lunedì 26 ottobre 2020

La transizione energetica non sarà nè facile nè indolore

 

Uno degli slogan sempre più utilizzati per semplificare situazioni al contrario quanto mai complesse è quello della “green economy”, presentata come una soluzione facilmente adottabile che, magicamente, consentirà di salvare il pianeta, l’ambiente e, al contempo, l’economia, la sempiterna crescita, e quindi gli stessi nostri stili di vita. Peccato che al momento non solo non si stia andando molto oltre il citarlo a dismisura, ma che, se appena appena si cerca di tradurlo in percorsi virtuosi concretamente attivabili, si manifestano non poche complicazioni di ordine tecnico e politico. Il seguente articolo evidenzia con rigore e chiarezza quelle che stanno emergendo nella auspicata transizione energetica, ossia nell’abbandono dell’energia prodotta con combustibili fossili. Lo pubblichiamo, convinti della sua validità, perchè:

-  evidenzia molto bene che, scientificamente e tecnicamente, andare oltre gli illusori slogan non è, e non sarà, operazione facile, ammesso e non concesso che quantomeno le volontà politiche a livello mondiale convergano in questa direzione, aspetto tutt’altro che scontato;

-  fa conoscere, grazie ad una ricostruzione storica molto dettagliata, tutte queste  notevoli difficoltà di ordine tecnico-politico nell’individuare e attivare alternative soddisfacenti;

-  ed infine, nella parte finale che abbiamo evidenziato in carattere blu, sollecita alla consapevolezza che, se anche si arriverà ad una vera svolta energetica, questa non potrà soddisfare la propensione energivora di una umanità di otto miliardi di individui sempre più votati a consumi energeticamente insostenibili

Richiamando quindi alla consapevolezza che la transizione energetica, come più in generale un nuovo modello di sviluppo, non potranno realizzarsi solo con l’ennesimo soccorso della scienza e della tecnologia, e che gli slogan vuoti dovranno quindi essere riempiti da un radicale ripensamento delle idee di fondo che guidano l’economia, la società, le nostre vite.

* (N.B. = uno dei saggi sul tema citati nell’articolo è “Elogio del petrolio” (Feltrinelli, 2019) di Massimo Nicolazzi, professore di economia energetica all’Università di Torino)

 

La transizione energetica

non sarà facile né indolore

Le tante incognite attorno all'abbandono,

sempre più urgente, dei combustibili fossili.

Articolo di Alessio Giacometti (Sociologo dell’ambiente collabora con diverse riviste online) – Rivista online “Il Tascabile”

IUna fantasia del dottor Ox (1872), racconto breve tra i meno noti di Jules Verne, uno scienziato scaltro e affabulatore si offre di rinnovare il sistema di illuminazione di Quinquendone, la più placida tra le città fiamminghe. A convincere i flemmatici abitanti è la mirabolante prospettiva di alimentare il loro piccolo borgo con una nuova fonte di energia – il gas ossidrico – che il dottor Ox promette di ricavare in abbondanza scomponendo l’acqua in idrogeno e ossigeno. Per di più, millanta di poterlo fare senza “nessuna sostanza costosa, né platino né storte, né combustibile, nessuna apparecchiatura delicata per produrre isolatamente i due gas”. A Quinquendone rimangono stupefatti: hanno di fronte l’utopia di ogni civiltà, la soluzione facile e lungamente attesa all’annoso problema dell’approvvigionamento energetico. Nel giro di poco si scopre che la fantasia del diabolico Ox è in verità quella di indurre nella cittadina uno stato di diffusa sovreccitazione attraverso un esperimento di perturbazione atmosferica. La brama energetica che Verne relega sullo sfondo del suo racconto rimane così sospesa, e giunge insoluta fino ai giorni nostri: come i quinquendoniani, anche noi siamo sedotti dall’idea che addomesticheremo presto e definitivamente una nuova fonte di energia, copiosa in natura ed eternamente rinnovabile, pulita e riparatrice delle tante avarie che guastano il mondo. Si presentasse un nuovo Ox, agitando in mano la tecnologia per catturare l’energia del futuro, ne finiremmo tutti infatuati e forse circuìti. Oggi sono diverse le fonti energetiche candidate a rimpiazzare le concorrenti fossili, che tuttavia tanto fatichiamo ad abbandonare. Per quanto i propositi della decarbonizzazione siano lodevoli e necessari, i numeri del fossile appaiono invalicabili e fanno decisamente impressione: ad ogni secondo che passa, bruciamo complessivamente 250 tonnellate di carbone, 1.000 barili di petrolio e 105.000 metri cubi di gas metano, per un totale 1.000 tonnellate di anidride carbonica riversate in un’atmosfera già satura di gas serra. Tradotto in consumi percentuali, il 34% dell’energia che alimenta il mondo proviene ancora dalla combustione del petrolio, il 27% dal carbone, il 24% dal gas, con solo un misero 15% da nucleare e fonti rinnovabili. Eppure tendiamo a persuaderci che l’abbandono dei combustibili fossili possa essere roseo e gestibile, controllabile e indolore. Inquadriamo il rompicapo della sostenibilità delle fonti in una razionalità manageriale e ingegneristica, che per il momento ci pacifica e rassicura. Parliamo di energia soltanto nei termini normalizzanti e consolatori della “transizione”, con l’effetto di oscurare il profondo disorientamento che accompagna in realtà la corsa alla decarbonizzazione. L’esercizio di immaginare una transizione energetica globale spalanca infatti la vertigine di un futuro che rimane incerto, in cui l’energia disponibile tra qualche decennio potrebbe anche essere inferiore a quella che abbiamo conosciuto in due secoli di “società del carbonio”. Usciamo da un vecchio mondo fossile inebriato dall’opulenza energetica, ed entriamo in quello nuovo in cui potremmo ritrovarci a non avere abbastanza energia per sostenere gli alti scopi che ci siamo prefissi di raggiungere e un tenore dei consumi che non cessa di espandersi.

Petrolio resiliente

Il petrolio viene estratto perforando lo scisto di arenaria che lo imprigiona, da cui stilla per gradiente di pressione. Fino all’80% del liquido ristagna sotto terra, ma esistono diversi sistemi per recuperarne una parte ulteriore con iniezioni di acqua o gas che la spingono in superficie. “Oggi i giacimenti tradizionali hanno perciò fattori di recupero tra il 20 e il 40%”, osserva nel suo Elogio del petrolio (Feltrinelli, 2019) Massimo Nicolazzi, professore di economia energetica all’Università di Torino. “Il perfezionamento tecnologico, il fattore ‘T’, in questi anni ci ha fatto più che raddoppiare il petrolio che c’era”. Sembrava lì lì per finire, e invece ne abbiamo ancora in abbondanza. Specie dopo l’introduzione della tecnica della fratturazione idraulica, o fracking, che ricorre a liquidi chimici sparati lateralmente ad alta pressione per frantumare la roccia impermeabile e aumentare così il liquido che può essere risucchiato dalla dolina. La storia recente del petrolio ha conosciuto diversi momenti di carenza dell’offerta, ma in generale la domanda è sempre rimasta inferiore alla disponibilità potenziale. “Il problema del petrolio”, spiega Nicolazzi, “è che strutturalmente ce ne è (quasi) sempre troppo”. La sua fine dipenderà da ragioni di tipo economico più che dalla disponibilità reale della materia prima: “più aumentano i prezzi e più aumenta il petrolio; perché all’aumentare dei prezzi fa riscontro la possibilità di valorizzare e commercializzare petrolio con costi di produzione più alti”. E tuttavia, come le crisi energetiche e diplomatiche dei decenni scorsi, neanche la pandemia di COVID-19 è per ora riuscita a sfiancare l’industria petrolifera fino al dissesto, sebbene il crollo dei prezzi abbia messo fuori mercato diversi produttori di greggio negli Stati Uniti e in Medio Oriente. A dispetto del perdurante stato di incertezza e della minaccia di lockdown localizzati per contenere nuove ondate di contagi, l’ultimo Oil Market Report redatto a inizio settembre dall’International Energy Agency (IEA) conferma – non senza cautele – che è in corso un “delicato riassestamento” del mercato: nel 2020 la domanda globale di petrolio si è contratta di 8,4 milioni di barili al giorno rispetto al 2019, ma con la graduale ripresa delle attività produttive i consumi potrebbero tornare quasi ai livelli pre-crisi già entro la fine dell’anno. Anche se le previsioni variano di giorno in giorno, sempre secondo l’IEA il prezzo contenuto del greggio rischia poi di rallentare gli investimenti in fonti rinnovabili: un fenomeno opposto a quel che avvenne negli anni Settanta, quando i falsi allarmi circa la fine del petrolio, il freno al suo libero commercio internazionale e la conseguente impennata dei costi spinsero i Paesi importatori a guardare con interesse crescente alle fonti di energia alternative. Tra queste, quella che in quegli anni sembrò essere più promettente fu indubbiamente l’energia nucleare, ricavata in grandi quantità dalla scissione dei nuclei di atomi pesanti come l’uranio e il plutonio. Parallelamente si cominciò a sperimentare anche la fusione di atomi leggeri quali il deuterio e il trizio, simulando reazioni analoghe a quelle che avvengono nel nocciolo incandescente delle stelle. Nonostante oltre mezzo secolo di tentativi, però, la fusione atomica controllata non è ancora oggi possibile: all’Università del Nuovo Galles del Sud ci stanno provando  senza combustibili radioattivi e a temperature più basse, mentre all’International Thermonuclear Experimental Reactor (ITER) hanno da poco avviato l’assemblaggio del primo rettore a plasma autoriscaldante al mondo e promettono di concludere i lavori entro il 2025, anche se le previsioni attestano che si potrà entrare in produzione di energia soltanto nel 2035. “Sarebbe [questa] la soluzione a tutti i nostri problemi?”, si chiede in No Planet B (Il Saggiatore, 2020) Mike Berners-Lee, professore al Social Future Institute dell’Università di Lancaster. “Si può credere che la fusione nucleare risolverebbe tutti i nostri problemi oppure che sarebbe un disastro totale. Nel primo caso, significa che ci fidiamo di ciò che farebbe la nostra specie se disponesse di ancor più energia. Nel secondo, pensiamo che faccia già abbastanza danni con quella che ha”.  Che valga la pena accontentarsi della più collaudata, ma meno entusiasmante fissione? Non vi è poi alcuna sicurezza che si possa arrivare a controllare la fusione nucleare in tempo utile. “Gli esempi ben noti del radar, degli Spitfire e delle bombe nucleari dimostrano che spesso è anche possibile sviluppare una tecnologia molto rapidamente. Tuttavia le ricerche sul cancro mostrano che talvolta, a dispetto dei nostri sforzi, non siamo in grado di arrivare alla svolta immediata che vorremmo raggiungere”. Chissà se il clima avrà la clemenza di tollerare tanto a lungo la nostra inadempienza.

Ascesa e declino del nucleare

Che fosse possibile ricavare una grande quantità di energia dalla scissione dei legami atomici divenne evidente il 2 dicembre 1943. “Quel giorno”, scrivono gli storici dell’ambiente John McNeil e Peter Engelke nella Grande accelerazione (Einaudi, 2018), “il rifugiato politico Enrico Fermi sovrintendette alla prima reazione nucleare controllata [della storia]”. L’energia sprigionata dalla frantumazione di atomi pesanti fece subito sembrare ridicole tutte le altre fonti note, comprese quelle fossili. Il battesimo della nuova forma di energia fu militare, con le bombe sganciate di lì a poco su Hiroshima e Nagasaki. Nei quarantacinque anni successivi Stati Uniti e Unione Sovietica produssero complessivamente circa 115.000 armi nucleari e ne testarono 1.715, ma nessun altro ordigno atomico venne più impiegato in una vera operazione militare. Dopo Hiroshima e Nagasaki, ci volle un altro decennio prima che la stessa energia prodotta per caricare le bombe atomiche fosse utilizzata per rifornire di elettricità la rete pubblica. Il primo reattore nucleare a uso civile venne costruito nei pressi di Mosca nel 1954, ma subito seguirono centrali dalle dimensioni decisamente più imponenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. “A metà degli anni Cinquanta”, ricordano McNeil e Engelke, “le prospettive dell’energia nucleare sembravano radiose e inesauribili”. In una manciata di lustri si raggiunse il 10% di energia mondiale prodotta da fonte atomica, ma poi si verificarono i meltdown di Three Mile Island e Černobyl’ che ridimensionarono enormemente le aspettative sul nucleare civile. “Dopo Černobyl”, notano McNeil ed Engelke, “la logica ecologica ed economica che sosteneva la costruzione di centrali nucleari apparve improvvisamente meno convincente. La percentuale di elettricità che il mondo ricavava dall’energia nucleare, che era velocemente cresciuta, si stabilizzò per i vent’anni successivi”. La fame di elettricità – globalmente, +70% nell’ultimo ventennio – ha vinto però sulla paura, e dai primi anni Duemila molti paesi tecnologicamente avanzati ma sprovvisti di riserve fossili proprietarie hanno inaugurato la costruzione di nuovi reattori. “Le preoccupazioni per la sicurezza nucleare portarono a riforme, a controlli più rigidi e a maggiori costi di costruzione e di utilizzo”, aggiungono McNeil ed Engelke, il tutto con l’obiettivo di far tornare a essere socialmente desiderato e dunque politicamente realizzabile il ricorso all’energia nucleare. Nel 2011, però, il disastro alla centrale di Fukushima Dai-ichi spinse il Giappone e diversi altri Paesi a chiuderla definitivamente con il nucleare – l’Italia, si ricorderà, via referendum. Oggi il nucleare vale ancora il 10% della generazione elettrica mondiale, e dove viene praticato le emissioni pro capite di CO sono effettivamente più basse. Dopo le sindromi del male che hanno indotto (in Occidente) coazione a chiudere, commenta Nicolazzi, “spira aria di ripensamento”, persino tra gli ambientalisti. Nel suo ultimo libro, Novacene. L’età dell’iperintelligenza (2020), lo scienziato centenario e fautore della teoria di Gaia, James Lovelock, avanza un programma in quattro punti per far fronte al riscaldamento globale, uno dei quali è proprio il ritorno massiccio all’energia nucleare: “è il metodo più efficace per produrre elettricità”, spiega Lovelock, “e l’indice di mortalità nei siti di produzione dell’energia nucleare è di gran lunga inferiore a quello delle altre forme di energia, comprese le rinnovabili”. Nel “Novacene”, l’epoca geologica che Lovelock immagina susseguire l’Antropocene sarà l’energia nucleare ad alimentare le megalopoli iperconcentrate, i sistemi di intelligenza artificiale per il controllo della temperatura terrestre e i poderosi progetti di geoingegneria – gli altri tre punti del suo discutibile piano per salvare l’umanità dal collasso climatico. Per la decarbonizzazione del settore energetico si stima sarebbe sufficiente aumentare la produzione di elettricità da fonte nucleare dell’80%, ma rimangono due asperità ancora irrisolte: la gestione delle scorie e il consenso dell’opinione pubblica. In sessant’anni di produzione nucleare, i soli Stati Uniti hanno accumulat oltre 200 milioni di litri di carburante nucleare esausto e radioattivo, per i quali il governo centrale non ha ancora trovato un sito di stoccaggio sicuro e definitivo. Per quanto riguarda l’accettazione da parte dell’opinione pubblica, la generazione di centrali oggi in fase di progettazione sta virando verso combustibili resistenti agli incidenti e reattori modulari “intelligenti” di più piccole dimensioni, meno produttivi ma pare sicuri abbastanza da poter essere addirittura inseriti in contesti urbani. L’elettorato sensibile alla crisi climatica sembra tuttavia prediligere le fonti rinnovabili e in particolare l’energia solare, al punto che il “rinascimento nucleare” propugnato da Lovelock rimane decisamente poco probabile. L’abbandono dei combustibili fossili significa piuttosto ritorno a sole, vento e acqua. “Li abbiamo emarginati in nome della superiore efficienza del fossile”, rivendica Nicolazzi nel suo libro, “e ora li stiamo chiamando a sostituirlo”.

Via dai fossili

Contrariamente a quanto si possa pensare, l’interesse per le fonti energetiche rinnovabili è un fatto tutt’altro che recente. Già nell’Ottocento erano in azione mulini a vento o ad acqua per la molitura dei cereali, con la corrente dei fiumi che dal 1878 cominciò anche a essere incanalata in turbine per la produzione di elettricità. Fu però solo dopo il 1945, chiariscono McNeil ed Engelke, che “il mondo conobbe un periodo di sfrenata costruzione di dighe, che ebbe il suo apice negli anni Sessanta e Settanta, quando la maggior parte dei siti migliori nei paesi ricchi era già stata utilizzata”. Con le centrali idroelettriche viene eluso il problema dell’intermittenza dell’acqua dei fiumi, accumulata in grossi bacini utilizzabili anche per l’irrigazione o l’itticoltura. Non mancano tuttavia gli inconvenienti: i bacini idrici e le dighe possono cedere, causando enormi disastri. Per non parlare poi della deturpazione del paesaggio naturale e del trasferimento coatto delle popolazioni rivierasche che la creazione di una centrale idroelettrica quasi sempre comporta. I corsi d’acqua attraversano infine le nazioni, e non è raro che la costruzione di una diga inneschi crisi diplomatiche e geopolitiche, come sta accadendo con la più grande diga d’Africa in fase di riempimento in Etiopia. Nonostante i limiti evidenti, nei decenni scorsi l’idroelettrico ha trovato sostenitori entusiasti un po’ in tutto il mondo, soprattutto nei paesi emergenti. Metà delle centrali costruite dopo il 1950 si trova in Cina, dove primeggia la diga delle Tre Gole, bersaglio di critiche recenti per l’incapacità di contenere le esondazioni del Fiume Azzurro dovute alle precipitazioni record degli ultimi mesi. In India, invece, il primo ministro degli anni Cinquanta Jawaharlal Nehru definì le centrali idroelettriche i “templi dell’India moderna” e puntò forte sull’energia elettrica prodotta dall’acqua. Ma tra le rinnovabili l’idroelettrico – così come l’energia mareomotrice o quella ricavata dalla cinetica delle piogge – ricopre oggi un ruolo soltanto vicariante, e con ogni probabilità non può essere protagonista della transizione energetica che ci dovrebbe condurre fuori dalla parentesi fossile. Neanche l’energia eolica pare avere tutti i requisiti per mettere fuori dai giochi da sola petrolio, carbone e gas naturale, sebbene impianti on- e offshore permettano di generare energia elettrica a prezzi ormai competitivi. Sulla Terra il vento certamente non scarseggia: si stima che se solo il 20% delle raffiche che spirano sulla stratosfera fosse catturato, sarebbe possibile produrre sette volte più energia elettrica di quanta ne viene oggi utilizzata in tutto il mondo. In basso però, nella mite atmosfera, le raffiche sono decisamente più blande e intermittenti, anche se la loro intensità sta aumentando proprio per via del riscaldamento globale. Le turbine eoliche attualmente in uso generano una quantità di energia elettrica equivalente a quella di 270 centrali nucleari, ma lavorano a tassi di entropia ancora elevati: come scrive l’economista indiano Prem Shankar Jha nel suo L’alba dell’era solare (Neri Pozza, 2019), “la trasformazione dell’energia eolica passa attraverso un numero così alto di fasi di conversione che, alla fine del processo, l’energia utilizzabile è solo una frazione di quella originaria”. Esistono tuttavia dei prototipi di impianti eolici galleggianti e mini-eolici particolarmente efficienti, che sfruttano l’azione di magneti per moltiplicare la frequenza di oscillazione indotta dal vento e dunque la produzione di energia. La fuoriuscita dal fossile dovrà passare principalmente dall’energia catturata dal sole, “l’unica risorsa di cui abbiamo certezza che ci ecceda”, assicura Nicolazzi. “Il resto è nicchia” – anche se c’è chi sostiene che potremmo andare per il 100% a geotermico, nonostante i rischi per la salute e un impatto ambientale tutt’altro che trascurabile. L’energia solare piove sul nostro pianeta in modo continuo e abbondante, con livelli di concentrazione sufficientemente bassi da permettere la vita di piante e animali. “In un’ora il Sole regala alla Terra più energia di quanta il genere umano non ne consumi in un anno”, comparano McNeil ed Engelke, “e un anno di generosità solare equivale a una quantità di energia superiore a quella contenuta in tutti i combustibili fossili e nell’uranio presenti nella crosta terrestre”. La grande sfida è allora quella di carpire l’energia del sole per via diretta e non più solo indiretta, tramite fotosintesi o combustibili fossili. Da quando è cominciata la produzione quarant’anni fa, il costo di una singola cella fotovoltaica è precipitato grosso modo da 70 dollari a 70 centesimi, ma come per l’eolico la possibilità di ricavare elettricità dall’irraggiamento solare è limitata da una densità di potenza – l’energia prodotta per unità di spazio occupato da pannelli o pale eoliche – per sua natura finita. Certo, “se [oggi] coprissimo di pannelli solari meno dello 0,1 per cento della superficie delle terre emerse”, osserva Berners-Lee, “saremmo in grado di soddisfare il fabbisogno energetico attuale”. Ma da mezzo secolo a questa parte i nostri consumi di energia crescono del 2,4% l’anno, un ritmo esponenziale che entro il 2050 richiederebbe l’installazione di 700 miliardi di pannelli solari per azzerare le emissioni di gas serra. Per quanto l’efficienza delle tecnologie possa aumentare – al momento le frontiere sono l’agro-fotovoltaico, i pannelli flessibili in perovskite, quelli bifacciali con celle su entrambi i lati, trasparenti da sostituire alle finestre degli edifici e “antisolari” per funzionare anche al buio – è evidente già da oggi che prima o poi raggiungeremo un limite di saturazione. “Tutto dipende dalla nostra capacità, per la prima volta nella storia, di limitare intenzionalmente la crescita della richiesta energetica”. Per catturare l’energia solare con le celle fotovoltaiche e convertirla in elettricità accumulata in batterie servono poi tellurio, litio e cobalto in abbondanza, tre metalli rari (o “minerali critici”) di cui non è chiaro se la Terra disponga a sufficienza. Secondo Shankar Jha, “anche qualora tutto il tellurio presente nel mondo fosse conservato per costruire i pannelli fotovoltaici, la loro efficienza dovrebbe essere almeno duecento volte maggiore per soddisfare l’attuale domanda di energia ricavata dai combustibili fossili”. L’estrazione del cobalto è pressoché monopolio della Cina, che ha in concessione il 90% dei giacimenti mondiali e sta per questo spingendo i competitor statunitensi a progettare batterie cobalt-free, mentre il prezzo del litio – che all’Università di Stanford stanno cercando di filtrare di filtrare dall’acqua di mare – ha preso a essere imprevedibilmente volatile negli ultimi anni. “Qualcuno forse sta cominciando a giocare forte con produzione e scorte”, ipotizza Nicolazzi, “sembra quasi di parlare di petrolio”. Certo, i minerali critici possono potenzialmente essere riciclati, ma ad oggi mancano le tecnologie e un piano internazionale per la gestione a fine ciclo di batterie e pannelli solari esausti. Sole e vento circolano poi sulla superficie terrestre in modo intermittente, il che vuol dire che non generano energia in forma continua. Pareggiare l’elettricità che entra attualmente nella rete elettrica con quella che esce impiegando soltanto le rinnovabili è dunque implausibile, a patto che non si riesca a immagazzinare l’energia elettrica di origine solare ed eolica in dei grossi accumulatori (in Regno Unito ne stanno costruendo uno ad aria compressa) da cui attingere per alimentare la rete quando vento e sole sono scarsi. “Su come evolverà e con che tempi e costi la tecnologia dell’accumulo”, commenta Nicolazzi, “ci giocheremo la misura della nostra capacità di dispensarci dal fossile nella generazione elettrica”. Ma nel mondo si sperimentano anche altri sistemi di cattura e accumulo dell’energia solare, senza bisogno di passare da elettricità e batterie al litio. Il più incoraggiante è probabilmente quello degli impianti solari termodinamici, che immagazzinano l’energia sotto forma di calore. Per mezzo di specchi riflettenti, i raggi del Sole vengono concentrati su una matrice di sali fusi, principalmente nitrati di sodio e potassio, in grado di accumulare fino a 1.000° C il 95% dell’energia irradiata e di trattenerla per oltre 24 ore. Heliogen, una delle principali compagnie di produzione di energia solare concentrata, asicura di riuscire a concentrare l’energia solare fino a 1.500° C, una quantità di calore che sarebbe sufficiente a produrre senza l’impiego di combustibili fossili il cemento, una delle industre in assoluto più inquinanti.“Il mondo ha bisogno sia dell’energia fotovoltaica sia di quella solare termodinamica”, afferma conciliante Shankar Jha. “L’esigenza dell’umanità di trovare alternative al carbone e al gas naturale è così forte da lasciare spazio a entrambe le tecnologie”. I sistemi di produzione dell’energia solare concentrata sono però ancora in via di sviluppo e necessitano di ulteriori perfezionamenti. In questo tempo di passaggio, sarà bene diversificare gli investimenti e finanziare la ricerca anche di altre fonti di energia. Il rischio di finire in vicoli ciechi energetici è tutt’altro che trascurabile.

Vicoli ciechi energetici

Secondo Shakar Jha, sono diversi i vicoli ciechi in cui rischiamo di incappare nella complicata corsa alla decarbonizzazione. Il primo è quello dell’idrogeno prodotto per via elettrolitica dall’acqua. Nonostante i massicci finanziamenti pubblici e i numerosi tentativi in corso da parte di diverse compagnie energetiche, il costo dell’elettrolisi rimane per ora insostenibile, per questo diverse start-up del settore hanno ripiegato sulle più convenzionali tecniche di gassificazione. Alcuni grandi marchi del trasporto su gomma stanno investendo forte sullo sviluppo di automobili a idrogeno, ma il suo impiego ideale riguarda potenzialmente lo stoccaggio dell’energia tramite conversione dell’elettricità prodotta da impianti solari ed eolici, così come l’alimentazione diretta di navi merci e aerei, per ovvie ragioni inadatti a tollerare il peso di gravose batterie al litio.

Anche le tecnologie a emissioni negative, di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS o CCUS, se si include anche il suo possibile utilizzo), sono ancora acerbe: l’idea di fondo è quella di filtrare l’anidride carbonica dai gas di scarico – o direttamente dall’aria nel caso delle DAC, direct-air capture units – farne combustibile sintetico per l’aviazione oppure comprimerla e stoccarla in profondità, dove la pressione elevata dovrebbe riuscire a immobilizzare il carbonio in modo permanente. Nella sperimentazione di CCS e DAC investiamo globalmente 50 miliardi di dollari l’anno, ma catturare la CO con tecnologie a emissioni negative ci costa ancora troppo perché il sistema si autosostenga (circa 100 dollari a tonnellata di anidride carbonica per 2.000 miliardi di tonnellate emesse dalla rivoluzione industriale a oggi fa 200 000 miliardi di dollari). Più di recente si è iniziato a discutere di bioenergia ricavata dalla combustione di fitomasse con cattura e stoccaggio del carbonio (BECCS). Un esempio di cui si sente spesso parlare è quello del biochar, un tipo di carbone sintetico prodotto per mezzo della pirolisi, processo di combustione a bassa densità di ossigeno che produce energia ma al tempo stesso imprigiona la CO. In alternativa, il carbonio sequestrato dalla crescita di alberi e altre fitomasse potrebbe essere sepolto senza passare dalla combustione, ma per ora ogni ipotesi di ingabbiare efficacemente l’anidride carbonica con CCS, DAC o BECCS rimane allo stadio di supposizione. Già praticabile sembra essere invece “meteorizzazione arricchita”, che consiste nello spargimento ambientale di polvere di rocce alcaline come basalto, dunite e olivina, capaci di assorbire naturalmente la CO e di trattenerla in maniera stabile – a quanto pare più della silvicoltura, perché gli alberi possono sempre bruciare, e del carbonio interrato, che potrebbe inquinare le falde acquifere o riaffiorare in superfice. “Investire in ricerca e sviluppo ci permetterà di trovare rapidamente la soluzione?”, si chiede Berners-Lee a proposito di tutte queste diverse tecniche di sequestro, note anche come scrubbing del carbonio. “Sarà come costruire la bomba atomica o come trovare una cura per il cancro? Dobbiamo scoprirlo”. Ne va della vita di tutti sapere se, in un modo o nell’altro, saremo in grado di ridurre la concentrazione atmosferica di anidride carbonica oppure no. Come fonte energetica di passaggio che dia tempo a fusione nucleare, solare termodinamico e altre fonti rinnovabili di fare i conti con i propri limiti, Shankar Jha suggerisce di guardare ai gas sintetici (tra i quali compare anche l’evocativo “carburante solare”), compatibili con la rete di fornitura degli idrocarburi e con i serbatoi delle auto oggi in circolazione. Fino a dieci anni fa pareva fosse l’etanolo – l’alcol estratto dalla fermentazione dell’amido – il combustibile “semi-rinnovabile” che ci avrebbe traghettati fuori dal fossile. Veniva utilizzato per diluire la benzina in miscele fino al 20% (un po’ come l’olio di palma per il biodiesel) ma, con una densità di potenza di 0,5-0,6 watt di energia sprigionata per metro quadro coltivato a fitomasse, bisognerebbe avere qualche pianeta di scorta per produrre biogas sufficiente a soddisfare i consumi attuali. C’è il rischio che coltivare monocolture energetiche (rinnovabili ma non per questo sostenibili) per le BECCS o per i gas sintetici faccia schizzare in alto il prezzo delle colture e diventi più lucrativo che seminare cereali per l’alimentazione umana, come peraltro sta già succedendo nelle campagne venete e lombarde. Ecco che all’etanolo Shankar Jha dichiara fermamente di preferire il metanolo, un biocarburante ottenuto dalla gassificazione di “pressoché ogni tipo di biomassa di scarto, che si tratti di liquami, rifiuti solidi urbani (inclusa la plastica) o residui colturali”. Tant’è, ma sembra quasi che a parlare sia un nuovo Ox. Cercando di fare ordine e un po’ di sintesi, appare evidente sin da ora che la ricetta per l’abbandono dei combustibili fossili debba gioco forza contemplare un variegato assortimento di fonti energetiche diverse, ma singolarmente insufficienti a scalzare petrolio, carbone e gas naturale. Il tutto nell’attesa che “Madama Tecnologia” – come la chiama Nicolazzi nel suo libro – trovi la quadratura del cerchio e indichi la via di fuga meno dolorosa dalla parentesi fossile. Certo anche la politica deve fare la sua parte, e lo stesso Nicolazzi ricorda che sono essenzialmente tre gli strumenti di governance energetica cui fare ricorso per incoraggiare il passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili: il divieto, la tassazione e il sussidio. Il divieto piace poco agli economisti ortodossi, dal momento che il controllo centralizzato della produzione di idrocarburi (offerta) ha un che di economia comunista pianificata, mentre il contingentamento dei consumi (domanda) odora inequivocabilmente di decrescita. L’ipotesi della tassazione poggia invece sulla teoria economica secondo cui nel costo dei combustibili fossili dovrebbero essere incluse le loro esternalità negative. Il problema è, in questo caso, attribuire un valore economico preciso al danno ambientale prodotto dalle emissioni di gas serra: alcuni studi lo stimano complessivamente a circa 5.300 miliardi di dollari, una cifra poco superiore agli attuali 5.000 miliardi di spesa energetica mondiale. Includere le esternalità ambientali nel costo finale dei combustibili fossili con una tassa piatta e regressiva significherebbe quindi raddoppiare il prezzo dell’energia fossile, al netto delle accise già esistenti. In alternativa alla carbon tax, gli economisti che provano a fare i conti con il riscaldamento globale hanno proposto il sistema dei “permessi di emissione”, o cap and trade: “con la carbon tax”, spiega Nicolazzi, “lo Stato fissa il prezzo ottimo, e al mercato lascia decidere la quantità (di emissioni). Con il cap and trade lo Stato decide la quantità (per definizione diversa da zero) di emissioni e lascia che il mercato decida il prezzo”. In Unione Europea, dove il sistema è stato introdotto nel 2005, si pagano mediamente 20 euro a tonnellata di CO emessa e allultima COP25 di Madrid si è a lungo discusso linasprimento delle quote di emissione, purtroppo senza giungere a un accordo condiviso. Restano infine i sussidi, perché le energie rinnovabili hanno un prezzo d’ingresso (ancora) alto per l’acquisto di pannelli solari, sistemi di accumulo domestici e auto elettriche, ma il costo marginale dell’energia prodotta è quasi zero e il ritorno sull’investimento, alla lunga, certo. Basteranno tasse e sussidi a metterci tutti nelle condizioni di dispensarci dai combustibili fossili? “Le fonti rinnovabili sono elementi irrinunciabili per la costruzione di un regime energetico fondato sulla giustizia climatica e sociale”, scrive su Effimera Samadhi Lipari, sociologo dell’ambiente all’Università di Leeds. “Ne sono, però, anche condizione sufficiente?”.

L’ultima transizione

Siamo ormai al capolinea della società termoindustriale, alimentata dai combustibili fossili. La tecnologia “prometeica” per la prossima transizione energetica stenta a manifestarsi e questo ci relega in un tempo di stallo, al quale potrebbe seguire una nuova espansione o, al contrario, un’eventuale obbligata regressione. In quest’ansa della storia dovremmo forse occuparci di immaginare un modo diverso di stare assieme, meno avido di energia, magari più sobrio ed equo nelle aspirazioni materiali. Viviamo invece come se una fonte inestinguibile e a zero emissioni di carbonio dovesse fare la sua comparsa da un momento all’altro, anche se nessuno sa prevedere esattamente quando. Continuiamo a bruciare le spoglie di creature vissute milioni di anni fa aspergendone le ceneri nell’aria, consci del calore che verrà e persuasi che il progresso tecnologico escogiterà da sé un espediente improvviso e risolutorio, senza bisogno di sacrificare neanche i consumi più immoderati. Già diversi anni fa, al Politecnico di Zurigo hanno calcolato che con una potenza media pro capite di 2000 watt a livello di energia primaria potremmo tutti condurre una vita sostenibile e più che dignitosa, e tuttavia un cittadino medio europeo consuma oggi una quantità di energia sei volte maggiore e uno statunitense addirittura dodici. Il “paradosso di Jevons” e “l’effetto rimbalzo” ci invitano a diffidare di chi punta tutto sull’efficientamento tecnico delle fonti, cui in genere consegue un aumento dei consumi. “Funziona così”, spiega Berners-Lee nel suo libro: “più energia abbiamo, più ne possiamo usare per procurarcene altra e per inventare metodi più efficienti e diversificati per acquisirla e utilizzarla”. In assenza di un limite massimo globale ai consumi di energia, i miglioramenti tecnologici nell’efficienza delle fonti non solo non riducono le emissioni di anidride carbonica, ma finiscono addirittura per aumentarle. “Quasi ogni anno da quando esistono testimonianze scritte, la nostra specie ha avuto a disposizione una quantità maggiore di energia rispetto all’anno precedente”. Per Berners-Lee la questione energetica si pone allora quale problema di bastevolezza: “come facciamo ad accorgerci che ciò che abbiamo è sufficiente se volerne di più diventa controproducente?”. Oggi l’abbondanza di calore, elettricità e combustibili di cui disponiamo è tale che limitare i consumi, anziché provare di tutto per decarbonizzarli, ci pare ancora un’assurdità. Le scienze sociali hanno appurato da tempo che oltre una certa soglia benessere e felicità non sono più proporzionali ai consumi, siano essi materiali o energetici, ma come indurre a vivere con meno energia chi ha ormai maturato l’abitudine a sprecarla? Guardando alla storia delle transizioni energetiche passate ci accorgiamo poi di come ogni nuova fonte di energia addomesticata non vanifichi né supplisca l’uso delle precedenti, e al tempo stesso renda necessario il passaggio alla forma successiva e più evoluta, in una rincorsa tecnologica continua e apparentemente senza fine. In più, “i grandi cicli dell’addomesticamento delle fonti energetiche si fanno sempre più brevi”, come avverte giustamente Nicolazzi, e forse per la prima volta nella storia sappiamo di dover realizzare una transizione energetica inaggirabile, vuoi perché le fonti fossili un giorno finiranno, oppure perché ci risolveremo noi stessi ad accantonarle prima che ci alterino troppo il clima. C’è da chiedersi se le prossime tecnologie di conversione e utilizzo dell’energia che inventeremo riusciranno a essere un passo avanti rispetto ai nuovi problemi generati. Esauriti o dimessi i fossili ed entrati sperabilmente nell’era solare senza troppi smottamenti, è probabile che ci ritroveremo in ogni caso con una disponibilità energetica ridotta, allora dovremo coartare i consumi anziché contenerli spontaneamente e, per quanto possibile, gradualmente. “Non abbiamo nessuna certezza”, avvisa Nicolazzi, “che vivere senza fossili sia compatibile con la crescita che i fossili ci hanno garantito”. Al contrario, stiamo avviando una transizione energetica da combustibili di maggiore a fonti di minore densità e potenza, un fatto che l’umanità non ha mai sperimentato prima. L’alba dell’era solare ci riporta alle fonti organiche originarie, vento e sole: “stiamo avanzando verso il passato”, chiosa Nicolazzi, “il che a prima vista ci suggerisce l’idea che la transizione sia intimamente retrograda”. Vien da pensare che la crescita compiutasi nella parentesi fossile, la grande accelerazione dei consumi energetici e del benessere materiale, non sia replicabile in alcun modo e sia stata soltanto un inebriante e fugace deviazione collettiva di cui solo ora cominciamo a ravvederci. Ci piace cullare il sogno di grandi avanzamenti tecnologici, ma se non catturiamo abbastanza sole c’è da aspettarsi che col procedere della decarbonizzazione avremo anche finito di crescere. Allora scopriremo quanto può essere rovinosa, o liberatoria, l’inversione di marcia nella corsa del progresso. Chiamiamola senza alcuna vergogna “decrescita”, felice o infelice avrà davvero poca rilevanza.

venerdì 23 ottobre 2020

Ancora su IMMUNI

 

Ancora su IMMUNI

Pubblichiamo questo interessante, ma soprattutto preoccupante, articolo segnalatoci dal socio e amico Elvio Balboni, che evidenzia l’attuale fallimento dei sistemi di tracciamento dei contatti che si stanno rivelando inadeguati a gestire una situazione con numeri di contagio troppo alti. Colpisce in particolare il flop di Immuni, l’app tanto declamata e considerata la soluzione sicura del problema.

La App è un flop: quasi 10 milioni di download, ora è installata sul 20% degli smartphone, ma è stata utilizzata solo in 1.134 casi. Ormai è saltato il tracciamento dei contatti necessario per confinare i focolai. Immuni, solo in mille l’hanno usata. E addio contact tracing

Articolo di Andrea Capocci - Il Manifesto 23/10/2020

Il numero di tamponi è arrivato a superare quota 170 mila, numeri inimmaginabili solo pochi mesi fa. Il problema è ciò che succede dopo il test: per ogni caso positivo, i Servizi di igiene e sanità pubblica delle Asl dovrebbero avviare l’indagine epidemiologica, intervistando i positivi e individuando le persone a rischio da contattare a loro volta. Ma ormai questa procedura è saltata del tutto nelle aree in difficoltà come il Lazio, la Puglia, la provincia di Milano e non solo. «Il questionario delle Asl richiede almeno un’ora di tempo. Poi ci vuole un’altra mezz’ora per raggiungere i contatti», spiega al Manifesto Stefania Salmaso, che ha guidato il Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Iss fino al 2015, quando l’allora presidente Walter Ricciardi smantellò una struttura che oggi sarebbe stata utilissima. «Considerando che ogni Asl deve ripetere quest’operazione per decine o centinaia di contatti ogni giorno, è evidente che il personale non è sufficiente». Dopo la prima ondata sono state fatte assunzioni. L’obiettivo del decreto Rilancio era di mettere in campo un tracciatore ogni diecimila abitanti. In realtà si è andati anche oltre: i tracciatori ora sono circa 9.200, cioè 1,5 ogni diecimila abitanti. «Ma questi sono numeri sufficienti in tempi normali. Adesso non bastano assolutamente». L’affanno è diffuso. A Napoli una Asl può dover svolgere ricerche su oltre 400 persone. «Ogni unità operativa territoriale ha circa 15 addetti e ormai quasi tutti fanno il tracing, dal dirigente medico al tecnico, all’infermiere, all’impiegato amministrativo», spiega Lucia Marino della Asl Napoli 1, destinataria di 32 nuovi assunzioni solo per il contact tracing. «Fino a 20 giorni fa riuscivamo a chiamare le persone in pochissimo tempo e a mettere tutti in quarantena, ora siamo in ritardo perché sono veramente tanti», spiega Maria Rosa Fiorentino, assistente sanitaria a Bologna. Altri sottolineano la scarsa collaborazione delle stesse persone contattate: «Alcune accettano la situazione, prendono atto della quarantena, altre mettono in dubbio il tuo lavoro», racconta Rebecca Giazzi, che fa lo stesso lavoro a Piacenza. «Alcune volte veniamo insultati, ma andiamo avanti. Le indagini epidemiologiche sono fondamentali». Per correre ai ripari dall’incontro tra i ministri Speranza e Boccia con i presidenti di regione è scaturito un bando per duemila operatori da inviare nelle Asl: 500 saranno addetti all’inserimento dei dati, 1500 a tamponi e tracciamento dei contatti. Non sarà personale sottratto ad altre Asl, ma «liberi professionisti» o persone senza un’occupazione fissa, che potranno dedicarvisi fino alla fine dell’emergenza. Inoltre, per accelerare le diagnosi i test rapidi antigenici potranno essere effettuati anche in farmacia. E Immuni?  La app creata dal ministero dell’Innovazione doveva automatizzare il lavoro di tracciamento e allerta, sgravando le strutture sanitarie. Dopo un avvio balbettante, ora è installata sul 20% degli smartphone e ogni giorno si registrano oltre 60 mila nuovi download. Ma per ora incide poco: su 232 mila casi da giugno a oggi, finora sono stati solo 1134 (0,5%) i casi in cui la app è entrata in funzione, allertando 22 mila contatti. Le regioni in cui la app si è attivata più volte sono la Lombardia, con 261 casi (lo 0,7%), l’Emilia-Romagna con 100 casi (0,7%), il Lazio con 76 (0,4%). Ma le Asl in molte regioni fanno come se Immuni non esistesse. Il Veneto ha ammesso candidamente di ignorarla per le perplessità sui criteri per individuare i contatti. Immuni è utilizzata poco o niente anche in Campania dove i casi segnalati da Immuni si contano sulle dita di una sola mano: meno dello 0,02% dei casi totali nonostante sia installata sul 9% dei dispositivi. 20 casi in Sicilia, 25 in Sardegna e 27 in Puglia segnalano che in tutto il sud la app è boicottata dalle stesse Asl, incaricate di fornire agli utenti positivi il codice necessario a diramare l’allerta ai contatti. Così la vera app utilizzata per il tracciamento oggi si chiama Whatsapp. «Nella maggioranza dei casi sono gli stessi pazienti a inviare messaggi ai possibili contatti per segnalare la propria positività», racconta Salmaso. Soprattutto nelle scuole, è normale scoprire via chat se un alunno o un docente è in quarantena e se sia il caso di fare un tampone. Risultato: i test vengono prescritti senza una reale valutazione medica, e spesso inutilmente. Mentre chi non frequenta la chat “giusta”, magari per problemi di lingua, rimane escluso dalla prevenzione.

mercoledì 21 ottobre 2020

Video della conferenza di Claudio Vercelli - Venerdì 16 Ottobre 2020

 Per chi non ha potuto partecipare alla conferenza di Claudio Vercelli di Venerdi 16 Ottobre 2020 con titolo:

"La mappa del cambiamento"

L'età presente tra pandemia, 

globalizzazione ed economia digitale 

pubblichiamo i link di accesso ai seguenti video della serata visibili su You Tube:

Presentazione di Massima Bercetti

Relazione di Claudio Vercelli

Replica di Claudio Vercelli in risposta a domande dal pubblico

(è sufficiente cliccare sulle parti della conferenza che si vuole vedere)




lunedì 12 ottobre 2020

Peste nera, spagnola, covid19

             Peste nera, spagnola, covid19

A maggior ragione vista la preoccupante globale ripresa dei contagi di questi giorni è ormai opinione condivisa che la pandemia covid19 stia segnando una  autentica cesura storica, che sia quindi sempre più lecito parlare di un mondo pre ed uno post covid, che i cambiamenti provocati in economia, nella società, in politica, siano così profondi da avere carattere di irreversibilità. Il tempo dirà se così sarà davvero, anche se i segnali in tal senso sono davvero molteplici e significativi, e anche se solo a tempo debito sarà possibile capire se la pandemia avrà in qualche modo contribuito a creare cambiamenti in positivo o in negativo. Ma d’altronde non sarebbe la prima epidemia che segna un radicale cambiamento di rotta per l’umanità. Guardando alla sola Europa è opinione condivisa da tutti gli storici che la collettiva reazione alla famosa “peste nera” di metà Trecento, che in Europa provocò la morte di circa venticinque milioni di persone, un terzo della popolazione europea del tempo, sia stata il vero incubatore dei fermenti culturali, economici e sociali che posero definitiva fine al Medio Evo e che aprirono con il Rinascimento la strada alla Modernità europea. Ma per meglio capire la possibile incidenza storica di covid19 l’altra grande pandemia con la quale confrontarsi è sicuramente quella della cosiddetta “Spagnola” del 1918-1920, i cui numeri restano davvero impressionanti. Sulla base di conteggi per difetto, in due successive ondate la “Spagnola” contagiò in tutto il pianeta circa 500 milioni di persone su una popolazione mondiale inferiore a due miliardi, colpendo quindi un terzo dell’umanità, e provocando perlomeno 50 milioni di morti, vale a dire un tasso di mortalità del dieci per cento dei contagiati. Per puro raffronto numerico per raggiungere tali numeri rapportandoli alla popolazione mondiale attuale covid19 dovrebbe colpire due miliardi e mezzo di persone provocandone la morte di ben duecentocinquanta milioni. A puro livello di cronaca ripercorrendo le ricostruzioni storiche del tempo colpiscono alcune analogie: l’obbligo di mascherine, il divieto di assembramenti e di circolazione, l’istituzione di “zone rosse”, ma soprattutto conforta la grande diversità della risposta sanitaria, la Spagnola di fatto non venne “curata” e smise di colpire solo quando venne raggiunta la tristemente famosa “immunità di gregge”. Ma quello che di più colpisce consiste proprio nella incidenza lasciata dalla Spagnola nel sentire comune del tempo. Può sembrare incredibile ma all’indomani della pandemia l’umanità di allora sembra proprio che abbia operato un’autentica operazione collettiva di rimozione, soprattutto in Europa alla congiunzione della pandemia con i disastri, le tragedie ed i morti provocati dalla Prima Guerra, la popolazione sopravvissuta ha reagito, in molti comportamenti collettivi,  con una sorta di euforia liberatoria. Le tensioni politiche e sociali, e quelle fra Stati, eredità del conflitto mondiale certo non scomparvero, anzi gli anni venti, come è noto, sono stati segnati dai profondi sconvolgimenti che aprirono tragicamente la strada all’avvento di fascismo e nazismo. Eppure tutte le ricostruzioni storiche non sembrano evidenziare particolari reazioni post pandemiche e tantomeno una loro qualche incidenza su questi tormentati scenari. Al punto che, per quanto indietro vada la memoria, nei manuali scolastici di storia l’intera vicenda della Spagnola occupa incredibilmente un ruolo marginale, soprattutto se si considerano i suoi spaventosi numeri. Tre grandi epidemie, tre percorsi storici diversi nel loro svolgersi, nelle reazioni e nei cambiamenti indotti, per le prime due, ed in quelli ancora da decifrare per quella attuale. Sarà sicuramente interessante seguire la relazione che Claudio Vercelli terrà questo Venerdì 16 Ottobre per iniziare a riflettere sulle prime possibili evidenze in questo senso di covid19 sperando con tutto il cuore che il tempo di consegnarla al giudizio degli storici sia sempre più vicino

venerdì 9 ottobre 2020

Il "Saggio" del mese - Ottobre 2020

 

Il “Saggio” del mese

 OTTOBRE 2020

Prosegue, con inevitabile lentezza vista la mole e la complessità dell’opera, la nostra sintesi del saggio di

Thomas Piketty “Capitale ed ideologia.

Questo mese pubblichiamo quella della Parte Seconda, dedicata all’analisi delle disuguaglianze nelle “società schiaviste e coloniali”, che unitamente alla Parte Prima, nella quale sono state analizzate le “società ternarie e proprietaristiche”, completa lo sguardo storico sulla evoluzione della struttura delle disuguaglianze fino agli albori del secolo XX. Per quanto possano sembrare aspetti lontani emerge al contrario dalla trattazione di Piketty l’influenza che queste forme della società hanno avuto sul formarsi delle caratteristiche di fondo di questo secolo, di quello che Piketty definisce il secolo “della grande trasformazione” e che analizzerà nel dettaglio nella prossima Parte Terza, la cui sintesi sarà qui pubblicata appena possibile

                                         Parte seconda

Le società schiaviste e coloniali

Capitolo 6

Le società schiaviste: la disuguaglianza estrema

(Lo studio dell’avvento della società dei proprietari ha comportato uno sguardo concentrato sull’Europa, in questo Capitolo P. inizia ad analizzare l’evoluzione della società ternaria nei paesi extra europei, un processo fortemente condizionato dal peso storico dello schiavismo prima e dal colonialismo poi)

 Società con schiavi, società schiaviste

Lo scopo di P. in questo Capitolo non è certo quello di ricostruire organicamente l’intera vicenda storica dello “schiavismo”, in assoluta la forma più estrema di disuguaglianza, in relazione alle finalità del saggio, intende limitarsi ad evidenziare le connessioni fra la forma di società trifunzionale, o ternaria, con l’eredità storica dello schiavismo, ed il connubio fra la società proprietaristica con le politiche coloniali. L’istituto dello “schiavismo” è una presenza costante e pressoché universale nella storia delle civiltà umane fin dai loro albori, ma per meglio comprenderlo è necessario operare una distinzione “tecnica” fra “società con schiavi” e “società schiaviste”. Questa distinzione è basata esclusivamente sul numero di schiavi rapportato al totale della popolazione, un conto è infatti una loro consistenza contenuta, non in grado quindi di incidere in profondità sulla struttura societaria, un altro invece una loro presenza percentualmente molto alta, pertanto capace di avere un ruolo centrale sulla struttura produttiva e sui rapporti di proprietà. La definizione di “società schiavista” può essere, su questa base, attribuita a molte società dell’antichità, comprese quelle della “classicità” occidentale. A partire dal Medioevo nel contesto europeo la sua applicazione diventa sicuramente più problematica a causa dell’incerta classificazione della “servitù della gleba”, la quale sicuramente ha coinvolto vasti strati della popolazione di quasi tutto il continente e che, per alcuni versi soprattutto per le condizioni di soggezione lavorativa,, poteva essere assimilata a quella schiavistica, ma, a differenza di questa, concedeva titolarità  di alcuni diritti non includibili nella schiavitù pura. Lungo questi stessi secoli la definizione di “società schiavista” resta invece sicuramente applicabile a molti paesi extraeuropei, in ispecie in Africa ed in Oriente, vanno citati fra gli altri il Regno del Congo, il Califfato di Sokono, l’attuale Nigeria, ed il Regno di Aceh, l’odierna Sumatra. Ma se sul suolo europeo si può ragionevolmente escludere la presenza di società schiaviste propriamente dette gran parte delle potenze europee, a partire dal XVI secolo, con l’apertura delle nuove rotte commerciali transoceaniche, si rendono protagoniste dello spaventoso dramma della “tratta di schiavi”, soprattutto atlantica, dall’Africa verso le “colonie” progressivamente insediate nella quasi totalità delle Americhe, ed in alcune significative parti dell’Oriente. Si calcola che tra il 1500 e la fine del 1700, circa 20 milioni di africani furono ridotti in schiavitù, due terzi dei quali tratti verso le Americhe, ed il restante terzo verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Una macchia storica per molti secoli vissuta dalla “cultura” europea nella più totale accettazione di una sua “normalità”. Solo a partire dal XIX secolo, con percorsi molto differenziati e sulla base di motivazioni decisamente contraddittorie, questo impressionante percorso schiavistico inizia a conoscere una reale contrazione, ed è quindi interessante, ai fini dell’analisi, il seguente quadro della consistenza percentuale di schiavi sul totale della popolazione locale riferito alle situazioni coloniali più significative (comprensiva degli Stati del Sud statunitensi divenuti indipendente solo dal 1776) 

Grafico 22


Allineate a quella americana sono le percentuali nei possedimenti coloniali europei nell’area dell’Oceano Indiano, il dato d’insieme che emerge è chiara testimonianza di cosa si debba intendere per “società schiaviste” ed al tempo stesso aiuta a comprendere ancora meglio le dimensioni del fenomeno schiavistico in capo all’Europa. Come si avrà successivamente modo di vedere ancora nel 1860, alla vigilia della guerra civile americana, gli Stati del Sud costituiscono la più alta concentrazione in termini assoluti di schiavi sfruttati, pari a ben 4.000.000. E’ questo il quadro di base sul quale interviene, a partire dai primi decenni del XIX secolo la progressiva abolizione dello schiavismo, un processo che coniuga aspetti ideologici con considerazioni di mera convenienza economica. Accanto alla “nobiltà” di molte delle condanne etiche dello schiavismo non può infatti essere taciuta la rilevanza delle valutazioni utilitaristiche che hanno progressivamente indotto a sostituire la “tratta”, sempre più costosa e complicata da gestire, con l’autoriproduzione naturale della popolazione schiavizzata già presente in loco. Questa scelta ha contribuito, nel corso del 1700, a determinare in misura molto significativa le impressionanti percentuali del precedente grafico. Il lento e complesso processo di superamento dello schiavismo “moderno” che si realizza nel corso del XIX secolo si innesta quindi con il contemporaneo passaggio dalla “società ternaria” a quella “proprietaristica” analizzato nella precedente Parte Prima. Se quindi è storicamente innegabile la totale accettazione dello schiavismo da parte delle società ternarie europee, basata da una parte sul pregiudizio ideologico della sua “naturalità”, ereditato dalla stessa classicità, e dall’altra sul rilevante peso economico delle colonie, aspetto questo decisivo per la loro stessa prolungata sopravvivenza, allo stesso modo il successivo percorso di soppressione dello schiavismo è stato analogamente ispirato dalle logiche proprietaristiche, ed in particolare dalla sacralità del “diritto alla proprietà”. Non a caso le Leggi adottate per sancire formalmente l’abolizione della schiavitù, ad esempio nel 1833 e 1843 nel Regno Unito, e nel 1794 – 1848 in Francia, hanno contemplato indennizzi molto sostanziosi per i proprietari di schiavi mentre assolutamente nulla hanno previsto per compensare degli spaventosi danni subiti, da loro e dai loro progenitori, dagli schiavi. Anche i più “nobili” abolizionisti, Tocqueville compreso, non hanno mai messo in discussione il riconoscimento, basato sulla sacralità del “diritto alla proprietà”, di un “danno subito dai proprietari di schiavi. I quali rientravano a pieno titolo nel novero delle voci che componevano patrimoni e attività economiche al pari di immobili, terre, titoli azionari. “Mansfield Park” di Jane Austen è un perfetto racconto di questa mentalità proprietaristica. E non si tratta di indennizzi formali, sia per la Francia che per il Regno Unito si calcola che le somme corrisposte abbiano rappresentato diversi punti percentuali della ricchezza totale del tempo, mediamente valutabili attorno al 5%. E va inoltre tenuto in debito conto che esborsi così significativi, finanziati dal debito pubblico, hanno rappresentato una risorsa finanziaria molto rilevante per l’insieme dei processi economici e finanziari di rafforzamento del nascente capitalismo. Una situazione esemplare sia per comprendere l’ammontare degli indennizzi sia per valutare la loro incidenza, in questo caso in negativo, sui processi economici è la fine dello schiavismo ad Haiti. Questa colonia francese ha rappresentato la prima formale abolizione della schiavitù dell’epoca moderna, essendo stata obtorto collo concessa dalla Francia nel 1825 al termine della vittoriosa ribellione degli schiavi haitiani, unica fra le tante ribellioni fallite che hanno comunque costituito una delle principali ragioni, anch’essa di pura valutazione economica, per l’accettazione della fine dello schiavismo. L’indennizzo chiesto dalla Francia al neonato governo di Haiti fu fissato in 150 milioni di franchi-oro pari al 2% di tutte le entrate francesi del tempo, e valutabile ina oltre 40 miliardi di euro attuali, ma soprattutto al 300% delle entrate haitiane del 1825. Questo debito è stato definitivamente estinto nel 1950!!!! Ed ha quindi rappresentato a lungo una pesantissima zavorra per lo stato haitiano tale da condizionarne l’intera crescita economica. Altri due situazioni schiavistiche, gli Stati Uniti ed il Brasile, sono di fondamentale importanza per comprendere l’incidenza dello schiavismo sugli scenari economici e produttivi, sulle forme della società e sulla collegata struttura delle disuguaglianze. Il caso statunitense in particolare è particolarmente significativo sia per le specifiche modalità di abolizione avvenuta a seguito della violenta guerra civile 1861-1865, sia per il contradittorio rapporto con il suo successivo ruolo di “faro della democrazia mondiale”, vantato pochi decenni dopo soprattutto dal Partito Democratico al tempo accanito sostenitore del mantenimento dello schiavismo proprio in nome del “diritto alla proprietà”. La seguente tabella attesta come ancora per tutta la prima parte dell’Ottocento lo schiavismo negriero statunitense sia continuato a crescere:

Tabella 3

Il seguente grafico visualizza, per lo stesso periodo, l’andamento percentuale degli schiavi sul totale della popolazione in cinque degli Stati chiave del Sud ed in tre del Nord

Grafico 23


P. ha in precedenza lamentato la mancanza di una maggiore disponibilità di dati e la loro migliore precisione, così non è per la situazione americana in quanto, a partire dal 1790 e con cadenza decennale, il censimento degli schiavi venne fatto con molto rigore essendo uno dei fattori per determinare i seggi della Camera ed i “grandi elettori” per la scelta del Presidente. E quindi i dati riassunti nella Tabella e nel Grafico evidenziano con esattezza la situazione schiavistica degli Stati del Sud americani in gran prevalenza finalizzata alla produzione di cotone della quale costituiva l’asse economico portante. I motivi di crescente contrasto fra Stati del Nord e del Sud, creati dalla diversità economica e produttiva che implicava una profonda differenza di struttura del mercato del lavoro, ed una conseguente inconciliabilità di opinioni sul mantenimento dello schiavismo, sono, come è noto, esplosi nella cruentissima Guerra Civile al termine della quale l’abolizione della schiavitù venne decisa, di imperio, per tutti gli Stati americani. Tale totale inconciliabilità ha reso peraltro impraticabile la stessa formula della compensazione già del suo molto problematica stante il possibile enorme ammontare degli indennizzi dovuti per l’altissima percentuale di schiavi. A distanza di più di un secolo da tale drammatica frattura restano tuttora vive le eredità conflittuali dell’abolizionismo, il tormentato superamento dello schiavismo ha infatti lasciato aperte profonde ferite nel tessuto sociale e politico statunitense come ben testimoniano persistenti recenti fatti di cronaca. L’impossibilità di una via di uscita simile a quella, comunque tutt’altro che nobile, adottata in Europa ha di fatto spostato il conflitto dal terreno economico a quello culturale e ideologico divenendo la matrice del razzismo bianco e costituendo una base fondamentale per la stessa attuale struttura delle disuguaglianze economiche negli USA. Altrettanto ricca di insegnamenti è la vicenda dell’abolizione della schiavitù in Brasile avvenuta solamente nel 1888 al termine di un percorso segnato da alcune particolarità. A differenza degli Stati Uniti il Brasile, colonia portoghese, non ha visto un rilevante aumento del numero di schiavi, avendo puntato ancora per tutto il XIX secolo solamente sulla tratta diretta dell’Africa e non sull’incremento naturale, che resta infatti stabile attorno al milione e mezzo. Questa relativa stabilità si è poi intrecciata con un fenomeno, molto più accentuato rispetto agli Stati Uniti, di “meticciato”, figli di uomini liberi e schiave, e di “emancipazione”, favorita in particolare dalla legge, denominata “ventre libero”, che affrancava i figli nati da donne schiave a fronte del loro impegno di servire fino al compimento dei 21 anni il proprietario delle madri. L’insieme di questi fenomeni, avvenuto in un contesto di demografico di forte crescita, ha progressivamente “annacquato” l’incidenza percentuale dello schiavismo in Brasile passata dal 50% del 1750 al 15-20% del 1880. Ciò non ha di certo significato che le condizioni di vita degli ex schiavi siano state differenti da quelli rimasti schiavi, nelle piantagioni di canna da zucchero, di caffè e nelle miniere lavoravano e vivevano nelle identiche disumane situazioni. Non a caso si sono registrate numerose e ripetute rivolte che hanno infine indotto la Camera ed il Senato brasiliani, espressione dei padroni di schiavi, ad accettare l’invito dell’Imperatore Pedro II (la corte di Lisbona aveva abbandonato il Portogallo in piena era napoleonica ed aveva trasformato la colonia brasiliana in uno Stato indipendente con forma Imperiale) ad abolire formalmente la schiavitù, lasciando peraltro del tutto invariata la struttura proprietaristica dell’economia brasiliana.

 

Capitolo 7

Le società coloniali: eterogeneità e potere

(In cui P. dopo aver esaminato le “società schiaviste” analizza quelle coloniali concentrando l’attenzione, anche in questo caso, sul loro intreccio con la “società dei proprietari” e la sua completa evoluzione nel moderno capitalismo

Le due fasi del colonialismo europeo

Il discrimine fra una “società schiavista” ed una “società coloniale” è difficilmente rintracciabile guardando al reale livello di disuguaglianza economica ed alle concrete condizioni di vita della parte più povera della popolazione, consistendo in misura prevalente in una ridotta disuguaglianze sociale inquelle coloniali, le quali, perlomeno formalmente, prevedevano il diritto alla mobilità, quello alla vita privata e familiare e, con fortissimi limitazioni concrete, quello alla proprietà. Nel proseguo del Capitolo verrà comunque analizzato nello specifico il regime delle rispettive disuguaglianze economiche per meglio cogliere eventuali similitudini e diversità e conseguentemente gli elementi delle loro eredità sulla attuale struttura delle disuguaglianze. Come per le società schiaviste non è certo scopo di questo saggio la storia generale delle società coloniali, P. infatti si limita, coerentemente con quanto appena prima, a estrapolare gli elementi più significativi per l’analisi delle evoluzioni che ne sono seguite. In generale si distinguono due fasi storiche di colonizzazione: la prima inizia all’alba del Cinquecento con l’apertura della vie marittime transoceaniche e termina tra il 1800 ed il 1850, la seconda succede temporalmente alla prima per terminare, quasi ovunque, tra il 1900 ed il 1940. Se nella prima è evidente una logica di pura “guerra e rapina”, nella seconda, mutato lo spirito dei tempi e scontata comunque l’esistenza di diversi elementi di continuità, compare un atteggiamento meno prepotentemente rapinoso. Analogamente al precedente criterio di distinguere “società con schiavi” da quelle “schiaviste” per le società coloniali vale il discrimine fra quelle con popolazione prevalentemente di origine europea da quelle in cui questa presenza è minima. Questo criterio consente di cogliere il succedersi di tre distinte fasi: una prima, quella di inizio della colonizzazione, in cui prevale la seconda condizione, seguita da una seconda che vede, stante il drammatico e per molti aspetti criminale crollo demografico delle popolazioni autoctone, emergere un superiore popolamento europeo, basta pensare all’intera America ed all’Australia, per chiudere con una terza, quella del secondo periodo coloniale, che torna a vedere in generale, ma con una grande varietà di situazioni, una presenza limitata di abitanti europei. Fatto salvo questo quadro a grandi linee è interessante definire, verso la fine delle rispettive vicende coloniali, questa varietà di situazioni in quanto indice di una corrispondente diversità delle politiche coloniali messe concretamente in atto. Il seguente grafico evidenzia l’incidenza percentuale del numero di europei sul totale della popolazione in alcune delle più significative società coloniali della seconda fase:

Grafico 24

E’ evidente la grande disparità fra i due estremi all’interno di una situazione che vedeva, ancora nella prima metà del Novecento, l’esistenza di una consistenza coloniale molto elevata sia come numero di paesi occupati sia come consistenza delle popolazioni coinvolte: nel 1938 l’Impero coloniale inglese aveva una popolazione totale di 450 milioni di abitanti a fronte di 45 milioni di residenti nel Regno Unito, e negli stessi anni quello francese, che peraltro vedeva nelle colonie del Nord Africa le percentuali più alte di coloni francesi, circa 95 milioni di abitanti a fronte dei 40 milioni residenti in Francia. Nel primo caso emerge quindi una politica coloniale, basata su una presenza ridotta di militari e personale tecnico amministrativo preposti allo sfruttamento delle risorse locali ed al controllo, sempre molto ferreo, delle popolazioni locali. Nel secondo, applicabile anche a quelle, sparute, italiane, la colonia era anche vista come un territorio nel quale insediare quote significative di cittadini della madre patria per risolvere problematiche occupazionali ed economiche interne. E’ comunque questo il quadro di riferimento per entrare nel dettaglio del regime delle disuguaglianze che in tutte le società considerate, schiaviste e coloniali dei due tipi, hanno qui raggiunto in generale le punte massime mai registrate nella storia. Alcuni dati per cogliere questa evidenza: a Santo Domingo, dove nel 1790 la percentuale di schiavi superava il 90%, (vedi Grafico 22) la sparuta minoranza di coloni francesi si appropriava dell’80% della ricchezza prodotta con il 20% residuo che a malapena garantiva la mera sopravvivenza del 90% schiavizzato. Analoghe percentuali sono riscontrabili in tutte le società schiaviste delle Antille e dell’Oceano Indiano. Appena leggermente diversa era la situazione nelle società schiaviste, come il Brasile e gli Stati del Sud degli USA, che avevano una percentuale di schiavi inferiore (sempre Grafico 22), qui il decile superiore si “accontentava” di una percentuale di ricchezza intorno al 60-70%. Questo dato storico vale come utile riferimento per cogliere la dinamica storica che, sul terreno delle disuguaglianze economiche, si è evoluta con il passaggio alle società coloniali. Un primo grafico permette di coglierla mettendo a raffronto la quota di ricchezza posseduta dal 50% più povero, dal 40% medio e dal 10% più ricco in tre situazioni esemplari: Haiti 1780, pieno schiavismo, Algeria 1930, culmine vicenda coloniale, Francia 1910, come si è visto nella Parte Prima, il punto più alto di disuguaglianza raggiunto in piena epoca proprietaristica, la Belle Epoque:

                                                                   Grafico 25


Appare visivamente evidente che la situazione dell’Algeria, emblematica colonia francese, è, soprattutto grazie al peso di un ceto medio in buona misura rappresentato da autoctoni reclutati nell’amministrazione pubblica algerina, abbastanza distante da quella davvero tragica di Haiti, ma con un livello di disuguaglianza pur sempre di molto superiore a quella francese del 1910. Questa situazione, già del suo paradigmatica, acquista ancora più evidenza se inserita in un contesto spazio-temporale più ampio, è quanto si coglie nel seguente grafico che mette a confronto la quota di ricchezza annuale detenuta dal decile superiore in una scala che va dalla massima disuguaglianza rilevata, Haiti 1780, a quella storicamente più bassa registrata in Svezia negli anni Ottanta del Novecento

Grafico 26


Anticipando le considerazioni che P. svilupperà nella prossima Parte dedicata alla “Grande trasformazione del 1900” questo grafico permette di cogliere bene la “commistione” che, lasciata alle spalle la tragedia schiavista di Haiti 1780, vede mescolate situazioni contemporanee con quelle rilevate al culmine delle vicende coloniali ed infine il dato “a sé stante” della Svezia. Per quanto concerne le società coloniali va sempre sottolineato che, in aggiunta alla evidente disuguaglianza economica, il decile superiore è composto esclusivamente dai coloni più ricchi. Il successivo grafico consente, fermo restando questo aspetto, di mettere a confronto le traiettorie di alcune ex colonie con quella francese rilevandone la percentuale in capo al decile superiore ad una data nel pieno della fase coloniale con una a questa successiva

Grafico 27

Se si rileva per tutte le ex colonie una fisiologica riduzione della concentrazione di ricchezza, a fronte dell’ormai insostenibile livello raggiunto nel periodo coloniale, è pur vero che tale riduzione non appare così radicale e che, analogamente con il percorso francese e con il quadro globale, gli anni duemila vedono una significativa ripresa verso l’alto.

Massima disuguaglianza nella proprietà, massima disuguaglianza nel reddito

Questi stessi dati, che confermano la caratteristica delle società coloniali, per non dire di quelle schiaviste, di essere le società con i livelli massimi di disuguaglianza raggiunta nella storia, richiedono, secondo P., una fondamentale distinzione fra il problema della ripartizione della proprietà da quello della ripartizione del reddito. La prima di queste due disuguaglianze, quella della proprietà, consiste nel livello di concentrazione, nelle mani del 10% più ricco, ed al suo interno dell’1% più ricco, di tutta la ricchezza privatamente possedibile in una determinata società. A livello teorico un alto livello di questa disuguaglianza pone evidenti problemi politici ed ideologici, ma dal punto di vista dell’esistenza materiale non necessariamente implica una situazione ingestibile. Nel senso che, anche immaginando una situazione di totale concentrazione del 100% della ricchezza nelle mani del 10% più ricco, ma fatto inevitabilmente salvo il livello minimo di sussistenza per il 90% restante, un adeguato potere di repressione, o di persuasione, può contenere la tensione sociale che ne deriva. La disuguaglianza di proprietà è quindi innanzitutto una disuguaglianza di potere. Diverso è invece il contesto per il livello di disuguaglianza del reddito, ossia del livello di concentrazione della ricchezza prodotta in una determinata società in un anno. Se, come si è detto, è possibile, a livello teorico, vivere senza possedere nulla non è viceversa possibile, per ragioni di mera sopravvivenza fisica degli esclusi, immaginare una analoga concentrazione del reddito prodotto. In una società molto povera che produce il solo reddito di sopravvivenza di fatto non può esservi disuguaglianza. Solo se la società è progressivamente più ricca diventa possibile sostenere una parallela progressione della disuguaglianza da reddito. Il seguente grafico consente di visualizzare il rapporto tra il livello di reddito prodotto e la sua concentrazione in capo al 10% ed all’1% più ricchi, è la curva della disuguaglianza massima

Grafico 28

Se, come si è appena detto, il reddito prodotto fosse pari ad 1, ossia al livello minimo per la sopravvivenza di tutta la società non potrebbero sussistere condizioni per l’emergere di disuguaglianze, la progressione della loro curva, sempre fatto salvo il mantenimento della quota di ricchezza necessaria per la sopravvivenza del restante 90% della popolazione, è matematicamente legata alla progressione del reddito prodotto. Per sostenere i massimi livelli di concentrazione del reddito, sin qui riscontrati in tutte le situazioni storiche esaminate e pari al 60%-70%, è quindi necessario che la ricchezza prodotta sia almeno tre volte tanto quella necessaria per la sopravvivenza del restante 90% della popolazione. A completamento di questo aspetto analitico occorre precisare che la nozione di “reddito di sussistenza” non è comunque un valore esclusivamente matematico, in quanto in esso confluiscono elementi che variano, anche di molto, in relazione allo specifico contesto sociale storico. Vale a dire che se resta importante la valutazione matematica della sostenibilità delle disuguaglianze, il ruolo della capacità ideologica, politica ed istituzionale di giustificare e strutturare la disuguaglianza, in tutte le sue articolazioni istituzionali e sociali, resta fondamentale, tanto da renderla possibile anche indipendentemente dai vincoli strettamente economici e tecnologici. La lezione storica ricavabile dalle società schiaviste e coloniali è esattamente questa: il peso delle condizioni di potere politico ed ideologico

I bilanci coloniali

Tornando quindi alla concreta evoluzione delle società coloniali quanto evidenziato nel paragrafo precedente diventa evidente nell’analisi dei bilanci coloniali i quali dimostrano quanto sia stata falsa e strumentale la principale giustificazione ideologica avanzata dalle potenze coloniali: quella della “missione colonizzatrice”, vale a dire della presunta vocazione a promuovere lo sviluppo economico delle popolazioni colonizzate grazie alla diffusione, attuata “a fin di bene” dai colonizzatori, della scienza, del sapere, della tecnologia. I bilanci raccontano tutt’altra storia. A supporto della giustificazione “colonizzatrice” è stato infatti vantato il costante equilibrio dei bilanci coloniali, ovviamente statali le ricchezze private non rientrano di certo in questo conteggio, vale a dire bilanci in cui tutto quanto il raccolto delle imposte locali veniva speso “in loco”. L’esame di questi bilanci fatta da P., e dall’insieme delle ricerche di cui si è detto nell’Introduzione, ha evidenziato evidenti contraddizioni sia sul fronte delle entrate che delle uscite. La tassa coloniale standard era una tassa “piatta”, la fantomatica “flat tax”, di cui molto si parla di questi tempi, vale dire una percentuale di prelievo fiscale pro-capite uguale per tutti, ossia la forma più grezza di tassazione già superata in Europa nel 1700 ancora in pieno Ancient Régime. Per le colonie ciò ha semplicemente significato che le entrate fiscali erano di fatto quasi totalmente coperte dai colonizzati. Al contempo le voci in uscita che di più incidevano sul bilancio erano quelle per il mantenimento dell’apparato amministrativo coloniale e delle truppe di occupazione. Vale a dire che i colonizzati pagavano per intero chi li vessava e li controllava. Gli investimenti sulle infrastrutture, in alcuni casi anche importanti e vantati come testimonianza della “missione colonizzatrice”, sono stati però del tutto funzionali al prelievo e trasporto, in prevalenza verso la madre patria, delle risorse locali. Ma è la spesa per l’istruzione, ossia l’investimento più significativo per una vera finalità di avanzamento sociale ed economico dei colonizzati, quella che al contrario meglio testimonia questa ipocrisia ideologica. Ne è evidente testimonianza questo raffronto fra il livello di spesa per l’istruzione sostenuto nella madre patria con quello di una delle colonia più importanti per l’Impero francese, l’Algeria

Grafico 29


Il raffronto è davvero impietoso: in Algeria, nel 1950 al culmine storico della occupazione coloniale, la spesa per l’istruzione era assorbita per più dell’80% dal decile più ricco, vale a dire i locali coloni, mentre in Francia nel 1910, ossia nella fase di maggiore disuguaglianza della società dei proprietari, il decile più ricco contava “solo” sul 38% della spesa, poco più di quanto destinato al ceto medio, ed al 50% più povero comunque era assegnato un 26% che valeva da solo ben più dell’insieme della spesa algerina per il 90% della popolazione locale. Questo dato algerino rappresenta il quadro standard di tutte le società coloniali.

Lo sfruttamento schiavista e coloniale in prospettiva storica

E’ pur vero che questa condizione di sfruttamento in loco era facilmente soggetta a turbolenze di vario genere, le economie locali, improntate al massimo prelievo possibile di ricchezza, erano, per la loro attrattività di guadagno, caratterizzate da una forte, e spesso spietata, concorrenza in loco fra compagnie e privati. Molti dei romanzi di Marguerite Duras raccontano proprio le vicissitudini, spesso rovinosamente perdenti, di ricche famiglie di coloni. Per meglio cogliere la struttura economica delle società coloniali è quindi utile valutare, oltre ai bilanci locali delle colonie, anche la loro incidenza su quelli centrali delle potenze colonizzatrici, e quindi dei profitti finanziari, pubblici e privati, che furono tratti dalle colonie. Alcuni dati, emblematici di una tendenza storica condivisa e di lunga durata, rendono chiaro il quadro:

  • ·       nel 1790, all’indomani della Rivoluzione della “Egalitè” e della “Fraternitè”, le entrate dalle colonie, a margine netto detratte cioè tutte le spese collegabili, erano pari al 7% del bilancio statale della Francia
  • ·      nel decennio 1789-1790 l’incidenza di questi profitti sul bilancio nazionale inglese era pari al 4-5%
  • ·     passando poi al secondo periodo coloniale (1850-1960), quello della massima estensione dei possedimenti realizzati,  si rileva, come dato emblematico, che le attività oltremare costituivano il 20% dei patrimoni francesi

·      il seguente grafico evidenzia, raffrontandola con il percorso di altre nazioni, l’evoluzione storicadel valore dei possedimenti coloniali dei due Imperi coloniali per eccellenza: quello francese e quello inglese

Grafico 30

Va precisato che i dati di questo grafico, che riassumono l’evoluzione del valore delle proprietà possedute all’estero al netto di quelle interne detenute da proprietari esteri, solo per Regno Unito, Francia e Germania vanno intesi in riferimento a possedimenti “coloniali”, i dati di Giappone, USA e Cina sono stati inseriti al solo fine di evidenziare l’irripetibilità dei valori raggiunti nel pieno delle “società coloniali”. Ed è questo l’aspetto più rilevante a giudizio di P.: la specifica struttura delle disuguaglianze di una buona parte delle nazioni europee è stata fortemente condizionata dall’ammontare delle risorse provenienti dalle colonie e quasi esclusivamente rimaste a disposizione del decile già più ricco. Dal grafico 30 si può ad esempio rilevare che nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra, il saldo attivo fra i titoli detenuti all’estero e quelli interni detenuti dall’estero valeva per il Regno Unito il 180% del reddito nazionale, vale a dire quasi due anni di PIL, per la Francia un significativo 120%, mentre la Germania, ultima arrivata nel novero delle potenze coloniali, doveva “accontentarsi” di un 40%. Ed è proprio il lungo conflitto prima europeo e poi mondiale, che inizia con la Prima Guerra e si chiude con la seconda con un assetto internazionale completamente mutato, che sancisce la definitiva scomparsa delle “società coloniali”. Dal secondo dopoguerra le nuove logiche di mercato, le diverse ideologie che le sostengono, disegnano un quadro dei rapporti fra paesi ricchi e paesi poveri non meno sbilanciato ma con livelli di “rapina” decisamente mutati. Il grafico 30 evidenzia bene questo cambiamento, le tre potenze più rappresentative del quadro di fine secolo ottengono ricavi percentuali decisamente inferiori. Il governo economico del mondo non resta meno concentrato ma ha altre forme e si articola su flussi diversi. Gli attivi nei bilanci del commercio con l’estero non servono solo più a trasferire ricchezza all’interno, ma sempre più spesso sono utilizzati per acquisire, all’interno di holding mondiali, fonti di ricchezza all’estero. P. chiude questo capitolo citando, anche in questo caso, un romanzo, “Questa terra dell’uomo” di Pramoedya Amanta Toer, che racconta magnificamente le contraddittorie relazioni tra i due protagonisti, l’indigena Sanikem ed il colono olandese Herman, nell’isola di Giava intorno il 1875, a testimonianza della brutalità delle disuguaglianza coloniale.

 

Capitolo 8

Società ternarie e coloniali: il caso dell’India

(In cui P.  si sofferma in modo approfondito sulle disuguaglianze, ternarie e coloniali, dell’India vista come caso esemplare dell’intreccio fra ideologie “antiche” e “moderne”. La sintesi che proponiamo di questo Capitolo è ancor più stringata per non appesantire oltre misura la lettura dell analisi, quella delle società coloniali, già sviluppata nei Capitoli precedenti.

L’invenzione dell’India

L’India è una situazione significativa non solo perché è dalla metà del XX secolo la “più grande democrazia del mondo”, non solo perché si avvia ad essere il paese più popoloso, ma per le specifiche caratteristiche della sua struttura delle disuguaglianze e della ideologia che la sostiene. Senza tentare di addentrarsi nella ricostruzione delle complicate vicende storiche che l’hanno preceduta - ancora nel XVIII secolo, mentre le truppe britanniche ne stavano completando l’occupazione tutto il sub-continente indiano era diviso in numerosi Stati, indù e mussulmani – il nome India ha assunto una sua specifica connotazione nazionale, unitamente a quelle del Pakistan e del Bangladesh, solo nel 1947 con la fine del Raj britannico, l’Impero anglo-indiano. In un certo qual senso quindi l’occupazione coloniale inglese è stata la vera creatrice dell’attuale Repubblica Indipendente dell’India avendone unificata l’estensione territoriale. Una nazione che, anche per quanto concerne la struttura delle disuguaglianze, non può essere compresa senza tenere nella più alta considerazione possibile il suo panorama storico-religioso. Il seguente grafico, relativo all’incidenza percentuale di induisti – mussulmani – altre religioni sul totale della popolazione, aiuta a visualizzare questo sua fondamentale aspetto

                                                                    Grafico 31

Vero è che nella denominazione “induista” confluiscono, secondo i criteri dei censimenti, tutti coloro che non dichiarano apertamente di appartenere ad altre religioni ufficiali ma è indubbio che, con frequenti tensioni anche violente con le altre confessioni, è lecito definire l’India un paese induista. Questo aspetto, coniugato con la fortissima influenza della religione sull’intero vivere sociale, ha determinato in modo decisivo la struttura delle disuguaglianze indiane. Il “libro” della religione indù, il “Manusmriti” o “Codice delle Leggi”, indica con chiarezza la divisione di tutti i fedeli in quattro “varna”, quattro caste,. Ad ogni casta corrisponde una precisa funzione sociale. Alla prima casta appartengono i “bramini”, i sacerdoti, addetti a tutte le funzioni intellettuali, alla seconda i “kshatriya”, i guerrieri, cui fanno capo l’ordine e la sicurezza, alla terza i “vaishya”, i lavoratori del commercio e dell’artigianato, ed infine la quarta, la più umile, quella dei “shadra”, alla quale spetta il compito di essere al servizio delle altre tre. Agli appartenenti a queste è garantita, grazie al loro “nascere due volte”, grazie al rito dell’ “iniziazione”, la loro eterna immutabilità sociale, ai soli “shadra” resta la speranza di una vita migliore in futuro grazie alla “reincarnazione”. Si è già visto nel commento Grafico 8 della Parte Prima che i Bramini, a differenza del clero occidentale, rappresentano una classe sociale a tutti gli effetti in quanto era loro riconosciuto il diritto di sposarsi, di arricchirsi e di trasmettere patrimoni per via ereditaria, fino al punto di aver costituito fino alle soglie dell’Indipendenza indiana la vera classe dirigente indiana. Come per la “società trifunzionale” occidentale questa suddivisione sociale, in effetti “trifunzionale” se si inglobano, come nella realtà avveniva, le ultime due classi in quella unica dei “lavoratori”, era il fulcro, di ispirazione religiosa, di un dispositivo ideologico che giustificava pienamente, ed in modo non contestabile, la struttura delle disuguaglianze. In effetti la società indiana è da sempre articolata in un insieme di categorie e identità sociali molto più complesso della divisione in quattro caste, al cui interno si muovono incessantemente figure sociali, denominate “jàiti”, definite dal concreto ruolo sociale svolto nelle singole realtà locali. I censimenti introdotti dall’Impero britannico, dopo una prima ripartizione nelle quattro caste, le sole conosciute al momento iniziale dell’occupazione coloniale, hanno progressivamente registrato migliaia di jàti a comporre una stratificazione sociale del tutto unica e non paragonabile a quella occidentale. Banalmente lo stesso lavoro, la stessa mansione, aveva, ed ancora ha, molte declinazioni sociali a seconda della comunità locale in veniva svolta. Questo ha implicato una mobilità sociale più ampia, seppure ristretta nell’ambito dell’appartenenza di casta, di quella da questa ufficialmente sancita, a comporre un quadro che ha comunque attraversato pressochè intatto tutta la fase coloniale consegnando alle complessità contemporanee un’India storicamente impossibilitata ad evolversi, come per l’Europa, nella fase intermedia della “società dei proprietari”. Il seguente grafico, basato sulle dichiarazioni di appartenenza di casta rese nei censimenti, evidenza infatti, con riferimento alle quattro caste, il peso in percentuale sul totale della popolazione e la costante stabilità di divisione sociale e della collegata disuguaglianza

Grafico 32

L’India indipendente ha in effetti attuato da subito politiche volte a correggere il quadro sociale ereditato dal passato per eliminare quantomeno gli aspetti più eclatanti della divisione per caste. Sono stati introdotte leggi per abolire i privilegi di casta e attuate politiche per migliorare i servizi pubblici di istruzione, sanità e assistenza sociale per le due caste basse, va da sé non senza problemi e  limiti, dovuti alle ristrettezze finanziarie ed ai numeri impressionanti delle persone coinvolte. Sono inoltre rimaste aperte gravi contraddizioni a partire dalle occasioni per il riaffacciarsi di continue tensioni con la minoranza mussulmana. Ma l’insieme delle politiche adottate, raggruppate nella parola d’ordine “discriminazione positiva”, ha consentito, riducendo i privilegi delle due classi alte, di coinvolgere positivamente il 70% della popolazione delle due classi basse. Nella successiva Parte Quarta P. riprenderà in esame la situazione indiana nell’ambito dell’analisi dell’attuale struttura mondiale delle disuguaglianze, ma comunque già evidenzia in questo Capitolo l’insufficienza ideologica delle azioni intraprese. Il cumolo delle disuguaglianze indiane si basa certamente sulla “discriminazione negativa”, retaggio del passato lasciato del tutto intatto dalla fase coloniale, ma anche sulla altissima diversità di ricchezza patrimoniale per nulla toccata dalle riforme messe in atto, quella fiscale in primis. La ragione ideologica avanzata è del tutto simile a quella europea al formarsi della “società dei proprietari, vale a dire il timore che politiche attive di redistribuzione della ricchezza si trasformino in un incontrollabile “scoperchiamento del vaso di Pandora”. Non a caso ancora ai primi del 2000 lo slogan del partito BSP, rappresentante delle due caste basse nell’Uttar Pradesh, recitava “Sacerdoti, mercanti, soldati, cacciamoli via per sempre”, a testimoniare ferite tutt’altro che lenite.

 

Capitolo 9

Società ternarie e coloniali: traiettorie euroasiatiche

(In cui P.  , prima di iniziare ad affrontare la crisi delle società proprietaristiche e coloniali completa l’analisi globale del colonialismo e delle sue conseguenze sull’evoluzione delle disuguaglianze nei paesi extraeuropei. Anche per questo Capitolo la sintesi sarà la più stringata possibile anche in relazione al fatto che molte delle tematiche saranno comunque riprese nelle Parti successive

Il colonialismo, il predominio militare e la ricchezza occidentale

Prima di completare la panoramica globale dell’effetto sulla struttura delle disuguaglianze per i paesi investiti dalla occupazione coloniale P. analizza le ragioni storiche, le ideologie che le hanno sostenute, e le convenienze economiche che hanno determinato, delle politiche coloniali europee. La domanda di fondo può essere tradotta nel chiedersi come sia stato possibile che alcune potenze europee sia state in grado di imporre il loro controllo coloniale non solo sulle parti del mondo precedentemente occupate da società relativamente deboli ed in netto ritardo tecnologico, ma anche su zone sotto il controllo di imperi millenari di grande estensione e di notevole cultura anche tecnologica. In precedenza P. ha ritenuto opportuno suddividere l’esperienza coloniale europea in due distinte fasi: una prima che inizia all’alba del Cinquecento con l’apertura della vie marittime transoceaniche e termina tra il 1800 ed il 1850, che investe totalmente il continente americano e che inizia a porre le basi per la successiva espansione globale, ed una seconda che succede temporalmente alla prima per terminare tra il 1900 ed il 1940 e che “colonizza” in pratica l’intero pianeta. E’ soprattutto su questa seconda fase che P. concentra la sua attenzione in questo Capitolo. La tesi che qui sostiene, riprendendo analisi diffusamente condivise nell’ambito degli studi storici, è quella che ritiene che, paradossalmente, la divisione europea in molti Stati, relativamente piccoli ed in perenne contrasto, anche bellico, fra di loro, sia stata la molla, ideologica e concretamente operativa, per il successivo successo coloniale, reso possibile proprio dalla capacità fiscale ed amministrativa messa in atto per fronteggiare le dinamiche interne europee. L’analisi storica di lungo periodo dei bilanci statali evidenzia che un prelievo fiscale che si assesti attorno a percentuali non superiori al 2%-3%, con le risapute differenze di classe al loro interno, non consente di rafforzare più di tanto la struttura statale e quindi le funzioni da esso attivabili. Queste percentuali sono state quelle effettivamente praticate dalla maggior parte degli Stati di tutto il pianeta, salvo prelievi forzosi temporalmente limitati a specifiche esigenze, e tali sono rimaste, fino al XIX secolo, per tutti quelli extraeuropei mentre, a partire dal 1500 quelli europei, per fronteggiare le costanti spese, soprattutto militari, connesse con la conflittualità di cui si è detto, sono stati costretti ad aumentarle significativamente. Consente di visualizzare questi distinti trend il seguente grafico, che mette a confronto le entrate fiscali delle tre potenze europee più attive nella seconda fase coloniale con quelle dei due più grandi imperi exxtraeuropei colpiti dall’espansione coloniale (la specifica situazione dell’India è stata analizzata nel precedente Capitolo 8) calcolate sul livello di prelievo in giornate di salario di un lavoratore non qualificato, essendo il raffronto sulle entrate monetario di difficile attuazione stante la notevole diversità delle valute

Grafico 33

Tradotte, nei limiti del possibile, in percentuali di prelievo fiscale le curve evidenziano che i tre paesi coloniali europei iniziano ad elevarle, dalla comune base di partenza dell’1%-2% attorno al 1500, al 6%-8% verso il 1750 per poi balzare all’8%-10% del 1850. I due Imperi extraeuropei si mantengono costanti, lungo l’intero arco temporale in esame, attorno a valori percentuali del 2%. Appare quindi possibile affermare che le pressioni derivanti dai molti secoli di dispute territoriali europei siano state la molla per arrivare ad un gettito fiscale in grado di approntare un apparato militare, ed una collegata struttura amministrativa, decisamente consistente e spendibile in più direzioni. Mentre, negli stessi secoli, la relativa tranquillità di controllo dei propri territori imperiali non è stata di adeguato stimolo ad analoghi potenziamento e ammodernamento per i due grandi Imperi esaminati. I quali all’appuntamento della storia che li ha visti fronteggiare l’invadenza europea sono pertanto arrivati in condizioni di evidente inferiorità. La consapevolezza di disporre di un potenziale molto elevato coniugata con quella dell’importanza di assicurarsi fonti costanti delle risorse sempre più necessarie alla crescita economica sono alla base del definirsi delle logiche coloniali europee. Non per nulla è infatti opinione condivisa dagli storici quella che la stessa Rivoluzione Industriale sia stata possibile anche grazie all’utilizzo su vasta scala di materie prime, in primis cotone, ed energetiche, soprattutto legname, provenienti dal resto del mondo, e che essa vada quindi considerata come l’esito di una stretta interazione tra Europa, America, Africa ed Asia che ha però premiato, ancora per tutto il XX secolo, solamente l’Europa. Questo è, secondo P., il quadro d’insieme che coniuga potenza militare, solidità dell’apparato statale, crescita economica, ideologia di espansione aggressiva, vale a dire le doti alla base delle logiche coloniali europee della seconda fase del colonialismo. I cui effetti sul resto del mondo, dopo il già devastante impatto su Africa ed America della prima fase, non tardano a farsi sentire sull’intera scena mondiale. Dell’India si è detto l’attenzione si sposta quindi su Cina, Giappone e Medio Oriente.

                           La società trifunzionale e la costruzione dello Stato cinese

P. anticipa che nelle Parti Terza e Quarta alla Cina sarà dedicato ampio spazio stante la sua originale struttura delle disuguaglianze maturata nel corso della seconda parte del XX secolo. Questa originalità non è però spiegabile solamente con la Rivoluzione comunista e l’adozione di una particolare economia di mercato, incidono infatti alcuni elementi ereditati dalle struttura sociali precedenti. Anche per queste la Cina è un caso a sé stante. Per tutta la sua storia questo immenso paese, che vanta una cultura avanzatissima fin da molti millenni addietro, è stato un Impero, per alcuni periodi costituito da un insieme di sottostanti Regni, decisamente organizzato secondo una configurazione ideologica trifunzionale ma con alcune originali caratteristiche. Alla base delle quali sta l’influenza, consistente e perdurante, del confucianesimo, una autentica “saggezza civica da non confondere con una “normale” religione monoteista, che ha ispirato l’ideologia e la concreta gestione dell’Impero cinese fin dal V secolo a.e.c. L’essenza del confucianesimo come ideologia dell’ordine politico consiste nel ruolo centrale che assegna a scienziati e letterati che costituiscono l’effettiva struttura statale, la quale deve essere ispirata alla conservazione delle usanze ed al rispetto verso la proprietà. La struttura trifunzionale cinese poggia quindi, accanto al ceto signorile dei guerrieri e al resto della popolazione lavoratrice, non su una sorta di clero ma su un ceto di “saggi”, rigorosamente selezionati attraverso esami e concorsi, che assicura l’insieme delle attività statali. Va inoltre precisato che le consistenze demografiche delle due classi alte cinesi non hanno mai raggiunto livelli tali da rendere ingestibile la conservazione dello status quo sociale. Il ceto dei “saggi” non è mai stato superiore allo 0,01% della popolazione, mentre la classe nobiliare dei guerrieri si è storicamente assestata attorno al 3%. Il confucianesimo è, proprio per le sue concezioni ideologiche e filosofiche, sostanzialmente una ideologia conservatrice, aspetto che per la Cina ha comportato un costante immobilismo sociale in una economia che ha così mantenuto, anche nei secoli della modernità europea, una impronta rurale ed al più commerciale. Il precedente Grafico 33 ha inoltre evidenziato il permanere di un livello di prelievo fiscale decisamente basso, tale quindi da consentire a malapena il mantenimento degli organismi imperiali, esercito e ceto dei “saggi” compresi. Il connubio fra questi due elementi, ideologia confuciana e ridotte risorse finanziarie statali, ha posto la Cina in inevitabile posizione di inferiorità di fronte alle mire coloniali europee a partire dal XVII secolo. La vastità dell’Impero coniugata con la possibilità di attuare accordi commerciali estremamente favorevoli, i cosiddetti “trattati diseguali” imposti da una sorta di “alleanza coloniale” che raggruppava tutte le potenze europee al termine delle “guerre dell’oppio” (una droga diffusamente utilizzata in Cina divenuta un merce prodotta e commercializzata, con la forza delle armi, dalle vicine colonie orientali europee,  dopo infruttuosi tentativi cinesi di  messa al bando) hanno infatti reso superflua e non conveniente una occupazione coloniale “classica”. Questo particolare sistema di controllo coloniale, per quanto particolare e per certi aspetti meno asfissiante, ha comunque ulteriormente impedito alla Cina la possibilità, già frenata da confucianesimo e mancanza di risorse, di una evoluzione della struttura delle disuguaglianze. Non sono conseguentemente mancate tensioni e conflitti sociali nel corso della millenaria storia cinese, ma solo con l’aggravio dello sfruttamento coloniale sono assurti a livelli tali da imporre progressivi cambiamenti. A partire dalla “rivolta di Taiping”, 1850-1864, una sollevazione dei contadini poveri che fece circa trenta milioni di morti su una popolazione totale di quattrocento milioni, e che fu così estesa e potente da indurre lo stesso Marx ad affermare nel 1853 che la rivoluzione totale cinese fosse ormai matura, e poi passando per altre successive numerose  rivolte, la più famosa delle quali è la “ rivolta dei boxer” del 1899-1901, la tensione sociale è cresciuta senza sosta fino a sfociare nella vincente rivoluzione popolare del 1911. La definitiva caduta dell’Impero e la nascita della Repubblica di Cina non sanciscono, nonostante le speranze delle classi povere, un autentico cambio di rotta. L’ideologia alla base della Costituzione cinese del 1911, ovviamente caldamente incoraggiata dal persistere del controllo coloniale europeo, è infatti fortemente ispirata da una visione “proprietaristica” dei rapporti economici e sociali. Solo il successivo precipitare degli eventi storici nel dramma della Prima Guerra e subito dopo nell’aggressività imperialistica giapponese, con la crudele occupazione della Manciuria nel 1831, impediscono, non diversamente da quanto successo in India, l’instaurarsi di una “società dei proprietari”, analoga a quella Europa, portando la Cina verso una evoluzione che sfocerà in tutt’altro modello sociale.

Il Giappone e la modernizzazione accelerata di una società ternaria

Anche le situazioni dell’India e della Cina esaminate in precedenza confermano la diffusione globale, e di lunga durata, della forma di “società ternaria o trifunzionale”, seppure articolata localmente con parziali varianti, ed al tempo stesso il ruolo fondamentale delle politiche coloniali europee, che da tale forma di società sono precedentemente uscite con percorsi endogeni, nel promuovere processi forzati del loro superamento da parte dei paesi colonizzati. Non diverso è il caso del Giappone. L’Impero giapponese del periodo Edo, formatosi al termine di un lungo periodo feudale, si è presentato, per tutto il periodo della sua esistenza 1600-1868, come una società fortemente gerarchizzata di tipo trifunzionale, ma, a differenza di quanto visto in Cina ed in India, caratterizzata dalla indiscussa prevalenza, capace di ridimensionare il ruolo dello stesso Imperatore, della nobiltà guerriera degli “shogun”, che incidevano sul totale della popolazione per un consistente 5%-6%, affiancati da una classe di religiosi, sacerdoti shintoisti e monaci buddisti, che rappresentava non più dell’1%-1,5% del popolo giapponese, per il resto composto dalla classe lavoratrice divisa, in modo molto più accentuato rispetto alle altre situazioni esaminate, fra lavoratori urbani e rurali, con questi ultimi relegati ad uno status paragonabile a quello degli “intoccabili” indiani. Questa strutturazione sociale è stata investita verso la metà del 1800 dall’ultima arrivata nel novero delle potenze coloniali, gli USA che, in due veloci conflitti, ancora una volta grazie alla notevole disparità tecnologica in campo, impongono le consolidate relazioni commerciali di sfruttamento coloniale senza però ricorrere alla occupazione diretta del Giappone. L’impatto del “protettorato” americano colpisce profondamente il forte orgoglio nazionale giapponese segnando la fine del periodo Edo e, a partire dal 1868, l’avvento dell’epoca Meiji che rimette al centro del potere politico la figura dell’Imperatore affiancato da due Camere di rappresentanza, sulla falsariga di quelle europee, quella dei Pari, gli eredi dei shogun, e quella dei Rappresentanti a base fortemente censitaria. Si avvia con questi protagonisti un periodo di profonde ed articolate riforme ispirate dal senso di rivalsa giapponese, finalizzate a recuperare il ritardo tecnologico ed economico con l’Occidente, ed in qualche modo obbligate a mitigare la struttura delle disuguaglianze del precedente periodo trifunzionale Senza idealizzare la politica di integrazione sociale, basata soprattutto sull’istruzione di massa, in grado comunque di superare l’anacronistica divisione tra lavoratori urbani e rurali, va riconosciuto che nel giro di pochi decenni il Giappone, che è comunque rimasto una società fortemente gerarchizzata, è riuscito a recuperare in gran misura il pesante gap nei confronti dell’Occidente, nonostante la persistente incidenza del peso coloniale statunitense. Anche in questo caso, seppure con un percorso decisamente particolare l’uscita dalla forma di società ternaria non è quindi avvenuta attraverso l’europeo passaggio nella società proprietaristica, ma ha catapultato il Giappone direttamente nelle strutture sociali, e delle disuguaglianze, tipiche del XX secolo, quelle che saranno analizzate nella prossima Parte Terza. Un tratto costitutivo della, originaria ed originale, strutturazione sociale giapponese è comunque rimasta: l’eredità dell’ideologia shogun ha improntato il processo giapponese dei primi decenni del Novecento di modernizzazione di un fortissimo nazionalismo e di una dominante impostazione militaristica, i cui effetti si dimostreranno evidenti nel XX secolo orientale.

Proprietarismo e colonialismo: la globalizzazione della disuguaglianza

Prima di ripercorrere a chiusura di questo capitolo i tratti generali delle società coloniali, e della loro profonda influenza sulla struttura globale delle disuguaglianze, P. tratteggia alcune caratteristiche di due situazioni non meno significative della fase coloniale: i paesi mussulmani del Medio Oriente e l’apartheid sudafricano, che qui riassumiamo in forma ancor più sintetica. Per quanto concerne i primi è ben nota la profonda influenza della religione mussulmana su ogni aspetto della vita collettiva, economia e struttura delle disuguaglianze comprese, con una profonda diversità fra quelli ad ispirazione “sunnita” e quelli ad ispirazione “sciita”. Se in questi secondi riveste un ruolo decisivo l’élite clericale degli iman e dei mujtahid, tale da consentire il ricorso ad una definizione di “società bifunzionale” con il solo clero sciita a ricoprire le funzioni di guida ideologica e di gestione amministrativa, e tutto il resto del popolo chiamato ad essere lavoratore piuttosto che guerriero, nei primi è invece rintracciabile la configurazione più classica di “società ternaria”, con un clero fortemente ridimensionato rispetto alla nobiltà guerriera ed una struttura del potere molto gerarchizzata con al suo vertice la figura del califfo. Entrambe queste situazioni, proprio per la forte influenza conservatrice del credo religioso mussulmano, sono rimaste sostanzialmente bloccate fino al XIX secolo allorquando le mire coloniali francesi, britanniche e russe, dopo aver progressivamente smembrato il precedente impero ottomano, hanno imposto un ferreo controllo militare, specialmente dopo la scoperta del petrolio nel 1908, ed una ripartizione territoriale, attuata al termine della Prima Guerra, basata su Stati “inventati” del tutto slegata quindi dalle reali configurazioni etniche. La sommatoria di divisioni religiose e configurazioni statali fittizie ha mantenuto lo status quo sociale, con una quota elevatissima della ricchezza in mano straniera, fino al secondo dopoguerra quando tutto, come si vedrà, sarà rimescolato da un quadro internazionale completamente mutato. Del tutto anomala è invece la vicenda sudafricana, che vede affermarsi nel secondo dopoguerra una sorta di colonialismo di ritorno proprio nella fase storica in cui il colonialismo stava arrivando al suo culmine per poi velocemente scomparire, perlomeno nella sua forma classica. Nel Sudafrica il colonialismo inglese e quello olandese-boero hanno imposto una delle forme di disuguaglianza più estrema del tutto basata su logiche ideologiche proprietaristiche. Il noto regime dell’Apartheid altro non è stato che la risposta, cinicamente razionale, dei proprietari coloni alla insostenibilità del vecchio regime coloniale. Questo regime sanciva la divisione rigorosa del territorio in una zona, pari al 93% del paese, di esclusiva proprietà dei coloni “bianchi”, il 20% della popolazione, va da sé quella più ricca, ed una seconda zona pari al 7% del territorio nella quale era confinato il restante 80% della popolazione “nera” ridotta a condizioni di fortissima indigenza. Un regime quindi che ha unito l’ideologia proprietaristica più brutale con una sfacciatamente razzista.

Conclusioni

L’esame sin qui condotto delle diverse traiettorie con le quali in tutto il mondo è stata progressivamente la forma della  “società ternaria” ha evidenziato in modo chiaro che tutti questi percorsi, per quanto caratterizzati da elementi specifici, richiedono un comune indispensabile elemento: quello di dare un senso alla proprie disuguaglianze grazie a narrazioni che vengono elaborate mirando ad un concetto di “bene comune” che universalmente è però votato alla giustificazione delle classi dominanti. In aggiunta a questa considerazione di carattere generale questi stessi percorsi, che si completano ognuno con le proprie specifiche caratteristiche nei primissimi decenni del 1900, hanno determinato scenari socio-economici e politico-ideologici che ormai disegnano in modo pressochè omogeneo, o quantomeno fortemente intrecciato, la struttura delle disuguaglianze del mondo del XX secolo. Quello che P. si accinge ad analizzare nella seguente Parte Terza.