venerdì 30 marzo 2018

Demografia e crescita economica - a cura di Giancarlo Fagiano


Da tempo come CircolarMente, e questo blog, prestiamo attenzione ai processi che si manifestano in campo demografico. E’ infatti evidente la stretta relazione che esiste, come reciproca influenza, fra il contesto economico, sociale e culturale e quello demografico. Ci è sembrato pertanto utile recuperare i passaggi a nostro avviso più significativi di uno studio della Banca d’Italia sulla relazione fra trend demografici e sviluppo economico. Ripreso da alcuni media offre interessanti spunti di riflessione confermando in particolare alcune valutazioni sull’incidenza dell’invecchiamento della popolazione italiana, sulla preoccupante contrazione della sua parte “attiva” e sul peso positivo delle immigrazioni. E’ anche questo un buon punto di partenza per riflettere, senza esasperazioni demagogiche e quindi sulla base di dati, su aspetti decisivi del presente e del futuro del nostro paese, tenendo al contempo nel giusto conto che alcune valutazioni di questo studio, come quella sull’ulteriore allungamento dell’età lavorativa rispondono a logiche, più o meno condivisibili, di pura ricaduta sulle percentuali di crescita economica e del PIL

N.B. = Sono stati evidenziati in corsivo blu i passaggi ritenuti più rilevanti



IL CONTRIBUTO DELLA DEMOGRAFIA
 ALLA CRESCITA ECONOMICA:
 DUECENTO ANNI DI “STORIA” ITALIANA



Studio della Banca d’Italia

Di Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellinie, Paolo Piselli



……………….Questo lavoro esamina il contributo della demografia alla crescita economica confrontando l’Italia del passato, quella di oggi e quella che vivremo in futuro. Attraverso una scomposizione contabile della crescita del PIL e del PIL pro capite si mostra come le modifiche nella struttura per età della popolazione abbiano prodotto nel passato più lontano un contributo positivo. Al contrario, negli ultimi venticinque anni e con ogni probabilità nel futuro, la demografia ha dato e darà un contributo diretto sensibilmente negativo alla crescita economica. I flussi migratori previsti limiteranno l’ampiezza di tale contributo negativo, ma non saranno in grado di invertirne il segno. Nel lavoro si valutano tre sviluppi potenzialmente indotti dagli stessi fattori demografici o da azioni di policy – l’estensione della vita lavorativa, l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e l’incremento nei livelli di istruzione – che potranno contrastare i puri effetti contabili legati all’evoluzione nella struttura per età.



1. Introduzione

Dall’Unità d’Italia a oggi la popolazione residente nel Paese è più che raddoppiata, passando da circa 26 a 60,5 milioni all’inizio del 2018. Questo percorso di crescita ha incontrato una pausa nelle ultime due decadi del XX secolo per poi ripartire nel nuovo millennio solo grazie all’apporto della popolazione immigrata.  Lungo l’arco del Novecento l’Italia ha percorso il sentiero – tipico di un paese che sperimenta una crescita economica moderna – della “transizione demografica”, consistente nella progressiva flessione nei tassi di mortalità seguita dalla riduzione dei tassi di natalità. I progressi per quanto concerne l’aspettativa media di vita sono stati enormi e proseguiranno nel futuro: l’Istat stima che nel 2065 la speranza di vita alla nascita sarà di 90,2 anni per le donne e 86,1 per gli uomini (a fronte di 84,9 anni per le donne e 80,6 per gli uomini nel 2017).  La contrazione della natalità e della mortalità ha inciso sulla struttura per età della popolazione, determinandone un progressivo invecchiamento. Dalla metà degli anni Ottanta l’Italia sembra essere entrata in una nuova fase della propria storia demografica, storia che subirà ulteriori cambiamenti nel prossimo cinquantennio: fertilità e mortalità si sono stabilizzate su livelli contenuti; gli indici di invecchiamento sono in aumento, in particolare dall’ultima decade del XX secolo; la quota di popolazione in età lavorativa è in contrazione e corrispondentemente cresce l’indice di dipendenza strutturale (rapporto tra la popolazione non attiva, 0-14 e più di 64 anni, e la popolazione 15-64). Con ogni probabilità tutte queste tendenze si approfondiranno nel futuro. Come mostriamo nel lavoro la crescita economica che, sul piano contabile, può derivare dall’aumento nella quota di popolazione in età lavorativa – è già divenuto negativo a partire dall’ultimo decennio del XX secolo.  Nel dibattito riaccesosi di recente sulla stagnazione secolare si sottolinea come la dinamica e la struttura demografica possano avere un impatto non trascurabile sulla crescita economica attraverso le modifiche nelle preferenze di risparmio e l’invecchiamento della popolazione. Tutto ciò avrebbe conseguenze significative da un lato sui tassi di interesse reali, sugli investimenti e sulla domanda aggregata, dall’altro (offerta), sui ritmi di innovazione e sulla produttività. In questo lavoro ci concentriamo su alcuni fattori dal lato dell’offerta, analizzando in particolare l’impatto (a parità di altre condizioni) delle modifiche nella quota di popolazione in età lavorativa sulle prospettive di crescita attraverso una scomposizione contabile del PIL e del PIL pro capite, confrontando l’Italia del passato con quella di oggi e con quella che vivremo nel futuro……………………



2. Popolazione, crescita economica e transizione demografica in Italia

Le dinamiche demografiche sono state per lungo tempo centrali nel dibattito sulla crescita economica. La domanda principale risentiva dell’approccio malthusiano e riguardava le conseguenze economiche del cambiamento demografico inteso come evoluzione della dimensione della popolazione.  Più di recente, il focus delle analisi sugli effetti economici della demografia si è spostato dalla crescita della popolazione alla modifica nella sua composizione per età. Le attitudini, i comportamenti, le preferenze degli individui variano decisamente con l’età e con l’aspettativa di vita e l’evoluzione della struttura per età può quindi influire sulla performance economica di un paese. Il contributo alla crescita economica della modifica nella composizione per età della popolazione può essere significativo. Paesi la cui popolazione mostra, ad esempio, una quota di giovani in crescita hanno le potenzialità per raccogliere un dividendo dall’evoluzione demografica attraverso l’aumento dell’offerta di lavoro per quantità e qualità. Gli aumenti della popolazione giovane in età da lavoro, influiscono anche sulla composizione per età degli occupati producendo effetti indiretti sulla dinamica della produttività innanzitutto attraverso l’impatto sull’innovazione e l’imprenditorialità. La flessione nel rapporto tra la popolazione in età non lavorativa e la popolazione in età lavorativa ha di per sé effetti benefici sulla crescita economica…………….. L’Italia è tra i paesi sviluppati che si trovano oggi a fronteggiare uno scenario demografico il cui impatto sulla crescita del prodotto pro capite nei prossimi decenni sarà negativo. L’Istat stima che la popolazione residente in Italia dovrebbe attestarsi sui 53,7 milioni nel 2065, ben 7 milioni in meno di oggi (-11%)…………… Al 1861, quando raggiunse l’Unità, l’Italia aveva poco più di 26 milioni di abitanti ed era un paese agli inizi della propria “transizione demografica”, quel percorso caratterizzato dalla progressiva flessione nei tassi di mortalità e di natalità.  La riduzione del tasso di mortalità della popolazione appare un processo già avviato nel 1861. Il numero di nati vivi sul totale della popolazione inizia invece a ridursi successivamente, alla fine dell’Ottocento, scendendo da 37,5 a 30,5 nati per mille abitanti alla vigilia del primo conflitto mondiale. La flessione prosegue fino all’immediato secondo dopoguerra per il tasso di mortalità, e alla metà degli anni Ottanta per quello di natalità, quando i due rapporti si stabilizzano su valori pari a circa 10 individui per mille persone……………….


……………..A partire dal 2010 si apre una forbice tra i due tassi che si accentuerà nel futuro: le proiezioni dell’Istat indicano, per il prossimo cinquantennio, un rialzo dei tassi di mortalità, dinamica su cui incide la composizione per età che vede una quota di popolazione anziana sempre più consistente; la natalità rimarrebbe invece sui livelli attuali eccezionalmente bassi…………………….

Dinamiche simili sono state registrate dal tasso di fecondità totale.








……………………Le dinamiche di natalità e mortalità incidono sulla struttura per età della popolazione. La flessione nella natalità e l’aumento della vita media hanno condotto a un significativo incremento della quota di popolazione anziana. La composizione per età ha subito e subirà, dunque, cambiamenti profondi. Nell’ultimo decennio del XX secolo l’indice di dipendenza strutturale (il peso della popolazione in età non lavorativa su quella in età lavorativa) ha invertito un secolare trend decrescente……………………..

………………… Sulla base delle proiezioni nel 2041 l’Italia si troverà in un territorio inesplorato con un indice di dipendenza strutturale superiore al massimo storico raggiunto all’inizio del Novecento quando, tuttavia, il peso della popolazione in età non attiva era elevato per la numerosità della popolazione tra 0 e 14 anni piuttosto che per il peso delle coorti più anziane come accade oggi…………………….

………………….. Le prospettive e le implicazioni per il futuro sono, quindi, radicalmente diverse.  Per più di un secolo dall’Unità, la percentuale di popolazione anziana (>64), pur crescendo, si è attestata su livelli inferiori alla metà della popolazione più giovane (con meno di 15 anni), a partire dal secondo dopoguerra, ma soprattutto dalla fine degli anni Ottanta, si assiste a un progressivo mutamento strutturale che ha condotto la popolazione più anziana a superare quella più giovane alla fine del XX secolo, fino a divenire pari al 165 per cento della popolazione tra 0-14 anni nel 2017. Le prospettive per il prossimo cinquantennio sono di una ulteriore crescita del rapporto mentre l’età media della popolazione salirà di oltre 5 anni tra il 2017 e il 2061, passando da 44,9 a 50,2. La quota di popolazione in età da lavoro ha raggiunto un massimo del 70 per cento all’inizio degli anni ’90; negli ultimi venticinque anni ha cominciato a flettere e, sulla base delle previsioni, continuerà a ridursi nel prossimo cinquantennio fino a scendere sotto il minimo storico (59 per cento registrato nel 1911) dopo il 2031. Se scomponiamo questa quota per cittadinanza, circa un quarto della popolazione in età da lavoro sarà costituita nel 2061 da cittadini stranieri. In uno scenario limite in cui non ci fossero residenti con cittadinanza straniera, nel 2061 la quota di popolazione in età 15-64 anni sul totale della popolazione, prevista pari al 55 per cento, scenderebbe a poco più del 40 per cento………………………



3. Misurazione del contributo demografico nel lungo periodo

………………..Con l’invecchiamento della popolazione si riduce, a parità di età di pensionamento, la quota di popolazione in età lavorativa. Uno dei principali effetti dell’aumento della quota di anziani nella popolazione (come anche, in modo differito, del calo della natalità) deriva dunque dalla riduzione nell’offerta aggregata di lavoro……….

………………………….Il contributo demografico può essere espresso con un indicatore, una misura sintetica del potenziale contributo della demografia alla crescita economica (un valore maggiore di zero segnala un contributo demografico positivo). Questo indicatore dopo essere stato più spesso positivo nel corso della storia italiana è risultato negativo nell’ultimo venticinquennio segnalando un mutamento strutturale nel regime demografico………

………………..Il contributo offerto dal tasso di occupazione (calcolato sulla base delle unità di lavoro equivalente a tempo pieno) è risultato positivo su tutta la seconda metà del XX secolo, particolarmente significativo negli anni Cinquanta, è poi divenuto negativo nel primo quindicennio del XXI secolo……..

………………..In Italia il contributo della produttività alla crescita del prodotto pro capite è per quasi tutto il Novecento più alto della media degli altri paesi, diviene significativamente negativo nel primo decennio del nuovo millennio…….

……………………….La struttura per età della popolazione ha nel complesso in Italia un andamento positivo e più favorevole rispetto alla media degli altri paesi avanzati fino all’inizio degli anni ’90, con una nostra crescita della quota della popolazione nella classe 15-64 in sei decenni su otto. Successivamente, il contributo della struttura demografica italiana è decisamente negativo e inferiore agli altri paesi avanzati…….

…………………..Nel complesso nel corso del XX secolo fino alla prima fase della cosiddetta Golden Age (anni cinquanta) l’Italia mostra dinamiche demografiche più favorevoli alla crescita rispetto alle altre economie avanzate,. Dagli anni ‘60 invece, gli effetti negativi della transizione demografica sono più accentuati per l’Italia rispetto agli altri paesi, con un aggravamento dall’ultima decade del XX secolo.  Gli sviluppi demografici sarebbero stati ancora più penalizzanti per l’economia italiana, se non fosse intervenuto negli ultimi 25 anni un significativo flusso migratorio in entrata. ……………….

…………………..Storicamente, prima degli anni ’80 del XX secolo, l’immigrazione verso l’Italia è stata trascurabile. In effetti, l’Italia nel XX secolo è stato essenzialmente un paese di emigrazione. Solo in tempi recenti questo carattere si è ribaltato. Secondo i dati Istat, nel 1981 i cittadini stranieri residenti (registrati all’anagrafe) in Italia erano poco più di 200.000, lo 0,4 per cento della popolazione, mentre sono diventati poco più di 5,1 milioni all’inizio del 2018, l’8,4 per cento della popolazione…………….

…………………………Le migrazioni influenzano direttamente la struttura per età della popolazione. Oggi, come ieri, la maggior parte dei migranti è rappresentata da individui in età lavorativa. La classe di età con maggior frequenza nella distribuzione per età degli italiani che emigravano negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo era la classe 20-25, non differente da quella degli immigrati al loro arrivo in Italia negli ultimi tre……

………………..I paesi che ricevono i flussi migratori vedono aumentare quindi la quota di popolazione in età lavorativa e ridursi il dependency ratio della popolazione più anziana. Inoltre le migrazioni, modificando il tasso medio di fertilità, possono avere un ulteriore impatto (ritardato) su dimensione e struttura per età della popolazione……………..

……………….. In Europa, come negli Stati Uniti, dove i tassi di fertilità delle popolazioni migranti provenienti da paesi a basso reddito tendono ad essere elevati, l’immigrazione ha determinato negli ultimi decenni un innalzamento (un contenimento del calo) del tasso di fertilità medio nazionale. Questo contributo può persistere per una o più generazioni, fino a quando il comportamento riproduttivo dei migranti non converge verso i minori tassi di fertilità delle popolazioni autoctone…….

…………….Tra il 1981 e il 1991, quando il dividendo demografico per l’Italia è ancora ampiamente positivo (5,4 per cento nel decennio), il contributo della componente straniera è positivo ma modesto (0,1 per cento), per effetto di una presenza ancora trascurabile di stranieri residenti (356 mila persone nel 1991). Nel decennio successivo la popolazione straniera aumenta (fino a circa 1,3 milioni) e il contributo al dividendo demografico dell’Italia – ormai divenuto complessivamente negativo (2,5 per cento) – risulta significativo ma non cospicuo (0,2 per cento; anche per un arretramento della quota in età da lavoro della popolazione straniera). Nel decennio 2001-2011, con una popolazione straniera residente che supera i 4,5 milioni (7,7 per cento del totale), il contributo demografico degli immigrati è considerevole (1,1 per cento) e compensa parzialmente il dividendo demografico negativo che origina dalla popolazione italiana (-4,2 per cento). Nell’ultimo difficile quinquennio, il contributo degli stranieri si attesta su un più modesto 0,2 per cento…….

…………………il contributo degli immigrati alla crescita economica italiana, modesto nel decennio 1981-1991, è andato progressivamente aumentando coerentemente con l’aumento della popolazione immigrata. Particolarmente importante è risultato il contributo alla crescita del PIL nel decennio 2001-2011: la crescita cumulata è stata positiva per 2,3 punti percentuali mentre sarebbe risultata negativa e pari a -4,4 per cento senza l’immigrazione……

……………Il PIL pro capite senza la componente straniera avrebbe subito nel decennio 2001-2011 un calo di -3,0 per cento, invece del -1,9 per cento effettivamente registrato……

………………………Ancora significativo è risultato il contributo della popolazione straniera per l’ultimo quinquennio: la flessione del PIL pro capite (-4,8 per cento) sarebbe stata nello scenario controfattuale di assenza della popolazione straniera più severa (-7,4 per cento)………

…………….Il contributo della demografia alle prospettive di crescita dell’economia italiana nel prossimo cinquantennio sulla base delle previsioni demografiche dell’Istat (Istat 2017) e di quelle effettuate dall’OECD per i principali paesi industrializzati (OECD 2016) risulterebbe per l’Italia decisamente negativo nei prossimi quattro decenni, con un minimo di -8% nel 2031-41, per poi tornare positivo nel 2051-61……..

…………………….. L’apporto specifico dell’immigrazione sarebbe favorevole nei prossimi tre decenni, compensando tuttavia solo parzialmente il complessivo saldo negativo. Dal 2041 anche il contributo dell’immigrazione diverrebbe negativo………..

…………… I risultati sono simili a quelli per gli altri principali paesi avanzati anch’essi con un trend negativo su tutto il prossimo cinquantennio, e questo anche in presenza di tassi di crescita della popolazione positivi come nel caso di Francia e Gran Bretagna. Come per l’Italia, in Germania, Francia e Giappone questa tendenza ha preso avvio già dagli anni ’90. Parzialmente diverso il solo caso degli USA, che continuerebbero a registrare un dividendo positivo in due decenni su cinque del prossimo cinquantennio, insieme a tassi di crescita della popolazione positivi (sulla base di previsioni a legislazione invariata). …… ……………..Passando ad analizzare i potenziali effetti dell’evoluzione demografica futura sulla crescita economica, (si nota che) l’effetto meccanico delle dinamiche demografiche determinerebbe in 45 anni un calo del PIL del 24,4 per cento rispetto ai livelli del 2016 e del 16,2 per cento in termini pro capite (-0,4 medio annuo)

………..……se si esamina un’ipotesi demografica “limite” che permette tuttavia di valutare il contributo dell’immigrazione: cosa accadrebbe se si azzerassero i flussi migratori futuri e la componente di popolazione straniera già residente in Italia al 2016 assumesse parametri demografici (e.g. fertilità) identici a quelli dei nativi italiani?  Il risultato è netto: il livello del PIL aggregato risulterebbe dimezzato con un calo del 50 per cento ……………..

………………..senza il contributo dell’immigrazione alla dinamica della popolazione in età lavorativa dunque, il calo del prodotto potrebbe essere severo. Per compensare la diminuzione del reddito pro capite, la produttività dovrebbe crescere allo 0,64 per cento all’anno……..



4. Alla ricerca di un second demographic dividend  (secondo dividendo demografico)

…………….Le stesse dinamiche demografiche che contribuiranno a deprimere la crescita futura possono innescare meccanismi con potenziali effetti positivi compensativi, fino a produrre un second demographic dividend . Risposte comportamentali e modifiche istituzionali potranno infatti mitigare le conseguenze economiche negative di una popolazione più controbilanciando la tendenza alla riduzione della forza lavoro. I motori di questi potenziali effetti compensativi sono tre: l’allungamento della vita lavorativa, l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e l’evoluzione nella dotazione di capitale umano della forza lavoro.

……………..L’allungamento della vita attesa potrà offrire, autonomamente o per effetto delle riforme che impongono un aumento dell’età di pensionamento, un contributo positivo alla quota di popolazione in età lavorativa. Il potenziamento delle politiche per la parità di genere e per la conciliazione tra vita privata e professionale può favorire aumenti nella partecipazione e nell’occupazione femminili. L’incremento nella dotazione media di capitale umano collegato all’evoluzione demografica può avere effetti di aumento dei tassi di attività/occupazione e dell’efficienza…………..

………………..  Sotto questi tre profili – partecipazione femminile, età effettiva di pensionamento, grado di istruzione della forza lavoro – l’Italia si colloca su livelli nettamente inferiori alla media dei principali paesi avanzati. L’Italia ha un livello particolarmente basso del tasso di occupazione femminile, un analogo differenziale negativo nel livello medio di istruzione della forza lavoro con riferimento all’istruzione universitaria, e un più modesto ma sempre negativo gap nell’età effettiva di pensionamento………………….

………………….Questo confronto, se da un lato ci aiuta a capire l’arretramento relativo rispetto alle altre economie avanzate negli ultimi decenni, dall’altro costituisce una misura degli ampi margini che l’Italia potenzialmente ha, rispetto alle altre economie, nell’attuare politiche volte a compensare gli effetti negativi delle dinamiche demografiche attese. Come si mostra di seguito, i nostri risultati suggeriscono infatti che gli effetti indiretti degli sviluppi demografici attesi, legati all’allungamento della vita lavorativa, alla partecipazione femminile e all’aumento del capitale umano, possono risultare efficaci nel contrastare gli effetti negativi diretti associati al processo di invecchiamento della popolazione………………………. 

1)   - L’allungamento della vita lavorativa =

La maggiore speranza di vita si può in primo luogo tradurre, per effetto di interventi legislativi ma anche come risultato di autonome scelte individuali, in un allungamento della vita lavorativa. Questo può contrastare la tendenziale diminuzione nella quota di popolazione in età da lavoro, risultato del processo di ageing e del calo della natalità. L’allungamento dell’aspettativa di vita insieme alle riforme pensionistiche degli ultimi due decenni prefigurano uno scenario di prolungamento generalizzato della vita lavorativa e del tasso di occupazione nelle coorti più anziane. Fino al 2016 il requisito legale minimo, salvo eccezioni, per la pensione di vecchiaia era 66 anni e 7 mesi per gli uomini e 65 anni e 7 mesi per le donne, anche se l’età effettiva del pensionamento era in media più bassa, pari a 63 anni circa. I requisiti legali minimi di pensionamento, innalzati per entrambi i sessi con la riforma del dicembre 2011, sono periodicamente adeguati alla speranza di vita.Sulla base della più recente delibera ministeriale di adeguamento, dal 2019 i requisiti minimi sono fissati a 67 anni per entrambi i sessi.  Per esaminare come modifiche di questi aspetti possano o meno compensare gli effetti demografici diretti, si sono effettuati alcuni ulteriori esercizi…………Nel primo esercizio si valutano gli effetti di un allungamento progressivo della vita lavorativa fino a 69 anni (requisito legale minimo previsto al 2040 dalle simulazioni contenute nella Relazione tecnica al decreto legge n. 201/ 2011)………Tale estensione della vita lavorativa ridurrebbe di sette punti percentuali la flessione del PIL pro capite (-9,2% rispetto a -16,2% del benchmark) dovuta all’evoluzione demografica sull’orizzonte 2016-2061.

2)   - La partecipazione femminile al mercato del lavoro

Per quanto concerne la partecipazione femminile, come noto al compiersi della transizione demografica nell’arco del ‘900 si è accompagnato un più intenso ingresso delle donne nel mercato del lavoro (come anche una relazione inversa tra tassi di fecondità e partecipazione femminile al lavoro)……….Tale processo in molti paesi avanzati ha condotto la partecipazione delle donne al mercato del lavoro su livelli comparabili a quelli degli uomini, con un contributo decisivo alla crescita del PIL. Sotto questo aspetto il ritardo che accusa l’Italia, con un tasso di occupazione femminile ancora contenuto e inferiore rispetto agli obiettivi che il Paese si propone di raggiungere, può rappresentare un’opportunità per compensare gli effetti delle evoluzioni demografiche sull’offerta di lavoro futura………………..  Attualmente il tasso di occupazione femminile in Italia (48,1 per cento nel 2016) è circa 18 punti percentuali al di sotto di quello maschile, contro un differenziale di circa 10 punti per la media europea a 28 paesi. ……….Quest’ultimo era il differenziale considerato fisiologico nel 2000, quando la Strategia di Lisbona (conclusasi nel 2010 e sostituita dagli obiettivi di Europa 2020) propose ai paesi dell’Unione Europea un obiettivo di tasso di occupazione del 70% per gli uomini e del 60% per le donne entro il 2010. A oggi questo obiettivo, nonostante la profonda crisi economico finanziaria, è stato raggiunto da diversi paesi (nei Paesi scandinavi i tassi di occupazione femminile sono solo di poco inferiori a quelli maschili)……… se l’Italia conseguisse tale obiettivo risulterebbe un importante contenimento degli effetti demografici negativi sulla crescita (-2,9% del PIL pro capite anziché -16,2% del benchmark), anche se ciò non sarebbe ancora sufficiente a compensarli appieno.

3)   -  Livelli di istruzione, tassi di occupazione ed efficienza

………. Le aspettative di una vita più lunga hanno, storicamente, indotto mutamenti nelle preferenze rispetto alla fertilità e hanno alimentato una sostituzione tra quantità di figli e quantità/qualità della loro istruzione……..   Questo processo nei paesi avanzati è oggi in buona parte compiuto, ma non mancano ulteriori canali di possibili incrementi dei livelli di istruzione legati a sviluppi demografici………. Questi processi sono già in atto ed è possibile prevedere che a fronte di un aumento del tasso di occupazione riconducibile all’incremento del grado di istruzione per la popolazione in età da lavoro la flessione del PIL pro capite dovuta all’evoluzione demografica sull’orizzonte 2016-2061 si ridurrebbe a -3,8 per cento (rispetto a circa -16% del benchmark)……… Se si ipotizza una convergenza dell’Italia nel 2061 alla composizione per grado di istruzione della popolazione in età da lavoro che la Germania avrebbe nel 2040 si otterrebbe nel lungo periodo un aumento del 3,1 per cento del PIL pro capite rispetto ai livelli attuali………….. Questo aumento risulterebbe sufficiente a compensare gli effetti negativi delle dinamiche demografiche: nel 2061 il PIL pro capite sarebbe di circa il 7 per cento più elevato del livello attuale, con un contributo positivo di 24 punti percentuali di crescita rispetto al benchmark. 



………………….L’analisi storica mostra come la produttività abbia rappresentato la componente principale della crescita economica; al tempo stesso i dati dicono che la produttività in Italia si trova su un sentiero declinante da almeno due decenni……………………… emerge come con una dinamica della produttività dell’1 per cento medio annuo la crescita cumulata del PIL pro capite nei prossimi cinquant’anni risulterebbe pari al 33,1 per cento, una aumento contenuto nel confronto storico………………….Se la dinamica della produttività si attestasse invece sulla media storica (1,5 per cento medio annuo nel 1861-2016), il reddito pro capite aumenterebbe del 67,7 e il PIL del 51,6 per cento nel prossimo cinquantennio, un risultato migliore (e certo capace di compensare l’effetto diretto negativo della diminuzione nella quota di popolazione in età da lavoro), ma solo apparentemente soddisfacente se si considera che nella media dei tre cinquantenni precedenti il PIL pro capite era aumentato del 140 per cento………………….



5.  Conclusioni

Il perdurare di ritmi di crescita deboli nonostante l’uscita dalla Grande recessione ha fatto tornare d’attualità il dibattito degli anni ‘30 sulla stagnazione secolare. Questo lavoro ha esaminato un elemento centrale: la relazione tra la crescita economica e le variabili demografiche, considerando alcuni fattori che agiscono dal lato dell’offerta. Si è analizzato in particolare l’impatto che le modifiche nella quota di popolazione in età lavorativa hanno avuto e avranno sulla crescita economica, confrontando l’Italia del passato, quella di oggi e quella che vivremo nel futuro.  Per indagare questi aspetti abbiamo realizzato una scomposizione contabile della crescita del PIL e del PIL pro capite in termini di produttività, tasso di occupazione e quota di popolazione in età da lavoro. È emerso come nel passato, lungo il corso della transizione demografica del nostro Paese fino agli anni Ottanta del XX secolo, la modifica nella struttura per età della popolazione abbia generato un demographic dividend positivo. Negli ultimi venticinque anni e nelle simulazioni per il prossimo cinquantennio invece, i dati e le previsioni nazionali e internazionali prospettano un’evoluzione sfavorevole della composizione per età con una riduzione della quota di popolazione in età lavorativa ed effetti negativi sulla crescita economica in Italia, in modo non dissimile dagli altri principali paesi industrializzati. I flussi migratori (previsti) potranno limitare il calo della popolazione complessiva, della popolazione in età lavorativa e dei tassi di occupazione, ma non saranno in grado di invertire il segno negativo del complessivo contributo demografico. Se è evidente come la variabile cruciale per la crescita economica resta la produttività, alcune modifiche – potenzialmente indotte dagli stessi sviluppi demografici o da azioni di policy – potranno generare effetti compensativi positivi (second demographic dividend). In particolare, l’allungamento della vita lavorativa, l’aumento della partecipazione femminile e l’innalzamento dei livelli di istruzione potrebbero avere un impatto positivo rilevante sulla crescita del reddito pro capite nel lungo periodo, compensando gli effetti negativi delle evoluzioni attese nella quota di popolazione in età da lavoro. 

lunedì 19 marzo 2018

Il voto italiano visto da Berlino e Parigi


Può essere un utile esercizio conoscere le opinioni di chi ci osserva dall’estero. Queste che seguono sono quelle di due giornalisti/politologi che seguono abitualmente le vicende politiche tedesche e francesi e che, partendo da questi due punti di vista “esterni”, raccontano in che modo a Berlino e Parigi è stato vissuto l’esito del 4 Marzo. L’esercizio è utile in due sensi: il primo è quello dello sguardo sull’Italia dal di fuori, il secondo è, di rimbalzo, il nostro sguardo su questo al di fuori



L’europeizzazione della politica nazionale
Le elezioni a Berlino, Parigi e Roma:
 storie diverse ma con molti punti in comune.



La bomba italiana - Le elezioni italiane viste da Berlino

Articolo di Lorenzo Monfregola (giornalista freelance. Si occupa principalmente di Germania, politica e geopolitica. È italo-tedesco e risiede a Berlino)



L’ augurio è che non ci vogliano sei mesi”. Così ha risposto il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, a una domanda sul prossimo governo italiano. Una risposta concreta, ma anche autocritica. L’esecutivo Merkel IV, infatti, entrerà in carica il prossimo 14 marzo, quando saranno trascorsi quasi sei mesi dalle elezioni tedesche del 24 settembre 2017. In qualche modo, Berlino ha passato il testimone dell’incertezza a Roma, dimostrando che la frammentazione politica è un problema complessivamente europeo. Restano, però, delle differenze strutturali tra il limbo tedesco da poco concluso e quello italiano che si è appena aperto. Una su tutte: in Germania ci sono i soldi per armonizzare diverse istanze politiche. La preoccupazione tedesca per il risultato delle elezioni italiane è stata palpabile, ma non eccessiva. I giornali hanno parlato di shock elettorale (curioso, visto il risultato annunciato da tempo). Non sono mancate analisi tedesche sulla cronica irresponsabilità latina, che potrebbe sabotare l’auto-proclamato ciclo europeista Merkel-Macron. L’impressione generale comunque è che, pur nel fisiologico nervosismo del caso, a Berlino e a Francoforte si scommetta che la ferocia della logica finanziaria s’imporrà presto come disciplinatore quasi automatico delle legittime urgenze espresse dagli elettori italiani.

Lo stallo post-elettorale italiano è simile a quello tedesco?

Si tratta di una domanda emersa spesso, in questi giorni. La risposta è ambivalente. Sia la Germania sia l’Italia hanno visto il rumoroso crollo dei propri partiti di centrosinistra: il 20,5% della SPD somiglia molto al 18,7% del PD italiano, così come è indicativo che, in caso di partecipazione al governo, il centrosinistra è o sarebbe destinato al ruolo di socio di minoranza. SPD e PD non sono ancora sulla strada della pasokification (la sostanziale estinzione politica che ha colpito i socialisti in Grecia, in Francia e in Olanda), ma le elezioni italiane, come quelle tedesche, hanno confermato la crisi delle socialdemocrazie europee. Nel confronto tra Italia e Germania ci sono, invece, differenze evidenti per quanto concerne il centrodestra. Malgrado una consistente flessione elettorale, la CDU-CSU è ancora una forza storicamente dominante (e lo sarà fino a quando l’estremismo di centro merkeliano non perderà il proprio baricentro). Il centrodestra italiano, al contrario, è così anomalo nel suo legame con il personalismo del suo leader che è difficile fare paragoni con altri paesi.

Prima del 4 marzo, Angela Merkel aveva addirittura puntato su Berlusconi, riabilitandolo politicamente nel quadro del Partito Popolare Europeo. La speranza della Kanzlerin era che l’anziano leader potesse dar vita a un esecutivo centrista o a un governo di destra all’austriaca. Non è andata così: la Lega ha superato Forza Italia, le carte in tavola sono velocemente cambiate e il PPE non potrà muoversi agevolmente come garante sovranazionale. In Germania, per note motivazioni di cultura politica, un’alleanza tra conservatori e destra populista è impossibile. La destra di Alternative für Deutschland vive un ostracismo quasi assoluto e nessuna forza politica si sogna (ancora) di utilizzarne il patrimonio di seggi nel Bundestag. I paralleli tra Lega e AfD sono semplici da tracciare (anche se le similitudini non sono così potenti come tra Lega e Front National francese). Salviniani e AfD hanno chiaramente costruito il proprio capitale politico sul rifiuto dell’immigrazione in senso securitario, presentando anche un particolare mix di tradizionalismo cristiano e difesa del laicismo di fronte alle culture islamiche. Tramite l’etnicizzazione del dissenso sociale, i due partiti sono penetrati sia nel crescente disagio della classe media sia in quello del proletariato bianco più abbandonato a se stesso. Infine, le destre sovraniste italiana e tedesca sono entrambe fortemente contrarie alla moneta unica, in un’alleanza temporanea degli intenti che, paradossalmente, difende un’essenziale conflittualità tra le due parti. Conflittualità che, ad esempio, crea un ambivalente campo minato quando si considera l’intreccio di competizione-collaborazione tra la Germania e un bastione leghista come il Nord-Est, che è parte integrante della filiera produttiva tedesca. Sul piano matematico del consenso elettorale, la CDU italiana è oggi il Movimento 5 Stelle. I risultati delle due forze sono quasi uguali: 32,9% per i cristiano democratici tedeschi, 32,6% per il M5S. L’atteggiamento tedesco nei confronti del Movimento è confuso, in linea con la stessa ambiguità ed estrema eterogeneità di idee dei 5S su molti temi, inclusi i dossier UE ed euro. Il Movimento è stato guardato a lungo con sospetto in Germania, non solo per la sua particolare origine (anti)politica e per altre specifiche storture, ma anche a causa della sua affiliazione allo stesso gruppo di AfD nel Parlamento Europeo (EFDD). A questo proposito, lo scorso gennaio, Luigi di Maio ha portato fino in Germania il processo di normalizzazione del Movimento, con un’intervista in cui ha presentato il M5S come forza moderata di riformismo dell’UE, aggiungendo: “Vi posso assicurare che siamo lontani anni luce da AfD”. In merito al M5S, bisogna anche notare come, in questi giorni, alcuni dei sostenitori italiani più convinti di un’inedita alleanza M5S-PD stiano facendo riferimento al modello della Grosse Koalition. Si tratta di una prospettiva che può essere correttamente utilizzata per descrivere scenari futuri, ma che è molto superficiale da proporre come un modello direttamente trasferibile. SPD e CDU hanno appena governato insieme 4 anni e, sul piano ideologico, sono praticamente arrivate a fondersi nel centrismo merkeliano. Durante l’ultima campagna elettorale tedesca, quasi nessuno credeva alle contrapposizioni tra socialdemocratici e cristiano-democratici, malgrado qualche sparata comunicativa che mirava proprio a distinguere l’indistinguibile. Una dinamica diametralmente opposta alle due forze politiche italiane, M5S e PD, che si sono fino a oggi presentate l’una come la nemesi dell’altra.
Il nervosismo tedesco di fronte al M5S deriva anche dal fatto che, al di là di un antieuropeismo tout court di tanti suoi elettori (ed eletti), ci sono proposte del Movimento in tema Europa che mettono il dito nella piaga dell’effettivo squilibrio strutturale interno all’Unione. Si tratta di richieste di riforma che non possono essere liquidate con il bollino passepartout del populismo, sempre che non si voglia giudicare come populista qualunque critica che si approcci all’Unione a partire dalle istanze contingenti delle rispettive cittadinanze. Dati gli attuali assetti interni all’UE, ad esempio, la Germania non ha bisogno di eleggere un governo apertamente anti-europeo, ma una buona parte della CDU, l’intera CSU bavarese e tutti i liberali di FDP non sono meno euroscettici di tante altre realtà politiche del continente. Stessa cosa vale per il ruolo geopolitico del surplus commerciale tedesco, sostanzialmente supportato anche dai socialdemocratici e da chiunque altro sia mai arrivato a governare a Berlino. Il surplus della Germania è una legittima religione nazionale, ma è pur sempre ben poco europeista, visto che favorisce soprattutto la cosiddetta Kerneuropa (mitteleuropa + partner produttivi). La stessa proposta del M5S di attivare in Italia un sistema di reddito minimo garantito (anche se confusamente definito “reddito di cittadinanza”) impone la riflessione sulla disomogeneità del welfare nell’Unione Europea. L’Italia e la Grecia sono i soli paesi dell’eurozona a non avere un simile sistema di reddito minimo per chi è disoccupato o non è mai stato occupato. L’introduzione di un reddito minimo garantito, quindi, sarebbe un passaggio che potrebbe allineare l’Italia ai modelli di welfare pubblico dei maggiori partner UE. Le cose, però, possono complicarsi velocemente: molto dipende da come verrebbe materialmente implementata una simile riforma, che, dati alla mano, non potrà in alcun modo essere sganciata da provvedimenti che rilancino davvero la produttività dell’economia italiana. Non è ancora del tutto chiaro se, come criterio discriminante per l’accesso al reddito minimo, il M5S voglia utilizzare solo le entrate mensili o considerare anche l’eventuale patrimonio dei nuclei familiari. Resta il fatto che la proposta tenda ad andare proprio nella direzione della matrice del sistema dei Jobcenter tedeschi, nati dalla riforma Hartz IV dei primi anni 2000. L’Hartz IV è parte dell’Agenda 2010, un’epocale ristrutturazione del welfare che ha reso la Germania molto più competitiva su scala globale, ma che ha anche declinato in senso più liberista l’economia sociale di mercato, attuando drastici tagli dello stato sociale complessivamente inteso. Sul tema del reddito minimo garantito, il confronto con il modello tedesco sarebbe quindi istruttivo e utile per analizzare le luci e le ombre dell’inserimento di specifiche tipologie di sussidio. Un approfondimento farebbe emergere anche i particolari ostacoli all’implementazione di un Hartz IV all’italiana: si va da un profilo socioeconomico storicamente fatto di welfare familiare e risparmio privato (ostile alla massiccia invasività dello stato sociale di tipo tedesco), si passa da una burocrazia italiana poco efficiente nella gestione di sistemi complessi e si arriva a problematiche endemiche come la (grande e piccola) corruzione.

Ovviamente, nell’analisi fin qui svolta, manca ancora un dato principale, fondamentale e ineliminabile. Se ci sono degli ostacoli a un riposizionamento italiano nell’UE e a una riforma del welfare in Italia, è l’ecosistema in cui sono inseriti questi stessi ostacoli a definire davvero la situazione. L’ecosistema in questione è il meccanismo del debito. Come noto, il debito pubblico italiano è al 130% circa del PIL, con tutto quello che ne consegue. Il debito non è uno degli elementi dello scenario, ma è lo scenario stesso, lo spazio in cui tutto è destinato ad accadere, almeno nel perdurare della razionalità del capitalismo finanziario. L’ecosistema-debito è anche lo spazio in cui la Germania vede l’Italia, a prescindere da quale nuovo governo italiano andrà a discutere a Berlino, a Francoforte o a Bruxelles. In tedesco la parola “debito” si traduce con la parola “Schuld”, termine il cui significato primario è “colpa” (il che definisce a sufficienza il piano culturale dell’intera questione). Se, da un lato, una parte della Germania vuole realmente aprirsi al resto d’Europa, dall’altro i tedeschi vedono il debito altrui come un virus contagioso e letale, nel terrore di dover spendere di tasca propria nel caso qualcuno scelga, ad esempio, di attaccare l’eurozona. Se ciò avvenisse, la Germania centrista lascerebbe velocemente il posto a una nuova generazione di falchi interni e l’UE crollerebbe quasi automaticamente.
L’ecosistema del debito definisce quindi la sempre più esasperata fragilità interna dell’Unione Europea. Ecco perché gli europeisti più convinti insistono sulla necessità di nuove forme di condivisione del debito, ad esempio partendo dagli Eurobond. Si tratterebbe di un’unione finanziaria che non si limiterebbe alla vigilanza tra partner e che porterebbe a un nuovo livello le istituzioni europee, magari procedendo contemporaneamente a un progetto di difesa militare comune e generalizzando il sistema di welfare. Attualmente, però, questo tipo di UE non ha molti sostenitori, tanto meno in Germania, dove si preferisce un’Unione che si limiti a imitare il FMI e a far rispettare i sacri vincoli di bilancio. Malgrado i grandi annunci, anche il nuovo europeismo Merkel-Macron sembra essere poco inclusivo e ostinatamente bilaterale in questo senso. La concessione di benefit di flessibilità sembra soprattutto dedicata alla Francia, la cui economia non è certo in piena salute, ma viene protetta da un asso nella manica praticamente imbattibile: essere la sola potenza nucleare dell’Unione Europea post-Brexit.

L’Italia, da parte sua, non ha jolly di questo tipo. Senza una concreta evoluzione del progetto europeo, alla politica estera italiana non resterebbe che un gioco pericoloso di posizionamenti che sfrutti il crescente disordine mondiale, ad esempio muovendosi tra le varie sponde multipolari europee (gruppo Visegrád, questione catalana, Brexit) e globali (rapporti con la Russia o con l’USA neo-protezionista di Trump). Nonostante i cambiamenti interni che si prospettano nel paese, quindi, il rischio per l’Italia è di continuare a riprodurre una tipica scena dei film d’azione: il protagonista è accerchiato da nemici arrabbiati ma tiene in mano una bomba, facendo intendere che un’eventuale esplosione coinvolgerebbe tutti quanti. Nei film, di solito, funziona.

Verso una struttura europea dei partiti nazionali- Le elezioni italiane viste da Parigi .

Articolo di Gilles Gressani (Dirige il Groupe d'études géopolitiques in Parigi).



È uno dei problemi teorici più affascinanti dello strutturalismo, il grande movimento scientifico e filosofico che ha animato il novecento francese. Come fare per spiegare la molteplice serie di variazioni di un mito, come seguire l’innumerevole ricomposizione e la permutazione dei suoi elementi? In meno di un anno, dal secondo turno delle elezioni francesi del 7 maggio alle elezioni italiane del 4 marzo, in Europa una domanda molto simile sembra porsi nell’ambito della configurazione politica dei nostri sistemi elettorali e rappresentativi. Le forze in campo vagano in un’inquieta ricerca di un ordine e di una tensione attorno a cui definirsi. Tra aperto e chiuso, tra patriota e nazionalista, la disordinata ricomposizione dell’ordine politico di origine novecentesca è alla ricerca, nel contesto della crisi dello stato nazione, di una relativa stabilità. Il caso francese sembra, nel contesto di europeizzazione del politico, mostrare alcune direzioni fondamentali di questo processo. Possiamo isolare due movimenti fondamentali. Da una parte lo svuotamento dei partiti tradizionali a opera di un nuovo movimento di indirizzo ideologico fluido. Si riconoscerà l’esperienza d’En Marche, la formazione politica lanciata nell’aprile 2016 da Emmanuel Macron per prendere d’assalto la presidenza della Repubblica, contribuendo, grazie a un fortunato gioco di domino alla fine dell’assetto che aveva definito la vita politica della quinta repubblica da De Gaulle à Hollande. Dall’altra, la chiara affermazione elettorale, in un contesto di violenta ricomposizione politica, di una destra neo-nazionalista, per il momento strutturalmente incapace di giungere al governo del paese, il cui rapporto con l’Unione europea è caratterizzato da una diffidenza o da un rifiuto, ma il cui rapporto con l’Europa non sembra trovare una formulazione sufficientemente leggibile. Si riconoscerà in questa descrizione il nuovo Front National di Marine Le Pen, drammaticamente sconfitto nel secondo turno dell’elezione, in gran parte proprio a causa di un’incomprensibile proposta di scita dall’euro. Questo doppio movimento sembra fornire un’ottima griglia di analisi per capire il caos molle” delle elezioni italiane, secondo la bella formula utilizzata da Mélenchon per definirne il contesto.
Innanzi tutto, per capire il successo della Lega di Matteo Salvini, capace di passare dal 4% al 17% dei voti, bisogna seguire la profonda ricollocazione della sua formula politica, in gran parte ispirata alla trasformazione del nuovo Front National di Marine Le Pen, che ha portato un partito in larga misura regionalista a diventare un partito capace di ambire al premierato. Nella selva di messaggi di congratulazione a Salvini, Marine Le Pen ha insistito sui meriti della “strategia salviniana di rottura dell’isolamento geografico”. La nazionalizzazione del partito è stata ottenuta da Salvini attraverso una disciplinata ricerca di contraddizioni politiche poste su una nuova scala geografica. Dall’odio per Roma a quello per i Rom (si ricorderà il funesto
slogan “RUSPE IN AZIONE”) dall’ostilità verso il sud a quella verso le banche e i migranti, dal partito concepito, in parte, da Miglio all’odio degli intellettuali. Come Marine Le Pen, Matteo Salvini ha saputo aprire il campo politico a una nuova opposizione geopolitica fondamentale: quella tra i sedentari essenziali (coloro per cui lo spostamento è un declassamento e che trovavano nella forma dello Stato nazione, ora in crisi, una tutela simbolica e sostanziale) e i nomadi virtuali (quelli per cui si verifica l’inverso, e che potrebbero cioè decidere di partire anche quando decidono di restare). Così facendo però, la configurazione politica di riferimento non si limita solamente ad un allargamento alla scala nazionale ma diventa inter-nazionale o almeno europea. In questo contesto, l’ipotesi di un’europeizzazione della politica deve essere presa seriamente. Non soltanto la classe politica nazionale segue ormai un’agenda europea che la porta a interessarsi alle elezioni degli altri Stati membri (fondamentali per esempio nella definizione degli equilibri diplomatici dell’Eurogruppo), ma è proprio l’opinione pubblica europea a essere interconnessa in maniera totalmente inedita all’attualità politica. In una dichiarazione ufficiale del 5 marzo il Front National spiega questa tendenza molto chiaramente. “Intendiamo continuare e intensificare i contatti e le alleanze su scala europea. È nostro dovere cercare di sostituire a questa Unione anti-europea, un progetto fondato sul rispetto della libertà delle nazioni e della volontà dei cittadini…” D’altro canto, come mostrano gli studi parlamentari applicati alle dinamiche elettorali, è proprio nell’Europarlamento che l’attività politica recente dei neo-nazionalisti trova la sua origine e la sua prima fonte di sostentamento. Il meeting di Coblenza del febbraio 2017, organizzato dall’Europa delle nazioni e delle libertà, il gruppo politico di estrema destra del parlamento europeo che raccoglie assieme alla Lega, tra gli altri, il Front National, aveva già chiaramente mostrato i vari partiti neo-nazionalisti sfilare assieme, sventolando le loro bandiere nazionali come sulla piazza del parlamento di Strasburgo.  L’attesa e la pazienza non sono parole solitamente associate al carattere politico di Emmanuel Macron. Ciononostante la presa di posizione del presidente della Repubblica francese alle elezioni italiane è stata caratterizzata da un certo rispetto ampolloso delle istituzioni “per ora resto prudente, e aspetto le decisioni del presidente della Repubblica italiana”. In realtà, come ci è stato suggerito da alcune persone vicine alla presidenza, questa attesa accompagna un messaggio politico implicito. Il riconoscimento del ruolo di mediazione di Mattarella sottintende un lavoro di ricomposizione di un’alleanza di governo che non veda la partecipazione dei neo-nazionalisti, fosse anche nell’ottica di un governo di scopo, in una sorta di “grande coalizione” all’italiana. Gli osservatori più acuti lo hanno fin da subito sottolineato. Se la sorpresa di questa elezione risiede nel Movimento Cinque Stelle è perché il Movimento ha ripetuto da un punto di vista strutturale, partendo in larga parte da temi e parole chiavi opposte, l’opera di svuotamento dei partiti nazionali propria del movimento macroniano. Con alcune differenze semantiche (En Marche insisteva sulla grandeur, il M5S sull’onestà) da un punto di vista sintattico, l’effetto sull’assetto politico è stato analogo. Come dimostrato da Raffaele Alberto Ventura in un articolo pubblicato sul Grand Continent che ha avuto un certo effetto in Francia, “il Movimento Cinque Stelle è l’erede della democrazia cristiana al tempo di Internet”. In questo contesto, contrariamente allo scenario che sembra predire Le Monde, la vittoria elettorale del Movimento Cinque Stelle potrebbe iscriversi plasticamente nella grande operazione europeista di Emmanuel Macron soprattutto a causa della vittoria concomitante della Lega, che riproduce in Italia il rapporto di forze del contesto francese. Non sarebbe il primo errore di apprezzamento del giornale della Rue Solferino: cade quest’anno il 50 anniversario della sua prima pagina “La Francia si annoia”, pubblicata ad una settimana dall’esplosione del 68. Il Partito socialista francese, ancora tramortito dal coup de force di En Marche e in lenta ricomposizione attraverso un complicato congresso e delle primarie dal seguito, per il momento, molto ridotto, si inquieta del destino che aspetta il PD. “Il risultato interpella la sinistra” dice uno dei suoi membri, Vallaud. La posizione di Renzi, ostinatamente contrario a ogni ipotesi di governo di scopo o di grande o piccola coalizione, sembra in un certo senso appoggiarsi sulla riflessione che era stata formulata già qualche mese fa da Thomas Piketty nel contesto tedesco (prova, ancora una volta, dell’europeizzazione degli scenari politici nazionali): “la scelta politica di un’alleanza con la CDU non è per forza una cattiva scelta, però, chiaramente, non sembra condurre le istanze della sinistra al potere”. L’ipotesi di europeizzazione del “politico” sembra ormai essenziale per ritrovarsi nella vita politica nazionale, e ben al di là della sua utilità nel racconto del politico che ci porta a sovrapposizioni un po’ rapide tra traiettorie politiche – ancora recentemente, e molto superficialmente, l’editorialista di estrema destra, Eric Zemmour, analizzava con accenti di soddisfazione la sconfitta di Renzi: “Renzi è il passato di Macron e rischia di diventare il suo futuro”. Se il neonazionalismo sembra tendenzialmente diventare una soluzione politica transnazionale capace di dare una prospettiva politica continentale attorno ad una formula politica identitaria, la formula politica tecno-cesarista di Emmanuel Marcon potrebbe giungere ad una ridefinizione degli equilibri di forza su scala europea, creando un gruppo centrista capace di alleare istanze contraddittorie, per riformare nel senso di una più grande integrazione gli equilibri europei.



N.B. = entrambi questi articoli sono stati tratti dalla rivista on-line “La Tascabile”