giovedì 15 settembre 2022

Il "Saggio" del mese - Settembre 2022

 

Il “Saggio” del mese

 SETTEMBRE 2022

Da tempo, con numerosi post, stiamo seguendo con attenzione la tenuta della “democrazia rappresentativa” che, già in evidente affanno in tutto l’Occidente sui temi che di più le competono dei diritti civili e delle libertà, tantomeno sembra essere in grado di affrontare con adeguata efficacia le tante attuali problematiche, in particolare quelle della giustizia sociale e della sempre più urgente svolta ecologica. Alcuni commentatori parlano quindi di una sconcertante “recessione democratica” che si sta manifestando in una fase storica, così segnata da sfide epocali, che richiederebbe semmai un di più di democrazia. Il saggio scelto per questo mese richiama esplicitamente questo affanno delle prassi democratiche ed offre, per meglio comprenderlo, un contributo analitico decisamente specialistico. Elaborato da un economista presenta infatti la tesi che sulla democrazia, già del suo in evidenti difficoltà, gravi una ulteriore minaccia derivante da preoccupanti “dinamiche economiche” in grado di imporre “movimenti di sistema” di portata tale da incidere sull’intera struttura dei rapporti sociali e politici di esercizio del potere.

il cui autore è Emiliano Brancaccio


[Brancaccio Emiliano = 1971, docente di economia politica presso l’Università del Sannio di Benevento, editorialista di diverse riviste e quotidiani - tra cui Limes, l’Espresso, Il Sole 24 ore, Il manifesto, Financial Times – autore di numerosi saggi apprezzati a livello internazionale, cura per Rai-Radio 1 una rubrica settimanale di economia con titolo “Le eresie”, viene annoverato tra i più influenti esponenti della scuola di pensiero economico, cosiddetto critico ed eterodosso, di evidente impostazione marxista, ma aperta ai contributi di Keynes e Sraffa]

Brancaccio, che si sta sempre più guadagnando una posizione di rilievo nel dibattito internazionale con posizioni decisamente alternative al pensiero economico dominante (il nostro precedente “Saggio del mese” di Agosto 2021, “Il mercato non rende liberi” di Mauro Gallegati, analizzava proprio l’asfissia del pensiero economico mainstream da tempo schiacciato sui dogmi neoliberisti), pone al centro di questo suo ultimo saggio la tesi che l’onda lunga del neoliberismo abbia creato le condizioni per l’affermarsi di un consistente ripresa del processo di “concentrazione del capitale” tale da implicare rischi di una parallela “concentrazione del potere decisionale” a scapito delle prassi democratiche. Questa tesi verrà illustrata in particolare nell’ultima parte del saggio recuperando un intenso dibattito che, organizzato dalla Fondazione Feltrinelli, lo ha visto discutere sul tema, con interpretazioni anche divergenti, con un altro importante economista: Daren Acemoglu 


[Daren Acemoglu = 1967, economista turco naturalizzato statunitense, accademico di economia al MIT, fra i dieci economisti più citati al mondo, autore di numerosi saggi alcuni dei quali pubblicati anche in italiano. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla teoria della crescita (con particolare riferimento al ruolo delle istituzioni per lo sviluppo economico) all’economia del lavoro, dalla disuguaglianza nella distribuzione dei redditi alla formazione del capitale umano. E’ annoverato tra gli economisti non del tutto allineati al pensiero economico mainstream]

N.B. = Per chi fosse interessato attivando il seguente link può visionare il video del dibattito

https://m.facebook.com/FondazioneFeltrinelli/videos/509458893807820/

Per meglio comprendere le ragioni che sostengono questa tesi Brancaccio dedica la prima parte del saggio alla raccolta, in forma di “brevi lezioni”, di numerosi suoi articoli nei quali analizza le attuali tendenze del mercato capitalistico.

BREVI LEZIONI DI POLITICA ECONOMICA

Brancaccio fin dalle prime righe di questa Parte Prima afferma chiaramente che l'insieme dei processi socio-economici attualmente in atto rida valore, recuperandola dalla soffitta nella quale era stata troppo frettolosamente confinata, ad una delle idee centrali dell’analisi del capitalismo svolta da Marx nel suo “Il Capitale”: la tendenza del mercato capitalistico alla “concentrazione dei capitali”. Le logiche di mercato implicano infatti, soprattutto nei periodi di crisi, una costante lotta per la conquista di posizioni dominanti sul mercato (che nella attuale fase storica ha definitivamente assunto la forma di “mercato globalizzato) nella quale i capitali più deboli vengono fagocitati da quelli più grandi. E’ un processo costante che si ripresenta immutato in ogni fase di crescita ed ampliamento del mercato capitalistico: se è vero che le innovazioni tecnologiche, e la collegata creazione di nuovi prodotti, possono consentire per un certo periodo la formazione di nuove imprese, ben presto però tale logica si ripresenta in tutta la sua forza (per restare ai nostri giorni anche il variegato mondo delle “start up” lo dimostra con l’evidente loro concentrazione tramite acquisizioni e incorporamento nelle big corporations). Le attuali indagini definite “network analysis (analisi delle reti)”, che hanno ormai grazie ai big data una formidabile potenzialità analitica, lo evidenziano al di là di ogni dubbio:

Ø l’80% del capitale quotato nelle Borse mondiali è controllato da meno del 2% degli azionisti

Ø gli studi di proiezione futura delle attuali tendenze (non poco accentuate dalla stessa pandemia e dalle forti tensioni geo-politiche) valutano che tale concentrazione potrà raggiungere la quota dell’1%

Siamo quindi di fronte ad un dato di innegabile importanza da assumere come dimensione stabile e definita del mercato capitalistico. Brancaccio recupera in questa Parte Prima (che come si è detto è articolata su numerose “brevi lezioni”, in buona misura quelle tenute nell’ambito della rubrica settimanale che cura per Rai-Radio 1) alcune delle annotazioni puntuali da lui sviluppate nel corso degli ultimi due anni (in questa sintesi recuperiamo quelle che abbiamo ritenuto essere le più significative, presentandole in forma di singole “pillole” da scorrere per il loro specifico valore e che, nel loro insieme, formano un organico quadro analitico)  che danno sostanza alla sua tesi di base:

Mondo

Ø L’oggettivo accentuarsi della tendenza alla concentrazione del capitale internazionale ha implicato un ripresa di interesse verso la omonima  “legge” di Marx, da lui considerata come esito inevitabile della competizione capitalistica, paradossalmente più evidente nell’ambito dei circoli della grande finanza internazionale (in occasione del bicentenario della nascita di Marx, 1818-2018, riviste quali “Economist” e “Financial Times” hanno dedicato ampio spazio proprio a questa sua “legge”). Il dibattito che ne è seguito ha visto contrapporsi due correnti di pensiero, chiaramente collegabili a corrispondenti posizioni politiche: da una parte i “sovranisti”, in difesa dei margini di manovra sempre più ristretti dei capitali nazionali, ed i “globalisti, convinti che la concentrazione del capitale in questa economia ormai senza confini non possa che avere dimensioni globali. Queste posizioni, ambedue inscrivibili nel campo generico della “destra”, hanno vieppiù accentuato il clamoroso silenzio al riguardo della “sinistra” ufficiale mondiale. Che ha celebrato il bicentenario recuperando soprattutto il Marx filosofo e antropologo, sottovalutando il fatto che questi suoi contributi, certamente rilevantissimi, perdono parte del loro valore se sganciati dalle sue teorie economiche, le quali, a quanto pare, rappresentano per questa “sinistra” una sorta di imbarazzo

Ø Il centro studi della banca svizzera UBS pubblica ogni anno un dettagliato rapporti sui grandi patrimoni (sono dati molto utilizzati da Thomas Piketty nel suo “Il capitale nel XXI secolo”). I dati relativi al 2020 dicono di un gruppo ristretto di persone (circa duemila proprietari che oltrepassano il miliardo di dollari di patrimonio) che detiene una ricchezza privata pari a circa 10.000 miliardi di dollari (nello stesso anno l’intero PIL USA valeva 20.000 miliardi di dollari, quello cinese 14.000, quello del 2019 di tutta l’Europa, Regno Unito ancora compreso, 16.400). Se l’opinione pubblica è comprensibilmente colpita dalle vicende di imprenditori “fai da te” capaci di costruirsi una ricchezza impressionante in pochi anni (Bill Gates, Elon Musk, Jeff Bezos sono i più famosi) l’analisi di dettaglio fatta dalla UBS evidenzia che la parte decisamente più rilevante di queste grandi ricchezze proviene da lasciti ereditari (fenomeno ampiamente studiato dal citato Thomas Piketty). Enormi ricchezze quindi che stanno attraversando la storia senza nulla perdere per strada, ed anzi aumentando il loro potere economico. Si parla di capitalismo tecnologico in effetti somiglia sempre più all’Ancient Regìme.

Ø Incide su questo stato di cose la giustizia fiscale? La mitica flat tax sul reddito (ciò che si guadagna in un anno) è al centro dell’attuale dibattito politico del nostro paese, ma quella sui patrimoni (tutto ciò che concorre a formare la ricchezza, immobili, azioni, fondi, etc.) esiste di fatto quasi ovunque nel mondo (si parla quindi delle imposte sugli immobili posseduti e sui patrimoni finanziari e azionari) con rarissime eccezioni come sempre concentrate nei paesi del Nord Europa (anche questo aspetto è accuratamente analizzato da Piketty nel suo saggio). Ogni accenno all’introduzione di una imposta patrimoniale, per quanto timida possa essere, suscita diffuse roventi opposizioni (lo Stato vuole mettere le mani delle tasche dei cittadini!!!!)

Ø Studi dell’OCSE (organizzazione internazionale studi economici) e del World Economic Forum hanno stilato una classifica del grado di mobilità sociale nelle varie nazioni (calcolato semplicemente sul numero di anni che occorrono ad una famiglia povera per raggiungere, quando ci riesce!, il livello di reddito medio nazionale). Gli USA, lungi dal realizzare il mitico “american dream”, sono al 27° posto, l’Italia al 37° (in ambedue ci vogliono cinque anni). Al primo posto la Danimarca (con soli due anni) e gli altri paesi del Nord Europa. Un caso che siano le nazioni con le aliquote fiscali più alte e più progressive?

Ø Altri studi dell’OCSE hanno determinato un indice che misura il grado di tutele normative per i lavoratori (EPL). Negli ultimi trent’anni questo indice è crollato del 18% come dato medio paesi OCSE, in Italia ben del 30%. Con la sola eccezione della Grecia è la caduta più accentuata di tutta l’OCSE. Nello stesso periodo il PIL italiano è passato da 1.200 miliardi circa del 1990 ai 2.000 circa del 2019 con una crescita media annuale, calcolata a parità teorica di prezzi, attorno al 2%. La più bassa in Europa, peggio persino di Grecia e Cipro. Che relazione fra questi due dati?

Ø Cambiamento climatico? Nessuna paura sarà la “finanza verde” a imporre la svolta! Come? semplicemente assecondando le insuperabili logiche di profitto che imporranno di investire nelle attività che si renderanno convenienti in base a criteri ambientali, ad esempio nel settore delle energie alternative e non più in quello dei combustibili fossili. Il nome tecnico di questi titoli è “green bonds”. Si possono dormire sonni tranquilli? Beh non proprio, almeno per adesso. Varie inchieste dimostrano che in realtà quote rilevanti di green bonds hanno destinazioni che con la sostenibilità ambientale non hanno nulla a che fare. D’altronde se nessuna istituzione controlla e se i margini di profitto nelle attività non green sono ancora così ampi perché mai rinunciarvi? Il cosiddetto “greenwashing” ha ben poco di verde, forse perché i grandi decisori finanziari non sono poi così bravi a individuare le attività realmente eco-compatibili. James Tobin (1918-2002, economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 1981, ha dato il nome alla “Tobin tax” una proposta di tassazione delle transazioni finanziarie internazionali) era solito ricordare che per le logiche del mercato finanziario il cosiddetto “lungo periodo”……sono i prossimi dieci minuti

Europa

Ø Il ruolo della BCE, la Banca Centrale Europa, è fondamentale per capire gli scenari economici comunitari. I trattati europei che la regolano le affidano come finalità primaria quella di mantenere l’equilibrio tra risparmio e richieste di finanziamento lasciando che questo sia determinato dal libero gioco di domanda ed offerta sul libero mercato. Vale a dire che la politica monetaria, di competenza della BCE, deve espletarsi lasciando che la politica economica sia determinata dai singoli Stati e, là dove i Trattati lo prevedono, dalle istituzioni europee. Si tratta di una evidente concezione “classica o neoclassica” dei meccanismi economici. In realtà non esiste alcuna concreta possibilità che una politica monetaria sia “neutrale”, ed i fatti lo confermano. La scelta della BCE di sostenere con adeguati acquisti i titoli di stato dei paesi della UE più a rischio economico è la prova più evidente in questo senso. Dal punto di vista tecnico è difficile dare torto alla Corte Costituzionale tedesca quando accusa la BCE di andare oltre il suo compito istituzionale. Ma il vero problema non è questo: accettando il dato di fatto di una BCE che interviene sulle politiche economiche europee la vera domanda da porsi è: quale legittimità politica e democratica ha la BCE per agire in tal senso? A quali finalità deve ispirarsi? E chi e come decide queste finalità?

Ø Non è diversa la situazione dell’euro. Attorno alla moneta unica europea sono molti, e di diversa natura, i contrasti e le idee. Come per il ruolo della BCE la linea di frattura fra gli Stati europei evidenzia una maggior propensione alla competizione, motivata dal forte mantenimento degli interessi nazionali, che ad una vera e proprio collaborazione unitaria. L’euro lo conferma anche con le modalità di stampa delle banconote. Ogni banconota di euro ha un codice che inizia con una lettera (S individua l’Italia, la X la Germania, la U la Francia e così via). Qual è il senso? Semplice: se nel gioco dei contrasti l’euro dovesse scomparire ogni Stato, grazie a quella lettera, si ritroverebbe a rispondere esattamente di quanto ha emesso (seppure sotto supervisione della BCE)

Ø I rischi che derivano da questo incompiuto, e contraddittorio, processo di unificazione economica (ed è bene tenere conto che è proprio l’economia al centro del processo di costruzione comunitaria, in quasi tutti gli altri settori si registrano meno attenzioni e quindi maggiori ritardi), vengono di norma esorcizzati agitando lo spauracchio del rischio di inflazione che deriverebbe dal ritorno alle monete nazionali. Ma è proprio così? Non è detto, ad avviso di Brancaccio, perché sono molti e complessi i fattori che possono incidere. A partire dal considerare una economia nazionale come un fantomatico agente unico: in realtà essa è costituita da attori sociali ed economici molto diversi tra di loro, così diversi da essere interessati in modi ed intensità altrettanto differenti da processi come l’inflazione. Se in generale questa di norma favorisce le imprese e danneggia i redditi fissi, non è detto che questi ultimi siano meno danneggiati, ad esempio, dalle rigide politiche di austerità, tutte scrupolosamente antinflazionistiche. Certo è giusta e necessaria l’attenzione sulle politiche monetarie, ma nell’epoca della concentrazione di capitale sono più urgenti controlli sulla circolazione internazionale di capitali.

Italia

Ø Il nostro paese non è mai pienamente uscito dalla crisi globale del 2007/2008. I dati evidenziano fatturati delle imprese ancora lontani dai livelli pre-crisi e la percentuale più alta a livello europeo di imprese finanziariamente insolventi. Le associazioni di categoria, a maggior ragione dopo (si spera davvero) la pandemia non manifestano atteggiamenti ottimistici per il futuro a breve/medio periodo, uno studio dell’Ecofin (il Consiglio Europeo dei Ministri delle finanze) addirittura prevede che nei prossimi cinquant’anni la crescita economica italiana rischia di essere la metà di quella media europea. Un quadro che dovrebbe stimolare una seria riflessione sulle ragioni che di più possono spiegare un declino che, iniziato negli ultimi tre decenni del secolo scorso a dimostrazione di storture strutturali del capitalismo italiano, sembra poi essersi accentuato con il procedere dell’integrazione economica europea. Consiste in questo aspetto la tesi (condivisa dallo stesso Brancaccio) della “mezzogiornificazione europea” avanzata per primo dall’economista Paul Krugman (statunitense, premio Nobel per l’economia del 2008) secondo la quale, con il processo di unificazione economica europeo, l’Italia, e gli paesi del Sud Europa, strutturalmente più fragili, sono ancor più esposti ad una concorrenza da loro non reggibile. Si corre il rischio di ricreare su scala europea il dualismo economico fra Nord e Sud Italia.

Ø In questo quadro la generale tendenza alla centralizzazione del capitale pone l’Italia in una condizioni di subalternità strutturale tale da divenire terra di conquista per acquisizioni di imprese da parte di operatori esteri. Fenomeno già oggi significativo nell’industria e che sta sempre più accadendo nei servizi, e nei settori bancario e finanziario

Ø Il nostro paese è inoltre un perfetto esempio del disastroso mito della “privatizzazione” (su questo aspetto insiste molto il saggio del Prof. Giuseppe Berta “Che fine ha fatto il capitalismo italiano” presentato in un nostro post di Novembre 2016). Si tratta di un mito, in gran misura smentito da comparazioni oggettive fra imprese pubbliche e imprese private, alimentato soprattutto dalla ideologia neo-liberista. Nel nostro paese vicende come Telecom (1997) e Autostrade per l’Italia/Atlantia (1999) sono una eloquente testimonianza di come la vendita a privati di imprese strategiche non abbia assolutamente realizzato una migliore gestione ed un ritorno economico positivo per le casse pubbliche, anzi. Le privatizzazioni di imprese ed attività pubbliche ha raggiunto in Italia un valore pari a 108 miliardi di dollari a fronte dei 75 in Francia, dei 63 nel Regno Unito e dei 22 in Germania. Difficile sostenere che si sia realizzato un corrispondente miglioramento del sistema produttivo. Eppure l’idea di dismettere pezzi del settore pubblico resta in piedi, sostenuta dalla necessità di “fare cassa”, quando i dati contabili dimostrano, da tempo, che gli introiti delle privatizzazioni non hanno per nulla compensato la perdita dei ricavi delle imprese statali privatizzate. Come se già non bastasse la tendenza alla centralizzazione dei capitali.

Ø Un corollario di questa infausta tendenza chiama in causa Mario Draghi (e la sua fantomatica “agenda”). A fine del 2020, poche settimane prima di essere nominato Primo Ministro, nella sua veste di capo del comitato direttivo del “gruppo dei Trenta” (altrimenti detto G30 riunisce esperti di finanza e accademici economici per analizzare le tendenze e proporre linee guida per le attività economiche pubbliche e private) ha licenziato un documento di linee guida certo non “keynesiane”, ma piuttosto ispirate dal concetto di Joseph Schumpeter (1883-1950, economista austriaco, considerato uno dei padri del neo-liberismo) della cosiddetta “distruzione creatrice”. Vale a dire che le politiche governative non devono più impedire i meccanismi selettivi del libero mercato, in particolare non devono sostenere le “imprese zombie”, ossia quelle destinate a morire. La morte delle quali può consentire la nascita di nuove imprese virtuose. L’idea di fondo è che anche nei momenti di crisi, come quello post 2007/2008 e post pandemia, il mercato capitalistico sia spontaneamente in grado di ripristinare un nuovo equilibrio. Nessun accenno alla tendenza della concentrazione dei capitali e al fenomeno economico definito di “istetesi”, ossia la possibilità che una crisi si prolunghi nel tempo impedendo il ripristino di un vero equilibrio.

Il quadro generale che emerge dall’insieme di queste pillole è ovviamente il risultato, confermato dalla crisi globale del 2007/2008, di processi di lunga durata che si sono innescati, qui in Occidente, a partire dalla fine del mitico “trentennio d’oro” (il trentennio successivo alla seconda guerra che ha visto il maggior tasso di crescita economica nella storia dell’Occidente). Su di esso si è però poi abbattuta, con effetti devastanti, la crisi innescata dalla pandemia CVD19

La politica economica della pandemia

Ø L’impatto dei due anni di pandemia sull’economia globale è stato devastante, in termini di costi diretti e immediati (ad es. blocchi di produzione, ricadute sanitarie e sociali) e di costi indiretti sul medio/lungo periodo (ad. es. riorganizzazione interi settori produttivi, relazioni commerciali globali, aumento debito pubblico e privato). Una valutazione ancora approssimativa stima il costo globale dei primi in circa 3.000 miliardi di dollari per il solo 2020, mentre per i secondi occorrerà attendere ancora per definire un quadro esatto. Quel che appare fin da ora certo è che il processo di concentrazione del capitale sta avendo una ulteriore significativa spinta, sono infatti molte le attività che, a pandemia definitivamente superata, si saranno indebolite in misura così significativa da divenire facile preda per acquisizioni e assorbimenti

Ø E’ al contrario già da tempo materia di dibattito e di azioni la gestione del significativo surplus di debito, pubblico e privato, generato dalla pandemia e dagli indispensabili interventi per fronteggiarla e per attutire la ricaduta socio-economica (una gestione che si è ulteriormente complicata per il negativo intreccio tra gli effetti a cascata della guerra russo-ucraina, per la collegata ripresa di processi inflattivi, e per i conseguenti aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Banche Centrali)

Ø Se a ridosso dell’evento pandemico lo scontro tra sostenitori di una spesa pubblica attiva piuttosto che di un ritorno all’austerity, che da tempo caratterizza buona parte delle politiche economiche e monetaria occidentali, sembrava essersi almeno in parte sopito non sono pochi i segnali di una nuova profonda tensione fra queste opposte visioni. Quel che oggettivamente appare certo (prima ancora dello scoppio del conflitto russo-ucraino con il conseguente carico di nuove turbolenze economiche) è che il rimbalzo post pandemico dei PIL non ha una consistenza adeguata per fronteggiare un accumulo di debito paragonabile a quello registrato nel 1946 dopo la Seconda Guerra.

Ø Sono quindi necessarie, a giudizio di Brancaccio, azioni “eretiche” di sostegno all’economia globale non dissimili da quelle adottate nel secondo dopoguerra. Una di queste consiste nel mantenere il tasso di interesse (il costo del denaro) sistematicamente sotto al tasso di crescita del PIL (vorrebbe dire un costo del debito inferiore al reddito prodotto) consentendo, come nel dopoguerra, che la spesa pubblica, al netto degli interessi, resti, almeno per un certo periodo, superiore alle entrate fiscali

Le analisi e le riflessioni di Brancaccio risalgono al 2021, prima delle attuali fiammate inflazionistiche, già allora comunque, come vedremo nella “pillola” successiva, il rischio inflattivo era percepito come possibile ma, ovviamente, per ragioni non riconducibili al conflitto russo-ucraino

Ø Già alla fine del 2020 l’Economist lanciava l’allarme per il rischio che alla fine della pandemia si innescasse un’esplosione dei prezzi. La causa principale è individuata nell’enorme massa di denaro che, stando agli annunci di quasi tutte le nazioni (spiccano i 2.000 miliardi di dollari negli USA, con la prospettiva di altri successivi 3.000 miliardi, e i 750 miliardi di euro nella UE) sta per essere immessa in un mercato globale nel quale la massa di denaro circolante è già da tempo molto alta (si pensi ad esempio ai massicci acquisti di titoli di stato effettuato dalla BCE di Draghi all’insegna del “whatever it takes”). A giudizio di molti analisti una simile valanga di denaro (i mercati già si muovono al solo loro annuncio!),  non proporzionata alle reali capacità produttive del sistema economico globale, innescherebbe di riflesso un eccesso di domanda con ricadute verso il rialzo dei prezzi di beni, materie, risorse. A maggior ragione se intervenissero interruzioni prolungate nelle catene globali di produzione e fornitura (esattamente quello che ha provocato la guerra in Ucraina). Una disponibilità finanziaria di tale portata non solo rischia di produrre fenomeni inflattivi di medio/lungo periodo, ma nell’ambito della riflessione di Brancaccio sulla concentrazione di capitali implica la messa a disposizione di una consistente risorsa finanziaria aggiuntiva per la sua accentuazione. Questo duplice rischio implica quindi una scrupolosa valutazione dell’effettiva destinazione delle risorse finanziarie che si intendono immettere nel circuito economico

Ø Nello specifico della situazione europea a questa problematica prospettiva se ne contrappone poi una di segno esattamente opposto relativa alle modalità di erogazione dei fondi decise sulla base dell’ennesimo compromesso fra rigoristi e possibilisti sulla filosofia del debito pubblico. Il rischio è quello di una sopravvalutazione dei reali margini di manovra concessi dalle possibili erogazioni. Il caso italiano è emblematico: il Recovery Plan prevede per l’Italia un fondo pari a 209 miliardi di euro totali, 82 a fondo perduto e 127 di prestito. Anche questi ultimi consentono un certo vantaggio, ma certo non illimitato, che consiste solo nel risparmio fra il loro tasso di interesse e quello praticati dal mercato in condizioni normali di finanziamento. Nei sei anni previsti di erogazione conti alla mano il vantaggio finanziario realizzabile è di appena 6 miliardi (i recenti aumenti dei tassi di interesse BCE in effetti farebbero crescere di qualcosa questa cifra). Restano gli 82 miliardi di euro a fondo perduto, peccato però che lo scontro rigoristi/possibilisti, ancora in corso, si sia spostato sulle modalità di copertura di tale spesa. Se passasse la linea rigorista di coprirla con i fondi ordinari di bilancio (in luogo del loro reperimento con nuove imposte selettive) l’Italia potrebbe essere chiamata a contribuire, in base al suo PIL, con una cifra di almeno 40 miliardi di euro che, aggiunti ai 20 miliardi di contributo ordinario al bilancio europeo, fanno scendere il vantaggio netto ottenibile con il PNRR a circa 28 miliardi spalmati su sei anni. Certo c’è il grande vantaggio della immediata liquidità, ma non sembra, a conti fatti, una cifra così adeguata per una crisi che nel solo 2020 ha implicato un danno complessivo di ben 150 miliardi di euro.

DEMOCRAZIA A RISCHIO

Un dibattito tra Acemoglu e Brancaccio

L’economia è stata spesso definita una scienza “ecclesiastica”, dogmatica e conformista, poco disponibile al pensiero critico. Negli ultimi decenni, con l’avvento del pensiero economico mainstream, denominato “neoclassico”, di chiara ispirazione neoliberista questo carattere di chiusura autoreferenziale sembra essersi accentuato. Sono infatti poche le voci che, non allineate ai dogmi imperanti, sono riuscite a guadagnarsi attenzioni e spazi. Fra queste voci vanno sicuramente annoverate quelle di Acemoglu e Brancaccio che, seppure divergenti su molti aspetti, hanno introdotto nel dibattito, anche accademico, robusti elementi di critica. Se quelli di Brancaccio vertono principalmente sul recupero degli strumenti critici del pensiero marxista, quelli di Acemoglu guardano soprattutto al rapporto tra istituzioni – politiche, culturali e scientifiche – ed economia. Il dibattito che si è tenuto presso la Fondazione Feltrinelli nel Giugno 2021 (la cui sintesi per questo saggio è stata curata da Domenico Suppa, docente di economia presso l’Università Federico II di Napoli) ha messo a confronto questi due diversi approcci sul tema del rapporto tra democrazia ed economia, in particolare attorno ad alcune domande:

Ø esistono negli attuali processi economici le condizioni per individuare, considerandole ispiratrici delle dinamiche, “leggi generali di sistema”?

Ø fra queste si sta manifestando quella relativa alla concentrazione del capitale?

Ø se così fosse questa tendenza può rappresentare un rischio per la tenuta della democrazia?

Ø quale può essere in un quadro simile il ruolo delle “istituzioni”?

Alla prima domanda Acemoglu e Brancaccio danno risposte diverse, con il primo contrario ed il secondo favorevole. Brancaccio riprende, assumendola caso esemplare e sostenendone la validità, la tesi di Piketty, sviluppata nel suo “Il Capitale nel XXI secolo” [e contestata, sulla base di dati analitici, da Acemoglu nel suo saggio “The rise and decline of general laws of capitalism” (Nascita e declino delle leggi generali del capitalismo) al momento non disponibile in italiano], dell’esistenza di una tendenza costante del tasso di rendimento del capitale ad essere superiore al tasso di crescita del reddito globale (tendenza che sarebbe alla base della crescita delle disuguaglianze economiche).

le differenze di analisi che spiegano su questo caso specifico le due contrapposte opinioni sono sinteticamente riprese in una nostra successiva appendice

Ma al di là della specifica disputa sulla legge di Piketty Brancaccio sottolinea che, per quanto difficile, i tentativi di ricercare leggi di tendenza del capitalismo sono indispensabili per costruire una critica complessiva di sistema. In questo senso l’individuazione, fatta sulla base di oggettivi indicatori analitici, di una tendenza alla centralizzazione del capitale rappresenta, analogamente a quella di Piketty, una “legge” generale di sistema. Acemoglu, nel confermare le sue perplessità sul lavoro di Piketty, risponde, ritenendo comunque che i dati proposti da Brancaccio siano inoppugnabili e che si sia innegabilmente di fronte ad un processo monopolistico di concentrazione del potere economico in poche mani, che la questione di ordine “epistemologico(forme e logiche della ricerca scientifica) sollevata da Brancaccio non può essere risolta guardando soltanto a “cosa è successo, cosa sta succedendo”, a suo avviso è altrettanto necessario individuare i motivi che spiegano tale tendenza e se esistano percorsi alternativi. Vale a dire che vanno evitate generalizzazioni [cita ad esempio quelle di Joseph Stiglitz (economista statunitense, premio Nobel per l’economia nel 2001) sul fallimento dei mercati e delle loro regolamentazioni], e che la questione centrale non consista nel possibile manifestarsi di “leggi generali”, ma che tutto dipenda “da chi ha il potere”. Questo aspetto chiama direttamente in causa le “istituzioni”, tutti i centri di potere, di ogni tipo e quindi non solo economico, che possono, esercitando il proprio ruolo, influenzare in modo decisivo le tendenze generali che stanno emergendo, in questo caso in campo economico. Se si guarda all’esperienza storica concreta del “welfare state socialdemocratico”, per il quale ancora brillano le esperienze dei paesi del Nord Europa, diventa possibile, secondo Acemoglu, affermare che “non c’è nulla di inevitabile nel fatto che le aziende si concentrino e diventino più potenti”.  Se una riproposizione di una economia centralmente pianificata non sembra ormai più proponibile occorre però che i governi, l’istituzione più direttamente chiamata in causa in questo contesto, affrontino con chiarezza e adeguate visioni il problema. Questa ovvietà, che sempre tale non sembra essere, chiama allora in causa il funzionamento democratico, per qualsiasi forma di intervento regolatore il tema della democrazia è fondamentale. Il suo attuale stato di salute non è purtroppo eccellente, occorre uno sforzo di ricostruzione del tessuto democratico a partire dalla partecipazione al voto, che resta lo strumento primario per conferire ai governi la necessaria autorevolezza per esercitare un ruolo sicuramente molto controverso. Acemoglu, pur ribadendo che le osservazioni analitiche di Brancaccio sono inoppugnabili e che quindi ci sia un concreto processo di concentrazione del capitale, sottolinea quindi che non siamo comunque di fronte al manifestarsi di “leggi” di mercato, ossia a fenomeni che, avendo tale carattere, non siano governabili e modificabili. La replica di Brancaccio, che ancora guarda all’aspetto epistemologico, sottolinea che sulla possibile individuazione di “leggi” di mercato le opinioni nell’ambito del dibattito economico sono trasversali e scavalcano la “normale” contrapposizione tra economisti mainstream neoclassici ed economisti alternativi. In un campo e nell’altro si trovano infatti studiosi che, ritenendole possibili, si stanno cimentando nella individuazione e nella determinazione di “leggi di mercato”, ossia di processi così intimamente connessi alle logiche dello stesso da divenire evoluzioni pressochè ineludibili. In aggiunta a quelle in esame della “legge di Piketty” e della concentrazione del capitale, richiama a titolo esemplificativo i processi di precarizzazione del lavoro (testimoniata dal crollo degli indici di protezione dei lavoratori esaminato in una delle precedenti “pillole”). Un fenomeno che, avendo valenza globale ed essendo cresciuto indipendentemente dalle composizioni politiche dei diversi governi, rappresenta una tendenza così resistente e trasversalmente diffusa da poter essere, anch’esso, definito una “legge” dell’attuale capitalismo. Definire “legge” una tendenza consolidata del mercato ha lo scopo di segnalare sue modalità di funzionamento così diffuse e ripetute da costituire “norma”, ma questa utile consapevolezza non nega la possibilità di cambiamenti, anche di natura istituzionale, che su di esse possano concretamente incidere. Semmai l’attribuzione di carattere di “legge” amplifica il richiamo ad interventi correttivi, purchè di analogo carattere strutturale. Ma affinchè un percorso virtuoso di cambiamenti radicale si possa realizzare, non essendo più di tanto soggetto al mutare della connotazione politica del governo del momento (l’esperienza concreta dimostra, ad esempio, che non sono pochi i governi, di destra e anche di sinistra, che hanno al contrario adottato politiche che hanno favorito ed accentuato le tendenze individuate dalle “leggi” in questione), occorre che esso si inserisca, e ne sia quindi rafforzato, in una più generale visione alternativa di sistema. Il crollo dell’URSS e dell’esperienza di gestione economica collettivistica, pur con tutti gli indubbi limiti che l’hanno condannata al fallimento, ha oggettivamente tolto spazio al possibile formarsi di una tale alternativa. Oggi le economie mondiali sono tutte ispirate dal pensiero unico della centralità delle logiche di mercato capitalistico che non consente il pur minimo delinearsi di una diversa visione sistemica. In questo pensiero unico sono confluite le stesse socialdemocrazie novecentesche che, senza uno stimolo concorrenziale alla loro sinistra, si sono progressivamente in esso adagiate. Acemoglu condivide queste ultime considerazioni di Brancaccio, e non di meno ritiene che la caduta del Muro di Berlino abbia contribuito ad accelerare la crisi delle socialdemocrazie. Ma continua a ritenere che, in una democrazia in salute, esistano possibilità di avviare percorsi alternativi, quelli che al tempo non furono tentati dai vari Blair, Clinton, Obama, i quali probabilmente non avevano una corretta comprensione dei processi in corso. Se la domanda è: i mercati possono essere regolamentati? La risposta di sicuro è che è veramente molto difficile riuscirci, ma la storia dimostra che è comunque possibile. Basti pensare ai percorsi di uscita dalle terribili iniziali condizioni sociali della Rivoluzione Industriale, un cambiamento radicale e positivo ottenuto proprio grazie alla strettissima relazione fra le conquiste sul lavoro e quelle di spazi democratici. Le une hanno vicendevolmente alimentato le altre nelle durissime lotte per ottenerle. Brancaccio al riguardo evidenzia che il problema non è tanto quello di incolpare i leader e le classi dirigenti che si sono dimostrate inadatte a gestire fasi cruciali di cambiamento storico, ma è quello di comprendere che …. ogni esponente politico è frutto dei processi oggettivi che maturano nel suo tempo …… una considerazione che di nuovo rimanda all’importanza di cogliere l’eventuale manifestarsi di tendenze, con carattere di legge, alla loro  base. A chiudere il cerchio delle domande di partenze Acemoglu e Brancaccio si dichiarano convinti che il processo di concentrazione del capitale rappresenta sicuramente un grave pericolo per la democrazia. La definizione di “democrazia sotto assedio”, che dà il titolo a questo saggio di Brancaccio, è in effetti introdotta da Acemoglu, per il quale se la democrazia crolla non c’è spazio per qualsivoglia percorso alternativo. Brancaccio completa questa comune valutazione con un personale richiamo a cogliere le opportunità che pure si manifestano anche nei rischi più gravi: se la centralizzazione del capitale rischia davvero di innescare una catastrofe democratica, dall’altra però sta dando luogo ad una polarizzazione del confronto politico tale da favorire, se ben colta ed interpretata, veri percorsi di regolazione del mercato, capaci di infrangere vecchi “tabù” come quello della “pianificazione collettiva”. Basti pensare che dopo la crisi del 2007/2008 sempre più le Banche Centrali, soggetti istituzionali di sicuro non in odor di rivoluzione, governano e disciplinando il funzionamento di mercato, con lo allo scopo di salvarlo dai suoi stessi eccessi. Così facendo stanno però dimostrando che siamo in una fase storica, che i cinesi definirebbero “tempi interessanti”, in cui si aprono spazi per una vera e più profonda inversione di rotta.

APPENDICE

ELOGIO DELLE LEGGI GENERALI DEL CAPITALISMO

Nell’ambito del dibattito Acemoglu-Brancaccio sono emerse alcune considerazioni “tecniche” sulla sostenibilità dell’esistenza di “leggi generali del capitalismo” (odierno). In questa appendice sintetizziamo, a grandi linee, le loro contrapposte analisi così come presentate, dallo stesso Brancaccio e da Fabiana De Cristoforo (dottoranda in economia presso la Scuola di Studi Superiori S. Anna di Pisa),  nel Capitolo che completa questo saggio. Lo spunto di partenza consiste nello studio analitico di Acemoglu che sottopone ad attenta verifica la presunta “legge”  proposta da Piketty sul collegamento tra aumento delle disuguaglianze e rapporto tra tasso di rendimento del capitale e tasso di crescita. Secondo Piketty quando il primo è per un periodo significativo superiore al secondo la curva delle disuguaglianze si accentua. Acemoglu, analizzati i relativi dati di un campione di 19 paesi dal 1950 al 2014, dimostra che tale relazione non si sia verificata con la necessaria regolarità, e nega pertanto la sua pretesa di essere “legge” del mercato. Brancaccio e De Cristofaro riprendono questi stessi test rivisti però con ottiche temporali diverse da quelle usate da Acemoglu. Ipotizzando infatti che la relazione tra disuguaglianze e tasso d’interesse più alto della crescita non possa essere stabilita, come fatto da Acemoglu, “in contemporaneità temporale”, e quindi estendendo l’arco temporale in esame, emerge al contrario una evidente loro correlazione. Contemplando cioè la possibilità che questa si manifesti con  “ritardi temporali” è oggettivamente confermato (nel saggio sono presenti i grafici che sostengono questa analisi che qui non riportiamo) l’insorgere di trend che avvalorano  l’ipotesi di Piketty. Brancaccio e De Cristofaro vanno poi oltre: considerato che negli studi di Piketty la disuguaglianza viene esaminata come dato relativo alla sola ripartizione dei redditi, usano queste stesse impostazioni di ordine temporale per analizzare anche il fenomeno della concentrazione di capitale che, così come a suo tempo già fissato da Marx nella sua legge, aggiunge una decisiva valenza di “controllo” dell’intero sistema che va oltre la pura dimensione del possesso proprietario. Grazie alle potenzialità di calcolo offerte dalle attuali tecnologie Brancaccio e De Cristofaro hanno così più accuratamente analizzato su scala globale il cosiddetto “net control(la percentuale di concentrazione dei pacchetti di controllo azionario). Ed anche questo supplemento analitico (ri)conferma l’esistenza di un consistente e diffuso processo di concentrazione dei capitali, dando così ulteriore sostegno alla possibilità di definirla come una oggettiva “legge” del capitalismo attuale, di portata tale da innescare pericolose derive sul quadro istituzionale e sulla tenuta dei sistemi democratici, che al momento non pare essere adeguatamente contrastata dalla potenzialità “controfattuale” delle istituzioni al centro della riflessione economica di Acemoglu.

Il saggio di Brancaccio contiene inoltre una parte, intitolata “In cerca di una alternativa”, dedicata ai processi in corso a livello globale nel mondo del lavoro, dai quali sembra emergere una potenzialità di ricostruire su base mondiale un unico fronte di opposizione al capitalismo. Un tema di indubbio interesse che non riportiamo in questa sintesi per non appesantirla eccessivamente. Va da sé che potrà essere recuperata con la giusta attenzione in futuri nostri post collegabili al tema.


giovedì 1 settembre 2022

La Parola del mese - Settembre 2022

 

La parola del mese

Una parola in grado di offrirci

 nuovi spunti di riflessione

SETTEMBRE 2022

E’ un termine di conio relativamente recente - introdotto in campo filosofico a fine 700 per indicare il rischio per la ricerca filosofica di ridursi a pura astrazione - e infine utilizzato in senso più ampio nel linguaggio corrente per indicare atteggiamenti, individuali e collettivi, rinunciatari, se non distruttivi e autodistruttivi, verso ogni aspetto del vivere sociale che derivano dal rifiuto della stessa esistenza di valori e istituzioni comuni. In questa accezione, a partire dal primo Novecento, è quindi da molti usato per indicare un modo di essere e di pensare in qualche modo connaturato con l’intera modernità occidentale.

Nichilismo (nihilismo)

Nichilismo (nihilismo) sostantivo maschile, derivato dal francese nihilisme, a sua volta dedotto dal termine latino nihil (niente) = Inizialmente introdotto, nella forma tedesca nihilismus, negli ultimi decennî del sec. 18° per indicare l’esito di ogni filosofia che voglia tutto dimostrare, costretta, quindi, a tutto dissolvere in pure e vuote astrazioni; più in generale, denominazione moderna di un atteggiamento ricorrente secondo il quale, una volta stabilita l’inesistenza di alcunché di assoluto, non ci sarebbe alcuna realtà sostanziale sottesa ai fenomeni di cui pure si è coscienti, risultando quindi l’intera esistenza priva di senso. Particolare rilevanza ha avuto nella letteratura russa della seconda metà dell’Ottocento (soprattutto nei romanzi di Turgenev e di Dostoevskij) per indicare comportamenti tipici dei giovani intellettuali piccolo-borghesi, improntati a un’entusiastica fiducia nella scienza, a un’accettazione del materialismo e del positivismo come strumenti polemici contro ogni forma di cultura tradizionale con esiti di individualismo esasperato, di anarchismo, di immoralismo. Ripreso e approfondito da Nietzsche nella cui opere designa la presunta inarrestabile decadenza della cultura occidentale greco-cristiana, e insieme la denuncia di questa decadenza e la distruzione teorica e pratica dei valori della tradizione. Per estensione, e al di fuori di contesti filosofici, il termine definisce in tono polemico atteggiamenti o comportamenti ritenuti rinunciatari oppure volti alla distruzione di qualsivoglia istituzione o sistema di valori esistente

Estratto dalla definizione del Vocabolario on-line Treccani

 «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nihilismo. Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già con cento segni, questo destino si annunzia dappertutto: tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare». -  F. Nietsche, “Frammenti postumi” 1885-1887

Il “successo” di nichilismo come chiave di lettura della modernità, a conferma di questa profezia nicciana, è tale da essere ormai utilizzato in modo strumentale come accusa e condanna verso ogni posizione critica non allineata ai modi di pensare dominanti. Come a dire che chi non ne condivide i valori, o presunti tali, è inesorabilmente classificato come nichilista. Ma al di là di questa esasperazione strumentale alcune domande sembrano restare lecite: davvero il nichilismo definisce la cifra dei nostri tempi? siamo davvero definitivamente entrati, perlomeno in Occidente, in una fase storica priva di ideali, di tensioni positive? l’attuale nichilismo, che appare così diffuso e pervasivo, è ancora quello di Nietzsche? Domande complesse che non possono certo avere risposte adeguate nel modesto spazio della “Parola del mese”, ma una prima modesta riflessione vale la pena di essere tentata. Lo facciamo seguendo come guida un recente saggio che si propone di rispondere esattamente a queste domande


del filosofo Costantino Esposito (1955, insegna Storia della filosofia presso l’Università di Bari)


In questo suo saggio Esposito esplora infatti il nichilismo dei nostri giorni per capire se la profezia di Nietzsche si è compiutamente realizzata, se davvero ha assunto il carattere di una “catastrofe inquieta, violenta, precipitosa”, o se le grandi trasformazioni intervenute in questi ultimi decenni hanno in qualche modo inciso su di esso. Fin dalla prefazione la sua tesi è esplicita: il nichilismo, dopo essere esploso ad inizio Novecento nella forma iconoclasta e titanica di Nietzsche si è via via trasformato da “patologia” in “fisiologia” della cultura occidentale tanto da non consistere più solamente in una perdita di valori e di ideali e da aver invece assunto la forma di un “bisogno”, quello di un significato vero per il nostro stare nel mondo.

 

E’ opportuno precisare, per meglio seguire la sua riflessione, che questo saggio ha recuperato e integrato una serie di interventi pubblicati, con titolo di “Cronache dal nichilismo”, sull’Osservatore Romano (quotidiano e sito web della Città del Vaticano) con il quale Esposito collabora assiduamente in coerenza con la sua personale fede peraltro vissuta, personalmente e professionalmente, in modo totalmente libero e aperto. In tutto il saggio emerge quindi con evidenza una tensione religiosa vista e proposta come possibile via di uscita dal nichilismo del nostro tempo. Nel pieno rispetto di questa sua propensione questa sintesi si concentra però, coerentemente con le domande che l’hanno sollecitata, sulle parti di analisi ed interpretazione del fenomeno nichilista

Esposito inizia il suo viaggio nel nichilismo del nostro tempo citando il magnifico libro di Corman McCarthy “La strada” (un padre ed un figlio che, in un mondo sconvolto da una catastrofe, intraprendono un duro viaggio - lungo una strada piena di pericoli e delle brutture di una umanità ormai priva di senso e direzione – per raggiungere un possibile futuro), il senso e lo scopo di questi due viaggi sono infatti identici. Quello nel nichilismo del nostro tempo si snoda lungo un paesaggio che sembra essere segnato dalla sua definitiva, totale, vittoria Ma è una strana vittoria, perlomeno non sembra più essere quella, terribile e stravolgente, intuita da Nietzsche, che segnava l’arrogante avvento di un “nichilismo attivo” ebbro della potenza umana. Sempre più si infittiscono segnali che fanno invece pensare ad un “nichilismo passivo”, ad un “declino e regresso della potenza dello spirito”. Se la protagonista del primo era una umanità che si proponeva di rovesciare l’ordine del mondo, quella del secondo è semmai una umanità con le sembianze di un “tranquillo prodotto della società dei consumi”. Ma è proprio in questa strana vittoria che il nichilismo torna ad essere un problema seppure in mutate forme. Quella che poteva essere la catastrofica vittoria di un delirio di potenza sembra essere divenuta l’apatica rassegnazione al vuoto, nella quale semmai brillano fievoli luci dell’emergere di un “bisogno”. Ancora una volta la narrativa può aiutare a capire: Michel Houellebecq nel suo “Serotonina” racconta di un uomo che, in pieno razionale delirio nichilista, ricorre a questo farmaco per annullare il proprio io, a partire dal suo istinto sessuale, salvo poi scoprire che altro, l’amore “vero” di una donna, è ciò che perdeva. Sono fievoli luci, deboli segni, che dobbiamo guardare con attenzione per comprendere il nichilismo del nostro tempo, ma è lì che si nasconde il vero vuoto di senso che non è più solo perdita di valori e ideali, ma il bisogno di un bisogno. Può bastare a ben indirizzare questo sguardo la nostra intelligenza? No, se per intelligenza intendiamo una sorta di “pilota automatico” che, sulla base di dati, trova per ogni problema la soluzione più semplice, non diversamente quindi dal modo di procedere della IA, dell’intelligenza artificiale. Non solo questa idea di intelligenza non aiuta, ma proprio in essa si nasconde una delle caratteristiche tipiche del nichilismo contemporaneo: più ci si affida al calcolo computazionale, più la soluzione dei problemi si ottiene con “organizzazione tecnica dei dati”, e più diventa sfuocato il significato vero della conoscenza. Il punto critico in una società ipertecnologica non consiste certo nella quantità di dati disponibili, di “saperi” su cui contare, ma nel saper porre le giuste domande. Avere questa consapevolezza non aiuta solo a meglio districarsi nella valanga ingestibile dei Big Data, ma cauterizza dal rischio di non sapere dove indirizzare la nostra sete di conoscenza e di ritrovarsi alla fine più poveri di senso della realtà. L’attuale nichilismo si nutre anche di questa intelligenza monca, che separa conoscenza, ed i suoi modi di realizzarsi, dai nostri “desideri” ultimi, più intimi, che, come il protagonista di Serotonina, non sappiamo più individuare. Questo separazione segna in effetti una sorta di capovolgimento del nichilismo: quello vaticinato da Nietzsche nasceva come reazione, come opposizione, alla pretesa del positivismo scientifico di inizio Novecento di spiegare il mondo grazie ai dati empirici forniti dal progresso scientifico, oggi esso nasce proprio come esito  del predominio, ormai compiutamente affermato, della conoscenza tecno-scientifica: più questa cresce - al punto da non limitarsi più alla sola realtà data, ma a  crearne una parallela – e più esso a sua volta cresce. Un aspetto è rimasto però fermo nell’evoluzione nichilista: il vero senso della “morte di Dio”, la formula con cui Nietzsche definisce la crisi di ogni trascendenza religiosa o morale. Una crisi che semmai sembra essersi accentuata nell’attuale epoca della “performance”, dell’affermazione di sé come immagine vincente, un’autentica illusione individuale e collettiva che inevitabilmente si traduce in un fallimento, di cui spesso non si ha neppure piena consapevolezza, tale da produrre quella “cultura dello scarto” con cui papa Francesco individua uno dei problemi più drammatici del nostro tempo. Esposito affronta questo paradosso nichilistico proponendo, ma a nostro modesto avviso troppo velocemente e troppo sinteticamente, alcune ponderose considerazioni di ordine filosofico e psicologico attorno ai concetti di “immanenza/trascendenza”, di “finito/infinito”, di “volontà/potenza”, di “pulsioni/freni”, di “biopolitica”, “carne/spirito”, citando in rapida successione pensatori come Gilles Deleuze, Spinoza, Leopardi, Cartesio, Schopenhauer, Freud, Foucault, Agamben, Julian Carron, che ci sono parse al tempo stesso tanto stimolanti quanto troppo dense per poter essere anche soltanto accennate in questa sintesi. Ci limitiamo quindi a recuperare il suo citare due pittori, di epoche e stili totalmente contrapposti, Francis Bacon (1909-1992, pittore irlandese) e Raffaello Sanzio (1483-1520, pittore del Rinascimento italiano) che - il primo dipingendo corpi smembrati, carni esposte ed urlanti, il secondo cesellando la perfetta compostezza degli incarnati dei suoi ritratti - hanno a modo loro raccontato la stessa sottile linea che divide tutti quei concetti e nella quale si annida la genesi del nichilismo. Ed è proprio lungo questa sottile linea che la recente pandemia ha insinuato nuove domande e nuovi dubbi che consentono di mettere meglio a fuoco il nostro sguardo su quello del nostro tempo. L’irruzione della riacquisita consapevolezza della nostra “finitudine” (nostra “Parola del mese” di Febbraio 2021 basata sul bel libro di Telmo Pievani con titolo omonimo), l’idea cioè di una nostra finitezza” non riducibile al solo “memento mori”, ha investito in pieno la presunzione nichilista di poter fare a meno delle risposte ultime nel nostro modo di affrontare vita e realtà.  E ha prepotentemente richiamato in causa quella “angoscia” che secondo Heidegger (1889-1976 filosofo tedesco) sempre coglie l’uomo, soprattutto quello moderno così presuntuosamente ricco delle presunte certezze fornite dalla “tecnica”, allorquando viene colto dallo spaesamento di fronte al permanere del “mistero”. Se lo sguardo nichilista sul mondo, come la pandemia ha dimostrato, può tutt’al più, e già entrando in crisi anche solo per questo, cogliere la finitezza del “memento mori”, una consapevolezza alternativa, che qua e là si è manifestata nutrita dall’idea della finitudine che tutto avvolge, richiama in gioco l’esatto opposto: quello “dell’essere (ri)nati”. E’ l’idea di natalità, di un mondo che costantemente si rinnova, ri-nasce, che per Hanna Arendt (1906-1975, filosofa e politologa tedesca poi naturalizzata statunitense, la cui opera è spesso, e non a caso, in contrapposizione ad Heidegger con il quale ebbe una lunga relazione intellettuale ed amorosa, prima di una netta rottura) è il tratto caratterizzante del nostro essere al mondo capace di riaprire spazi alle domande che il nichilismo sembrava aver definitivamente chiuso. Ed il ritorno sulla scena del “mistero”, drammaticamente imposto dalla vicenda pandemica, non ha soltanto assestato un duro colpo alle presunte certezza dell’era tecnologica, ha anche dimostrato che la realtà consiste in qualcosa di più delle sue “misurazioni”. Lo shock che l’umanità ha vissuto durante la pandemia, dovuto all’improvvisa consapevolezza che non tutto è immediatamente chiaro, conoscibile, quantificabile, ha in effetti ridato centralità all’idea di “mistero”, un concetto che chiama in gioco qualcosa che non è immediatamente riducibile alla potenza della ragione umana.  Esposito rafforza questa constatazione, che sembra porre in crisi una delle spiegazioni del nichilismo originario, citando i famosi “tagli” sulle tele di Lucio Fontana (1899-1967, pittore e scultore italo-argentino), fenditure che mostrano la dimensione misteriosa della vita, c’è sempre qualcosa oltre e dietro, ma non sappiamo cosa, ed al tempo stesso la natura reale ed insopprimibile del mistero. Nel saggio di Esposito seguono a questa irruzione del mistero, ed il suo spiazzare la propensione nichilista, riflessioni sulla natura del nichilismo del nostro tempo collegate ad alcuni concetti base:

Ø certezza” e “verità” = Ambedue questi concetti sono di fatto negati dal pensiero nichilista che li considera presunzioni pericolose se non pretese impossibili, un atteggiamento che peraltro trova sponda nella fisiologica diffidenza verso la possibilità di determinarli sulla base delle ordinarie modalità di conoscenza proprie dell’intera storia culturale umana. Non a caso quindi un filone importante del dibattito filosofico novecentesco si è sviluppato proprio attorno ad essi. Il famoso aforisma anti-positivista di Nietzsche, ancora lui!, “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni” ha infatti dato origine ad una lunga traiettoria che, passando per Heidegger e Gadamer (1900-2002, filosofo tedesco, la cui opera più rilevante non a caso titola “Verità e metodo”) è arrivata, verso la fine del secolo, a coinvolgere in posizioni di rilievo due filosofi torinesi: Gianni Vattimo, che con il suo “pensiero debole” nega la possibilità di acquisire certezza e verità facendo totalmente sua la massima di Nietzsche, e Maurizio Ferraris, che con il suo “nuovo realismo” ritiene, in netta contrapposizione, che con il ritorno ai “fatti” siano ambedue recuperabili alla conoscenza umana. In qualche modo ne è comunque conseguito lungo tutto il Novecento un alone di dubbio culturale che, coniugato al venire meno dei grandi sistemi teorici politici e alle crescenti difficoltà sociali ed economiche, non poco ha contribuito a creare un sentimento diffuso di “incertezza” che sembra avvolgere l’attuale modernità. Ne sono convinti Zygmunt Bauman (l’incertezza del tempo attuale è infatti alla base del suo concetto di “retrotopia”, un’utopia che non guarda più al futuro, perché indecifrabile, ma al passato, a ciò che già avvenuto può rassicurare. Retrotopia è stata la nostra “Parola del mese” di Novembre 2017) e Ulrich Beck (teorico della “società del rischio” e della collegata “Metamorfosi del mondo”, nostro ultimo Saggio del mese). Se è allora forte il rischio che il nichilismo trovi in questa, al momento irrisolta, temperie continuo conforto ed alimento, non sembra però adeguata, perché non concretamente spendibile, la proposta di Esposito di riesumare l’idea di certezza/verità elaborata da John Henry Newman (1801-1890, filosofo e teologo inglese) nel suo testo “Della certezza”, successivamente ripresa e perfezionata da Wittgenstein (1899-1951, filosofo tedesco), così riassumibile: la certezza umana è la percezione di una verità accompagnata dalla percezione “che è una verità”

Ø felicità” = altro concetto in qualche modo indigesto per il pensiero nichilista, da una parte appiattito sulla dimensione relativista del momento e dall’altra, dopo le tragedie del Novecento, orientato al mantenimento di ordine e, presunte, confortanti certezze. Può sembrare paradossale questo orientamento perché una delle micce che hanno fatto scoppiare il nichilismo contemporaneo è consistita in quella che Nietzsche ebbe a definire “inimicizia fra dovere e felicità”, ma è pur vero che là dove, e quando, questa viene a mancare diventa inevitabile accontentarsi, avendo rinunziato a valori e ideali, a ciò che l’ordine sociale e gli standard culturali possono comunque offrire.

Ø il nulla” = “Perché vi è qualcosa piuttosto che nulla?”, questa è la domanda, a prima vista assurda e superflua, che si pone Leibniz (1646-1716, filosofo e scienziato tedesco). Ed è una domanda che dai filosofi greci fino a quelli contemporanei, Heidegger in testa, ha sempre accompagnato il pensiero umano. Moltissimo ci sarebbe quindi da dire al riguardo ma - se non ci si limita ad intendere il nulla come il non essere più di qualcosa che prima era e il non essere ancora di qualcosa che sarà, - su una considerazione comune sembrano convergere le varie idee su di esso: che lo stesso concetto dell’essere, dell’esistenza in generale di qualcosa, si regge sulla contrapposta, ma non paradossale, esistenza del concetto di “nulla”. Di questo “nulla”, nulla sa il nichilismo che, disinteressato a tutto ciò che può dare significato alle cose, si (auto)limita a misurare e gestire tecnicamente la realtà. Il nulla, ancora una volta non paradossalmente, può allora essere il concetto che di più può fare da grimaldello alla sua invasività

Ø il desiderio di vero” = nel pensiero nichilista non si annida soltanto il rifiuto della verità di cui si è già detto. L’iniziale urlo nicciano di respingimento del concetto di vero (“io per primo ho scoperto la verità, perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna!!!!”- Nietzsche “Ecce homo” 1888) si è via via trasformato in un autentico rifiuto della ricerca di verità, di negazione del desiderio di vero. Ed è innegabile che il possesso di verità, pur con tutte le pregiudiziali viste in precedenza, è possibile solo se lo si ricerca, se lo si desidera. La rinuncia nichilista al vero si è reso possibile perché non hanno avuto compimento le due prospettive che accompagnavano quell’urlo di Nietzsche: la liberazione delle pulsioni umane affrancate, slegate, dal raggiungimento della verità e l’identificazione di quest’ultima con l’accettazione [che molto deve al pensiero di Spinoza (1632-1677, filosofo olandese di origine ebraica)] di un mondo, di una realtà, in cui tutto ritorna esattamente uguale nella fusione nel Dio natura. Se neppure in questo originario scarto nichilista una verità è rintracciabile a che serve ancora il ricercarla, il desiderarla? E’ forse questo lo scalino più arduo da superare nel confronto con il nichilismo del nostro tempo

Ø il dovere” = un tratto caratteristico della cultura nichilista consiste nel rifiuto del “dovere” come valore alla base dei rapporti collettivi che non poco contribuisce ad alimentare la tendenza al “relativismo” culturale ed etico. Senza cadere in inutili generalizzazioni sembra però possibile sostenere che, nell’epoca nichilista, i legami sociali ben poco  poggino sull’accettazione di comuni doveri collettivi, a fronte di una dilagante ricerca di riconoscimento per i diritti, o presunti tali, connessi alla escludente sfera individuale (Esposito apre al riguardo una parentesi non adeguatamente approfondita e quindi di non  semplice accettazione: a suo avviso siamo entrati in una fase in cui è l’ideologia dei diritti che crea i soggetti a cui applicarli, e non il contrario). Quella che il nichilismo ha svelato come oggettivamente superata è in effetti l’intera impalcatura dei legami sociali basati principalmente sull’obbligo morale di riconoscimento dei doveri che si è snodata nella modernità da Kant (1724-1804, filosofo tedesco) fino a Weber (1864-1920, sociologo tedesco) partendo dalla stessa concezione illuministica di un “dovere universale” che guarda all’umanità nel suo insieme al di sopra del singolo individuo. La caduta di questi principi a lungo considerati assoluti ha capovolto, aprendo la breccia al relativismo, i termini del rapporto individuo-valori, con quest’ultimi condannati a dover dipendere dal primo. Fino al punto di rendere davvero sterili i tentativi di recupero se limitati a riproporre il “dovere verso i doveri” comandato da una ragione, sempre meno individuabile ma superiore all’individuo. Per battere il nichilismo su questo cruciale piano occorre forse rivedere l’intera storica catena culturale di individuazione, accoglimento e trasmissione generazionale di valori e collegati doveri, un processo non semplice in un’epoca di continuo sconvolgimento tecnologico.

E proprio l’assetto tecnico/tecnologico, tratto ormai costitutivo della contemporaneità, rappresenta uno dei due ultimi aspetti che concorrono, secondo Esposito, a formare il quadro del nichilismo del nostro tempo. Era già così al tempo della prima grande esplosione nichilista di inizio Novecento, allorquando Nietzsche intuisce bene che, con l’avvento della tecnica, quello passivo, inizialmente sorto come reazione all’egemonia culturale positivista, si stava trasformando in quello attivo della catastrofe da lui vaticinata. Una intuizione confermata nei decenni successivi da Ernst Junger (1895-1998, scrittore e filosofo tedesco); nei suoi lucidissimi racconti, dall’interno, delle logiche militari della Grande Guerra emerge con nitidezza come la tecnica da una parte moltiplichi la potenza dell’uomo e dall’altra lo renda sempre più superfluo, bastando da sola a sé stessa. Consiste proprio in questo “bastare a sé stessa” della tecnica il suo tratto nichilistico, così come ha messo definitivamente in luce Heidegger là dove denuncia che essa da tempo ha smesso di essere un semplice “mezzo” per divenire il modo costitutivo di rapportarci al mondo degli “enti”, all’intera realtà. Precisa poi Heidegger (il nostro “Saggio del mese” di Maggio 2021, “Heidegger e il nuovo inizio” di Umberto Galimberti affronta esattamente questi aspetti) che l’impronta nichilista della tecnica è poi vieppiù accentuata dall’essere una conseguenza non casuale della svolta filosofica che, a partire da Platone, ha separato “l’essere” dell’uomo “dall’essere” di tutti gli altri enti. Fino a denunciare che proprio la rinuncia nichilista a valori e idealità è l’esatto prodotto dei valori e delle idealità della filosofia occidentale. L’impressionante, ed in nessun modo regolato e governato, sviluppo tecnico/tecnologico di questi ultimi decenni ha poi definitivamente inglobato in queste sue logiche ogni aspetto del vivere umano tanto da rendere indispensabile ed urgente una sua vera gestione. Non bastano l’adozione di limiti e protocolli così come suggerito da Luciano Floridi (il suo “Pensare l’infosfera” è stato il nostro “Saggio del mese” di Maggio 2020) e lasciano molti dubbi e perplessità le proposte di Maurizio Ferraris di  considerare l’era della tecnica come la dimensione ormai ordinaria, ontologica, dell’uomo contemporaneo (così come scrive nel suo libro “Mobilitazione totale” del 2015) piuttosto che di Alessandro Baricco di accettare la sfida, ormai inaggirabile, lanciata dal “game” tecnico/tecnologico (“The game” è infatti il titolo del suo libro del 2018 su questi temi). Se ambedue queste proposte immaginano di annullare il potenziale nichilista del dispositivo tecnico/tecnologico disinnescando a monte le domande sul suo senso (all’insegna del pirandelliano “così è se vi pare”) ambedue però presuppongono come protagonista un soggetto, un “io”, capace di governare positivamente vuoi l’adattamento vuoi la sfida. Così non sembra essere, lo dice il tormentato processo di disgregazione dell’io contemporaneo, l’ultimo tassello del puzzle “nichilismo del nostro tempo” proposto da Esposito. La sua novecentesca parabola ha infatti prodotto un soggetto che è l’esatto opposto del (presunto) temerario nichilista capace di stare al mondo, e di governarne ogni processo, senza la stampella di ideali e valori. Esposito racconta questa involuzione affidandosi (in riflessioni ancora una volta forse un poco troppo frettolose rispetto ai temi esaminati) alle “Lezioni americane” di Italo Calvino sulla “visibilità” e sulla “leggerezza” (per evidenziare l’assenza di sguardi sul mondo che sappiano vedere, con il giusto coinvolgimento, anche ad occhi chiusi), a Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philip Roth, nel suo confessarsi nel romanzo “La controvita” (dove afferma di non possedere un solo “sé stesso”, ma di sentirsi dentro una intera troupe di attori ognuno con il suo ruolo), a Daniel Dennett, Antonio Damasio (autore della recente “Parola del mese” di Giugno 2022 “Coscienza”), Oliver Sacks (per illustrare alcuni meccanismi della coscienza umana), e poi ancora ad Agostino da Ippona, a David Hume e, va da sé, a Nietzsche. La conclusione comunque conferma che il secolo nichilista ci consegna un “io” indebolito, privo di consapevolezza, un protagonista mancato, un soggetto che ha costante necessità di riaffermarsi, di ridefinirsi rispetto al nulla che ha, molto poco consapevolmente, creato attorno a sé. Certo non all’altezza di quello che propongono Ferraris e Baricco. Ma soprattutto un soggetto che, visto ad occhi chiusi con la visibilità invocata da Calvino, ci dice, con un linguaggio muto, di un suo non soddisfatto “bisogno”. Esposito ritorna al termine del viaggio nel nichilismo del nostro tempo alla sua tesi di partenza per dare nome e sostanza alla richiesta che emerge dal disorientamento che sempre più segna il pensiero nichilista. A suo avviso il nome di questo bisogno è “libertà”, quella stessa che aveva ispirato, nell’assoluta priorità della sfera individuale ed in nome di un’idea di libero arbitrio senza limiti, l’attacco a divieti e convenzioni nel suo iniziale evolversi da “passivo” ad “attivo”. Entrato però nel nuovo millennio e nel pieno dominio dell’assetto tecnico/tecnologico il lungo secolo nichilista si trova costretto a fare i conti con il dubbio, che sempre più nutre il suo disorientamento, che questa libertà, tanto vasta all’apparenza, sia in effetti una semplice illusione. E’ un’altra forma di cultura contemporanea quella che Esposito usa per dare corpo alle sue opinioni: le storie e le immagini delle serie televisive, scegliendone nel vastissimo loro catalogo due che bene le rappresentano. La prima è “Westworld-Dove tutto è concesso” (il nome di un parco divertimenti stile western che consente ai clienti di sfogare su androidi ogni fantasia illecita e violenta, serie andata in onda per tre anni a partire dal 2016) la cui protagonista, un androide femmina, matura, dopo aver subito numerose violenze, la convinzione “umana” che, vittime e carnefici, sono protagonisti inconsapevoli di un esperimento che mira a creare una sorta di super razza destinata a dominare il mondo, dando poi vita, con l’aiuto di umani, ad una ribellione. Storia perfetta per far emergere la gravissima cecità nichilista che non coglie il ruolo del “sistema” nel programmare e governare i nostri percorsi di vita. I quali possono sembrare “liberi” da vincoli e restrizioni regalando così un’euforica illusione di essere padroni delle nostre vite, ma che in effetti rispondono a logiche sistemiche che ben presto, non appena la cecità si apre a qualche sguardo, annullano tale illusione. Ed è esattamente questo che sta, per ora molto faticosamente, emergendo nel pensiero nichilista: la “consapevolezza” che in una gestione sistemica della società la libertà individuale non esiste là dove ad ognuno di noi è assegnato un preciso ruolo. Manca il guizzo verso la ribellione, ma perché anche ciò possa avvenire è prima indispensabile che il “bisogno” di dare un senso al nostro vivere trovi sponda nell’acquisire questa consapevolezza. Una seconda serie si presta allora a meglio comprendere in cosa dovrebbe consistere la ribellione libertaria che potrebbe risolvere il nodo nichilista dando risposta al “bisogno” che sta manifestando: True detective (una serie che segue le vicende di alcuni detective alle prese con criminali spietati e con i loro demoni personali; in onda, con protagonisti mutati nel tempo, fin dal 2014, Esposito prende in considerazione i protagonisti della prima serie). La dura lotta che i due detective, Rust e Marty, portano avanti per mettere fine alla lunga serie di omicidi compiuti da un crudele serial killer è anche l’occasione per mettere a confronto le loro diverse filosofie di vita, una decisamente tormentata ed una più serenamente ordinaria. Al termine della lunga vicenda fra i due nasce una sintonia ed una comune visione del bene, del male, della libertà di scelta e di percorso di vita, che consente ad Esposito di precisare che la vera “libertà”, capace di dare senso a quel “bisogno”, non è quella che mira ad “essere quel che si vuole e come si vuole”, ma quella che ci impone di fare i conti con quello che siamo a partire da quello che la vita ci ha dato. Attraversare il buio del nichilismo, avere consapevolezza di essere inseriti in un sistema, confrontarsi con le prove che la vita ci impone, trasforma radicalmente quell’anelito illusorio di libertà in “arrivare a volere quello che si è e perché si è”. Vuol dire mirare ad una vita in cui l’ordine delle cose che ha dato forma alle nostre esistenze viene vissuto con una consapevolezza che consenta di dire, nel bene e nel male, “ciò che ho voluto sono io”. Non è accettazione di un ordine già stabilito, non è far rientrare dalla finestra esterni valori e ideali, ma è valorizzare le relazioni, gli affetti, le scelte che spiegano il nostro “stare nel mondo”, l’unica libertà che consente di non soffocare in una insensatezza (nuovamente) nichilista.