martedì 30 ottobre 2018

Sintesi della conferenza del Prof. Balistrieri - a cura di Enrica Gallo


Relazione sulla conferenza
del prof. Maurizio Balistreri:
”Sexy Robot. Etica,
amore e sessualità del futuro”

24 Ottobre 2018



Introduzione:

Nel presentare il relatore, Massima Bercetti fa un breve riferimento al progetto assunto quest’anno da CircolarMente, che ha posto il futuro nelle sue molteplici e possibili accezioni come oggetto di una riflessione volta a vagliarne tanto le potenzialità quanto i rischi. Ringrazia pertanto il prof. Balistreri, che nella sua veste di bioeticista e di docente di Filosofia morale già altre volte ha condiviso con il pubblico dell’associazione le sue ricerche rispetto a tutta una serie di problemi, dall’analisi del rapporto fra l’etica e le tecniche di potenziamento dell’umano all’indagine su quanto sta accadendo e si prospetta come futuribile nel campo della riproduzione umana. Nel suo intervento di stasera il prof. Balistreri è stato invece invitato  a parlare di un tema ugualmente intrigante anche se non privo di aspetti inquietanti, cioè dell’amore al tempo delle macchine, nella speranza che le sue riflessioni ci aiutino a comprendere meglio il nostro rapporto con le macchine, a valutare se esso si porrà nel segno di una vera e propria frattura ontologica o se invece non siamo già stati sottilmente “colonizzati” da tutti quei dispositivi tecnologici che consideriamo ormai come delle vere e proprie estensioni del nostro corpo. Un tema su cui il cinema e la fantascienza hanno aperto da tempo degli spiragli, ma rispetto al quale  davvero abbiamo bisogno di essere più consapevoli e  avvertiti.

                                        

Premessa:              

Nel corso della serata, il relatore ha condiviso con il pubblico di CircolarMente alcuni aspetti di una sua recente ricerca su questioni di grande rilevanza filosofica ed etica, che è poi culminata nella stesura del testo “Sexy Robot. L’amore al tempo delle macchine” (ed. Fandango). L’utilizzo dei robot a scopo sessuale solleva infatti degli interrogativi importanti, relativi da un lato alla personalità dei loro potenziali acquirenti e ai possibili effetti corruttivi del loro uso (in particolare, all’eventuale attivazione o accentuazione della tendenza ad ottenere un piacere sessuale legato a modelli violenti) e dall’altro, in termini più generali, alla natura della nostra relazione con delle macchine che sono programmate per interagire sempre più strettamente con noi. Prima di cercare insieme delle risposte a queste domande, vale la pena, secondo il relatore, di fare qualche riferimento alle immagini dei prototipi su cui si sta lavorando, già visibili on line, e che sono in verità alquanto impressionanti.  Esse ci mostrano infatti delle vere e proprie “bambole di pelle” di aspetto assai seducente, con un corpo che si riscalda reagendo agli stimoli tattili e che nelle versioni più sofisticate – per ora solo in fase di progetto – potrebbero davvero interloquire con i loro utilizzatori  (del resto, al di là di questo uso specifico, sono già stati messi a punto degli androidi – cioè dei robot con sembianze umane – capaci di esercitare diverse funzioni in un contesto familiare e di cura: è possibile su You Tube  vederli in azione mentre porgono oggetti, sollevano pazienti allettati, rispondono alle più diverse richieste di aiuto). Sappiamo bene infatti che gli investimenti nella robotica sono stati e continuano ad essere massicci: non c’è praticamente alcun aspetto della nostra vita che non ne sia già stato permeato, con una tendenza ad un rapido incremento, il che apre sicuramente scenari imprevedibili e sotto molti aspetti inquietanti (in particolare, se pensiamo al futuro del lavoro umano in un mondo in cui i robot sapranno fare un numero notevole di cose molto meglio di noi). Un tema, quest’ultimo, molto vivo all’attenzione di tutti ma su cui il professor Balistreri non si dilunga, anche perché sarà oggetto di un incontro successivo già programmato da Circolarmente. Passa  invece ad esaminare in modo più dettagliato alcuni dei punti critici  relativi  all’utilizzo dei robot sessuali, partendo dalle obiezioni che vengono poste da chi ne chiede la messa al bando ritenendo che essi possano predisporre i fruitori ad un atteggiamento sessualmente violento che poi andrà inevitabilmente a riflettersi sulle donne reali (in effetti, alcuni esemplari sono progettati in modo specifico per opporre resistenza al rapporto, in  modo che i loro utilizzatori possano agire le loro fantasie di  forzatura sessuale e di stupro).



I punti critici

e i dati della letteratura scientifica:

Sono obiezioni che secondo il relatore vale la pena di guardare con attenzione, anche perché sono speculari a quelle già poste a suo tempo per la pornografia e per alcuni tipi di videogiochi violenti, rispetto alle quali abbiamo ormai a disposizione una letteratura scientifica che ci può dare alcune utili indicazioni.

Partiamo dalla pornografia, a cui si addebita il fatto di offrire un modello di sessualità pericoloso in quanto presenta generalmente situazioni in cui essa viene agita in modo violento, veicolando l’idea che la forma basica della sessualità sia quella dell’uomo che prende ciò che vuole con forza, con la donna che trae piacere da questa imposizione. Una critica, questa, mossa a livello filosofico e politico da diverse studiose femministe, che per certi versi richiama quella rivolta a certi tipi di videogiochi, in cui si commettono sia pure virtualmente azioni che nel mondo reale sarebbero considerate immorali o punite come veri e propri reati: in essi si può infatti stuprare, torturare, uccidere…  Anche in questo caso si è parlato di possibile corruzione del carattere e di una tendenza a trasferire nel mondo reale la violenza così facilmente agita nel mondo virtuale (a sostegno di questa tesi, si cita il caso degli adolescenti statunitensi che si sono resi responsabili di stragi, nella cui storia personale si riscontra con evidenza la passione per questo tipo di videogiochi) Sono obiezioni importanti che toccano un nodo cruciale, quello del rapporto fra immaginazione, fantasia e realtà, su cui il professor Balistreri si è già interrogato in un suo saggio precedente - “Etica e romanzo. Paradigmi del soggetto morale” - volto ad esplorare il valore della narrativa nell’affinamento del mondo morale (a suo giudizio infatti essa costituisce, dando spazio all’immaginazione, una risorsa etica fondamentale, dal momento che le storie ci mettono a contatto con vite che non sono la nostra e aumentano la nostra percezione della complessità dei vissuti, fornendoci un ampliamento esperienziale importante). Nel tema che stiamo trattando diventa davvero indispensabile interrogarci sul ruolo giocato dall’immaginazione e sull’impatto delle nostre fantasie sulla realtà delle nostre vite, che è certamente importante anche se il prof. Balistreri non ritiene che si possa sempre porre una concatenazione diretta fra fantasia e realtà (il fatto di aver giocato da bambini a cowboys e indiani, uccidendone in gran quantità, ci ha forse resi degli adulti propensi all’assassinio? Per quanto lo riguarda, non gli sembra che questo sia avvenuto, come non lo è stato per moltissimi altri bambini che hanno condotto le stesse battaglie). Pensiamo, proseguendo su questa linea di discorso, ai cosiddetti “sexy toys” (giocattoli del sesso), che oggi è possibile acquistare con grande facilità in negozi appositi, fisici oppure on line. Potremmo forse essere sorpresi nello scoprire che uno dei più venduti siano le manette, presentate nelle modalità più varie: ma è un fatto assodato che molte coppie si divertano a mimare un rapporto di subordinazione o di violenza, senza che questo degeneri in una violenza reale e senza implicare una corruzione della personalità; allo stesso modo, ci sono coppie che si divertono a giocare sessualmente fingendo un rapporto fra un adulto autorevole e potente e un giovane inesperto… In effetti, il campo delle fantasie sessuali è quanto mai vario,  senza  che si possa  sempre parlare di perversioni e di devianza.



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A questo punto è opportuno fare un riferimento alla letteratura scientifica, che sugli argomenti in questione ci presenta, secondo il prof. Balistreri, dei dati decisamente rassicuranti asserendo che all’aumento esponenziale dei videogiochi con contenuti violenti e dei video pornografici non corrisponde affatto un aumento della violenza in chi li utilizza, bensì una diminuzione, smentendo dunque una percezione molto diffusa. Se dunque riportiamo questi dati ai sexy robot, potremmo anche immaginare che il loro utilizzo, anziché esacerbare l’attitudine alla violenza, possa al contrario diminuirla  assumendo in qualche specifico caso un ruolo catartico (il relatore fa qui riferimento ad alcune sperimentazioni condotte da un gruppo di psicologi su individui con  inclinazione alla pedofilia o alla violenza sessuale, che paiono avere risultati positivi dal poter “agire” le loro pulsioni, imparando a controllarle,  attraverso delle simulazioni predisposte  al computer ).  Naturalmente, il relatore è ben consapevole del fatto che ci muoviamo su terreni scivolosi, toccando questioni complesse a livello morale e filosofico (pensiamo, per fare un esempio, al fatto che vengano progettati – così pare almeno si stia facendo in alcuni laboratori giapponesi – dei robot sessuali con fattezze infantili, e alle domande che ci possiamo porre: un robot bambino è “davvero” un bambino?). Quello che però è importante evidenziare, a suo giudizio - spostandosi magari su di un terreno meno infido, quello delle bambole gonfiabili, che è già ben conosciuto e che ci consente di sdrammatizzare il problema (magari ridendoci su, come si fa nel film “Lars e una ragazza tutta sua  di Craig Gillespie)  - è la necessità di non essere troppo sbrigativi nell’ etichettare come devianti tutti quei comportamenti sessuali che ci sembrano uscire dall’ambito della norma, e in generale dalla relazione.  Certi oggetti, ad esempio, possono aiutare persone in difficoltà a vincere timidezze e paure: quando non si danneggia nessuno, può non esserci nulla di sbagliato nel cercare piacere con mezzi che magari a molti di noi possono sembrare bizzarri e in alcuni casi inaccettabili, mentre magari per altri risultano divertenti o giovevoli. Perché poi alla fine, osserva il prof. Balistreri, che cosa è il sesso? Dobbiamo forse intenderlo solo come un’attività che si pratica con altre persone, nell’ambito di una relazione? O pensarlo altrimenti, come tutto ciò che possiamo fare per raggiungere un particolare piacere, compreso l’autoerotismo? Certo ha pesato a lungo sulla nostra cultura l’interdetto religioso, che ha sempre ritenuto questa forma di sessualità come un’attività contro natura (pensiamo a San Tommaso, che la considerava più immorale della violenza stessa). Del resto non possiamo nasconderci il fatto che la presenza dell’altro non è sempre il segno di una sessualità “matura”: l’altro può essere magari solo utilizzato in modo veloce, o sottoposto ad un processo di sovrapposizione in cui scompare come individuo per fare posto alle nostre fantasie, al nostro immaginario, al pensiero di una persona assente…



Osservazioni conclusive:

In effetti, osserva ancora il relatore chiudendo un intervento che è stato volutamente breve per fare spazio agli interventi del pubblico, discutere sui sexy robot significa entrare in una serie di questioni  che precedono la stessa costruzione di queste macchine sessuali: interrogarsi, per esempio, se  certi giochi siano di per sé immorali o facciano invece parte di una vita sessuale non necessariamente perversa, riflettere su come sia cambiato nel tempo il nostro sentimento di ripugnanza rispetto a certe pratiche, chiederci se quando assistiamo da spettatori a  scene di cinematografia violenta rimaniamo o no ben coscienti dell’inaccettabilità della violenza nella vita reale. Porsi insomma tutta una serie di questioni che alcuni interventi del pubblico rilanciano, a partire dall’esigenza della natura umana di immaginare altri mondi, che viene sottolineata riflettendo su quanto le nostre fantasie siano costitutive dei nostri desideri. Vengono anche espresse naturalmente delle preoccupazioni, sia sulla natura equivoca e potenzialmente fagocitatrice delle offerte di mercato volte ad ampliare in modo indefinito esigenze e desideri, sia sulle difficoltà che molti giovani possono avere nel continuo spostamento fra il mondo reale e quello che Alessandro Baricco, nel suo recente “The game” chiama “l’oltremondo”, soprattutto se vengono a mancare buoni riferimenti familiari, scolastici e sociali. Interventi diversi, con osservazioni che il prof. Balistreri accoglie volentieri nella consapevolezza dell’importanza del confronto per mettere meglio a fuoco i problemi, separando i giusti timori dagli eccessi di allarmismo, e per guardare in faccia in modo consapevole quelli che possono anche risultare soltanto degli ancorati pregiudizi. Scenari nuovi (ma non poi così totalmente nuovi, come si evince dal suo discorso in cui sono stati messi in luce molti elementi di continuità) non possono che spingerci ad un surplus di riflessione, come si è cercato di fare in questa serata, sia pure nella brevità dello spazio a disposizione.



Per CircolarMente

Enrica Gallo

Sintesi della conferenza del Prof. Mezzalama - a cura di Enzo Bertolini



Relazione del Prof. Marco Mezzalama su:
“La folle corsa delle tecnologie digitali:
 dai Big Data all’Intelligenza Artificiale”
10 Ottobre 2018



Il professor M. Mezzalama, docente di Sistemi di Elaborazione presso il Politecnico di Torino, è stato uno dei precursori italiani nell’utilizzo di Internet e delle tecnologie del Web, e nel corso della sua brillante carriera ha ricoperto importanti incarichi Accademici e professionali, sedendo in diversi Consigli di Amministrazione di Istituzioni ed aziende tecnologiche. Il sentimento di parziale turbamento con cui viene vissuta questa epoca di consistenti rivoluzioni delle tecnologie, è dovuta a quanto esse incidono non solo sul terreno dell’evoluzione degli strumenti in nostro possesso, ma altresì sull’impatto dirompente che producono sul piano economico e sociale. Questo fatto però non deve spaventarci più di tanto, (ovviamente preoccuparci e porci interrogativi , sì!), in quanto , pur in condizioni diverse è la condizione che caratterizza tutte le rivoluzioni economiche che abbiamo vissuto nei secoli e nelle epoche passate. Poniamoci alla fine del ‘700 con l’introduzione della macchina a vapore. Nel giro di pochi decenni la società/civiltà agricola che aveva resistito per secoli, in pochi anni si è profondamente trasformata se non addirittura sparita, e ci fu il sorgere addirittura di nuove classi sociali : “la Borghesia”, “il Proletariato”. Alla fine dell’800 con l’avvento del motore a scoppio e della luce elettrica, un’altra importante rivoluzione si affermò trasformando ulteriormente la base economica e sociale delle nostre città e nazioni occidentali. Ciò che ci fa vivere con angoscia il nostro tempo, è la rapida trasformazione del contesto economico, con la sparizione di “mestieri” passati e l’insorgere di nuove professionalità. Tale fenomeno è caratteristico delle rivoluzioni tecnologiche che profondamente mutano il contesto economico di una società, e di per sé sono ineluttabili. Il ‘900 è stato il secolo delle macchine, che hanno sostituito la forza muscolare dell’uomo nel lavoro, ed hanno indotto l’emancipazione dallo sforzo fisico e dalla fatica. Il 2000 si pone come il secolo delle Tecnologie correlate alle informazioni, e quindi in qualche misura si pongono nell’area tradizionalmente occupata dal cervello umano, con l’intento di aiutarlo o sostituirlo. Ciò evidentemente aumenta le nostre riserve e preoccupazioni. Entrando nel vivo del tema della relazione, è evidente quanto rapido sia stato lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione dal dopoguerra ad oggi ed in particolare negli ultimi trent’anni. In quest’ultimo lasso di tempo la capacità di calcolo di un “processore” è cresciuta di un Milione di volte, ed il costo per unità di calcolo si è ridotto di 10 milioni di volte. Se lo stesso paradigma di sviluppo fosse applicato alle vetture, noi oggi viaggeremo con auto capaci di raggiungere i 100.000km/h consumando poche gocce di carburante.  Tale incredibile riduzione dei costi è stata l’origine della larghissima diffusione che tali tecnologie hanno avuto. Ovviamente tale enorme diffusione ha avuto impatto sui “Lavori”, tanto da poter affermare che le dieci professionalità più richieste oggi, non esistevano del tutto dieci anni fa. Ciò induce naturalmente un enorme impatto anche sul sistema scolastico e formativo della società, la cui caratteristica dovrà essere sempre più di “ INSEGNARE AD IMPARARE” piuttosto che soltanto trasmetterci saperi definiti, che saranno probabilmente obsoleti nel giro di pochi anni. Le tecnologie emergenti di questo periodo e che impatteranno sulla nostra vita sono sostanzialmente tre:

-         L’internet delle cose (IoT = Internet of Things)

-         I Big Data  ( Grandi basi di dati)

-         L’Intelligenza Artificiale (AI= Artificial Intelligence)

L’IoT consiste, di fatto, nella possibilità di avere in ciascun oggetto di uso quotidiano della capacità di calcolo e di comunicazione. In breve un connubio di “Intelligenza e Connettività”. Esempi su tipologie varie di oggetti si muovono dal Telepass, ai semafori intelligenti, agli elettrodomestici, all’abbigliamento, le calzature, attrezzature sportive, telecomandi vari, auto connesse, etc. Altro esempio di immediata percezione è il nuovo servizio di “Biciclette in condivisione” (Bike Sharing), dove il servizio è reso possibile dal fatto che ogni bicicletta è identificabile e rintracciabile sul territorio, grazie ai processori che gestiscono il GPS (localizzazione satellitare) e l’identificazione dell’utente tramite una Applicazione sul Telefono cellulare che comunica con il processore della bicicletta. Enormi ambiti di utilizzo interessano il campo della domotica (automazione della casa), dove sempre maggiori applicazioni di IoT mettono in comunicazione i vari oggetti della casa , dagli elettrodomestici, al sistema di climatizzazione, al sistema di illuminazione, ai sistemi di antiintrusione, a quello di intrattenimento con accesso alla rete. Un futuro che ci cambierà in modo sostanziale il vivere quotidiano. Altra tecnologia emergente è quella relativa ai Big Data. Queste tecnologie che riguardano l’informazione hanno di fatto rotto le filiere di accesso alle informazioni, eliminando il bisogno di attori di intermediazione. Esempi eclatanti: il passaggio dal sistema postale tradizionale a quello di posta elettronica, dove sono eliminati tutti gli operatori abilitanti (uffici postali, produzione di carta e penne, stampa di francobolli, postini e distributori, e così via) o il reperimento di una informazione sconosciuta, dalla intermediazione di scuole, professori, testi enciclopedici, biblioteche, etc al semplice accesso via cellulare alle informazioni presenti sul web. Da Wikipedia, l’enciclopedia autoredatta da utenti finali a siti specifici trattanti gli argomenti più disparati. Più in generale, oggi, accedere alle informazioni è più facile di un tempo e costa relativamente poco. Nei fatti questo costituisce un elemento di democratizzazione della società, in quanto rompe il flusso di potere connesso alla disponibilità di informazioni. (ricordiamo per esemplificare il sistema monastico medioevale che riproduceva e conservava i testi antichi, da cui la Chiesa come Istituzione traeva il suo Potere sulla società). Possiamo dire che oggi viviamo in un’epoca caratterizzata dalla esplosione della quantità di informazioni. Angela Merkel ha dichiarato nella conferenza di Davos di quest’anno che: «I big data sono la materia prima del XXI secolo. La linea di confine tra chi ne avrà il possesso e chi ne sarà escluso segnerà le sorti della democrazia, della partecipazione e della prosperità economica. Se non ci muoviamo con la dovuta cautela rischiamo il ritorno dei luddisti» Le quantità di informazioni disponibili sono davvero enormi e tendono a crescere in modo esponenziale. Ogni giorno si scambiano 100 miliardi di e-mail - Ogni giorno vengono postate su Facebook 700 milioni di fotografie - 100GByte sono generati per ogni ora di volo di un Boeing 787 - 1.5TByte sono prodotti dal sistema di videosorveglianza del metro di Londra ogni minuto. Di fatto noi stessi, le organizzazioni economiche, le società e le applicazioni varie basate sull’IoT, costituiscono la fonte di generazione di questa enorme valanga di informazioni. Si stima che ogni anno vengano prodotte 10 alla 21 bytes di informazioni, cioè 1000 miliardi di miliardi di bytes , equivalenti a 323 miliardi di volumi come Guerra e Pace di Tostoj. Le informazioni sono ovviamente non solo di carattere testuale ma riguardano anche immagini, musica, video, mappe, etc. Il passaggio successivo è quello di passare dai dati alla loro elaborazione, in modo tale da estrarne indicazioni che ci aiutino a profilare e determinare trends che ci supportino nel prendere decisioni. Tali elaborazioni avvengono ormai in modo sempre più automatizzato, attraverso algoritmi di classificazione e clusterizzazione delle informazioni, allo scopo di estrarre significati dalla imponente massa di dati a disposizione. Un elemento riscontrabile è che l’enorme massa di informazione prodotta e trattata tende in generale a ridurre la riservatezza (anche in modo lecito) di informazioni che un tempo avremmo volute tutelate da forme più o meno stringenti di riservatezza. Ma nel bilancio tra utilità del processo di gestione dei dati e le preoccupazioni sulla privacy, quest’ultime tendono ad essere poste in secondo piano. Un altro rischio connesso è che tali tecnologie tendano a far disabituare al processo di utilizzazione della memoria umana, avendo garantita una facile reperibilità di ciò che ci serve. (chi ricorda più i numeri di telefono degli amici?) La vera frontiera tecnologica che si profila davanti a noi, e che può destare le nostre suggestioni, è quella della Intelligenza Artificiale. Partendo dalla previsione che:

Nel 2029 la capacità di elaborazione di un singolo processore INTEL sarà pari alla capacità elaborativa di un cervello umano, e che nel 2040 la capacità di elaborazione dei computer supererà quella degli individui umani e delle specie pensanti, ci si attende che le capacità di elaborazione razionale delle macchine supereranno quella della intelligenza umana. “Imparare e fare esperienza è l’elemento essenziale per l’evoluzione delle specie”, affermava Konrad Lorenz padre dell’etologia. Ad oggi ciò è quello che ci differenzia dalle macchine e dalle capacità di elaborazione automatica. Ma anche in questo settore gli sviluppi sono enormi e rapidi, connessi con l’accrescimento delle capacità di calcolo dei computer ed alla messa a punto di nuove tecnologie quali le Reti Neurali, che tendono a riprodurre il meccanismo/processo di apprendimento, supportato dalla disponibilità di grandi basi di dati interpretati attraverso tecniche di Machine Learning. Già oggi una parte importante di processi decisionali, appannaggio di decisori umani, sono svolti da automatismi basati su tecniche di intelligenza artificiale. Dalle decisioni di investimento dei grandi fondi finanziari internazionali, alle capacità di diagnosi oncologiche in medicina, alla capacità di gestione di processi produttivi della fabbrica automatica. Questa la distribuzione percentuale attuale dell’utilizzo di AI nei vari settori:

Banche,assicurazioni, finanza      26%

Automazione industriale(robotica) 15%

Industria automobilistica             12%

Telco                                        08%

Retail e marketing                      06%

Medicina                                   06%

Altro                                         27%

Concludendo, dobbiamo sempre aver presente l’affermazione di Kranzberg :

La tecnologia di per sè non è né buona, né cattiva, né tantomeno neutra.”

E di ciò dovranno tenere conto i progettisti delle future evoluzioni tecnologiche per poterne indirizzare gli effetti. Oltre a questo occorre aver sempre presente che le macchine si evolveranno in modo diverso da ciò che è stata l’evoluzione della specie umana. Nel senso che sapranno emulare i comportamenti umani ma non saranno umani. Per rappresentarci ciò Edsger Dijkstra diceva: “Chiedersi se un computer possa pensare è come pensare che un sottomarino possa nuotare”. Nel senso che un sottomarino agisce sott’acqua, si muove, si immerge ma certo non nuota come un pesce. Così un computer emulerà i processi decisionali umani, ma non penserà di certo né tantomeno sarà umano.

Gli uomini hanno in ogni caso una parte irrazionale che i computer ad oggi non hanno e che difficilmente potranno avere, fino a che noi non saremo in grado di decodificare le reazioni chimiche sottese alle nostre emozioni ed ai nostri sentimenti. Forse a quel punto anche gli esseri artificiali potranno emulare i sentimenti umani, e a quel punto chissà che il nostro frigorifero non possa innamorarsi della sua vicina lavastoviglie!!



Speriamo di poterci essere anche noi, allora!!



Per chi non avesse presenziato alla conferenza, e per i presenti come ulteriore richiamo alla memoria, pubblichiamo le slides utilizzate dal prof. Mezzalama come traccia di base per la sua relazione




domenica 14 ottobre 2018

"The game" di Baricco, un altro modo di vedere i "futuri"




"The game" di Baricco
un altro modo di vedere i "futuri"

Pressochè in contemporanea con “Il grido” di Antonio Moresco (il nostro “Saggio del mese”) è uscito, per i titoli dell’Einaudi, “the game” di Alessandro Baricco.

Due approcci ai “futuri” diametralmente opposti, diversissimi come i due autori. Baricco è scrittore di grande seguito mediatico e quindi, come sempre, anche l’uscita di “the game” è stata celebrata sui media, molto meno, inevitabilmente,  quella de “Il grido”. Con questo libro Baricco riprende il filo delle riflessioni a suo tempo contenute nel celebre “I barbari” del 2006, e lo fa incoraggiandoci ad avere verso gli scenari tecnologici del futuro prossimo venturo (ed ormai del presente) un atteggiamento più rilassato, meno timoroso, più improntato alla “appropriazione” di una realtà che si è posta definitivamente alle spalle il “novecento” e dalla quale è comunque impossibile rifuggire. Va da sé che questi timori appartengono alle generazioni che nel “novecento” si sono formate, dimenticando però che ci troviamo oggi a misurarci con lo sbocco concreto di una utopia “rivoluzionaria” nata proprio in pieno novecento da parte di avanguardie, al tempo visionarie, in netta contrapposizione alla cultura allora imperante (in particolare negli USA). Come si è detto l’approccio, lucidamente ed appassionatamente, proposto da Baricco è anni luce lontano da quello di Moresco. Vale la pena, avendo iniziato con la prima conferenza il nostro percorso di conoscenza e valutazione dei “futuri”, tenere conto di entrambi. Per “the game” non proponiamo qui una sintesi da “Il saggio del mese” ma ci affidiamo a commenti e recensioni estratti dai molti immediatamente apparsi in Rete subito dopo la sua uscita. E’ d’obbligo iniziare dalla presentazione che Baricco stesso ha fatto su “Repubblica.it”

……..IL FATTO È che mi son messo in mente di scrivere una sorta di Barbari 2, un po’ di tempo fa. Continuava ad affascinarmi questa storia di capire se la rivoluzione digitale ci stava fregando, o cosa. Oltre tutto, nel frattempo, erano arrivate un sacco di novità, adesso era tutto più chiaro. Nel 2006, quando avevo scritto I Barbari, si andava a fari spenti, per così dire. Non c’era neanche l’iPhone. Non esisteva Youporn e col cavolo che potevi twittare. Insomma, si imponeva un aggiornamento. Così mi sono messo a studiare, e a vagabondare qua e là. Un paio d’anni. E adesso sono alle pagine finali. Un po’ esausto, ma come quelli che hanno fatto il giro del mondo in solitaria e si sentono tremendamente a posto con se stessi, a parte uno strano tremolio agli occhi e incubi ricorrenti la notte. Per I Barbari, le ultime pagine le andai a scrivere sulla Muraglia Cinese: allora il problema era far capire che alzare muri contro l’ondata del digitale era splendido e imbecille come quella Muraglia, che, storicamente, non era mai riuscita a fermare un’invasione dei popoli del nord. Quindi mi sciroppai ore di volo e andai a camminare per sette ore su quel muro. A un certo punto incontrai due americani che se la stavano facendo tutta di corsa. Per quanto uno faccia cose sceme, c’è sempre qualcuno che è più scemo di te. Insomma, questa volta, invece, mi sono spedito alla Silicon Valley. Luogo mitico, ma di tutt’altro genere, come potete ben capire. L’ho fatto perché tra le cose che ho realizzato, studiando in questi due anni, c’è che in effetti tutto è nato davvero qua, nel giro di pochissimi chilometri, e tutto continua ad accadere qua, nel giro degli stessi pochissimi chilometri. L’ombelico del mondo. Una specie di Firenze nel Rinascimento, o Parigi degli anni Venti. Quindi ho pensato che andare a scrivere lì le ultime righe fosse una cosa giusta, puntuale, perfino bella. Erano due anni che li studiavo, da lontano, questi padri dell’insurrezione digitale. Tutti americani, tutti bianchi, tutti maschi, quasi tutti ingegneri (spaventoso, vero?). Ormai mi sembrava di averli capiti: sapevo i loro tic, i loro miti, quello che facevano da giovani e come si muoveva la loro mente. Mi mancava di sapere cosa si vedeva fuori dalla loro finestra e com’erano i posti in cui facevano colazione. Per cui, eccomi lì. Non un granché. Quel che si vede dalla loro finestra, dico. Non un granché. La Silicon Valley è uno di quei pezzi d’America che potrebbero essere ovunque, in America. È quel genere di posto in cui per andare dal barbiere prendi l’autostrada. In alternativa ti perdi in giganteschi quartieri di villette, disegnati come parole crociate, ogni casella una villetta, le caselle nere sono quelle in cui il padre ha perso il lavoro e vedi le erbacce in giardino (qui non ce ne sono, peraltro: tutti hanno un lavoro). In una di quelle caselle, per inciso, son andato a omaggiare uno dei luoghi sacri dell’insurrezione digitale: il garage dove Steve Jobs e Steve Wozniack, ragazzetti, iniziarono a lavorare. Aveva due cassonetti davanti, il portone bianco e l’aria di non ricordarsi di nulla. Tipico della civiltà digitale. Non sa cosa farsene del sacro. Le città hanno nomi che sono diventati epici: Palo Alto, Mountain View, Cupertino, Menlo Park. Ti immagini posti fighissimi, ma alla fine, a parte villette e villone, c’è la solita via centrale, downtown, elegantina, dove i ristoranti sono amabili ma i negozi d’arredamento, per dire, sono da querela. Certi salotti che in Brianza sono passati di moda ai tempi di Fanfani. È difficile capire. Cerchi i segni di un’umanità che dovrebbe stare anni davanti a tutti gli altri e alla fine ti ritrovi con i sofà in stile gotico country. Mah.
Che poi, per uno spiritoso equivoco, mi sono ritrovato in un motel in stile Indiani d’America, nel senso che c’erano le abat-jour di vacchetta, le volpi di legno sul comodino e ritratti di indiani Pawnee alle pareti: ma non una roba etnica, o politicamente corretta, no, proprio quel genere di immaginario chip che poteva avere una signora coi bigodini negli anni ’50. Infatti all’ingresso c’era la foto dell’inaugurazione, 1959, tutti in bianco e nero a sorridere al fotografo. La fierezza aleggia ancora nell’aria, come sono ancora lì le pelli di vacca alle pareti e i tappeti falso-Comanche per terra. È una cosa che mi ha fatto pensare, perché a dieci minuti da lì ci sono i quartieri generali della Apple, per dire, e quindi ho finito per fare una sorta di equazione: se questi, che stanno a uno sputo da Google, dalla Apple, da Facebook, e da migliaia di start up digitali, se questi stanno ancora qua con le abat-jour in vacchetta, archi e frecce alle pareti, e piccoli bisonti di legno come suppellettili, cosa diavolo stiamo a preoccuparci noi, a migliaia di chilometri di distanza, che ci portino via le madonne fiamminghe e la musica di Schubert? No, dico sul serio, sarà mica che ci facciamo delle paranoie senza senso? Ce le facciamo, è ovvio, e appunto per questo ho scritto questo libro: che in certo modo è la continuazione dei Barbari, ma anche non lo è, perché questa volta mi sono spinto più lontano, o più vicino, secondo le volte — avevo in mente di uscirne con un atlante attendibile e per quanto possibile bello della terra che siamo andati ad abitare, fuggendo dal disastro del Novecento. E in effetti, dopo un po’ mi son visto crescere sotto agli occhi una mappa, sicuramente imprecisa, ma abbastanza credibile, zeppa di cose che non sapevo, e di continenti che intuivo ma non avevo mai misurato bene, o oceani che non sapevo esistessero e adesso erano lì. E man mano che cresceva — ogni tanto lasciandomi secco dalla sorpresa, per certe combinazioni di eventi, o meraviglie di design mentale — man mano che cresceva vedevo salire su da non so dove un nome che non ne voleva sapere di andarsene, tanto che alla fine sono arrivato a concludere che probabilmente è il nome della civiltà in cui viviamo. E quindi il titolo del libro che stavo scrivendo “The game”. Non sono mai cose casuali, comunque: se il Game è nato proprio lì, nella Silicon Valley, la cosa aveva le sue ragioni. Nel giro di pochi chilometri c’erano: i militari, l’industria aerospaziale, una valanga di produttori di microchip, un’Università come Stanford, Hollywood (senza sogni non si va da nessuno parte), i pionieri della science computer (la Hewlett-Packard), e soprattutto: una gran numero di sciroccati hippy: la controcultura californiana. Mescolate, shakerate, e ottenete Steve Jobs. Questa è una cosa che ci ho messo un po’ a capire: mi sembrava una rivoluzione tutta guidata da ingegneri e tecnocrati, ma non avevo fatto i conti con l’anomalia californiana. Da noi se negli anni Settanta avevi un cognato ingegnere informatico, non è che ci passavi le sere fumando spinelli, ecco, né pensavi che potesse avere in mente di sfasciare il sistema. Era già tanto se non andava in Chiesa. Ma lì, in California, il cognato ingegnere spesso aveva i capelli lunghi, si lavava poco, aveva tendenze nerd, si chiamava hacker, spendeva tutto il suo tempo in oscuri laboratori di computer science e sul mondo aveva un’idea molto elementare: era da rifare. Di fatto, in quei posti, ai tempi, se c’erano dieci ventenni a cui la way of life dei padri faceva schifo, cinque sfilavano contro la guerra in Vietnam, tre praticavano il libero amore su un pullmino Volkswagen e due stavano in un laboratorio a programmare videogame. È bene sapere che noi viviamo nella civiltà immaginata dagli ultimi due. Volevano cambiare il mondo, ho poi capito, e lo fecero con un sistema da ingegneri, da cui ho finito per imparare molto. Nel modo migliore l’ha sintetizzato, in un’intervista, Stewart Brand, un uomo di cui non sapevo nulla, fino a qualche mese fa. Era (è) una specie di profeta, molto noto nella Silicon Valley, un beat che girava con il giubbotto di daino con le frange, sperimentava gli effetti dell’LSD e nel frattempo bazzicava i migliori laboratori di computer science. Be’, una volta, in un’intervista, disse questa cosa: «Puoi cercare di cambiare la testa alla gente, ma perderai solo il tuo tempo. Quello che puoi fare è cambiare gli strumenti che usa. Fallo e cambierai la civiltà». Pensateci bene e d’improvviso vi sembrerà molto più chiaro quello che è successo negli ultimi trent’anni. Stewart Brand è anche il primo uomo che abbia messo nero su bianco l’idea che ogni umano dovesse avere sulla scrivania un suo computer. Lo disse quando la cosa suonava tipo «fra vent’anni tutti si opereranno alle adenoidi da soli, a mani nude, davanti alla tivù». Lui lo scrisse, in un articolo poi diventato mitico su Rolling Stone, e la cosa interessante è che l’articolo, in effetti, era una sorta di reportage su un oggetto molto preciso: Spacewar, il primo videogioco della storia. La ragione era semplice: Spacewar, scrisse Brand, è la sfera di cristallo in cui si può leggere il futuro della computer science. Qualche anno dopo, a un convegno di designer, chiamarono Steve Jobs a fare uno speech. Lui non era ancora Steve Jobs, semplicemente andò perché lo pagavano. Arrivato in sala si rese conto che non c’era uno, neanche uno, che sapeva cos’era un software. Va be’, provo a spiegare, disse. E per spiegare, che esempio fece? Pong, un videogame, sapete quello con le due racchette che andavano su e giù, e quella bastarda di pallina… C’era da uscirne pazzi. No, lo dico per farvi capire com’è che quel nome, The Game, più studiavo più spuntava fuori. Ah. Vi ricordate «Stay hungry, stay foolish», la famosa frase che compare su tutte le immaginette di Steve Jobs? Be’, non era sua. Lo ammise lui stesso, citandola, non era sua. Sapete di chi era? Stewart Brand. No, lo dico per farvi capire che mi sono molto divertito a scrivere The Game. Venivano fuori certe connessioni nascoste… Certi colpi di scena… Sto cercando di convincere l’editore che non è un saggio, è un thriller. È la storia di un archeologo piuttosto ignorante che si mette a indagare tutte le grandi fortezze digitali — da Google alla Apple, da Facebook a YouTube — come se fossero rovine di una misteriosa civiltà scomparsa. Scava, esamina, studia, riporta in superficie, sfida maledizioni secolari, spolvera fossili, rischia la vita, e tutto per riuscire a scoprire chi erano quegli uomini, in che modo ragionavano, di cosa avevano paura, cosa volevano e come gli era andata a finire. La cosa interessante è che quegli uomini siamo noi, quella civiltà è la nostra, e quella storia la nostra storia.

Integra questa presentazione in prima persona, e lo fa a nostro avviso in modo criticamente interessante, la recensione di Andrea Coccia (giornalista e fondatore del progetto “Slow news”) apparsa sulla rivista on-lne “LINKiesta”

Angoscia per il futuro? Leggetevi “The Game” di Alessandro Baricco,

 e almeno lo capirete……..

C'è un breve scritto di Walter Benjamin che parla di un quadro che gli ha regalato un amico, Paul Klee. Il quadro si intitola Angelus Novus e ritrae il volto di un angelo che, per come lo descrive Benjamin, somiglia molto di più alla faccia che abbiamo noi, abitanti di questo periodo storico così complesso e mutevole, piuttosto che agli uomini del suo tempo. Come noi, quell'angelo ha lo sguardo volto al passato; come noi, vede solo macerie dove invece gli uomini del suo tempo vedevano catene di eventi e strutture lineari; come noi, non ce la fa a lasciarsi trasportare via, vuole rimetterle a posto, vuole capirle. Se non può, scrive Benjamin, è perché «una tempesta che spira dal paradiso» lo porta via, «lo spinge irresistibilmente nel futuro». Come noi. Fino ad oggi questa immagine dava conto di due tipi di reazione di fronte al progresso: da una parte, quello degli Apocalittici, ovvero coloro che rimanevano fedeli allo sguardo impaurito dell'angelo anche a costo di risultare luddisti fuori tempo massimo; dall'altra, invece, quello degli Integrati, che tifavano tempesta e che speravano che quell'angelo mollasse la sua presa nostalgica sul passato e si facesse trasportare via, verso le meravigliose sorti e progressive. Ora, forse, abbiamo trovato la terza via. Apocalittici contro Integrati. Questo, in buona sostanza, è anche lo stallo alla messicana in cui gran parte del mondo intellettuale contemporaneo si trova: gridare all'apocalisse o tifare un luminoso futuro? Al di là delle ingenuità che caratterizzano sia l'una che l'altra posizione, questo stallo dava anche conto di un clima del pensiero totalmente controproducente, un clima che sapeva di tifo, di fumogeni e di cori da stadio, di voglia di distruggere invece che di creare. Questo, in altrettanta buona sostanza, è il cul de sac dal quale riesce ad uscire Alessandro Baricco con il suo nuovo libro, intitolato The Game, pubblicato il 2 ottobre dalla casa editrice Einaudi e destinato sicuramente a restare come una testimonianza importante di questi anni così incasinati e così difficili da comprendere anche per noi che ci siamo nati dentro. Baricco ha studiato. E si legge. Si legge perché è riuscito a mettere insieme un sacco di intuizioni che serpeggiano da qualche tempo in molte nicchie intellettuali e a renderle comprensibili. Non sono di certo tra gli ammiratori di Baricco. Non lo sono mai stato e, quando dieci anni fa uscì I barbari lo stroncai come un libro disonesto, che mi pareva ripetere cose già dette nella prima parte del Novecento, senza aggiungere nulla alla comprensione di qualcosa che stava già accadendo e che invece ora, a distanza di dieci anni, in questo libro c'è tutta. Baricco ha studiato. E si legge. Si legge perché è riuscito a mettere insieme un sacco di intuizioni che serpeggiano da qualche tempo in molte nicchie intellettuali e a renderle comprensibili. Si vede, e si vede che lo sa. E lo scrive: «alla fine abbiamo troppo bisogno di una sintesi leggibile per attardarci troppo nel culto della precisione». Per i più giovani, probabilmente, i primi due capitoli sembreranno peccare di riduzionismo, somiglieranno alle istruzioni testuali di un device che loro hanno già capito solo tenendolo in mano e giocandoci due minuti. È vero, ed è lo stesso Baricco che lo ammette dopo un po' — «Se tornate ai primi due capitoli e li rileggete vi sembreranno quasi preistorici» —, ma abbandonare alle prime difficoltà sarebbe un errore e uno spreco, perché Baricco, a differenza di alcune delle sue ultime opere romanzesche, questa volta ha qualcosa di dire c'è l'ha sul serio: ha trovato la terza via. Oltre l'apocalisse e oltre l'integrazione. Se ci fosse una telecamera tra gli angeli forse ora vedremmo Umberto Eco che si strofina le mani a sentire robe del genere, ma realmente in The Game ci sono tante delle intuizioni intellettuali che ci servono per affrontare il futuro senza fuggirlo come l'angelo di Benjamin, ma anche senza agognarlo acriticamente come l'ultimo dei neopositivisti. C'è tutto, o quasi: dalla meravigliosa intuizione di invertire causa ed effetto e vedere finalmente la rivoluzione digitale come figlia del mondo che l'ha preceduta piuttosto che come semplice causa di una rivoluzione mentale e comportamentale nel mondo che si è ritrovata a cambiare, fino a quella, onesta e tragica, di aver capito che l'onda di disruptive del digitale, nata dalle menti anarco-nerd di gente che voleva spazzare via i nuclei di potere e le rendite di posizione del Novecento, lungi dal disciogliere le classi e rendere tutti uguali, è al contrario foriera di nuove dittature di classe, di nuove rendite di posizione, di nuove élite. In The Game ci sono tante delle intuizioni intellettuali che ci servono per affrontare il futuro senza fuggirlo come l'angelo di Benjamin, ma anche senza agognarlo acriticamente come l'ultimo dei neopositivisti. Con questo libro Baricco manda in pensione il Novecento, almeno a livello intellettuale. Lo fa prendendosi le sue responsabilità e riconoscendosi élite — «post-verità è il nome che noi élite diamo alle menzogne quando a raccontarle non siamo noi ma gli altri. In altri tempi le chiamavamo eresie» — ma lo fa anche trovando e finalmente, da filosofo, indicando una strada percorribile per il mondo intellettuale umanista, che fino a ieri non sapeva effettivamente più dove sbattere la testa per riuscire a non fare la figura della mandria di luddisti. È tutto in una frase, questa: «Non è il Game che deve tornare all’umanesimo. È l’umanesimo che deve colmare un ritardo e raggiungere il Game». È una intuizione fondamentale. Perché il Game lo hanno sognato, elaborato e poi creato degli ingegneri, gente che ha bisogno di regole, gente pratica che per cambiare la testa della gente si limita a cambiargli gli strumenti, ma gente che rappresenta soltanto una parte del nuovo grande cuore che potrebbe avere la prossima modernità umana. Un cuore che ha bisogno di due ventricoli e che, oltre a quello digitale della velocità e della superficialità, ha bisogno anche di quello analogico della lentezza e della profondità. Due ventricoli che sembrano in contraddizione, certo, ma non molto di più di quelli che fanno confluire nel medesimo organo i flussi di sangue opposti delle vene e delle arterie. Se fino a qualche anno fa pensavamo di dover risolvere la contraddizione per superarla, oggi forse abbiamo una prova in più del fatto che quello contraddizione bisogna semplicemente avere il coraggio di assumerla, ritornando umanisti alla fine dell'umanesimo. Solo così, aggiungo io, potremmo salvare il Game, che ormai è il mondo, dalla deriva che ha preso: una specie di malattia autoimmune i cui sintomi sono cose come la legge sul Copyright, per esempio, le leggi americane contro la Net Neutrality, tra i cui effetti c'è anche quello di trasformare ciò che nella testa dei padri fondatori era nato libero, in una prigione. Una prigione fatta di cose che dovremmo proprio avere il coraggio di abbandonare nel Novecento, cose come gli orgogli, i confini e gli egoismi.

Decisamente caustico, ma nel mare di peana che hanno accompagnato l’uscita di “The game” una voce discordante è bene che ci sia, l’articolo di Marco Ciriello (giornalista, scrive su La Repubblica, Il Fatto Quotidiano) apparso nel blog “barbadillo” Chiudiamo con questa la carrellata di recensioni, che speriamo abbiano offerto sufficienti elementi per “farsi un’idea” del libro di Baricco e restiamo in attesa di conoscere il vostro personale parere

“The game”: ovvero perché Baricco non è (e non sarà mai) Joseph Roth

Tutta l’opera di Alessandro Baricco è riassumibile in: «adesso ti spiego come è andata veramente», detto a Marco Polo, a Beethoven, a Omero, fino ad arrivare a Steve Jobs, come nel suo ultimo libro: “The Game” (Einaudi). È fatto così. In molti vorrebbero avere le sue certezze, il suo ego, la sua naturale propensione a spiegare. Quello che lo frega è che mentre illustra si compiace, e compiacendosi viene posseduto da se stesso, una sorta di doppio Baricco, che, però, è quello che emette i Pof (divenuti panattiani col film di Zerocalcare), che sono, in realtà, i rumori di fondo del suo piacere. L’idea di “The Game” è capire perché si è abbandonato il gesto per il movimento, i blocchi geometrici per il presente liquido, come internet e web hanno cambiato le nostre vite, e tutto viene riassunto nei passaggi calciobalilla-flipper-SpaceInvaders, ma Baricco non è Joseph Roth né Nassim Taleb, tanto che un solo capitolo – su programmi e social network – di Roberto Cotroneo in “Niente di personale” riassume quello che nel suo Game viene spalmato in trecento e fischia pagine tra mappe e repliche del web. I capitoletti baricchiani sembrano trenini, nella sua stanza dei giochi, che arrivano in orario – con diversi refusi qua e là – portando idee e discussioni che tutti abbiam fatto, un giornale già letto – persino sull’oltremondo più reale: “Second Life”, che stranamente manca – con conclusioni azzardate: il sovranismo dilagante come risposta all’eccesso di irrealtà, e grandi notizie: il Novecento è morto, ma non l’ha ucciso lui.