domenica 23 dicembre 2018

Cpme guarire dalla "grande cecità" - intervista ad Amirav Ghosh


Riprendiamo con questo post il tema della incomprensibile sostanziale indifferenza umana ai rischi di totale collasso ambientale affrontati dal saggio “Il grido” di Antonio Moresco scelto come “Saggio del mese” di Ottobre 2018


Come guarire dalla 
grande cecità
Riscaldamento globale e letteratura, 
tecnologia e natura, 
umano e non-umano

intervista ad Amitav Ghosh (antropologo indiano, scrittore e giornalista) di Matteo De Giuli (senior editor del Tascabile. Collabora con Radio3 Rai, al microfono a Radio3 Scienza. Co-autore di una newsletter che si chiama MEDUSA) e Nicolò Porcelluzzi ( editor del Tascabile, ha scritto per Prismo, l'Ultimo Uomo, Not e altre riviste. Co-autore di una newsletter che si chiama MEDUSA) tratta dalla rivista on-line La Tascabile

Siamo a pochi passi da una catastrofe: nel lungo periodo, nell’arco di decenni, andremo incontro a trasformazioni irreversibili. La dimensione reale del problema del riscaldamento globale è difficile da abbracciare con il pensiero. Spesso si è detto che il disinteresse generale che ha aleggiato a lungo attorno a questi temi dipende dalla natura stessa del nostro cervello o della nostra morale, strumenti inadeguati per avvertire l’urgenza di problemi lontani nel tempo e nello spazio. Secondo qualcuno insomma è colpa della natura umana, dei limiti cognitivi che ci confondono, portandoci a sottovalutare problemi complessi e non immediati. Secondo altri è colpa soprattutto del sistema capitalista. Le teorie economiche dominanti non solo presumono che avremo un accesso perpetuo a fonti energetiche redditizie come il carbone fossile, ma sembrano ignorare l’entità dei costi che non possono essere recuperati: il cambiamento del clima appunto, e i conseguenti squassi sociopolitici. Strutture cognitive o avidità? Probabilmente è un concorso di colpe.

Negli ultimi due anni ci siamo ritrovati più di una volta a rileggere La grande cecità di Amitav Ghosh (uscito in Italia per Neri Pozza, traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti). Ghosh è indiano, vive a Calcutta e New York, e con il suo saggio ha raggiunto un successo planetario. Il titolo originale del pamphlet è The Great Derangement, il grande squilibrio: perché non solo siamo ciechi di fronte a trasformazioni che superano le nostre capacità percettive, ma chi dovrebbe raccontarle – scrittori, divulgatori, artisti in generale – le ignora. O inizia a occuparsene con grave ritardo. Nel corso del tempo, la natura è stata consegnata alla scienza, rimanendo preclusa alla cultura. L’abisso che oggi divide natura e cultura è il risultato di uno degli impulsi originari della modernità, secondo Ghosh – che riprende le idee di Latour. Una divisione e un rimosso che hanno portato al distacco degli scrittori dalle questioni scientifiche, degli intellettuali dalle questioni climatiche e, di riflesso, degli scienziati dal dibattito culturale. Nel giro di poco tempo La grande cecità è stato ripreso e citato da scienziati, ricercatori, artisti, giornalisti e scrittori – che forse hanno sentito, per una volta, di essersi trovati finalmente raccontati dalla stessa storia.

Nella Grande cecità metti in discussione l’egemonia del romanzo borghese, cioè bianco e agiato: è un’idea di letteratura – scrivi – che ha ignorato un problema urgente e complesso come i cambiamenti climatici e ha represso le potenzialità dell’invenzione letteraria.

La cultura occidentale post-illuminista è stata spinta nella direzione di una sorta di trionfalismo, nella convinzione che il mondo esterno fosse stato sconfitto e addomesticato. Atteggiamenti borghesi che sono, ovviamente, intimamente connessi con le questioni di razza, colonialismo e conquista – perché anche la Natura è stata vista come un dominio da conquistare, da dominare e sfruttare.

È cambiato qualcosa dalla pubblicazione del libro? La letteratura e le arti “mainstream” si sono avvicinate ai temi del riscaldamento globale?

Sì, penso che qualcosa sia cambiato in questi due anni; c’è una consapevolezza sempre più grande del fatto che i cambiamenti climatici non sono solo un problema economico o tecnologico, che anche la cultura ha un ruolo centrale, sotto ogni punto di vista. Un cambiamento che può essere, almeno in parte, risultato degli effetti quotidiani del riscaldamento globale, che sono diventati sempre più visibili e gravi negli ultimi anni – incendi, siccità, alluvioni stanno colpendo la vita delle persone in un modo nuovo, immediato, impossibile da ignorare.

A quali scrittori stai pensando, in particolare?

Per quanto riguarda la narrativa, uno degli sviluppi maggiori di quest’anno è stata la pubblicazione di Overstory di Richard Powers, un romanzo magistrale, che è rigidamente ambientato ai giorni nostri (ovvero quelli dell’Antropocene). Il libro affronta, in una maniera creativa e brillante, la sfida fondamentale della nostra epoca: dare voce al non-umano. Al tempo stesso, giustamente, Overstory non è stato marginalizzato come romanzo “di genere”. Al contrario, è stato inserito nel flusso della narrativa mainstream ed è stato trattato come un romanzo che merita la considerazione critica più profonda e seria (è finito anche nella short-list del Booker Prize). Questo è un segnale, credo, del fatto che qualcosa sia effettivamente cambiato nella letteratura “tradizionale”. 

Pensi che la letteratura debba per forza contenere una riflessione sociale? Che debba per forza servire a qualcosa?

Per come la vedo io, la scrittura non può essere programmatica – diciamo così. Dalla scrittura che ha come prima intenzione quella di servire come megafono di una causa, raramente nasce buona letteratura. Allo stesso tempo, com’è ovvio, scrittori e artisti non possono ignorare o evitare le questioni più urgenti dei loro tempi. Quello che rende buona un’opera d’arte o di letteratura – come per esempio Overstory – è fondamentalmente un mistero, nel senso almeno che non abbiamo a disposizione nessuna formula precisa.

Insisti molto sul concetto di riconoscimento del non-umano come parte dell’umano, sull’importanza di creare un dialogo tra noi e la vita che ci circonda sul pianeta. Però parli spesso anche di spaesamento, della natura come materia perturbante, uncanny, unheimlich: come possiamo davvero tutelare qualcosa che ci fa paura?

Rigiro la domanda, perché l’antropocentrismo della letteratura contemporanea non è, nella mia mente, una causa: è il sintomo di uno spostamento culturale più ampio. Moby Dick di Melville, per esempio, non era centrato sull’essere umano come invece tanti romanzi contemporanei. Oggi mettiamo l’uomo al centro delle narrazioni in gran parte come effetto di ciò che chiamiamo “sviluppo” o “modernità”. In città non dobbiamo più fare i conti con molti aspetti non-umani di ciò che ci circonda, cosa che invece, ancora oggi, sono costrette a fare le persone che dipendono dall’agricoltura, dalla caccia e dalla pesca. In altre parole, lo stesso processo che pompa gas serra nell’atmosfera sembra anche averci privato della vista delle conseguenze delle nostre azioni, serrando la nostra attenzione solo sull’umano.

Scrivere un libro come La grande cecità significa scrivere un libro di storia, di antropologia, di letteratura, di urbanistica perfino. Al fuori del giro letterario, come è stato accolto negli altri campi, come è stato letto da ricercatori e scienziati?

Devo essere sincero, l’accoglienza che ha avuto il mio libro mi ha meravigliato. È stato recensito in maniera ampia e indulgente. È stato adottato nelle università di molti Paesi. Un’importante rivista accademica, il Journal of Asian Studies, ha pubblicato un forum speciale che partiva dal libro. Ha vinto dei premi, come il primo Utah Award in Environmental Humanities. Ma soprattutto ha acceso conversazioni lungo tutto lo spettro culturale, nelle arti, in architettura, in urbanistica e anche nelle scienze dure. Il tema del padiglione polacco alla Biennale d’architettura di Venezia di quest’anno era ‘Amplifying Nature; the Planetary Imagination of Architecture in the Anthropocene’ e coinvolgeva in maniera profonda il mio libro. In maniera simile vari artisti e critici mi hanno chiesto di collaborare, e anche i ricercatori hanno avuto una reazione calorosa. Adam Sobel, per esempio, professore di scienze dell’atmosfera alla  Columbia University, mi ha confessato di aver iniziato un progetto per analizzare le minacce dei cambiamenti climatici a Mumbai come risultato diretto di una conversazione che abbiamo avuto sul mio libro. E i suoi studi potranno avere un impatto sulla gestione delle emergenze a Mumbai, che è, come sappiamo, una città molto vulnerabile. Tutto questo, ovviamente, ha superato di gran lunga le mie aspettative sulla Grande cecità.

Nell’ultimo capitolo analizzi il dizionario vuoto, volutamente vago, degli accordi e delle conferenze mondiali sui cambiamenti climatici, come la COP24 in corso in questi giorni in Polonia. Possiamo ancora aspettarci qualcosa di positivo dalla diplomazia del clima?

Quest’anno, dopo tre decadi di conferenze climatiche, c’è stata una notevole impennata di emissioni di gas serra. Direi che è una prova sufficiente del fatto che la diplomazia ha fallito. Questo significa che dobbiamo rassegnarci? No, ovviamente – perché anche se alcune conseguenze dei cambiamenti climatici sono ormai inevitabili, è ancora possibile scongiurare gli scenari peggiori.

Chi soffrirà di più per le conseguenze dei cambiamenti climatici? I paesi ricchi o le nazioni in via di sviluppo?

Non penso ci sia una risposta semplice. Ovviamente le persone povere saranno duramente colpite. Ma è sempre più chiaro che anche le persone agiate andranno incontro a conseguenze serie, inaspettate. Prendi per esempio Houston, una città molto ricca, che ha dovuto affrontare l’uragano Harvey, oppure Malibu, circondata dalla devastazione degli incendi. O anche la stessa Italia, un paese del “primo mondo”, che negli ultimi mesi ha registrato diversi eventi climatici estremi. Sotto molti punti di vista, comunque, chi è più a rischio è forse in generale la classe media, che ha come risorsa finanziaria principale case e appartamenti. Per due ragioni. La prima è che, sotto la minaccia della catastrofe, si è visto in diversi casi come i proprietari di case siano restii ad abbandonare i propri appartamenti, preferendo mettere a rischio le proprie vite. La seconda è che, ovviamente, una volta persa la casa hanno perso ogni risorsa.

La tecnologia ci potrà venire in soccorso in qualche modo? Pensiamo per esempio alle tecniche, ancora embrionali, di cattura dell’anidride carbonica.

Non credo che la tecnologia ci possa salvare, credo anzi che la fede nelle soluzioni tecnologiche sia essa stessa parte del problema più ampio, parte di ciò che ci ha impedito di riconoscere la vera dimensione della sfida che avevamo davanti. E, peggio ancora, sembra quasi inevitabile, adesso, che alcune “soluzioni tecnologiche”, sotto forma di geo-ingegneria, ci verranno imposte nei prossimi anni, che ci piaccia o no. È ironico, perché queste scelte ci verranno presentate come inevitabili. Come scrive Isabelle Stengers, il dibattito si ridurrà alla forma sterile “O così, o sei parte della catastrofe climatica”. Uno dei precetti fondativi della modernità è che la tecnologia fornirà sempre una soluzione; un credo che è stato quasi letteralmente inserito anche nell’accordo sul clima firmato alla COP di Parigi nel 2015. Ma è sempre più chiaro il fatto che non c’è ancora una tecnologia affidabile che possa catturare e stoccare l’anidride carbonica, non alla scala richiesta. Forse una tecnologia del genere verrà inventata e perfezionata un giorno, ma è improbabile che possa succedere all’interno della piccola finestra di tempo che ci rimane prima di entrare in un periodo di completa incontrollabilità climatica.

martedì 11 dicembre 2018

Intervista a Julia Kristeva - Articolo del Corriere della Sera del 09/12/2018


Questo articolo è stato proposto da una nostra socia sollecitata a farlo dall’evidente collegamento con la conferenza del prof. Mordacci. Poteva quindi prestarsi ad essere postato come commento a margine della sintesi della conferenza, ma la sua lunghezza, e la rilevanza delle riflessioni sviluppate,  hanno consigliato di inserirlo nel nostro blog  come post a sé stante


INTERVISTA a JULIA KRISTEVA
All’Europa in crisi servono nuovi padri
 Viviamo in un snuovo tardo Medioevo,
 non contano più i grandi ideali

Articolo tratto dal “Corriiere della Sera” del 9 dicembre 2018, in occasione del conferimento a Julia Kristeva della laurea honoris causa alla Iulm di Milano

Kristeva Julia. = Semiologa e psicanalista bulgara naturalizzata francese (n. Sofia 1941). Studiosa di M. Bachtin, ha consacrato i suoi primi saggi alla fondazione di un nuovo ramo della semiologia, la 'semanalisi', si è inoltre occupata di semiologia della pittura e della questione femminile. Parallelamente all'attività di saggista, a partire dagli anni Novanta si è dedicata anche al romanzo

………….La cultura europea esiste, la sua lingua è il multilinguismo, e il comune denominatore è la cultura dell’individuo, della nazione, della politica. Sono creazioni giudaico-cristiane, che si sono sviluppate nel tempo e che non sono culti ma aperture fragili. Il grande problema oggi è come armonizzare queste culture nazionali. Tutto il mio lavoro di intellettuale, ovvero psicoanalista, romanziera, filosofa, semiologa, affronta questo argomento…………

Incontriamo Julia Kristeva nella sua casa di Parigi, due giorni prima della visita a Milano e della laurea honoris causa alla Iulm, per anticipare i temi del suo intervento. Inevitabile che la cultura e l’Europa si intreccino con gli avvenimenti appena vissuti da Parigi e della Francia: la rivolta dei gilet gialli e la crisi della politica.

Come giudica lo stato attuale della cultura europea?

Intanto, è già un punto di partenza affermare, come io mi sento di fare, che una cultura europea esiste. Quando ho accettato la proposta di venirne a parlare a Milano, tutti sapevamo che la grande sconfitta, nella cacofonia mondiale delle nazioni oggi, è l’Europa. Ma non eravamo ancora in questa situazione di crisi violenta. Quel che è appena accaduto a Parigi a mio avviso è un avviso di tempesta per tutta l’Europa, non solo per la Francia

In tempo di conflitto aperto tra sovranisti e élite vengono subito in mente le critiche degli esclusi: facile parlare di cultura europea per chi è abituato a prendere aerei per visitare mostre a Venezia e Firenze o per passare qualche giorno nel proprio pied-à-terre a Parigi. E gli altri?

Io ho una visione della cultura molto più larga. La cultura è una concezione dell’individuo, uno sguardo sulla singolarità di ciascuno, una cultura di patto nazionale, che si interessa alla diversità delle lingue e alla nozione di felicità, di valore, di progetto ideale per l’avvenire. Questa cultura non è affatto elitista e riguarda anche il contadino e l’artigiano

Anche quelli che da quattro sabati manifestano a Parigi e nel resto della Francia?

Non possiamo neanche sperare di risolvere la crisi dei gilet gialli se non ci affidiamo alla filosofia e alla sociologia per affrontare la questione del senso delle persone, della nazione, degli ideali, del futuro

Eppure le rivendicazioni dei gilet gialli sono molto concrete: chiedono meno tasse e più potere d’acquisto.

Certo, e io credo che il governo debba senz’altro mettere mano alla cassa e soddisfare almeno una parte delle loro richieste. Non voglio dare l’impressione di stare sulle nuvole, cominciamo con i piedi per terra e diciamo che adesso è il momento di aprire il portafogli. Fatto questo primo passo necessario ma insufficiente, dobbiamo resistere alla tentazione di considerare gli scontenti solo come consumatori in difficoltà, perché sotto c’è un malessere molto più profondo

A che cosa si riferisce?

Alla fine della politica per come la conosciamo da oltre due secoli. Una cosa è successa molto tempo fa in Europa, e solo in Europa: la rottura del filo della tradizione religiosa. Con la Rivoluzione francese — né dio né padrone — abbiamo cancellato dio, tagliato la testa al re e messo al loro posto l’ideologia dell’umanesimo, che ha finito per diventare un valore astratto. La politica è diventata la nuova religione, con l’idea che la democrazia rappresentativa possa risolvere i problemi della felicità, della morte, dell’avvenire, l’inferno e il paradiso qui sulla Terra. Abbiamo dato alla politica responsabilità enormi, e questo modello è crollato con la Shoah e i gulag. Sopravvive a stento un’idea più ridotta della politica come gestione dell’esistente, gestione che è comunque soffocata dalla finanziarizzazione dell’economia e della rivoluzione digitale. In questo stato di cose la politica si riduce a showbiz o carnevale. Donald Trump ne è l’espressione, e infatti arriva ad adattarsi alla situazione meglio degli altri

Che cosa significa la politica come gestione?

È una politica dell’impotenza, della contabilità, in cui fingiamo di credere che il problema sia davvero l’aumento del prezzo del diesel. Lo è ma solo in parte, e infatti anche quando l’aumento viene ritirato le proteste continuano. Ci troviamo in una specie di tardo Medioevo, quando uno dei miei grandi punti di riferimento, Duns Scoto, disse che non ci sono altri valori se non questo uomo, questa donna. Non i grandi ideali, non la materia, ma la persona. Solo che dopo il tardo Medioevo arrivò il Rinascimento, e un passaggio simile mi sembra ancora molto lontano da noi

Quali caratteristiche hanno queste persone, in Francia e nel resto d’Europa?
I cosiddetti perdenti della globalizzazione sono mal pagati ma soprattutto frustrati, la rivoluzione digitale li rende onnipotenti in teoria ma non nella pratica. Vogliono rompere questo ordine ma per adesso non hanno alternative da proporre. Invocano le dimissioni di Macron, ma allo stesso tempo dicono che con un altro al suo posto le cose non cambierebbero. Qui arriviamo alla nozione di popolo. Robespierre diceva che il popolo ha sempre ragione, invece per Wilhelm Reich certe masse vogliono il fascismo. Tra queste due visioni estreme e opposte bisognerebbe provare a rispondere alle emozioni insoddisfatte e agli ideali senza risposta. Magari ricorrendo alle categorie della psicoanalisi

Qui entra in gioco il suo lavoro di psicoanalista. In che modo?

Sento molte persone ripetere che vorrebbero un presidente “padre della nazione”. È una frase molto interessante per una psicoanalista perché la famiglia è in crisi di ricomposizione e siamo tutti alla ricerca del padre perduto. Gli unici padri oggi in politica sono un po’ clowneschi come Trump, o i dittatori. Quel che succede invece è che i nostri governanti giocano con la figura del fratello

Cioè i presidenti di oggi non sono più padri della nazione ma fratelli?
Sì, e il fratello è una figura importante nell’evoluzione di un individuo. Gli adolescenti sono tutti fratelli e condividono passioni reversibili, amore che diventa odio e viceversa. Questa reversibilità si chiama omoerotismo — che non significa omosessualità — e innamoramento. E lo abbiamo visto benissimo con il presidente Macron: adorato all’improvviso, e altrettanto repentinamente odiato».

Lo accusano di tutto: di parlare troppo o troppo poco, di essere troppo arrogante o troppo amichevole.

Perché parla un linguaggio di vicinanza, tattile, sia con i pregiudicati delle Antille sia con i disoccupati che lo avvicinano per strada. Pensa forse che questa vicinanza tattile risponderà alle angosce delle persone ma no, al contrario, le fomenta. Resta nella reversibilità adolescenziale di amore e odio. I cittadini non capiscono il leader che gioca al loro livello, prendono questa familiarità per arroganza. Ma come Macron fanno molti altri. I leader attuali sono fratelli, non padri. Tra fratelli ci si ama e ci si odia, senza sosta. È una parte di noi che sopravvive. Tra colleghi, amici, uomo e donna, giochiamo al gatto e topo. Ma il campo politico non deve ridursi a questo. E i fratelli tradizionali in politica non ci sono più

A che cosa si riferisce?

Alle tipiche fraternità che sono i corpi intermedi, i sindacati, le organizzazioni non governative, le associazioni, la scuola, la Chiesa, l’esercito. Tutte queste istituzioni sono in crisi ovunque e alcuni presidenti, come il nostro in Francia, hanno diminuito il loro peso pensando che il capo dello Stato fratello avrebbe potuto fare tutto, occupare tutti quei ruoli. Non è così

Quanto sono importanti i social media?

Molto, perché la debolezza della politica e del capo dello Stato che non è più il padre della nazione si abbina a una interconnessione continua. Questa interconnessione digitale genera identità liquide, le persone non sanno neanche più come definirsi. C’è un odio che poi si diffonde al mondo reale

Che cosa dovrebbe fare oggi un leader politico?

Ovviamente non oso proporre soluzioni, i miei sono contributi alla riflessione, e poi non voglio essere troppo critica con Emmanuel Macron. Nel suo discorso all’inizio della crisi a un certo punto ha detto che la risposta sarebbe stata “la declinazione del pragmatico”. Ma cosa vuol dire? C’è troppa tecnica e troppa freddezza. Direi che la politica dovrebbe non occuparsi più solo della contabilità ma anche della cultura, intesa come educazione e accompagnamento, magari partendo dai valori ancestrali del cristianesimo, dell’islam e del giudaismo. La questione adesso è interagire con persone che non credono a niente

A proposito di ribellione mi viene in mente una riflessione di Damasio che alla domanda per cui siamo spinti a ribellarci da un determinismo biologico, risponde che è una domanda che si pone spesso: il sistema è organizzato in maniera tale che la ribellione sia già programmata ? A volte ho l’impressione di sì. Nei momenti di romanticismo preferisco pensare di no, ma non ne sono affatto sicuro.

lunedì 10 dicembre 2018

Relazione sulla conferenza del prof. Roberto Mordacci - a cura di Enrica Gallo


Relazione sulla conferenza

del prof. Roberto Mordacci:



LA CONDIZIONE NEOMODERNA:
UN NUOVO PENSIERO PER L’EUROPA



Presentazione:

Dopo aver ringraziato il numeroso pubblico, e in modo particolare gli studenti del liceo Pascal - la cui presenza all’incontro è per CircolarMente un motivo di grande soddisfazione - Massima Bercetti presenta il relatore che per le sue molteplici competenze può davvero darci, su di un tema che ci sta molto a cuore, quell’ampiezza di sguardo di cui oggi abbiamo particolarmente bisogno. Il prof. Roberto Mordacci è infatti non solo docente di Filosofia morale all’Università San Raffaele di Milano, e preside della Facoltà di filosofia, ma è stato membro del Consiglio d’Europa per l’insegnamento della bioetica ed è attualmente Direttore del Centro Internazionale per la cultura e la politica europea. Da lui ci aspettiamo dunque di essere aiutati ad analizzare una condizione, quella dell’Europa attuale, sicuramente critica e bisognosa di una nuova prospettiva. Abbiamo infatti avuto occasione di trovare, in un suo piccolo libro che però contiene a nostro giudizio delle grandi idee (“La condizione neomoderna” – ed. Einaudi), un’interpretazione estremamente interessante ancorché inconsueta di questa crisi. In esso infatti il prof Mordacci istituisce una relazione fra la crisi dell’Europa attuale, interna alla complessità del nostro tempo globalizzato, e quella che essa ha vissuto fra il 1500 e il 1600, che era allora legata alla fine del mondo medioevale, unitario e feudale, suggerendo a partire da questa analogia l’invito a ripensare quel pensiero che in qualche modo è riuscito allora a reagire a quella crisi. Non già, naturalmente, per restituirlo tale e quale – cosa del resto impossibile, perché noi ci troviamo oggi in un contesto di globalizzazione molto più ampio – ma di rilanciarne gli elementi di forza: quel tipo di razionalità, quella rappresentazione positiva dell’autonomia come elemento fondamentale di cittadinanza, che tanto ha saputo dare sul piano istituzionale, politico e giuridico. Per questo come CircolarMente abbiamo pensato che rivendicare quello sguardo, in questo tempo buio segnato da sovranismi e tribalismi, potesse aiutarci in quel percorso di cittadinanza consapevole che cerchiamo di proporre, nella speranza che ora come allora l’Europa sappia reagire alle minacce che la sovrastano. 

…………………………………………………..

1)  Premessa:

Nella prima parte del suo intervento il prof. Mordacci ha spiegato anzitutto i motivi che lo hanno indotto a cercare di dare un nome al nostro tempo, nella persuasione che quelli in vario modo utilizzati per definirlo non siano sufficientemente comprensivi di tutta una serie di problemi, e che soprattutto non ci diano indicazioni valide per capire chi siamo e in che direzione stiamo andando in questa nostra contemporaneità così difficile e confusa. Da qui, il titolo del libro che fa riferimento all’intuizione da cui si è mosso e che cercherà di articolare ora nel suo discorso, mettendo al centro la riflessione sul ruolo e sul significato di quell’Europa che a suo giudizio si presenta davvero come la chiave per capire questa particolare condizione. Se infatti essa attiene in qualche misura all’identità, per noi che facciamo parte di questa costruzione politica sicuramente alquanto strana (l’unica, anzi, nel suo genere, perché in effetti non è una federazione ma un’unione, anche se ancora non si è capito bene che cosa questo possa davvero significare), e che dunque dobbiamo necessariamente partire dall’Europa per stabilire come muoverci in un orizzonte ormai globalizzato, non c’è dubbio che ci sia un intero mondo, là fuori, che aspetta da quest’Europa da cui per lungo tempo è stato dominato militarmente, economicamente e soprattutto culturalmente una parola forte, una presa di posizione sui grandi temi del nostro tempo. Capire dove ci troviamo oggi, secondo il prof. Mordacci, significa prima di tutto chiederci dove si trova l’Europa e in quale particolare condizione essa stia vivendo. Da qui, l’asse centrale del testo che è emerso da queste riflessioni e che pone come elemento caratterizzante l’idea che sia possibile fare alcune analogie fra il momento storico attuale, segnato da una crisi profonda, e quello in cui l’Europa si è trovata a vivere nella sua prima modernità (intendendo con questa espressione il periodo storico che va grosso modo dalla seconda metà del 1400 al 1600).

2)  La critica al “postmodernismo”:

Di questa analogia, il relatore intende dare più  ampi ragguagli nel prosieguo del discorso, aprendo anzitutto  una parentesi importante su di un tema  - la critica al cosiddetto “postmodernismo” - che in effetti occupa tutta la prima parte del testo e ne rappresenta il bersaglio polemico, per via dell’idea, da esso sostenuta, che la modernità europea sia definitivamente finita, che il tentativo da essa compiuto di incasellare il mondo intero secondo le sue categorie - la razionalità, il soggetto, i diritti dell’individuo - non abbia prodotto che violenza e che occorra dunque rinunciare a questo sogno e insieme all’idea che la storia debba assumere necessariamente una direzione di progresso morale (“le magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria). Una diagnosi, quella posta dalla corrente culturale del postmodernismo, che ha avuto lungo corso: tutti noi sicuramente abbiamo già incontrato, se non direttamente questo termine, autori che hanno assunto questa posizione (pensiamo per esempio ad un sociologo celebre come Zygmunt Bauman, che ha interpretato la contemporaneità in chiave postmoderna coniando la felice metafora della modernità “liquida”, intesa a sintetizzare la condizione di spiazzamento e di frantumazione del soggetto in un mondo segnato dalla perdita di punti di riferimento stabili, per cui il tempo sembra scorrere senza confini). Siamo dunque lontanissimi, in questo orizzonte concettuale, da uno dei cardini della modernità che ha nella certezza dell’esistenza del soggetto – il “cogito” cartesiano – il suo più decisivo appiglio, da cui si dipanano poi gli altri punti solidi a cui secondo gli interpreti del postmodernismo occorre ormai rinunciare, senza averne particolare nostalgia perché essi sono già stati condannati e respinti dalla storia. Una modalità di pensiero rispetto alla quale il relatore esprime il più netto dissenso, non solo perché  è fondata a suo giudizio su di un fraintendimento del percorso storico della modernità, che viene unificato in  un unico blocco (mentre ci sono stati in essa fasi diverse segnate da una forte discontinuità, in cui l’idea del progresso ha subìto torsioni significative), ma soprattutto perché questo tiro al bersaglio contro ogni idea che si sia affacciata alla coscienza moderna ha avuto esiti inquietanti che nel testo vengono analizzati in modo  diffuso e su cui il relatore darà comunque nel corso dell’incontro  alcuni ragguagli significativi. Entrando ora più nel dettaglio, il relatore spiega che il termine “postmoderno” si affaccia negli anni   trenta del novecento non direttamente in ambito filosofico, bensì nella critica letteraria – soprattutto quella di matrice latino-americana - venendo ad indicare uno stile di scrittura che non è più connotato dalla forma tradizionale del romanzo, imperniato in genere sulla centralità di un protagonista e in cui lo svolgimento delle vicende ad esso afferenti pervade l’intero arco narrativo. Cominciano infatti a prevalere altre modalità di scrittura in cui la storia si fa corale, l’unità compositiva si spezza e la differenza fra centro e periferia non è più così netta:

Pensiamo, dice il relatore, alla Recherche proustiana: benché il narratore sia sempre Marcel – peraltro non del tutto sovrapponibile all’autore stesso - ci sono parti del testo in cui l’io narrante quasi scompare, per fare posto ad altri personaggi (Swann, Albertine, che a loro volta appaiono e scompaiono), mentre lo stesso Marcel è presentato ora come bambino, ora come adulto o anziano; ad un autore centrale nel primo novecento italiano come Pirandello, che  concentra tutta la sua produzione letteraria sulla dispersione del soggetto, sulle maschere che esso indossa risultando alla fine inconoscibile anche a se stesso – uno, nessuno o centomila come Peer Gynt, lo straordinario protagonista di una pièce teatrale di Ibsen che nelle diverse identità in cui si trova ad agire ad un certo punto dice di se stesso “io sono una cipolla”, con ciò intendendo che è possibile sfogliarlo strato dopo strato senza trovarne il nucleo centrale… Questa posizione culturale passa poi nell’ambito filosofico attraverso alcuni autori, in particolare Jean-Francois Lyotard: esce per l’appunto nel 79 quello che può essere considerato il manifesto del postmodernismo (“La condizione postmoderna”), che si presenta come un resoconto, e insieme come un atto d’accusa contro i presupposti della modernità europea e quelli che vengono intesi come i “deliri di onnipotenza” della ragione cartesiana. La storia meravigliosa che la modernità ha inteso raccontare, osserva infatti Lyotard – una storia in cui il soggetto ha raggiunto via via la propria emancipazione grazie alla razionalità - non è altro che una narrazione che essa fa su di sé e che ha dimostrato nel corso del novecento tutta la sua debolezza, non riuscendo in alcun modo ad evitarne le tragedie e che ora possiamo dunque considerare come definitivamente tramontata  in entrambe le versioni che si è data, quella scientifico emancipativa di stampo illuministico e quella più specificatamente politica, confluita  nello storicismo e nell’idealismo.

3)  Le grandi “narrazioni” della modernità:

Su queste due versioni il relatore apre un’ importante parentesi, seguendo la traccia di Lyotard ma mostrando di intenderle in modo assai diverso: non cioè come narrazioni al tramonto, mancanti ormai di ogni legittimità, ma come linee di pensiero che nonostante gli errori che ad esse si possono imputare (l’aver spesso dato vita a sistemi chiusi e riduzionisti, riconducendo il reale ad un solo principio e dimenticando la valenza critica di ogni procedimento) non solo non vanno abbandonate ma sono da riprendere e da rivitalizzare profondamente, attualizzandole. Vediamole ora più in dettaglio. Noi abbiamo da un lato, spiega il prof. Mordacci, il racconto di un’emancipazione del soggetto che rifiutando ogni dogmatismo e ogni indebito principio di autorità prende in mano le redini della conoscenza, facendosi scienza a partire dalle “sensate esperienze” galileiane, dal metodo scientifico razionale di Bacone, dai cartesiani pensieri “chiari e distinti”: una narrazione che in linea ideale ci conduce all’illuminismo, o perlomeno a quella parte di esso che fa della liberazione dall’ignoranza e dalla superstizione il proprio vessillo. Dall’altro lato, e accanto a questo, c’è un racconto che scorre in un certo senso parallelo rimandando però più specificatamente al corpo politico e morale della società: un racconto altrettanto emancipativo, che   si delinea nel momento in cui l’uomo medioevale comincia ad avere fiducia nella propria capacità di autodeterminarsi senza la protezione di un ordine rivelato e consacrato. C’è naturalmente una lunga storia anche dietro a questo sviluppo del pensiero e dell’azione politica, che in filosofia trova in Hobbes un punto di partenza importante, per quanto segnato da una sorta di paradosso che il relatore mette bene in evidenza, ricostruendo il punto centrale del suo discorso: Come molti dei presenti certo ricordano, la proposta filosofico – politica di Hobbes muove dalla considerazione che nello stato di natura vige il diritto di tutti su ogni cosa, per cui ciascuno si sente autorizzato ad usare tutta la sua potenza e la sua forza per appropriarsi di ciò che desidera, spinto da un istinto naturale insopprimibile. Questo genera peraltro una situazione di guerra generalizzata in cui ciascuno è lupo agli altri uomini (“homo hominis lupus”) e da cui si può trovare scampo solo se dal diritto naturale si accede alla “legge naturale”, intesa a sottrarre gli uomini al potere distruttivo degli istinti offrendo a tutti una relativa sicurezza attraverso un “pactum unionis”, cioè un contratto fra individui (una proposta dunque che è stata recepita allora come profondamente “atea”, nonostante gran parte del testo in cui Hobbes la espone – Il Leviatano – sia dedicata a Dio e alla Chiesa, perché in effetti l’autorità del patto non viene fatta derivare in alcun modo dalla divinità). Certo, osserva il relatore, il pensiero di Hobbes non può che dare origine ad un paradosso, dal momento che il “pactum unionis” diventa immediatamente dopo essere stato formulato un “pactum subiectionis”, in quanto il potere viene delegato, sia pure per libera scelta dei contraenti, ad un sovrano assoluto che per garantire la pace riunirà in sé ogni forza e potere. Resta comunque un punto di partenza imprescindibile  nel cammino di emancipazione della modernità, perché porta con sé l’assunto che il potere politico può determinarsi attraverso un accordo fra individui. Non è poco: questo cammino infatti cresce nel tempo, e  sarà segnato via via da conquiste fondamentali (pensiamo, per fare un esempio, all’enorme valore storico -politico della pace di Westfalia che chiuderà nel 1648 il periodo drammatico delle guerre di religione, riuscendo a dare vita ad un mondo dove si poteva finalmente convivere pur appartenendo a fedi diverse…) che ci porteranno progressivamente all’acquisizione di diritti politici, sociali e culturali attraverso il diverso snodarsi e fondersi di queste due  strade che rappresentano, a giudizio del prof. Mordacci, un portato della modernità il cui fulcro è ancora sostanziale e che tocca a noi ripensare, riattivandolo e completandolo, perché davvero  molto resta ancora da fare.

4)  L’Europa ad un bivio:

E’ una partita  drammatica, quella che il relatore delinea, e  che ci chiama direttamente in causa. Non c’è scampo, infatti: è sua ferma convinzione che se non ci mettiamo in quest’ottica, se non prendiamo atto di trovarci oggi in una condizione assai simile a quella che l’Europa ha conosciuto in quella sua prima modernità funestata da guerre di religione e dogmatismi di ogni sorta, possiamo davvero perdere questa partita smarrendo con essa il significato profondo dell’essere europei che la nostra storia ci racconta. Non possiamo dunque che provare ad attivarci come fecero allora nel campo della scienza, della filosofia, dell’arte, fissando quei punti da cui non possiamo e non vogliamo recedere: il riconoscimento della dignità individuale, il dovere del rispetto per l’autonomia personale, l’affermazione del valore dell’uguaglianza e della solidarietà …E’ convinto, il relatore, che questo e solo questo sia il vero destino dell’Europa: ripensare questi valori, non già nostalgicamente ma ricordando che già una volta li abbiamo assunti come specificatamente nostri. Non c’è infatti nulla di scontato, in essi, nulla che si possa dare per definitivamente acquisito, soprattutto ora che  pur non essendo del tutto disarmati siamo immersi in un mondo Altro che pare non riconoscere questi principi come base per la convivenza umana. Per questo il prof. Mordacci sostiene che occorre ripensarli da capo, prendendo atto che dire “modernità” non è dire certezze, stabilità e riposo ma porre la parola “crisi” come il suo elemento costitutivo: moderno, in quest’ottica, è lo stato di permanente critica dell’esistente, è la capacità di acconciarsi minuto per minuto ad individuarne le crepe, a rinsaldarle, a riscrivere il disegno di un ordine che non viene percepito come immutabile, bensì come modificabile. Riconoscere, certamente, che alcune strade le abbiamo percorse male: è vero che non siamo stati capaci di evitare i totalitarismi del novecento, è vero che abbiamo creato spesso sistemi di sapere chiusi che non ci hanno portato da nessuna parte, ma le basi che ci eravamo dati potevano anche condurci in direzioni più positive e  questi esiti perversi non erano  obbligati.

POSSIAMO DAVVERO ATTIVARCI IN QUESTO SENSO?

Sì, secondo il relatore, purché noi si sia persuasi che sia possibile farlo, purché non si perda la speranza di un futuro non necessariamente ripiegato in un inesorabile declino. Quella che ci attende è una sfida che il prof. Mordacci ha voluto espressamente definire “neomoderna”, perché se invece ci dichiariamo “postmoderni”, come siamo stati tentati di fare fino ad ora, non ci sono più spazi per la parola, il pensiero e l’azione, ci resta solo l’arrenderci all’idea della fine della storia e con essa la fine della nostra civiltà europea.  Dobbiamo invece secondo lui  assumere la neomodernità come  il nostro vero  compito, che ci impone una responsabilità assoluta e per noi europei definitiva. Se vogliamo davvero essere eredi della parte migliore della nostra storia, dovremmo infatti come Europa pronunciare parole come queste: “Sono pronta a perire, piuttosto che rinunciare a quei valori che io stessa ho contribuito potentemente a formulare; dovete davvero conquistarmi e distruggermi, perché non mi arrendo all’esistente”. E se invece il nemico viene dall’interno, bisognerà trovare gli anticorpi: l’Europa deve  salvarsi non solo da ciò che Europa non è, ma anche da se stessa… O ne usciremo bene, o non ne usciremo affatto. E’ con queste parole che il relatore chiude un intervento molto intenso, esprimendo dal canto suo la forte speranza che sia possibile, nonostante tutte le difficoltà, uscirne bene.



DIALOGO CON IL PUBBLICO          

Nella seconda parte della conferenza il prof. Mordacci apre al dialogo con il pubblico, da cui viene in prima battuta una richiesta di chiarimento sul percorso storico-filosofico che può aver condotto all’attuale “esondazione” del principio di volontà rispetto alla ricerca della verità (N.B. = daremo ragione della sua ampia risposta in uno spazio apposito, perché essa ha costituito sicuramente un motivo di particolare interesse per i molti studenti che hanno partecipato all’incontro). Presentiamo invece qui brevemente, riassumendoli, gli altri temi che via via vengono proposti e che attengono a vari aspetti problematici della nostra contemporaneità:

Nuove rivoluzioni?

Il primo tema  su cui il relatore viene sollecitato riguarda l’idea, formulata di recente da Alessandro Baricco nel suo molto pubblicizzato “The game”, che la navigazione in rete come forma di conoscenza orizzontale, dinamica e leggera, utilizzata dalle nuove generazioni come forma principale di conoscenza, rappresenti una sorta di “liberazione” dagli eccessi di verticalità  e di gerarchizzazione del sapere che si sono rivelati, sempre secondo questa  interpretazione, alquanto inabili a contrastare le derive autoritarie del novecento,  e pertanto  sia da intendere come una  positiva presa in carico della propria formazione. Si può parlare davvero in quest’ottica della rivoluzione digitale? Questa la domanda a cui il prof. Mordacci risponde – senza entrare nello specifico del testo indicato -  ponendo alcuni “paletti” rispetto a questa interpretazione e riflettendo in primis sull’ambiguità stessa del termine “rete” in cui l’elemento connettivo e funzionale scorre parallelo a quello chiuso e ingabbiante; innesta poi su questa riflessione alcune osservazioni che attengono ad altre possibili distorsioni che si stanno rendendo ora sempre più evidenti (basta un algoritmo ben fatto – per fare un esempio  – perché altri possano conoscere e utilizzare a loro vantaggio non solo la nostra eventuale propensione a certi consumi, ma soprattutto le nostre intenzioni di voto su piattaforme digitali rispetto alle quali molte interferenze diventano possibili).

Un dominio a cui sottrarsi:

Un secondo intervento richiama invece il tema della paura, che sembra davvero dominare il nostro tempo. Un sentimento che secondo il relatore ancora non sappiamo bene come recepire ed elaborare in forma costruttiva, evitando che esso si traduca inevitabilmente in rabbia e violenza facendoci agire in modo dissennato e creando comodi capri espiatori su cui rovesciare il male che ci sentiamo dentro, con una reazione scomposta e alla fine autolesionistica. Non a caso il gruppo di ricerca che il prof. Mordacci coordina ha deciso di dedicare il prossimo workshop europeo alla paura e in generale a quelle che vengono definite “negative emotions”, per cercare di evitare (come fa notare molto opportunatamente un’altra interlocutrice) che ancora una volta si ricorra alla non poi così astuta proposta di Hobbes, per tirarcene fuori…Su questo tema il relatore suggerisce la lettura di un testo che può essere a suo giudizio importante per le nuove generazioni (“L’epoca delle passioni tristi”, di  Gèrard Schmith e Miguel Benasayag), anche se in realtà – se teniamo conto di quanto diceva Spinoza, grande analista delle passioni,  per cui le passioni tristi sono quelle che ci fanno sentire impotenti – la paura non rientrerebbe in esse, essendo invece al contrario una passione che ci fa reagire, purtroppo spesso a torto.

Principi da maneggiare con intelligenza:

Apparentato con quest’ultimo tema è sicuramente quello dell’utilizzo di un principio  su cui il relatore è invitato ad esprimersi: il cosiddetto “principio di precauzione”. Esso ci impone, come sappiamo, di valutare attentamente e costantemente in ogni campo i rischi possibili delle nostre azioni non solo al presente, ma prevedendone con lungimiranza l’impatto futuro (pensiamo, per fare un riferimento di stretta attualità, al caso delle due gemelline cinesi il cui DNA pare sia stato modificato per renderle immuni ad una particolare patologia, senza che sia ben chiaro se questo indurrà altre modifiche trasmettendosi per via ereditaria). Al di là di questo caso specifico veramente discutibile, il prof. Mordacci non è convinto che sia sempre saggio farsi dominare da questo principio, che se portato all’estremo rischia di paralizzare ogni azione. Il rischio zero non esiste, e se pure il “principio responsabilità” teorizzato negli anni 70 da Hans Jonas deve sempre guidarci, bisogna necessariamente considerare che ogni scelta è per sua natura problematica. Ci sono decisioni che la classe politica è chiamata a compiere (il prof. Mordacci non esita a fare riferimento a temi che sono certamente assai “sensibili”, come la TAV e i vaccini) rispetto alle quali la cosa davvero fondamentale, a suo giudizio, deve essere l’onestà intellettuale di chi è tenuto ad esplicitare correttamente, alla luce delle maggiori competenze che si possono acquisire, le ragioni delle proprie scelte strategiche ( indicando anche i rischi che derivano dal non fare, così che il principio di precauzione non diventi mai l’anticamera di una irresponsabilità).

Filosofia e ambiente: un incontro mancato?

Sulle questioni che si stanno insieme dipanando un ulteriore spunto viene offerto da un altro interlocutore, che riprendendo il tema della paura cita l’Henry Laborit de “L’elogio della fuga”, osservando come le reazioni animali al pericolo siano sostanzialmente di tre tipi (l’aggressione, l’immobilità, la fuga). La domanda peraltro è intesa a sollecitare il relatore, proprio in quanto filosofo – ben sapendo che uno dei temi su cui la filosofia si è sempre interrogata è proprio il rapporto dell’uomo con la natura  -  ad esprimersi sul tema dell’ambiente, o per meglio dire sul silenzioso inabissarsi di questo tema nel dibattito pubblico. La citazione di Laborit offre intanto al prof. Mordacci il destro di riportarci sul terreno filosofico anche a proposito della paura, ricordando che l’eroe greco per antonomasia, Achille, non è certo immune dalla paura ma non sempre adotta la stessa strategia di combattimento, scegliendo a volte l’attacco, a volte la ritirata strategica, a volte la fuga. Del resto non è stato proprio Aristotele a dirci che la virtù consiste nella scelta del momento più opportuno per agire, per attendere, per ritirarsi? Oggi abbiamo sicuramente bisogno di eroi in ogni campo, ma non degli sconsiderati che si lanciano contro qualunque cosa: servono bensì delle persone che sappiano capire bene quando arretrare e quando avanzare. Questo è vero in maggior ragione per quanto riguarda l’ambiente, su cui la filosofia non ha mai smesso di riflettere con risultati che il prof. Mordaci giudica concettualmente notevoli, anche se forse è rimasta un po’ ai margini del discorso pubblico (cosa che non è sempre un male, osserva scherzosamente, perché essa può essere e spesso è stata il perno di ideologie disastrose…). Non c’è dubbio peraltro che nel dibattito politico il discorso ambientale si sia un po’ appannato, e che i partiti tradizionalmente “verdi” non riescano oggi ad intercettare segmenti significativi dell’opinione pubblica, perlomeno da noi (sappiamo che in Germania hanno invece avuto un avanzamento significativo, ma il contesto era diverso). Uno dei motivi può essere a suo giudizio individuato nel fatto che questo tema è oggi di tale complessità da richiedere un approccio globale, ma bisogna anche segnalare che la cosiddetta sindrome B.I.M.B.I (“ovunque, ma non nel mio giardino”) si è così estesa da diventare il più radicale “in nessun giardino”. Ora è chiaro secondo il relatore che se io, di ogni singolo provvedimento, vedo solo il pericolo, se non so intervenire su temi ambientali in senso propositivo e innovativo, permetto che si affermi l’idea che essere ambientalisti sia solo essere “contro”, mentre l’ambiente è non solo titolare di diritti ma luogo in cui si deve esercitare una corresponsabilità rispetto alla vivibilità del pianeta.  

 

Relazione a cura di Enrica Gallo, per conto di “CircolarMente”

domenica 9 dicembre 2018

Sovranismo psichico - Rapporto Censis 2018


SOVRANISMO PSICHICO



Pochi giorni fai il Censis ha pubblicato la 52esima edizione del Rapporto sulla situazione economico/sociale del nostro Paese. I media hanno dato, giustamente, rilievo a quanto emerge da questa fotografia dello stato di “salute” dell’Italia e degli italiani. Una fotografia che ha un titolo, scelto dallo stesso Direttore del Censis: “sovranismo psichico”, a definire un Paese, e gran parte dei suoi abitanti, rinchiusi  su stessi, a difendere quel poco che resta di un benessere, non solo economico, ormai lontano nel tempo, e perciò, al termine di una parabola che ormai dura da diversi anni, sempre più “incattiviti”. Dal “rancore” evidenziato nel 2017 - in questo nostro blog citato nel commento al saggio “Le divergenze parallele” - si è infatti passati al sentimento che, secondo l’istituto di ricerca, più caratterizza gli italiani nel 2018: la “cattiveria”. Dal documento emerge, secondo il Censis, un Paese inacidito, più povero e più anziano, alla ricerca di un capro espiatorio dei propri guai su cui scaricare la “rabbia cattiva” cresciuta da quel “rancore” del 2017, al tempo indirizzato verso i “partiti”. Una cattiveria che dilaga sui social, che si manifesta in piccoli, ma non per questo meno gravi, diffusi gesti quotidiani di sgarbo, rifiuto e disprezzo, non più mascherati, verso i soggetti individuati, per l’appunto, come capri espiatori: gli immigrati. Questo incattivimento, ormai assurto a stato psichico, spiega, ed al tempo stesso caratterizza, un quadro d’insieme che è definito dal Rapporto del Censis con queste parole: “Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive”. Anche in questo caso, a supporto di queste constatazioni, riportiamo alcuni “dati”, fra i tantissimi che meriterebbero di essere evidenziati, convinti, come siamo e come abbiamo applicato in diversi nostri post, che i  numeri, le “quantità” diano compiutezza alla “qualità”

Immigrazione

·     il 63 per cento degli italiani vede in modo negativo l’immigrazione da Paesi non comunitari, mentre per i Paesi membri dell’Unione europea l’avversione scende al 45 per cento.

·     più ostili verso gli extracomunitari sono gli italiani più fragili: il 71 per cento degli over 55 anni e il 78 per cento dei disoccupati, mentre il dato scende al 23 per cento tra gli imprenditori.

·     il 58% degli italiani pensa che gli immigrati sottraggano posti di lavoro in Italia

·     il 63 per cento pensa che rappresentino un peso per il nostro sistema di welfare i

·     l 52 per cento è convinto che vengano prima gli immigrati in molti aspetti del welfare

·     solo il 37 per cento degli intervistati sottolinea l’impatto favorevole dell’immigrazione sull’economia nazionale

·     per il 75 per cento degli italiani l’immigrazione aumenta il rischio di criminalità

·     il 59,3 per cento è convinto che tra dieci anni nel nostro Paese non ci sarà un buon livello di integrazione tra etnie e culture diverse.

Sfiducia e chiusura

·     il 44,5 per cento degli italiani è pessimista sul futuro del Paese, mentre solo il 18,8 per cento si dichiara ottimista

·     secondo il 56,3 per cento degli intervistati, non è vero che le cose in Italia hanno iniziato a cambiare.

·     il 63,6 per cento è convinto che nessuno ne difenda interessi e identità e che quindi ci si debba pensare da soli.

·     il 69,7 per cento degli italiani non vorrebbe come vicini di casa dei rom.

·     il 69,4 per cento non vorrebbe a portata di occhio e udito persone con dipendenze da droga o alcol.

Ripresa lontana

·     l’Italia è il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori: il 23 per cento, contro una media Ue del 30

·     il 96 per cento delle persone con un basso titolo di studio e l’89 per cento di quelle a basso reddito sono convinte che resteranno nella loro condizione attuale, ritenendo irrealistico poter diventare benestanti nel corso della propria vita

·     in 17 anni il salario medio degli italiani è aumentato di 400 euro l’anno, ossia 32 euro mensili se calcolati su 13 mensilità. In Francia nello stesso lasso di tempo si sono trovati oltre 6 mila euro in più l’anno, in Germania quasi 5 mila.

·     il potere d'acquisto degli italiani è inferiore del 6,3% in termini reali rispetto a quello del 2008, ma soprattutto il problema è il timore di spendere anche quello che si ha, infatti la liquidità ferma cresce, nel 2017 superava del 12,5% quella del 2008. Ma a spendere meno sono gli operai e chi sta peggio, nelle famiglie di imprenditori la spesa per consumi tra il 2014 e il 2017 è aumentata del 6,6%.

·     si investe sempre meno in formazione: investe poco lo Stato, si ritrae anche il cittadino. L'Italia investe infatti il 3,9% del Pil, mentre la media europea è del 4,7%. Investono meno di noi solo Romania, Bulgaria e Irlanda

·     i risultati si concretizzano in un tasso di abbandoni precoci dei percorsi di istruzione del 18% dei giovani tra i 18 e i 24 anni, quasi doppio rispetto a una media europea del 10,6%, nelle basse performance dei quindicenni italiani nelle indagini Ocse-Pisa, e in 13 punti percentuali di distanza che ci separano dal resto dell'Europa in relazione alla quota di popolazione giovane laureata. I laureati italiani tra i 30 e i 34 anni raggiungono il 26,9%, contro una media Ue del 39,9%.

·     le speranze dei giovani si stanno a poco a poco concentrando altrove: la metà della popolazione italiana è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso, e il dato sale al 53,3% tra i giovani tra i 18 e i 34 anni. E un terzo ritiene che la popolarità sui social network sia un elemento indispensabile per arrivare alla celebrità.

·     d'altra parte tra il 2007 e il 2017 gli occupati giovani, di età compresa tra 25 e 34 anni, si sono ridotti del 27,3%, mentre nello stesso tempo gli occupati tra i 55 e i 64 anni sono aumentati del 72,8%.

·     in dieci anni siamo passati da un rapporto di 236 giovani laureati occupati ogni 100 anziani a 99. E nel segmento di lavoratori più istruiti i 249 laureati occupati ogni 100 lavoratori anziani sono diventati appena 143.

·     mentre sono aumentati i giovani in condizione di sottoccupazione, nel 2017 erano 237.000 tra i 15 e  i 34 anni, un valore raddoppiato rispetto a sei anni prima. Aumentano anche i giovani lavoratori con part-time involontario, che passano a 650.000 nel 2017, 150.000 in più rispetto al 2011.

Politica ed Europa

·     Quasi un terzo degli italiani non vota, o vota scheda bianca. Indifferenza e sfiducia nei confronti della politica sono aumentati negli anni, e quest'anno si è raggiunto il picco, con una percentuale del non voto che ha raggiunto il 29,4%. Significa 13,7 milioni di elettori mancati alla Camera e 12,6 milioni al Senato alle ultime elezioni politiche.

·     per il 49,5% degli italiani i politici sono semplicemente tutti uguali, cos’ la  pensa il 73 dei giovani under 35.

·     scarsa anche la fiducia nell'Europa, atteggiamento comune a tutti i Paesi in crisi. Ma il 58% dei 15-34enni e il 60% dei 15-24enni apprezza l'Unione, soprattutto per la libertà di viaggiare, studiare e lavorare ovunque all'interno dei Paesi membri.

·     alla vigilia delle Europee 2014, nel mezzo della crisi economica, i cittadini dei 28 Stati che dichiaravano di avere fiducia nell'Ue erano il 31%, ovvero 11 punti in meno del valore registrato nella primavera di quest'anno (42%).

·     nei Paesi in cui è elevata la fiducia nell'Ue e contemporaneamente è positivo il giudizio sulla situazione del proprio Paese si è registrata una forte risalita post-crisi, con una variazione del Pil nel periodo 2012-2017 che oscilla tra il +55,3% in termini reali dell'Irlanda e il +4% della Finlandia.

·     al contrario, nel gruppo di Paesi in cui la fiducia nell'Europa è bassa, anche il giudizio sulla situazione interna è negativo: tra questi figura l'Italia, insieme a Francia, Regno Unito, Spagna e Grecia.

·     in questo gruppo, la paura della disoccupazione attanaglia l'83% dei cittadini greci e il 69% degli italiani, contro una media europea solo del 44 per cento.

Un Paese di single

·     dal 2006 al 2016 i matrimoni sono diminuiti del 17,4% e le separazioni sono aumentate del 14%.

·     le persone sole non vedove negli ultimi dieci anni (dal 2007 al 2017) sono aumentate del 50% e oggi sono più di 5 milioni.

Media

·     Telegiornali e Facebook sono ancora in vetta nella graduatoria dei media che gli italiani utilizzano per informarsi, ma mentre i telegiornali rafforzano la loro funzione (la loro utenza passa dal 60,6 per cento del 2017 al 65 per centi del 2018), nell’ultimo anno Facebook ha subito una battuta d’arresto (-9,1 per centi di utenza a scopi informativi) dovuto anche a un calo di credibilità dal punto di vista dell’informazione.

·     Il calo ha coinvolto anche YouTube (-5,3 per cento), Twitter (-3 per cento) e la rete in generale (i motori di ricerca hanno perso il 7,8 per cento di utenza a fini informativi).

·     la televisione e la radio sono nettamente preferite alla carta stampata per informarsi: numerosi sono gli utenti delle tv all news (22,6 per cento) e dei giornali radio (20 per cento), mentre solo il 14,8 per centi degli italiani ha letto i quotidiani cartacei negli ultimi sette giorni per informarsi.

·     nella parte inferiore della graduatoria si collocano invece i siti web d’informazione: solo il 42,8 per cento degli italiani li considera credibili. Ultimi in classifica i social network, ritenuti non del tutto affidabili dal 66,4 per cento degli italiani.