mercoledì 15 dicembre 2021

Il "Saggio" del mese - Dicembre 2021

 

Il “Saggio” del mese

 DICEMBRE 2021

Un tratto distintivo dell’attuale dibattito pubblico, emerso in modo evidente nel corso dell’intera vicenda pandemica (sindemica) in relazione alle misure globalmente adottate per il suo contenimento, consiste nel peso di una diffusa disinformazione scientifica. Va da sé che i formidabili, e sempre più specialistici, sviluppi della ricerca scientifica rendono impossibile una loro diffusa conoscenza, per quanto limitata agli aspetti più comprensibili. Un fisiologico, ma non per questo meno impattante, deficit di conoscenza che però si aggrava quando evolve a livelli tali da incidere pesantemente sulla regolarità stessa della democrazia. Questo tratto – destinato ad assumere una valenza sempre più decisiva, si pensi ad esempio alle molte scelte che, anche sulla base di aspetti strettamente scientifici, sono drammaticamente all’ordine del giorno per fronteggiare l’emergenza ambientale – merita sicuramente una specifica riflessione, sulla scia di quelle già affrontate, in questo blog e in numerosi momenti di incontro con al centro temi ad esso riconducibili. La affrontiamo in questo Saggio di Dicembre 2021 presentando il libro


di Mauro Dorato


(insegna Filosofia della scienza all’Università Roma Tre)

Capitolo 1 – Come funziona la scienza? Critica e controllabilità delle ipotesi

(in cui si individuano i valori ed i principi propri della scienza che di più si prestano ad essere collegati con quelli della democrazia)

Per tentare di individuare le cause dell’attuale dissonanza fra scienza e democrazia è opportuno risalire ai valori, ai principi, alle metodologie, che le ispirano per verificare convergenze piuttosto che diversità tali da incidere sulla loro sintonia. Un primo valore, attinente ad entrambi, è quello della controllabilità, che in ambito scientifico investe le ipotesi di partenza di ogni indagine conoscitiva, mentre per la democrazia chiama in causa, come si vedrà successivamente, i poteri istituzionali. Per comprendere come essa, in stretto legame con la giustificazione, si esplica in campo scientifico è necessario chiamare in causa l’inferenza scientifica, vale a dire la modalità, composta da premesse e conclusioni e suddivisa in deduttiva e induttiva, con la quale si definiscono e si mettono in campo le ipotesi scientifiche necessarie per superare la ristrettissima accessibilità alla realtà esterna consentita dai cinque sensi umani, per quanto “potenziati” da protesi tecnologiche. Le inferenze deduttive, usate in campo matematico e logico, sono delle argomentazioni che, assunte alcune premesse, giungono ad una conseguente conclusione, se le prime sono esatte necessariamente lo è anche la seconda. Le inferenze induttive, che interessano tutte le scienze basate su osservazioni empiriche – le quali avendo un carattere predittivo devono essere validate da una successiva conferma osservativa - non necessariamente si dimostrano vere se tali sono le loro premesse, ma restano valide solo fin che non intervengano nuovi fenomeni, sempre empiricamente rilevabili, che le smentiscano. La conferma osservativa comprende quindi esperimenti, osservazioni, test, prove di vario genere, che devono sempre e comunque rispondere al criterio/valore della controllabilità, ossia all’essere replicate con identico esito. Questo insieme di valori, criteri, prassi metodologiche definisce, sulla base della esclusione di una aprioristica certezza assoluta delle ipotesi messe in campo, il valore della validità scientifica, rappresentando al tempo stesso una decisiva spinta al progresso delle scienze, innescato proprio dalla costante accettazione della possibilità di errori ……… l’atteggiamento conoscitivo che contraddistingue la scienza, la comunità scientifica, è l’apertura alla messa in discussione e al dubbio …… La convinzione che “scienza” non sia sinonimo di “certezza” è quindi alla base del procedere scientifico ed implica come logica conseguenza l’accettazione piena del pensiero critico, purché esercitato nel rispetto del metodo scientifico. Consiste in questo valorizzare il ruolo della critica un primo importante nesso con la democrazia, ed in particolare con il suo corrispondente valore della “tolleranza”, verso la diversità di opinione. Occorre poi chiedersi da quali soggetti, e con quali modalità, viene esercitato il controllo critico delle ipotesi e delle teorie. Appare sempre più evidente che, visto l’altissimo livello da tempo raggiunto dal progresso scientifico, tale controllo - finalizzato all’eliminazione di errori, falsi scientifici e frodi - può ormai essere esercitato solo da parte di addetti che operino nell’ambito specialistico dell’ipotesi in esame. Tutte le istituzioni scientifiche si sono pertanto dotate di appositi meccanismi di controllo che operano attivamente sugli articoli inviati alle riviste scientifiche (le quali pubblicano mediamente dal 5% al 10% degli articoli ricevuti dopo averli sottoposti all’esame di più revisori competenti nel campo), sulle pubblicazioni accademiche, sui saggi, e sugli interventi in ambiti congressuali. Rendendo in questo modo pressoché impossibile che una tesi acquisisca un qualche dignità scientifica senza aver superato un complesso percorso di vagli incrociati. Si innesta su questo quadro un’altra importante caratteristica del procedere scientifico: il suo essere cosmopolita, il suo non avere confini. La scienza, nel suo corretto procedere, è universalistica oppure non è. Questo sistema di controllo istituzionalizzato, che potremmo definire scetticismo organizzato, consente inoltre una evoluzione generazionale, stante la possibilità di sottoporre a costante esercizio critico, magari grazie ad innovative possibilità di osservazione, il sapere scientifico delle generazioni precedenti. Al punto che alcuni studiosi (tra cui Karl Popper, 1902-1994, filosofo ed epistemologo) hanno suggerito un’analogia tra evoluzione della specie ed evoluzione della conoscenza scientifica basata, per quanto la prima abbia base biologica e la seconda culturale, sulla comune trasmissione di informazioni capaci di creare variabilità. Questa ipotesi, per quanto tuttora controversa, è comunque utile perché offre lo spunto per una considerazione aggiuntiva sulla conoscenza scientifica: la sua trasmissibilità tra “gruppi”, e non solo tra individui, proprio grazie al modello di cooperazione critica, qui molto sinteticamente riassunto, dello scetticismo organizzato. Una modalità di esercizio critico che la stessa democrazia dovrebbe, analogamente, saper sollecitare in ogni suo passaggio decisionale. Allo stesso modo l’essenza del metodo scientifico interroga la democrazia sul ruolo che possono svolgere, nel suo concreto svolgersi, due valori base quali la controllabilità e la critica delle ipotesi. Appare infatti evidente che anche i processi decisionali democratici debbano essere fondati, per intima coerenza, su discussioni pubbliche aperte al pieno esercizio di critica, nelle quali sia garantito il pieno accesso alla conoscenza ed alla informazione, e finalizzate a giustificare, sulla base di argomentazioni sempre e comunque contestabili, ogni proposta politica. La difficoltà oggettiva di esercitare un diritto diffuso di critica sulle questioni crescente complessità che sempre di più caratterizzano la società contemporanea impone da subito di capire a quali soggetti, e con quali modalità, possa essere affidato in ambito democratico l’esercizio attivo di un corrispondente scetticismo organizzato.

Capitolo 2 – Come funziona la democrazia? Il controllo dei poteri

(in cui, in relazione alle evidenze del Capitolo 1, si analizzano i loro possibili collegamenti con i valori/principi alla base della democrazia)

Con le inevitabili semplificazioni già usate nel Capitolo precedente si affrontano tre principi essenziali della democrazia corrispondenti a quelli individuati per il metodo scientifico: principio di uguaglianza – principio di maggioranza – principio della separazione dei poteri.

*   Il principio di uguaglianza in rapporto al libero accesso alla conoscenza = Il concetto/valore di uguaglianza, alla base della modernità occidentale, è declinabile in diverse direzioni. In questo contesto ci limitiamo al suo esserlo di fronte alla legge là dove stabilisce che ogni persona gode degli stessi diritti inalienabili ed inviolabili. Un ideale non sempre compiutamente realizzato perché il passaggio dalla uguaglianza formale all’uguaglianza sostanziale è un processo che ha di fronte a sé innumerevoli ostacoli ad iniziare da quello della disuguaglianza di partenza, ossia della diversità delle condizioni sociali ed economiche di nascita che, spesso e ovunque, impediscono pari opportunità per una corsa equa. Il pari accesso alla conoscenza, unitamente ad eguale istruzione, rappresenta quindi un decisivo requisito per una uguaglianza sostanziale. In questa ottica la scienza, oltre ad essere il patrimonio da consegnare il più possibile a tutti, offre utili elementi di riflessione, essendo a sua volta non meno impegnata per una analoga corsa equa. Questa identica tensione di scienza e democrazia per realizzare una autentica uguaglianza sostanziale trova nell’utilità collettiva un valore decisivo per il suo conseguimento. Porre ogni individuo nella condizione di contribuire, grazie alla piena realizzazione di sé, al miglioramento complessivo della società, e parimenti garantire uguale attenzione e sostegno ad ogni progetto di sviluppo scientifico, rappresentano due distinte ma identiche modalità di puntare alla migliore utilità per la collettività. Esiste cioè un comune impegno per non solo per difendere, attuandolo, un valore ideale, ma di realizzare al contempo…… un investimento che la società fa sul suo futuro …..

*   Governo del popolo e principio di maggioranza nella scienza = democrazia etimologicamente significa governo del popolo, un ideale che nell’esercizio concreto della sovranità con popolo intende la sua maggioranza, nella consapevolezza che non esistono ragioni etiche o valoriali che giustifichino, di per sé stesse, il prevalere di una maggioranza. Il conforto della adesione della maggior parte dei cittadini non è infatti sinonimo di validità dell’opzione scelta, sono numerosi gli esempi storici in cui la democrazia è stata soppressa, suicidando sé stessa, proprio sulla base di un voto maggioritario. Vale a dire che la sola regola della maggioranza là dove non si accompagni ad un corretto processo di formazione del consenso, può essere di grave pregiudizio per la stessa democrazia.  Giuste modalità di creazione del consenso diventano quindi la condizione essenziale per un corretto governo del popolo. Le corrispondenti modalità di determinazione del consenso in ambito scientifico, esaminate in precedenza, possono offrire importanti spunti di riflessione pur dando per scontata l’evidente difformità dei due ambiti. Il modo con cui si una teoria scientifica viene validata, al termine del percorso contraddistinto dal dissenso organizzato ……. determina di norma una larghissima maggioranza …….. Ma ciò che più conta è che essa si è determinata grazie alla totale condivisione di dati, al loro trasparente approfondimento, all’ascolto attento delle opinioni anche minoritarie, alla costante disponibilità a rimettere in discussione verità che sembravano acquisite. Se traslare automaticamente nelle prassi democratiche questo modo di determinare una maggioranza rischia di apparire velleitario se non ingenuo, un significativo passo in avanti potrebbe consistere nel costruire analoghi percorsi di confronto sul merito oggettivo delle questioni (dati e fatti) avendo garantito, come nella scienza, pari informazione condivisa nel rispetto della massima reciproca tolleranza

*   Separazione dei poteri e il controllo incrociato delle ipotesi scientifiche = Il delicato gioco incrociato fra maggioranza e minoranza rischia, quando applicato in senso univoco, di imporre quella che molti teorici della politica hanno definito “dittatura della maggioranza”. Nelle democrazie occidentali l’antidoto istituzionale a questa possibile degenerazione da sempre consiste nel principio “separazione dei poteri”, ossia nella preservazione, attuata grazie ad un loro bilanciamento, dell’autonomia delle diverse forme di potere: legislativo, esecutivo, giudiziario. Anche in questo caso alcuni principi della metodologia scientifica, in particolare due, possono offrire utili indicazioni rafforzative:

Ø si è visto nel Capitolo precedente il ruolo centrale dello “scetticismo organizzato” come forma di controllo diffuso di un’ipotesi scientifica, in grado di contrastare un ricorso scorretto al principio di autorità. Analogamente i meccanismi decisionali in ambito democratico dovrebbero prevedere una simile controllabilità delle decisioni assunte dalla maggioranza di turno. Ciò deve avvenire garantendo il pieno esercizio del diritto di critica alla minoranza di turno, e più in generale all’intera opinione pubblica, alle quali, come in campo scientifico, deve quindi essere garantito l’accesso pieno a tutte le fonti di conoscenza relative alle questioni in discussione. Un aspetto che, a differenza della scienza, è ancora ben lungi dall’essere universalmente rispettato unitamente al correlato principio della libera stampa

Ø non si è sin qui prestata la giusta attenzione al peso delle opinioni di fondo, dei valori, delle ideologie, dell’idea complessiva di società, che ispirano e caratterizzano un democrazia autentica. Si tratta del “mondo delle idee” che, come tali, non possono essere valutate e gestite alla stregua di fatti. In che modo il dibattito scientifico può offrire indicazioni valide anche per il mondo delle idee? Una constatazione all’apparenza banale può aiutare: sia nella scienza che in democrazia tutte le idee sono finalizzate, in ultima istanza, alla risoluzione dei problemi che si incontrano da una parte nel percorso di scoperta e conoscenza e dall’altra in quello di realizzazione di un’ideale di società. Le idee scientifiche, ipotesi e teorie, sono valutate, messe alla prova, sulla base di riscontri empirici, su “fatti”, ad esse collegabili, in vario modo realizzati e verificati. Come si è visto quelle che di più trovano il sostegno dei fatti diventano, sempre provvisoriamente, quelle vincenti. E’ possibile immaginare un procedere analogo per le idee che si confrontano nel dibattito democratico? La sola possibilità ancora una volta risiede nel valutarle, contestualizzandole in ogni specifico ambito, sulla base dei risultati concreti, misurabili, da esse prodotti. Ciò implica che, come in ambito scientifico, questa valutazione, ovvero l’intero confronto politico, avvenga alla luce del sole, valutando dati e riscontri oggettivi, la loro coerenza concreta con i valori che li hanno ispirati. Una forma di confronto, in gran misura ancora tutta da attuare nella sua interezza, che impone pluralismo, tolleranza, rispetto reciproco ed onestà intellettuale.

Capitolo 3 – Democrazia rappresentativa, democrazia diretta e specializzazione scientifica (in cui, per entrare successivamente nel merito degli effetti sulla democrazia della disinformazione scientifica, si analizzano due forme del principio di rappresentanza ambedue interni al concetto di democrazia)

L’incredibile diffusione della Rete, e della collegata facilitazione delle comunicazioni, ha riproposto un dibattito, che ha interessato la democrazia occidentale fin dal suo nascere, con al suo centro il principio di rappresentanza articolato in due opposti caratteri: quello rappresentativo e quello diretto. Molto sinteticamente così definibili: la democrazia rappresentativa si basa sulla delega del potere decisionale che i cittadini danno a rappresentanti scelti con il voto, mentre la democrazia diretta mantiene in capo ai cittadini il diritto di decidere in prima persona sulle questioni importanti del dibattito politico.  La democrazia rappresentativa, con non poche complicazioni e contraddizioni, è divenuta la forma abituale delle società occidentali, al contrario sono limitati gli esempi di quella diretta: quello classico, e forse troppo idealizzato, della agorà greca, ed alcune esperienze a noi più vicine, la fase giacobina della Rivoluzione Francese 1792-1793, la Comune di Parigi del 1871, e la breve esperienza dei Soviet durante la Rivoluzione Russa del 1917. Più consistenti sono invece i contributi teorici a suo sostegno, a partire da quello di Jean Jacques Rousseau considerato il suo più autorevole ispiratore, sostanzialmente articolati su quattro considerazioni: l’assenza di deleghe realizza l’ideale di autonomia morale dell’individuo  – i cittadini sono chiamati a curare in prima persona  i propri interessi determinando in questo modo la volontà generale, un’entità che è di più della sola sommatoria delle volontà – l’esercizio del potere non delegato implica la piena responsabilità delle scelte così maturate – sviluppando al contempo un più forte senso di appartenenza alla comunità. Quelle che, in contrapposizione, sostengono l’idea di democrazia rappresentativa si possono analogamente riassumere in quattro capisaldi critici: l’impossibilità della partecipazione di tutti a tutte le decisioni politiche nelle complesse società contemporanee che presentano una composizione sociale troppo articolata in segmenti spesso contrapposti – le modalità concrete del vivere individuale e collettivo sono così pressanti da non concedere a tutti i cittadini interessati il tempo necessario per esercitarla pienamente – questi inaggirabili impedimenti, che non garantiscono il totale coinvolgimento dei cittadini,  comportano il rischio di degenerazioni autoritariel’identificazione totale fra sfera privata e sfera pubblica fa prevalere la sfera degli interessi e fini materiali e soffoca la libertà di coltivare ideali di più alto profilo. La storia ha sin qui, con le sole limitate ed eccezionali esperienze prima citate, evidenziato il netto prevalere della democrazia rappresentativa, ma la recente irruzione della Rete, con le sue potenzialità di comunicazione, ha ridato voce a quella diretta, in particolare per la presunta potenzialità di risolvere le sue due prime complicazioni, anche se non mancano forti perplessità sulle possibili manipolazioni dei canali informatici. Ma i maggiori dubbi vengono proprio dallo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico, alla base della stessa Rete, che ha determinato una impressionante crescita esponenziale del sapere specialistico che è in conflitto con l’ideale della uguaglianza. Il rischio di degenerazioni autoritarie sembra infatti acquistare una più definita veste, definibile come tecnocrazia, una forma di potere in cui solo pochi davvero sanno.  Se la democrazia diretta consegna ad ogni cittadino il diritto non delegabile di decidere, nel momento in cui su tantissime questioni non è di fatto garantito, a causa della loro complessità, un pari livello di informazione e conoscenza, viene a cadere l’intero suo impianto. E pur vero che l’attuale iper-specializzazione è tale da porre in crisi anche la democrazia rappresentativa: nulla garantisce infatti che i rappresentanti eletti sulla base del principio di delega siano meno esenti del normale cittadino dal deficit di informazione e conoscenza. Diventa allora sempre più urgente ridefinire un metodo democratico di consultazione e decisione che sappia conciliare qualità sostanziale delle scelte con una estesa reale applicazione del principio della controllabilità sociale della conoscenza. In questo senso, se appare oggettiva l’impossibilità della democrazia diretta di soddisfare appieno questi due requisiti, l’istituto della delega va non di meno ripensato ed adeguato a questa complessità. La pratica razionale del dissenso organizzato in campo scientifico offre anche in questo caso un possibile conforto: …… nella scienza dubitare di qualcosa implica che qualcos’altro venga considerato cognitivamente affidabile …….. Allo stesso modo un esercizio reale della controllabilità sociale della conoscenza deve poggiare su un forte impegno ad estendere il più possibile elementi diffusi di informazione e conoscenza, e deve qualificare verso l’alto l’istituto della delega, chiamata ad intervenire soprattutto nei casi in cui la conoscenza non sia già giunta ad un sufficiente condiviso consenso. Una corretta controllabilità sociale delle conoscenza non potrà quindi essere, come la democrazia, pienamente diretta, ma avrà forma indiretta utilizzando, nei casi più complessi e sulla base di trasparenti scelte attuate dai rappresentanti eletti, le competenze specifiche di esperti.  Aprendo così spazio per un’altra questione fondamentale: che fare quando i cittadini non percepiscono una adeguata unanimità di opinioni fra gli stessi esperti?

Capitolo 4 – Disinformazione scientifica e sfiducia negli esperti (in cui si esaminano le cause e le forme di un fenomeno che rischia di minare alla base il fragile ed incompleto equilibrio fra cittadini, rappresentanti ed esperti, e cioè fra democrazia e scienza)

Tutte le considerazioni sin qui sviluppate implicano infatti che da parte della collettività, nel momento in cui è chiamata a valutare e a decidere su questioni di rilevanza sociale che presentano decisivi aspetti scientifici, esista una fondata fiducia verso gli esperti. Per cercare di meglio comprendere le ragioni che da tempo, ma in particolare con l’avvento della comunicazione via Rete e social, stanno al contrario generando sfiducia e l’accentuarsi di una preoccupante disinformazione scientifica è opportuno partire da quelle che di norma generano fiducia verso la scienza e gli scienziati. Sono tre quelle fondamentali. La prima, definibile come applicativa, poggia sulla convinzione, spesso inconsapevole, che la scienza funziona, o meglio ancora che funzionano le tantissime ricadute pratiche che da essa derivano sul nostro vivere quotidiano. Ci si fida indirettamente della scienza perché si sperimentano direttamente, con evidente successo, i suoi aspetti applicativi. La seconda, di carattere intuitivo e relativa alla intersoggettività degli scienziati, consiste nella percezione che le idee scientifiche fondamentali riscuotono un consenso unanime, che le teorie validate in ambito scientifico raccolgono la diffusa adesione degli scienziati. Si tratta, come è facile intuire, di una percezione che non solo non è in grado di entrare nel merito delle complessità del metodo scientifico, ma che è anche facilmente reversibile nei casi in cui al contrario si manifesti una percepibile mancanza di consenso. Il tema dell’accordo o disaccordo è infatti dirimente, anche per spiegare il diverso atteggiamento verso le discipline considerate “empiricamente mature(ad es. la fisica) basate cioè su paradigmi accertati su cui è stato raggiunto un accordo, e quelle “in gestazione(ad es. la psicoanalisi) ossia quelle che, non avendo ancora definito analoghi paradigmi su ciò che si deve studiare e sui metodi con cui farlo, ottengono una minore fiducia proprio per il disaccordo che sembra caratterizzarle (restando all’esempio della psicanalisi si pensi alle divisioni, incomprensibili ai più, fra le scuole freudiana, junghiana, e cognitivista). Esiste infine una terza ragione relativa al realismo scientifico: la scienza, e soprattutto le scienze empiriche, descrive il mondo, la realtà a noi esterna, in un modo che viene percepito come indipendente da valori, da sentimenti ed emozioni, capace quindi di cogliere aspetti che non sembrano dipendere dalla presenza umana sulla Terra. L’insieme di queste ragioni delinea una comune caratteristica tanto determinante quanto fragile: la scienza raccoglie fiducia quando viene percepita come spinta da un unico interesse: quello di accertare la verità. La breccia verso la sfiducia si apre allorquando la scienza, soprattutto se percepita come motivata da interessi di natura diversa, non sembra poggiare su una vera unità. Ed è in questo decisivo e sottile passaggio che la disinformazione scientifica può giocare un ruolo negativo. La percezione diffusa di disaccordo tra gli esperti è la causa prima in questo senso, e non a caso è su di essa che puntano le attività, più o meno deliberate, di disinformazione che approfittano dei bassi livelli di istruzione, scientifica ed umanistica dell’opinione pubblica. Anche per la disinformazione giocano un ruolo centrale tre fattori. Il primo si evidenzia quando all’opinione ufficiale della scienza si contrappone quella, magari in buona fede, di chi pari scienziato non è. Non è un vero disaccordo tra esperti, ma tale viene percepito da parte di chi non possiede adeguate informazioni e strumenti per entrare nel merito del dibattito. Non poco pesa la sciagurata pratica mediatica di mettere a confronto, pur di guadagnare audience, scienziati e non, garantendo ad entrambi pari dignità: si tratta di un modo di procedere non solo lontanissimo da quello standard del metodo scientifico, ma addirittura svilente verso la vera competenza. Solo leggermente diverso è il secondo fattore che interviene quando il disaccordo è sì tra scienziati ma solo alcuni sono veri specialisti dell’argomento in questione. Una differenza di opinioni ancor più difficile da cogliere da parte dell’opinione pubblica ma che, stante la crescente specializzazione scientifica, sta sempre più acquistando consistenza. Il terzo fattore, quello più dirompente dal punto di vista etico-scientifico, subentra quando il disaccordo si evidenzia tra scienziati di identica competenza e specializzazione ma con alcuni schierati, sulla spinta di interessi di vario genere, a favore di una ipotesi infondata. La storia della scienza racconta di diverse prese di posizione decisamente disoneste di scienziati che, spesso “incoraggiati” da precisi interessi “non scientifici”, hanno, giocando deliberatamente sulla loro competenza, seminato dubbi su ipotesi che potevano ledere tali interessi. Lo si è visto, ad esempio, nella decennale controversia attorno ai danni alla salute provocati dal fumo di tabacco, ed ancora prima su quelli dell’amianto, nelle discussioni sulle cause del buco dell’ozono e, per venire all’emergenza attuale, su quelle del riscaldamento climatico. E’ soprattutto in questo terzo caso che, sui media ed in Rete, viene fatta scattare una sorta di trappola che, costruita e presentata ad arte, non poco contribuisce alla sfiducia verso la scienza: …… ogni prova deve essere presentata in modo imparziale così da lasciare al pubblico la libertà di decidere …… Persino superfluo sottolineare che, stante il diffuso analfabetismo scientifico, i fattori che incideranno su questa “libera scelta” non potranno essere quelli scientifici ma saranno le abilità di comunicazione e di presentazione. Tralasciando il caso limite delle vere e proprie “frodi scientifiche” - quasi sempre messe in atto nell’ambito della accanita contesa fra scienziati per ottenere finanziamenti per le proprie attività di ricerca piuttosto che per la necessità di pubblicazioni sulle riviste specialistiche ai fini di carriera – che pur non poco incide sulla credibilità generale della scienza, l’insieme di questi fattori impone un evidente problema di decisione collettiva: come porre il cittadino nella condizione di maturare opinioni ragionate sulle questioni che chiamano in causa conoscenze scientifiche di una certa complessità? Soprattutto quando, magari in nome della democrazia diretta, i cittadini possano essere chiamati ad esprimersi su domande schematiche e magari fuorvianti? Si è di fronte ad una situazione definibile come “rischio induttivo”, ossia il rischio che sia considerata vera un’ipotesi falsa piuttosto che falsa una vera nell’ambito di confronti su questioni che mettono in relazione i valori epistemici della scienza (evidenza di un’ipotesi, la sua coerenza, dati sistematici e consistenza sperimentale) e quelli non epistemici della democrazia (ad es. la salute collettiva, gli indirizzi economici e politici, uguaglianza e diseguaglianze). Come scegliere in questo contesto gli esperti “giusti”? Come orientarci in una situazione di “oggettività debole” anche se, come sempre, esiste una teoria corretta ed una sbagliata?

Capitolo 5 – Come valutare autonomamente il parere dell’esperto? La necessità dell’alfabetizzazione scientifica (in cui si esaminano le possibili misure per decidere in modo razionale e democratico su questioni che dipendono anche da teorie scientifiche)

La risposta alla domanda del titolo di questo Capitolo è in effetti una sola: la diffusione capillare della conoscenza scientifica. Non si tratta di un processo semplice ed immediato anche perché implica, per definire azioni correttive, una preliminare riflessione sui diversi livelli di “analfabetismo scientifico” presenti nelle attuali società ipertecnologiche. Un primo decisivo passo in avanti è però già individuabile: incentivare l’innalzamento del numero di laureati in materie scientifiche. Un obiettivo che è importante per diverse ragioni, a partire dalle ricadute economiche e produttive e dalla possibilità di accentuare la svolta tecnologica necessaria a fronteggiare l’emergenza ambientale. Nell’ottica dell’alfabetizzazione scientifica può rappresentare un decisivo fattore, formando preparati insegnanti, per un ampliamento ed una ottimizzazione dell’insegnamento di materie scientifiche nelle medie superiori coinvolgendo quindi le nuove generazioni. Ogni altra possibile prospettiva deve, come detto in precedenza, mirare ai diversi livelli di analfabetismo scientifico. Guardando alla situazione italiana il ritardo da colmare in questa direzione è davvero rilevante, il dato ufficiale del 2017 indica in un troppo basso 25% la percentuale di laureati in materie scientifiche, in un quadro d’insieme che vede, sempre dati 2017, quella dei laureati in genere agli ultimi posti in Europa (peggio di noi è solo la Romania) con un misero 16,3% a fronte di una media europea del 27,7%. Nulla di cui stupirsi se solo si ampia lo sguardo sul livello generale di istruzione, non soltanto di analfabetismo scientifico si deve infatti parlare ma di un preoccupante livello di analfabetismo funzionale (l’incapacità di comprendere un testo, di scrivere correttamente, di utilizzare abilità matematiche elementari). Il dato OCSE del 2017 evidenzia un drammatico 28% sul totale della popolazione italiana, peggio di noi fra i paesi “industrializzati” c’è solo la Turchia. Non deve quindi stupire più di tanto la facilità di presa delle fakenews!!! La preoccupazione che dovrebbe investire la politica italiana non sembra adeguata alla gravità di questa situazione, all’interno della quale l’analfabetismo scientifico appare ancora più preoccupante se, come evidenziato da alcune indagini statistiche, anche la percentuale di popolazione italiana che ha un accettabile livello di conoscenza delle materie umanistiche ignora gran parte delle teorie scientifiche di base. In un quadro del genere appaiono decisamente fuori luogo le stonate perplessità sull’impegno divulgativo degli scienziati, attitudine al contrario molto valorizzata nella cultura anglosassone. Difficile quindi non nutrire un certo pessimismo che è oltremodo accentuato dal livello di competenza scientifica presente nella maggior parte dei media, per non dire della Rete in genere e dei social in particolare. La stragrande maggioranza dei cosiddetti esperti che affollano questi canali - che, non va dimenticato, sono quelli esclusivi di informazione per la quasi totalità dell’opinione pubblica – non superano i criteri standard di valutazione del livello di competenza specifica richiesto dalla complessità dei temi affrontati. Ed ormai il numero di pubblicazioni di valore sulle riviste scientifiche vale molto meno di quello di followers e di like ottenuti da affermazioni pseudoscientifiche.

Capitolo 6 – Il ruolo della storia e della filosofia della scienza nel dibatti democratico (in cui, in aggiunta alle precedenti considerazioni sull’analfabetismo scientifico, si riflette sullo sforzo culturale complessivo da mettere in campo per fronteggiare la disinformazione e per immaginare un più proficuo rapporto tra democrazia, scienza e cultura

Qualsiasi forma e articolazione potrà avere l’impegno contro l’analfabetismo scientifico sarà fondamentale che esso sia inserito in un discorso di più ampio valore culturale, al fine di meglio collegare lo sviluppo scientifico con quello più generale della cultura e al tempo stesso di aprire immediati collegamenti con quello specifico della democrazia. Sono due le discipline umanistiche che di più si prestano a svolgere questo ruolo: la storia e la filosofia della scienza. La storia della scienza, il ripercorrere storico dell’evoluzione delle teorie scientifiche, è basilare per la comprensione dei concetti fondamentali sui quali la scienza poggia e, inserendo le tappe dell’evoluzione scientifica parallelamente a quelle culturali in senso lato, rappresenta il ponte ideale tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche. In questo quadro ideale la storia della scienza può evidenziare un suo fondamentale contributo allo sviluppo culturale consistito nel …. suo potere liberatorio dalle visioni eccessivamente antropocentriche che possono condizionare negativamente la cultura, non a caso definita umanistica, ma persino lo stesso “senso comune”, quel modo di intendere la realtà (il titolo di un saggio del fisico Carlo Rovelli cita esattamente “La realtà non è come ci appare”) così limitato dal filtro dei cinque sensi che non poco ha complicato il rapporto fra opinione pubblica e scienze. Un secondo importante apporto consiste nel far emergere la costante presenza del fondamentale carattere di “coerenza” nell’intero percorso storico dell’evoluzione scientifica, che procede grazie all’affermarsi di nuove ipotesi, non di rado fortemente innovative, ma sempre comunque maturate, come si già visto nel Capitolo 1, dall’esame critico, in un rapporto di plausibilità, con quelle precedenti. Questo carattere di coerenza del processo scientifico, così valorizzato, può rappresentare una importante riflessione per il progredire della stessa democrazia. Non meno importante è il ruolo della filosofia della scienza. Ancora nel Seicento ciò che oggi chiamiamo fisica era definito come “filosofia naturale” a testimoniare la profonda interazione dialettica fra le scienze ed i fondamenti filosofici. Una interazione che è tornata a manifestarsi con grande intensità nell’attuale epoca di rivoluzionarie scoperte scientifiche. Per tutto il Novecento quelle sconvolgenti della fisica sono state da subito spunto per riflessioni filosofiche che hanno spesso visto per protagonisti gli stessi scienziati, a partire da Einstein. Un confronto analogo fra scienza e filosofica è recentemente sollecitato da altre discipline, basti pensare ad esempio alla genetica ed alle neuroscienze. Se in linea di massima questa interazione dialettica consiste, e si articola, nel rispettivo interrogarsi da parte della filosofia sulla ricaduta che le conquiste scientifiche hanno sul suo interrogarsi sull’uomo e sulla realtà, e da parte della scienza sul senso ultimo, anche etico, del proprio procedere, essa è resa più feconda da alcuni terreni di confronto e di convergenza:

*   la vocazione sintetica, ossia la capacità di collocare le proprie specificità in una contesto culturale più ampio

*   il ruolo di alcuni capisaldi metodologici, quali la probabilità, la casualità e la coerenza logica, nella valutazione delle rispettive ipotesi

*   la comune battaglia contro il relativismo conoscitivo, contro l’applicazione “forte” della tesi che “non si danno fatti senza interpretazioni” tale da pregiudicare il valore della “oggettività della conoscenza”

Ed anche in questo caso, soprattutto con riferimento a quest’ultimo punto, dalla scienza, dal metodo scientifico, corroborato dall’apporto costruttivo della storia e della filosofia della scienza, derivano preziose indicazioni per il progredire del dibattito democratico.

mercoledì 1 dicembre 2021

La Parola del mese - Dicembre 2021

 

La parola del mese

A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

DICEMBRE 2021


L’11 Marzo 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità, OMS, l’agenzia dell’ONU preposta alle questioni sanitarie, dopo alcuni tentennamenti dovuti più a timidezze politiche che a scrupoli sanitari, definisce ufficialmente “pandemia l’emergenza sanitaria causata dal coronavirus Covid19 che era esplosa a cavallo dell’anno in Cina in forma così virulenta da meritarsi da subito quella di “epidemia. Ormai due anni dopo, con alle spalle milioni di contagi e di decessi, l’intera umanità è ancora duramente impegnata a combatterla, a contenerla, ed al tempo stesso ad analizzare quanto successo, le sue origini, le cause della sua rapida diffusione, le ragioni del suo così forte impatto. Già a Settembre del 2020 Richard Horton (professore onorario alla London School of Hygiene, all'University College di Londra e all'Università di Oslo, caporedattore di The Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche mondiali) ha pubblicato un articolo, poi ripreso ed approfondito in tutto il mondo, in cui, nell’ambito di tali riflessioni, ritiene che esistano le condizioni per meglio definire un contagio di tali dimensioni e caratteristiche: ....... non di pandemia si deve parlare, ma di ……


Sindemia

Dal vocabolario on line Treccani:

sindemia =  L’insieme di problemi di salute, ambientali, sociali ed economici prodotti dall’interazione sinergica di due o più malattie trasmissibili e non trasmissibili, caratterizzata da pesanti ripercussioni, in particolare sulle fasce di popolazione svantaggiata - un insieme di più patologie pandemiche riconducibili anche a contesti sociali, economici, psicologici, dei modelli di vita, di fruizione della cultura e delle relazioni umane. Se la definizione etimologica di “epidemia”, dal greco “epi” (sopra) congiunto con “demos” (popolo), la definisce come “sopra il popolo, sopra UN popolo”, e quella di “pandemia”, dal greco “pan” (tutto, interamente) congiunto con demos, indica “di tutto il popolo, di tutti i popoli”, “sindemia”, premettendo a demos il termine greco “sin”, (insieme, interamente) sta a significare un qualcosa che sta “insieme al popolo”, ossia “che ne fa integralmente parte”.

Non si tratta di pure e semplici sottigliezze terminologiche: definire Covid19 una sindemia più che una pandemia implica una valutazione, non solo sanitaria, che apre differenti ed importanti prospettive per l’analisi di cui si è detto. Per meglio comprendere sia le ragioni scientifiche e statistiche che hanno indotto Horton, e con lui molti altri medici, ad adottare tale denominazione, sia i conseguenti sviluppi delle politiche sanitarie da adottare, pubblichiamo stralci di alcuni articoli pubblicati nel contesto italiano dedicati espressamente alla sindemia Covid 19:

E’ una sindemia

Articolo di Gavino Maciocco (Docente di Igiene e sanità pubblica presso l'Università di Firenze, promotore e coordinatore del sito web Saluteinternazionale.info e direttore della rivista quadrimestrale Salute e Sviluppo dell'ong Medici con l'Africa) consultabile nel sito Ordinemedici.Brescia 

Nessuna pandemia nell’ultimo secolo (e ce ne sono state diverse) ha avuto gli effetti catastrofici della Covid-19: effetti letali sulla salute della popolazione, con conseguenze distruttive anche sull’economia, sull’istruzione, sulle comunicazioni, insomma su ogni aspetto della vita sociale. La pandemia di Influenza “Spagnola” del 1918-19 fece certamente molte più vittime (si parla di un numero di 20, forse 50 milioni di morti), ma era un mondo completamente diverso, che usciva stremato da una guerra mondiale, con capacità assistenziali nemmeno lontanamente paragonabili a quelle odierne. Infatti la terza ondata – quella più letale – avvenne nell’inverno del 1919, quando alle polmoniti influenzali si aggiunsero le polmoniti batteriche, contro cui non erano ancora disponibili gli antibiotici. La domanda è quindi questa: perché un’epidemia infettiva nel terzo millennio, in società così avanzate come le nostre, ha avuto un effetto talmente devastante? Dal tipo di risposta che sapremo dare a questa domanda risiede la possibilità di attrezzarci per rispondere in maniera adeguata a futuri attacchi di questo genere. Una risposta potrebbe essere questa: noi ci troviamo di fronte non a una “semplice” pandemia (ovvero a un’epidemia che coinvolge contemporaneamente più continenti), ma di fronte a una “sindemia”. Questo termine è stato introdotto negli anni Novanta del secolo scorso da un antropologo medico, Merril Singer, per significare gli effetti negativi sulle persone e sull’intera società prodotta dall’interazione sinergica tra due o più malattie. Oggi parliamo di “sindemia” perché ci troviamo di fronte all’interazione della pandemia infettiva, Covid-19, con un’altra pandemia altrettanto grave e distruttiva, anche se meno visibile e acuta, rappresentata dalla diffusione delle malattie croniche - dalle malattie cardiovascolari, ai tumori, passando per l’obesità e il diabete - che negli ultimi decenni (a partire dagli anni 80 del secolo scorso) ha registrato una formidabile accelerazione in tutte le parti del mondo. Gli effetti distruttivi della dell’interazione tra queste due pandemie li abbiamo cominciati a conoscere fin dall’inizio della Covid-19 quando le statistiche ci dicevano che la mortalità si concentrava nei gruppi di popolazione affetti da malattie croniche.  Le statistiche americane registravano significative differenze nella mortalità tra gli afroamericani e i bianchi, circa il doppio, perché i primi erano maggiormente colpiti da malattie croniche (e poi perché erano più esposti al contagio: facevano lavori più rischiosi, vivevano in abitazioni più affollate, etc). Si è scoperto allora che le due pandemie interagiscono entrambe su un substrato sociale di povertà e producono una terribile dilatazione delle diseguaglianze.  Quando avremo anche noi la possibilità di studiare la distribuzione della mortalità da Covid-19 tra le varie classi sociali, scopriremo che anche in Italia – come in USA e anche in UK – le diseguaglianze nella salute si sono enormemente dilatate. Gli effetti della “sindemia” sul sistema sanitario sono stati anch’essi subito ben visibili. Entrambe le pandemie, quella infettiva e quella della cronicità, richiedono una prima linea di difesa efficiente, in grado di mettere in atto interventi preventivi, di riconoscere tempestivamente i casi, di evitare gli aggravamenti e le complicazioni. Tutto ciò richiede un’assistenza territoriale attrezzata, con relativi servizi di prevenzione e sistemi di cure primarie, che negli anni è venuta progressivamente a mancare.  L’assenza di un filtro territoriale (cure primarie, medici di famiglia, servizi di igiene pubblica) che identificasse i casi, i conviventi e i contatti (l’abc della sanità pubblica), intervenendo a domicilio o inviando quando necessario in ospedale, ha disorientato la popolazione, ha messo nel panico i pazienti e ha prodotto alla fine il collasso degli ospedali. Abbiamo visto gli effetti dell’interazione di due pandemie. Più complesso è individuarne le cause. Un dato però balza agli occhi: entrambe sono iniziate intorno agli anni 80 del secolo scorso. Entrambe riconoscono la loro radice nella mano dell’uomo. Nell’ultimo mezzo secolo i comportamenti e i consumi alimentari hanno subito profondi cambiamenti. Alla loro base sta un insieme complesso di fattori socio-culturali, ambientali e economici, tra cui l’urbanizzazione, i mutamenti nella struttura della famiglia, la generale tendenza a dedicare meno tempo alla preparazione domestica dei pasti, il dilatarsi delle diseguaglianze socio-economiche all’interno della società e – infine – l’irrompere con la globalizzazione di giganteschi interessi industriali nel mercato del cibo e delle bevande……………Anche nell’origine della Covid-19 c’è la mano dell’uomo. Il fenomeno del passaggio di un virus dall’animale all’uomo, con la conseguente possibilità del contagio da uomo a uomo, il “salto di specie” (“Spillover”), è descritto magistralmente nel libro, con titolo omonimo, di David Quammen, pubblicato nel 2012 ……………….Quando mescoliamo ambienti diversi, specie diverse, deforestiamo, sconvolgendo gli ecosistemi, diventiamo degli ospiti alternativi per questi virus che non sarebbero venuti a contatto con noi diversamente. L’effetto moltiplicativo che l’incontro con l’essere umano genera, su 7 miliardi di possibili e potenziali ospiti interconnessi fra loro con viaggi e contatti, è enorme”.


Se Covid 19 è una sindemia

 l’approccio deve essere sindemico

Articolo di Lorenzo Piemonti (Professore associato Endocrinologia Università Vita Salute San Raffaele di Milano Direttore Diabetes Research Institute presso IRCCS Ospedale San Raffaele)  consultabile nel sito quotidianosanita.it

Il concetto che il COVID-19 non sia una pandemia, ma una sindemia è stato recentemente suggerito in modo elegante da un editoriale di Richard Horton su Lancet delo scorso Settembre. Questa visione ha avuto un eco marginale nella discussione nel nostro paese con una difficoltà a comprendere la portata non solo culturale ma anche pratica della visione sindemica, visione che suggerisce un orientamento molto differente alla medicina clinica e ai servizi sanitari.
Coniato negli anni 90 dall’antropologo americano Merril Singer per descrivere la interelazione tra AIDS e tubercolosi, il concetto di
sindemia riproposto nel contesto di COVID-19 da Horton pone al centro l’interazione tra Sars-Cov-2 e le patologie croniche (obesità, diabete, malattie cardiovascolari etc.) sottolineando quello che è sicuramente una delle evidenze consolidate, cioè che COVID-19 peggiora le patologie croniche e le patologie croniche peggiorano COVID-19. Questa evidenza associata al fatto che COVID-19 ha effetti peggiori sulle popolazioni più emarginate, vulnerabili e che spesso vivono in povertà suggerisce che la strategia di concentrare gli sforzi esclusivamente sul virus potrebbe essere sul medio lungo periodo poco efficace, poiché il concetto di sindemia implica anche la necessità di migliorare la salute generale della popolazione e la cancellazione delle diseguaglianza. Di fatto, il modello sindemico scarta le interpretazioni convenzionali delle malattie come entità distinte l'una dall'altra e indipendenti dai contesti sociali in cui si trovano………

Chiudiamo questa breve rassegna con un articolo che, pur non provenendo dall’ambito scientifico, ci sembra capace di presentare un quadro d’insieme utile a meglio comprendere la differenza, tutt’altro che sottile e limitata al solo aspetto sanitario, fra valutare Covid19 una sindemia e non una “normale” pandemia

Sindemia: la febbre di un mondo malato

Articolo di Francesco Bilotta consultabile nel sito del quotidiano “Il Manifesto”.

A fine Settembre è stata la rivista scientifica inglese The Lancet attraverso il suo direttore Richard Horton, medico e docente onorario in diverse istituzioni formative, a sostenere la necessità di usare il termine “sindemia” per rappresentare l’insieme delle cause e degli effetti di questa catastrofe sanitaria, sociale ed economica. Perché, se in una pandemia il contagio colpisce in modo indistinto tutte le persone e si manifesta con uguale pericolosità, in una “sindemia” il contagio colpisce in modo grave soprattutto le persone che presentano certe patologie e versano in precarie condizioni socioeconomiche. La comprensione delle interazioni che si sono stabilite tra coronavirus, situazione ambientale, condizione socioeconomica, patologie pregresse, ha consentito un approccio nuovo e più ampio per definire la «crisi di salute» che stiamo vivendo. E’ stato il medico e antropologo americano Merrill Singer a introdurre negli anni ’90 il termine “sindemia” durante le ricerche da lui effettuate sulle disparità sanitarie, l’abuso di sostanze, l’Aids. In queste ricerche veniva preso in esame non solo il fatto infettivo, ma il contesto in cui esso si manifestava. Afferma Singer: “In certe situazioni due o più malattie interagiscono in forma tale da causare danni maggiori della somma delle singole malattie e l’interazione con gli aspetti sociali ci fanno dire che non si tratta di semplice comorbilità”. L’obiettivo di Singer è quello di definire “un modello di salute che si concentra sul complesso biosociale”, allo scopo di individuare i fattori che promuovono e potenziano in modo sinergico gli effetti negativi di una determinata malattia. E’ questa sinergia, questa cooperazione tra fattori a caratterizzare la “sindemia” Ed è quello che sta avvenendo con covid-19. I dati disponibili dimostrano che le persone che hanno più probabilità di rimanere gravemente malate o morire sono quelle che già soffrono di altre malattie come obesità, diabete, problemi cardiocircolatori e respiratori, cancro. Si è, inoltre, osservato che la malattia si manifesta in misura maggiore nelle comunità più svantaggiate da un punto di vista sociale ed economico, nelle minoranze etniche. “La conseguenza più importante del vedere il Covid-19 come una sindemia è sottolineare le sue origini sociali”, afferma Horton. Ormai appare sempre più chiaro che siamo di fronte a un aggravamento della salute della popolazione non solo per la causa dominante (coronavirus), ma anche per il suo intreccio con fattori biologici e sociali sfavorevoli. Le popolazioni più colpite sono quelle che presentano una maggiore vulnerabilità e che vivono nelle aree dove le disuguaglianze sono più acute. Da solo questo virus non sarebbe in grado di produrre tanti danni alla salute umana se non trovasse popolazioni alle prese con un ambiente deteriorato, cattiva alimentazione, elevata incidenza di malattie croniche. Scrive Horton su The Lancet: “Due categorie di malattie stanno interagendo all’interno di popolazioni specifiche, l’infezione causata dal coronavirus Sars-Cov-2 e una serie di malattie non trasmissibili (MNT). Queste condizioni si raggruppano in categorie sociali rispetto a strutture di disuguaglianza profondamente radicate nella nostra società. L’aggregazione di queste malattie su uno sfondo di disparità economica e sociale inasprisce gli effetti avversi delle singole malattie”. Il dibattito si sta arricchendo di contributi che provengono dai ricercatori di vari paesi. Gli studi si stanno concentrando non solo sulle modalità con cui avviene il contagio e su come interrompere la catena di trasmissione, ma anche sulle cause che determinano una maggiore letalità. Si indaga sui “fattori aggravanti” e i contesti socio-ambientali che li hanno favoriti. Perché il virus non agisce isolatamente sull’organismo, ma ha come complici tutte quelle malattie non trasmissibili che le condizioni sociali e ambientali hanno favorito. La povertà è il primo dei fattori a determinare un aumento di letalità. Un virus che si diffonde in una baraccopoli ha conseguenze diverse in una città del nord Europa. Così come in una popolazione piegata dall’inquinamento di aria, acqua e suolo, trova condizioni favorevoli a produrre effetti letali rispetto a una popolazione che vive in aree in cui sono state sviluppate politiche di tutela ambientale. E poi c’è il cibo malsano che si è impadronito delle nostre tavole a fare da detonatore nella comparsa delle malattie non trasmissibili (diabete, obesità, malattie cardiorespiratorie, cancro). Nel 2019 la Fao aveva lanciato l’allarme sull’impatto sanitario del cibo malato come filo nero che collega la distruzione degli ecosistemi e l’insorgenza di gravi malattie. Scrive Horton, riferendosi a uno studio recente: “Il numero di persone che vivono con disturbi cronici sta aumentando. Affrontare il Covid-19 significa affrontare le MNT che sono una causa di cattiva salute, nei paesi ricchi e in quelli poveri”. Le malattie non trasmissibili facendo da amplificatore del virus e continueranno a influenzare la salute della popolazione, rappresentando un terreno fertile per le future pandemie. “Le malattie e lesioni non trasmissibili costituiscono oltre un terzo del bagaglio di malattie per il miliardo di persone più povere del mondo. La disponibilità di interventi accessibili ed economicamente vantaggiosi nel corso del prossimo decennio può prevenire più di 5 milioni di morti nelle aree di estrema povertà”, si legge ancora su The Lancet. “Non possiamo pretendere di restare sani in un mondo malato”, ha affermato Papa Bergoglio, mettendo in discussione il modello di produzione e consumo. La Società Americano di Medicina delle catastrofi e salute pubblica, in riferimento all’articolo di Horton, scrive: “La risposta istituzionale all’attuale crisi deve essere basata su una visione sindemica e non pandemica”. Perché, come aveva scritto Singer nel 2017, “un approccio sindemico fornisce un orientamento molto diverso alla medicina clinica e alla salute pubblica, mostrando come un approccio integrato alla comprensione e al trattamento delle malattie possa avere più successo rispetto al semplice controllo dell’epidemia o al trattamento individuale dei pazienti”. Non si tratta di una semplice questione di termini. Le conclusioni di Horton definiscono nuovi approcci: “Trattare il Covid-19 come una sindemia incoraggerà una visione più ampia, che comprenda istruzione, impiego, casa, cibo e ambiente”.