiamo però entrare meglio nella forma dell’attuale disuguaglianza, che non è più quella, classica, fra ricchi e poveri; oggi la disuguaglianza si manifesta nel contrasto tra mobilità e fissità, che è a sua volta la fine, sancita unilateralmente dal capitale, della reciproca interdipendenza, sociale ed economica, che aveva caratterizzato la fase “solida” del capitalismo. Questo legame, sicuramente di contrapposizione ma in definitiva di reciproca accettazione, trovava nel “locale”, nella fisicità della fabbrica, il suo ambiente naturale, e svolgeva un ruolo naturale, ineludibile, di limite alla disuguaglianza. Il capitale nella fase della globalizzazione è diventato “mobile”, ha tagliato questo legame con il locale, non sente più alcun vincolo, per quanto contraddittorio, con la condizione della forza lavoro rimasta, inevitabilmente, legata, fissata, al locale. Ed ecco la conseguente esplosione delle disuguaglianze. In questo quadro è vero che quella corrente sotterranea di generosità non trova modo di esprimersi, ma ciò che mantiene in vita ed in azione è l’immortalità della speranza, Camus diceva “mi ribello, dunque siamo!”

EM – Va bene la speranza, ma in che modo la si può esprimere magari non per arrivare fino all’affermazione di Colin Crouch “quanto capitalismo può sopportare la società?”, ma almeno nella forma detta di Piketty “di riuscire un giorno a far riprendere il controllo della democrazia sul capitalismo”?. Tornando alla esclusione, nuova forma della disuguaglianza, occorre dire che essa è solitudine, è disperazione individuale, che non può, da sola, trasformarsi in pensiero alternativo. La crisi economica attuale ha poi imposto una sorta di egemonia culturale, quella della “necessità”, di quanto occorre, occorrerebbe, ma tutta espressa in numeri, percentuali di disoccupazione, spread, punti di PIL. Quando la partita, al contrario, si dovrebbe giocare sul piano delle idee, delle finalità, della capacità di tradurre in nuova governance l’unione di interessi legittimi. E c’è poi il problema dell’opinione pubblica: a chi proporre questo diverso approccio alla crisi quando il sentire pubblico è frastornato, intimidito dalla “necessità”, persino portato ad introiettare la colpa della crisi di più di quanto fanno i veri colpevoli?

ZB – C’è, a monte, un circolo vizioso da dirimere: si è formato di fronte alla profondità della crisi ed alla molteplicità delle sue implicazioni uno iato tra parole e fatti, tra domande e risposte. Le parole non sembrano più in grado, da sole, di superare questo iato, eppure non è pensabile altro percorso se non quello di parlarne, anche di parlare dell’impotenza delle parole. E’ inoltre ormai evidente che la gente non sceglie un governo che metta sotto controllo il mercato, ma è il mercato che condiziona i governi affinchè assoggettino la gente al suo controllo. Dal rapporto tra questi due aspetti emerge l’attualità del pensiero gramsciano ed il suo richiamo alla “prassi” coniugato con l’obbligo del realismo, fermo restando l’ottimismo della volontà. Diceva….la sfida della modernità è vivere senza illusioni e senza diventare disillusi…..In questo senso non è del tutto corretto immaginare che ci si muove solo lungo percorsi predeterminati dalla “necessità”, il mondo degli uomini è un regno di possibilità/probabilità, certamente, come indica Gramsci, da scegliere realisticamente nella “prassi”.  Vero che le possibilità sono limitate, condizionate dal “pensiero dominante”, l’egemonia gramsciana, in particolare dalla straordinaria abilità del consumismo di ricondurre tutte le vie al “consumo”, di aver trasformato il “cittadino” in “consumatore”, cioè una persona che si aspetta di “comprare” un governo accettabile, non di partecipare alla sua formazione; con il risultato che quando il “mercato” offre, come si è già evidenziato, solo governi incapaci di incidere sulla realtà il cittadino consumatore se ne allontana, non compra, o se compra sceglie sulla spinta di sentimenti di frustrazione, di rancore, di voglia di “punire”, non di “costruire”. Non per nulla quel poco che resta di lotta “politica” si è ridotto ad una competizione di personalità che giocano tutto sull’abilità di “apparire”.

EM = Eppure l’egemonia culturale trova nella “necessità” una base importante. La necessità, spacciata per lo stato naturale delle cose, diventa inattaccabile, viene prima della politica. Forse l’individuo non è predeterminato, possiede l’arma della scelta, della prassi, ma il contesto in cui ci muoviamo quello sì può essere predeterminato, perlomeno nei termini di una “manipolazione delle probabilità, delle possibilità”. Una manipolazione che opera alzando il grado di difficolta di alcune scelte piuttosto che abbassando quello di altre, ovviamente in modo funzionale a chi tira le fila della crisi. Si crea, così facendo, un sentire comune diffuso, installato a piccole dosi, funzionale al potere. In sostanza l’egemonia non è più evidente, sfacciata, ma subdola, apparentemente invisibile; viviamo in una egemonia che pare non avere mandanti, che si manifesta, per l’appunto, come lo stato naturale delle cose, come “necessità”.  Non decidendo il contesto, stiamo diventando semplici “spettatori” di un copione scritto da altri, alimentato da fuori, con l’inevitabile risultato che esso diventa immodificabile. Vero è che il singolo voto alle elezioni vale sempre meno, è sempre meno uno valore efficace, ma un “like” postato in rete vale ancora di meno

ZB = Diceva Marx “ siamo noi che facciamo la storia, ma in condizioni che non abbiamo creato”. Certo, l’individuo non è predeterminato, ma si può predeterminare il contesto, il sentire comune. Ed è quanto si sta verificando, in modo dolce, sotterraneo. Gli individui, nella società dei consumi, sono “tentati”, “sedotti”; non serve più ricorrere al potere forte dell’imposizione, è sufficiente questo potere dolce sulla sfera delle scelte, delle responsabilità. Ed è difficile averne coscienza. Ulrich Beck ammonisce che gli abitanti della “tarda modernità”, tutti noi, non sono in grado di vedere ad occhio nudo i pericoli della manipolazione. Per averne evidenza devono appoggiarsi ad “esperti”, a qualcuno che sa. E molti, la maggioranza, trovano comoda, questa de-responsabilità. Finendo, ad ulteriore conferma, per ridursi a spettatori, a fruitori di quegli esperti che sempre più trovano nella rete, nel loro essere continuamente connessi. In questo quadro, che vale soprattutto per le nuove generazioni, sono saltate non solo le ideologie, ma piuttosto le “appartenenze” messe in moto dalle ideologie. Si ha quasi l’impressione, tirando le fila di queste considerazioni, di avere di fronte un cambiamento che avrà le forme di una evoluzione naturale, logica, inevitabile, tutt’altro che imposta. Non è solo un’altra svolta nella storia, ma un modo nuovo di fare la storia.

 
 
 

lunedì 25 maggio 2015

Babel - Sintesi per Capitoli





BABEL
Libro/dialogo di Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro

La crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”

 

CAPITOLO 1
Dentro uno spazio smaterializzato

 
EM - La crisi dell’economia, innescata dalla esplosione della bolla finanziaria nel 2007/2008, non ha soltanto fatto emergere i profondi mutamenti, negativi, prodotti dalla globalizzazione neo-liberista, ma ha messo a nudo l’inceppamento della democrazia come sistema per governare le società. La crisi stessa sfugge ad ogni intervento “democratico”, la sfera dell’economia neo-liberista, in primo luogo, è diventata autonoma. Sono saltati conseguentemente spazi ed il “discorso pubblico” sembra atrofizzato, al punto che è diventato legittimo chiedersi se la democrazia basta a sé stessa, se è ancora in grado di riformarsi, di riaggiustarsi.

ZB – Quello che viene messo in discussione, all’interno dell’attuale crisi, è lo stesso patto fondativo dello Stato democratico. Lo scopo di un governo, di qualsiasi governo scelto democraticamente, è di essere “sicuri”, il singolo rinuncia ad una parte della propria libertà delegandola al governo per avere in cambio “sicurezza”, per poter vivere il più possibile al riparo da pericoli e problemi. Quando il governo non è più in grado di garantire un livello accettabile di sicurezza, ed è quanto sta succedendo nella “liquidità” dei nostri tempi, questo patto salta. In più il consumismo ha accentuato la propensione agli spazi privati, ci si muove a pendolo tra pretesa di maggior libertà e ricerca di sicurezza

EM – La prima e più evidente conseguenza è la crisi della rappresentanza, si va sempre meno a votare, lo si fa con indifferenza e senza passione; la sfiducia nella capacità del governo di svolgere il suo ruolo si è allargata alle istituzioni, allo Stato, alla democrazia intera. Quando il pendolo si volge verso la pretesa di maggior libertà individuale vengono a cadere discorsi collettivi, “pubblici”, con la conseguenza che il governo, lo Stato, dovendo rispondere al “singolo” diventa meno vincolato, impegnato a dare conto di sé stesso

ZB – Lo Stato moderno era nato, e per lungo tempo si è così sviluppato, in direzione esattamente contraria, con l’ambizione di interferire in tutti gli aspetti della vita umana, del singolo, la crisi di cui stiamo parlando nasce proprio dal fatto che quella ambizione è lungi dall’essere realizzata, oggi il governo, lo Stato, è “cattivo conduttore della volontà generale” (espressione coniata da Jacques Juillard). L’apatia politica non è una novità, sono nuove le cause che la provocano, in primo luogo l’esplosione di questa mancanza di “fiducia” nelle regole democratiche. Un altro aspetto che incide su questo quadro è l’impotenza degli Stati-nazione, ossia lo strumento e la dimensione che hanno sin qui gestito il patto fondativo della democrazia, di fronte alle sfide che arrivano da un mondo interdipendente che ha abolito i confini statali. Stati-nazione che, incapaci di leggere l’attuale situazione, restano inclini a rivalità e mutue esclusioni incapaci quindi di una gestione globale. Siamo solo all’inizio di un percorso, sicuramente lungo e tortuoso, come quello che al tempo vide il passaggio dalle comunità locali ai moderni Stati-nazione

EM – Stiamo scivolando verso un territorio sconosciuto senza più il conforto fiducioso dei vecchi strumenti, la politica innanzitutto che non riesce più ad incidere sulla vita quotidiana, sul futuro delle nuove generazioni. Appare chiaro ormai che la democrazia, dopo essere riuscita a sconfiggere le dittature, si trova di fronte ad un nemico peggiore e si rivela impotente, inadatta. I populismi del XXI secolo sembrano gli unici in grado di canalizzare un minimo di energia politica, ma è un’energia da “resa dei conti” sommaria., se la politica era nata per “sciogliere” i nodi della contemporaneità il populismo quei nodi li vuole tagliare con la spada Anche il “leader” sembra un’arma spuntata, un dilettante di talento contro i professionisti della politica più adatto a conquistare che a governare. Ed in un mondo che vanta di essere in costante connessione siamo solo più singoli in cerca di contatto con altri singoli, si è perso il senso del collettivo. Slavoj Zizek afferma che “quando la gente sostiene che è tutto sotto l’occhio dei media e che non abbiamo più vita privata io dico che non abbiamo più vita pubblica”

ZB – Anche questa è una conseguenza negativa del predominio dell’economia neo-liberista che va esattamente contro una propensione, ben presente nella natura umana, alla cooperazione ed al suo intreccio con l’”artigianato”. L’habitat naturale di questa cultura del “dare” erano la famiglia ed il vicinato, il capitalismo moderno, come già evidenziò Max Weber, lo ha sostituito con il mondo degli affari. Ma per una lunga fase, quando il capitalismo era basato sulle fabbriche, sulla produzione, la fabbrica stessa era luogo di solidarietà, con il passaggio alla società dei consumatori anche questo ultimo baluardo è caduto. Le attuali istituzioni si sono inevitabilmente evolute sulla base della cultura del “prendere”. E questo solleva un’altra preoccupazione: esistono ancora condizioni, ambienti, relazioni, su cui si possa formare un movimento di massa a difesa della sofferente, vulnerabile democrazia? Al momento i segnali non sono incoraggianti

EM – Jeremy Rifkin è convinto che stiamo andando verso un mondo senza lavoro, a causa della sostituzione tecnologica, dell’automatizzazione robotica. Si sta cioè rompendo il legame tra produzione ed occupazione, invece di favorirla oggi la produttività sta eliminando l’occupazione. Ma, come evidenzia Ulrich Beck, se il capitalismo globale dissolve la civiltà del lavoro si rompe l’alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e democrazia. Ed in effetti i diritti che nascono dal lavoro e nel lavoro fanno parte della democrazia complessiva di cui tutti beneficiano, purtroppo però quando la crisi preme sono i primi diritti ad essere attaccati a danno dei più deboli e dei meno protetti. E quella “cultura del prendere” slegata dal mondo dei diritti, e dal collegato “dovere” di dare, contribuire, partecipare, porta ad una riduzione ai minimi termini della “cittadinanza”. Se ancora si trovano ragioni, occasioni, di unione, è solo più per protestare, non più per proporre e costruire. Persino l’uso della categoria “cittadino” rischia di essere improprio: vale sempre più la distinzione tra “pubblico” e “folla”, con il primo ancora chiamato a pensare e ragionare con altri, la seconda solo più capace di “sentire ed identificarsi”

ZB – l’attuale crisi ha certamente accentuato il problema, ma già nel 1973 Habermas denunciava che lo Stato democratico stava rinunciando alla sua funzione, basilare per la sua nascita, di mantenere e far funzionare il capitalismo, intervenendo sul sistema di relazione/acquisto/vendita fra capitale e lavoro. Certo Habermas non poteva già immaginare che poco dopo le cose sarebbero precipitate, che quel ruolo sarebbe stato sostituito dalla semplice regolamentazione dell’incontro tra merci e clienti, in una società in cui, usando la definizione di Louis Althusser, lo Stato “interpella” i suoi membri vedendoli prima come consumatori che come cittadini.  Nell’ambito di un simile quadro la stessa categoria del “sistema sociale” non funziona più, non è più in grado di provvedere da sola alla sua “manutenzione”. Recentemente Peter Sloterdijk ha contrapposto l’”economia erotica”, quella che punta a riempire una mancanza, e l’”economia timotica” (dal “thymos” di Platone), quella che punta al riconoscimento sociale; la prima si alimenta di solo consumo, creando nuove “mancanze” quando quelle antiche si sono esaurite, la seconda prevede uomini propensi più al dare che al prendere. Ovviamente nella società consumistica è quella erotica che predomina. Ma dobbiamo continuare ad avere fiducia nella presenza, magari sotterranea, di quella timotica, a cui però, oggi, manca un prolungamento nella politica, ed è questa mancanza che la rende meno visibile.
 
 

venerdì 22 maggio 2015

I destini generali


Pone un interrogativo, forse non nuovo ma non per questo meno coinvolgente, la riflessione che Guido Mazzoni (firma non conosciutissima, ma di sicuro valore – Mazzoni è filologo, critico letterario e poeta) propone con il suo saggio, in uscita per i titoli della Laterza, dal titolo “I destini generali”.

Lo sintetizza benissimo Michele Serra nelle prime parole dell’articolo di presentazione del saggio in questione….Dove ci ha condotti, almeno noi occidentali, la tragedia della Storia? A uno sbocco antitragico: una mediocrità sazia, un decente livello di libertà, niente che trascenda la piena soddisfazione dei bisogni individuali, una patina di tolleranza che intorpidisce i conflitti interni ed esorcizza quelli esterni efficacemente consorziati nell’integralismo islamico, che del tragico e del trascendente è, invece, la quintessenza…..Questo interrogativo non nuovo si può tradurre in queste nostre parole, meno efficaci e sapienti, ma forse più dirette e semplici: abbiamo alle spalle il secolo più tragico della Storia, contrassegnato da guerre totali, da allucinanti stermini e genocidi, da contrapposizioni ideologiche totalizzanti, da deliri di massa sfociati in brutali dittature, possibile che l’esito di questo pesantissimo bagaglio storico  si sia dissolto nel leggerissimo assopimento consumistico di questi ultimi decenni? A questo domanda alcuni rispondono con la non dissimulata nostalgia, certo non degli esiti drammatici, ma quantomeno dei coinvolgimenti, individuali e collettivi, in grado di dare senso a partecipazioni, sacrifici, valori, vite intere. Altri preferiscono evidenziare che questo esito, sicuramente mediocre, ha pur tuttavia il grande merito di garantire la soddisfazione di bisogni, materiali e “politici”, per secoli solamente sognati, come la libertà dalla fame e la libertà di esprimersi. Come rispondete a questo interrogativo? Condividete l’analisi ed il giudizio storico che lo sostengono? Leggendo le seguenti parole tratte direttamente dal saggio di Mazzoni, che rialzano, rispetto alle nostre precedenti, la qualità e la sostanza alla base dell’interrogativo….alla fine del secolo più tragico della Storia umana, alla fine di un conflitto ciclopico fra idee di società e persona, il modo di vita che esce vincitore è il meno eroico, il meno grandioso, ma anche il meno elitario, il più immanente, il più autenticamente popolare. Non ho nulla di politico o di reale da opporre a tutto questo. Ho solo una forma di disagio…..condividete non solo il giudizio, ma anche il disagio?

Sono domande che, in qualche modo, si collegano alle riflessioni che abbiamo svolto in un precedente post dedicato alla definizione di “felicità” all’apparenza diffusa e condivisa, perlomeno nel nostro mondo occidentale, contrapposta a quella declinata nello stesso ambito poco prima dell’inizio del secolo tragico.

E sono le domande che, con un percorso tutt’altro che tortuoso, portano al senso del dibattere collettivo, alla direzione che si vorrebbe, o si dovrebbe, dare alla nostra società, al ruolo ed al valore della “Cultura”

A Voi la risposta.

sabato 9 maggio 2015

Felicità

COME CAMBIA LA FELICITA'
Bolton 1938 - 2015
 
Non vanno certamente presi come dati scientifici, non fosse altro che per i legittimi sospetti sulle metodologie seguite per effettuarli e per la validità del campioni preso in esame, ma è vero che alcuni “studi”, o sondaggi che dir si voglia, offrono comunque spunti interessanti di discussione. L’ultimo, di cui ora parleremo, affronta poi una questione di poco conto: il detersivo considerato il migliore? No! Semplicemente: cosa è per te la felicità? L’aspetto intrigante è che questo studio/sondaggio è stato fatto in Inghilterra, nella stessa cittadina, Bolton (grigio centro industriale alle porte di Manchester), dove venne svolto, nel 1938, analogo sondaggio. Il confronto fra le risposte fornite allora, alla vigilia della seconda guerra, ed oggi offre quindi uno spaccato, non tanto sul loro valore in assoluto, su come sono mutate le aspettative attorno alla felicità nello stesso contesto. Risultato? Nel 1938 il primo ingrediente per la sicurezza era la sicurezza economica, il possesso dell’essenziale per vivere. Nel 2015? La stessa cosa. Ma è l’unico dato rimasto immutato. Ad esempio il conforto della religione, nel 1938 al terzo posto, precipita al decimo ed ultimo posto, oppure: la conoscenza, intesa come opportunità di imparare nuove cose, passa dal secondo posto a metà classifica. Nel 2015 balza al secondo posto vivere il tempo libero condividendo risate ed allegria con le persone amate, parenti ed amici, meglio di quanto detto nel 1938 quando il tempo libero era in fondo alla classifica. Prevaleva al tempo una idea di felicità legata alla vita quotidiana a casa e all’interno della comunità, ai nostri giorni il possesso di un maggior numero di beni non pare essere sufficiente per garantire uno spicchio di felicità, troppo spesso il maggior benessere si trascina dipendenza dai beni stessi, nevrosi per raggiungerli. Non per nulla la realizzazione in campo sociale, ben piazzata nel 1938, è stata sostituita oggi dalla sicurezza, i cui pilastri sono la rete del welfare e l’aspettativa di vita (non per nulla i paesi scandinavi che primeggiano in questi campi occupano i primi posti nella classifica mondiale della percezione di felicità fra gli abitanti di una nazione). Che dire? A voi l’ardua sentenza, attendiamo i vostri commenti. Per intanto estrapoliamo una frase dal commento che il filosofo Maurizio Ferraris fa a margine su questo studio….posto che la felicità è un accordo tra il nostro stato interno e lo stato del mondo in cui viviamo, non è difficile concludere che ci sono tante versioni della felicità quante sono le storie e le geografie che le circondano…..

venerdì 8 maggio 2015

Babel


BABEL
Libro/dialogo di Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro

La crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”

 Sembra davvero interessante questo libro a forma di dialogo in cui Zigmunt Bauman, instancabile sociologo e filosofo polacco, famoso per la sua definizione di “società liquida” ed Ezio Mauro, direttore di La Repubblica, discutono in un rimando di domande, risposte, provocazioni e reciproche sollecitazioni.
Il tema al centro del loro dialogo è quello della limitatezza, al limite dell’assenza, di strumenti e percorsi adatti ad affrontare l’attuale fase di transizione, di passaggio dalle forme novecentesche di partecipazione e decisione, che sembrano aver esaurito il loro ruolo e la loro capacità di strumenti adeguati alle problematiche da affrontare, ad altre forme tuttora non sufficientemente definite e consolidate.
Dice Mauro, in un articolo di presentazione del libro….”non ci sono movimenti politici che, avendo messo in crisi il vecchio mondo, siano oggi pronti ad ereditarlo, non c’è un’ideologia che selezioni il pensiero vincente e lo diffonda, non c’è uno spirito costituente-morale, politico, culturale-che prometta di dare forma a nuovi istituzioni per il mondo nuovo…..in questo quadro, dove lo stesso concetto di “democrazia” pare aver perso la sua indiscutibilità e validità, la politica, nelle forme storicamente concretizzatesi all’interno delle regole democratiche ma troppo appiattite sul contingente, sembra non servire più stante la sua incapacità di dare risposte ai problemi concreti, ma soprattutto alle inquietudini sul futuro, nostro ed ispecie quello dei nostri figli. E questo interregno fra il “non più” ed il “non ancora” diventa il luogo in cui si libera l’irrazionale della decadenza, una ribellione sotto traccia mossa più dall’angoscia che dalla speranza.
Risponde Bauman….prendiamo come esempio la crescita incessante della disuguaglianza sociale….non possiamo più leggerla nei termini di semplice dicotomia tra ricchi e poveri…l’aspetto morfologico della nuova divisione è costituito dall’opposizione fra mobilità e fissità….. Questa nuova divisione è a sua volta il risultato della fine della fase “solida” della modernità capitalistica, nella quale sia la forza lavoro che il capitale,  in qualche modo obbligati a coesistere, avevano elaborato un “modus co-vivendi”, saltato definitivamente da quando il capitale finanziario ha defenestrato il capitale industriale. Nella liquidità di questo interregno, avendo di fronte un capitale che è diventato libero di spostarsi in qualsiasi momento, si sono di riflesso svuotati di efficacia forme organizzative ed associative, strumenti e modi di contrapporsi che avevano svolto, in qualche modo, il loro ruolo nella fase “solida”.
Forse vale la pena di leggerlo e di condividerlo anche qui, in questo blog.

venerdì 1 maggio 2015

La parola del mese - MAGGIO 2015


LA PAROLA DEL MESE

A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

MAGGIO 2015

OMBRA

Definizioni da vocabolario:

- zona di minore luminosità

- parte di una superficie non illuminata

- sagoma scura proiettata da ogni corpo

- figura indistinta

- fantasma, spettro, spirito

- vana apparenza

- leggera parvenza, piccolissima quantità

- manifestazione esteriore di malumore, turbamento, dolore

- difesa, protezione, riparo

- elemento o particolare poco chiaro

- pretesto, giustificazione

- nella teoria di C.G. Jung il lato oscuro, inferiore ed indifferenziato, della personalità

 

Introduzione ai commenti da parte di Nives………….Di primo acchito sembra una parola innocua, parola dolce, parola sinonimo di frescura durante l'estate, parola comune senza particolari velleità. Ed invece no. I suoi significati spaziano dalla dolcezza fino a giungere ad un significato simbolico spesso associato al male. In psicologia indica principalmente il lato oscuro della personalità……..