domenica 23 febbraio 2020

“Sistemi del cibo, globalizzazione, sostenibilità e sovranità alimentare nel Sud del Mondo” – Avigliana 12 Febbraio 2020”

Giacomo Pettenati , Geografo, insegna attualmente Geografia del cibo presso l’Università di Parma dopo un periodo di ricerca e specializzazione presso l’Università di Torino.
Federico Borrelli, Agronomo, ha partecipato a diverse iniziative di cooperazione, sostenute dal Ministero degli Esteri in centro Africa e successivamente, in Haiti, su un progetto supportato dalla Banca Mondiale. Attualmente opera presso ENI  nella divisione che si occupa della costruzione di rapporti con la Cooperazione.

Introduce i lavori G.Pettenati con una panoramica sugli scenari globali dei sistemi del cibo in cui si evidenziano alcuni fenomeni rilevanti. “Mangiare è un atto globalizzato e globalizzante”  questa affermazione di partenza  sottolinea come oggi ogni cibo che poniamo sui nostri piatti e nella nostra dieta contiene ingredienti provenienti da luoghi molto distanti dal nostro paese, e di ciò il più delle volte non ne siamo direttamente consapevoli. Nello stesso tempo ogni scelta alimentare che noi compiamo contribuisce a sviluppare processi di globalizzazione. Più nello specifico osserviamo un articolarsi del fenomeno attraverso questi vettori:
·       Provenienza delle materie prime
·       Catene del valore globali
·       Influenze culturali
·       Impatti ambientali e sociali
Pensiamo, a titolo di esempio, a come scelte legate al cambiamento di trend alimentari legati a fenomeni socio-culturali (alimenti ritenuti più salutistici come la Quinoa ) possano avere effetti rilevanti sulle zone di produzione, dove tali alimenti venivano prodotti in logiche di sostenibilità circolare per la popolazione locale e che, spinte da tali cambiamenti di domanda, si trasformano in monoculture problematiche per le aree produttrici.
“Antichità dello spostamento delle pratiche alimentari” Dalle culle alimentari più storiche, dove si sono sviluppati spontaneamente o sono stati selezionati dalle primordiali pratiche agricole, le sette culle del cibo individuate dagli antropologi si sono nel corso dei millenni via via spostate nel mondo a sostegno delle necessità alimentari dell’umanità in rapido sviluppo. Anche storicamente la conquista di nuovi territori si è spesso accompagnata con la diffusione di pratiche agricole non autoctone (pensiamo alla politica di diffusione della coltivazione del grano in area mediterranea conseguente allo sviluppo dell’impero Romano). O altresì la ricerca di approvvigionamento di peculiari alimenti ha condizionato e sviluppato la scoperta del mondo (La ricerca di nuove rotte per il commercio delle SPEZIE apre la strada all’età delle grandi scoperte geografiche e del mercantilismo (XV-XVIII secolo).
“Il commercio di alcuni prodotti è alla base della globalizzazione economica” Con la scoperta di nuovi mondi, dall’Africa,all’America, alle Indie nei secoli che vanno dal XVI al XIX , si producono vasti fenomeni di globalizzazione economica secondo un modello “Coloniale” che tende alla produzione e commercializzazione di alcuni specifici alimenti con enormi stravolgimenti socio-politici. Ad esempio la produzione di zucchero (piantagioni) sostiene la struttura socio-economica e politica del primo colonialismo in America Latina (XVI secolo) con pesanti conseguenze in termini di: Schiavismo, Trasformazione territoriale, Saccarocrazia (Eduardo Galeano). Da queste premesse deriva l’idea occidentale dello sviluppo economico dei paesi del sud del mondo, dove l’equazione lineare “maggiore globalizzazione = maggiore sviluppo” , ha permeato anni di intervento delle politiche internazionali nella fase di post e decolonizzazione. Ciò si è rivelato a distanza di diversi decenni pesantemente errato, in quanto al crescere della globalizzazione non si è parimenti ridotta la differenza tra Nord e Sud del mondo, mantenendo alta la disparità di reddito, di sviluppo, di condizioni sociali e più in generale di distribuzione di ricchezza tra paesi e all’interno dei paesi stessi, non contribuendo, se non in modo insufficiente, a ridurre le disuguaglianze. Di ciò si trae immediata consapevolezza da un grafico mostrato, detto a “Coppa di Champagne”, dove si evidenzia come il 20% della popolazione mondiale più ricca, detiene l’82,7 % della ricchezza globale, mentre il 20% più povero dispone di solo l’1,4 % del reddito globale.
A questa visione di uno sviluppo lineare per i paesi del sud del mondo, legato al modello di globalizzazione, si contrappongono teorie economiche diffusesi a partire dagli anni settanta del novecento, che dimostrano come questo squilibrio tra economie sviluppate e sottosviluppate, sia invece funzionale al mantenimento di “privilegi” per i paesi più evoluti, dopo il superamento del modello coloniale. Quella che oggi noi chiamiamo globalizzazione è di fatto la diffusione a livello globale di un modello economico. Questo riportato al settore della produzione di cibo è di fatto l’esportazione del modello Agro-Industriale capitalistico ed in senso più ampio del neoliberismo. Sicuramente portatore di alcuni elementi positivi come la crescita della produttività, ma che a fronte del fallimento di altri modelli legati all’economia pianificata, viene ora presentato come l’unico modello possibile. (C’è una frase molto famosa di Margaret Thatcher degli anni ‘80 che dice: “There is no alternative”, non c’è alternativa).
Questi i cinque elementi chiave della globalizzazione contemporanea:
·       Il capitale è sempre più mobile (ricerca di profitti e di mercati su scala globale)
·       Innovazioni organizzative delle imprese (multinazionali)
·       Riduzione dei costi e dei tempi di trasporto e comunicazione
·       Aumento dei flussi di capitale finanziario
·       Diffusione di politiche e programmi che favoriscono tutto questo.
Questo come si riflette sul sistema di produzione del cibo su scala globale?
Queste le principali caratteristiche del consumo e post consumo( sprechi, distruzioni,etc) del cibo globalizzato:
·       globalizzazione degli scambi commerciali a livello internazionale
o    Valore delle esportazioni agroalimentari italiane: da 5.500 mln $ (1980) a 41.000 mln $ (2016)
o   Valore delle importazioni agroalimentari italiane: da 13.000 mln $ (1980) a 45.000 mln $ (2016)
·       ruolo delle grandi imprese multinazionali
o   Le 10 principali aziende multinazionali del food (Big Food) possiedono centinaia di marchi di cui siamo abitualmente consumatori, ed attraverso tale concentrazione determinano le politiche di prezzo e di approvvigionamento. (fonte OxFam – ONG Inglese)
·       Divisione internazionale del lavoro e le global value chain
o   Nei prodotti al consumo la catena del valore della filiera delle materie prime è sempre più globale e distribuita in varie parti del mondo, parte per necessità ( tipicità delle produzione) parte per scelta economica di costi di produzione, incidendo sulle scelte di sviluppo di intere aree geografiche.
La filiera agro alimentare mondiale è rappresentabile dal modello a clessidra. Dove ai due estremi ( i lati più ampi della clessidra) troviamo una pluralità di soggetti dediti alla produzione del cibo / materie prime e dall’altro lato la massa dei consumatori. I punti di strozzatura della clessidra sono rappresentati dal sistema di aziende di trasformazione e dal sistema distributivo sempre più rappresentato dalla grande distribuzione organizzata, con caratteristiche sempre più internazionali ( Multinazionali di Food Producers e Multinazionali GDO).Questa strozzatura fatalmente determina il concentrarsi del potere di determinazione del prezzo di remunerazione ai produttori agricoli ed il prezzo di vendita al consumo, concentrando in queste organizzazioni un potere enorme. Per provare a superare questo modello, una delle linee di cambiamento è rappresentato dal passaggio da una produzione su larga scala a qualità indistinta o non peculiare, a produzioni su medio-piccola scala ad alta impronta qualitativa. In questo secondo caso sarà più agevole ottenere remunerazioni più significative del prodotto all’origine caratterizzato da qualità alta e peculiare. Il lato oscuro della medaglia è che ancora non è dato conoscere come si potranno soddisfare le esigenze alimentari di una popolazione mondiale che raggiungerà i 10 miliardi di abitanti a metà di questo secolo, con produzioni di nicchia su scala ridotta. (da commodity a specialty) Ambienti diseguali caratterizzano da un punto di vista geografico il panorama dei sistemi di produzione del cibo globalizzati. Vi troveremo:
·       Centri urbani dove si prendono le decisioni e si consuma
·       Spazi della produzione agroindustriale globalizzata
·       Spazi dell’agricoltura specializzata
·       Spazi della produzione per l’esportazione (eterodiretta)
Uno dei fenomeni emergenti nel contesto prima delineato è quello del “Land Grabbing” (Accaparramento dei terreni), che si sta verificando soprattutto in Africa, dove nazioni straniere stanno comprando o affittando a lunga scadenza, dai governi locali, vaste aree di territorio per impiantare nuove coltivazioni sostanzialmente per le esportazioni verso i loro mercati ( Es. Cina,Paesi Arabi,India ma anche USA,GranBretagna e Germania). Ciò avviene senza tener conto dell’utilizzo tradizionale dei territori per la soddisfazione dei fabbisogni locali, ed in contesti tendenzialmente a bassa capacità di gestione statale o peggio ad alto tasso di corruzione. Elementi che frenano la globalizzazione della produzione di cibo, sono rappresentati in primo luogo dalla rilevanza e peculiarità dei territori ( elemento Naturale) ed in secondo luogo dall’aspetto culturale, in quanto l’adattamento a cibi o abitudini alimentari diverse da quelle tradizionali della propria area, richiedono lunghi tempi di adattamento. Al contrario forze che spingono verso la globalizzazione sono costituite dal Libero Mercato con:
·       Integrazione dell’agricoltura nelle dinamiche globali dell’accumulazione capitalistica
·       Accordi commerciali internazionali (GATT, NAFTA, TTIP, CETA, CEE),
·       Governance globale scambi economici (WTO)
e dalla Lotta alla Fame con:
·       Sforzi internazionali per diritto al cibo hanno esportato un modello economico
·       FAO, World Bank, FMI
·       Rivoluzione verde
·       Passaggio autosufficienza-sicurezza-sovranità
Occorrerà insistere sulla diffusione del concetto di Sovranità Alimentare che si declina nella seguente definizione:
“il diritto dei popoli, delle comunità e dei Paesi di definire le proprie politiche agricole, del lavoro, della pesca, del cibo e della terra che siano appropriate sul piano ecologico, sociale, economico e culturale alla loro realtà unica. Esso comprende il vero diritto al cibo e a produrre cibo, il che significa che tutti hanno il diritto a un cibo sano, nutriente e culturalmente appropriato, alle risorse per produrlo e alla capacità di mantenere se stessi e le loro società”. Via Campesina, 1996

Dal punto di vista dell’agronomo ( F. Borrelli ) viene sottolineato come la discussione sulla produzione di cibo affronti una realtà complessa che fino ad ora ha scontato per lo più un approccio puramente economicistico o, al più basso livello, quello folcloristico, mentre sarà sempre più necessario un approccio scientifico multidisciplinare. Qualche dato sul sistema dei Produttori:
90% della produzione agricola mondiale è in mano ad agricoltori con aziende agricole di carattere familiare (500 milioni di aziende agricole per un numero di circa 2,5 miliardi di addetti)
80% di queste aziende agricole familiari opera su appezzamenti inferiori ad un ettaro (Sostanzialmente deve utilizzare circa la metà di questa produzione per autoconsumo, e con la vendita dell’altra metà ricavare i mezzi per l’azienda agricola stessa e per le necessità di vita non strettamente alimentari come lo studio, la sanità, la casa, etc.)
Risulta evidente che una struttura del genere è fortemente esposta e vulnerabile a qualsiasi stress proveniente dall’esterno, sia di origine economica sia di origine naturale. L’evidenza dei cambiamenti climatici di questi ultimi decenni porta ad un aumento considerevole del  rischio di perdita dei raccolti dovuti a condizioni meteorologiche estreme e sfavorevoli che inducono, in ultima istanza, ad un aumento consistente della malnutrizione.  La sfida posta dall’agenda dell’ONU al 2030 è quella di ridurre a zero la Fame nel mondo. Tale obiettivo, se si considerano le proiezioni disponibili ad oggi, resta purtroppo ancora una utopia, in quanto vengono previsti in base all’evoluzione delle dinamiche attuali, al 2050 ancora 600 milioni di persone che soffriranno la fame. Questo della malnutrizione è un carattere endemico che porta al sottosviluppo di interi paesi, in quanto risulta l’origine di un circolo vizioso che collega la fame alla carenza di cultura/istruzione ed alla fine alla incapacità culturale ed oggettiva di migliorare le condizioni di sviluppo di un’area ed il conseguente tenore di vita. La centralità del modello di agricoltura familiare sarà fondamentale da qui al 2050, e deve essere compreso sia dai consumatori sia dal mercato e dagli organismi che dettano le regole dello sviluppo globale (Governi Occidentali, Governi dei Paesi emergenti, Organizzazioni Internazionali di Sviluppo e Cooperazione, Enti mondiali di regolazione del Commercio e della Finanza). Di fatto ciò non è avvenuto finora e, come si diceva prima, al crescere del modello basato sul Mercato libero, abbiamo riscontrato una crescita delle disuguaglianze, al contrario di ciò che si auspicava. Esempio Haitiano – a seguito di una crisi politica nel 1986 WTO condiziona la concessione di aiuti alla abolizione dei dazi sulle importazioni di cereali. Ciò determina che il paese che era in una condizione di autosufficienza nella produzione di riso, si trova inondato da importazioni a prezzi competitivi del riso americano con conseguente distruzione dell’intera filiera di produzione nazionale, con la conseguenza finale di rendere il paese totalmente dipendente, per il cibo base della dieta locale, dalle importazioni dall’estero. Analogamente nel 1991, a seguito di un embargo statunitense alle importazioni di cacao e caffè, la filiera di produzione del caffè haitiano, caratterizzato da una qualità superiore, entra in profonda crisi. Gli agricoltori disperati abbandonano le piantagioni e le estirpano per la produzione residuale di carbon fossile. Ciò causa la completa distruzione della filiera del caffè generando di fatto lo spopolamento delle campagne ed un movimento di inurbamento misero nelle bidonville attorno alla capitale. Quando nel 2010 avviene il terremoto, la conseguenza tragica è quella di un bilancio di 300.000 morti. Questa ricostruzione forse schematica non è però così distante dalla realtà vissuta. Analogamente la povertà rurale in Africa non è immediatamente percepita dal pubblico occidentale, ma lo squilibrio che essa genera tra città e campagna causa un forte inurbamento precario verso le città maggiori e da qui, successivamente, dà origine alla spinta dei flussi migratori verso aree occidentali più agiate. Tale risultato finale è invece molto ben recepito ed enfatizzato dalle popolazioni ricche.
Le soluzioni?
Il modello di sviluppo agricolo esportato dai Paesi Occidentali, anche attraverso i programmi legati alla rivoluzione verde, di fatto non ha funzionato e ha contribuito ad inasprire le disuguaglianze. Ciò è largamente dovuto ad un approccio economicistico che ha teso a semplificare il modello di produzione, non tenendo conto delle realtà geopolitiche locali, e di fatto esportando un modello agroindustriale intensivo adatto ai climi temperati e ad una struttura di aziende agricole ad ampia estensione terriera. Ciò ha prodotto il risultato che il 72% dell’intera produzione agricola mondiale è costituito da 14 prodotti (grano, mais, riso, manioca, patate, etc), con una notevole perdita di biodiversità e l’abbandono di colture locali selezionate naturalmente nel corso dei secoli, che meglio potrebbero adattarsi anche ai cambiamenti climatici in corso. Ovviamente affrontare modelli diversificati implica mettere in campo molte più conoscenze di quelle richieste da un modello semplificatorio che tende ad esportare il modello Agroindustriale estensivo, ma ciò sarà reso ineluttabile dalla necessità di considerare anche la capacità di rigenerazione della fertilità dei suoli. Soprattutto in aree tropicali e subtropicali ci si trova ad affrontare un Eco Sistema dalle caratteristiche della foresta primordiale e non certo quello delle grandi estensioni di pianure in zone temperate. Da ciò ne deriva, inoltre, la necessità di trovare modelli di sviluppo che richiedano minori investimenti per unità agricola e che siano capaci di aumentare l’efficienza produttiva e la sostenibilità; avendo sempre in mente l’imperativo di dover sfamare 11 miliardi di umani alla fine del secolo, in modo sostenibile per il nostro pianeta Terra. Dovremmo provvedere ad un cambio del modello di sviluppo che tenga conto della frammentazione delle proprietà, che non si basi su una logica di colture estensive e che sia capace di coniugare la piccola dimensione delle aziende agricole con l’incremento dell’efficienza e con la capacità di fare rete lungo l’intera filiera. Per avere speranza di successo in questo indirizzo occorrerà investire soprattutto sulla cultura e sullo sviluppo delle capacità organizzative. Altra leva imprescindibile potrà essere l’uso di tecnologie digitali applicate all’agricoltura che supportino lo sviluppo organizzativo delle filiere, che agevolino la gestione della dinamica dei prezzi nei differenti periodi di raccolto, per agevolare il bilanciamento di remuneratività tra produttori e grandi acquirenti. Tali tecnologie saranno ancora più determinanti nella diffusione delle conoscenze sulle migliori pratiche agricole (Best Practice), sull’istruzione degli agricoltori e sulla diffusione di modelli cooperativi. E lo saranno ancor più di quanto avvenuto attraverso la meccanizzazione, in parte forzata dall’esportazione del nostro modello agroindustriale.

sabato 22 febbraio 2020

8 MARZO ad Avigliana

L’8 marzo le donne aviglianesi che vogliono festeggiare la Festa della donna saranno impegnate a Torino a Just the woman I am e quindi non ci saranno iniziative in questa data ad Avigliana. Ma il programma per celebrare l’8 marzo è comunque ricco. A partire dalla mostra fotografica di Andrea Musso dal titolo “Uno scatto… Tante emozioni” organizzata alla Chiesa di Santa Croce in piazza Conte Rosso dalle Dragonesse di Avigliana si tiene dal 22 marzo all’8 marzo, dal lunedì al venerdì per gruppi su prenotazione e il sabato e domenica dalle 10 alle 18.
Per informazioni e prenotazioni: 339441896- 3338841162 – 3398765375.



La rivoluzione delle donne in Kurdistan è il titolo della serata di sabato 29 febbraio 2020 alle 21 all’Auditorium Bertotto. Eddi Marcucci, attivista Notav che ha partecipato alla lotta delle donne in Kurdistan parlerà del diritto alla legittima difesa delle combattenti curde, simbolo di resistenza delle donne di tutto il mondo contro la mentalità e la violenza patriarcale, contro un sistema gerarchico maschile che limita i diritti e le libertà femminili e di tutti gli esseri umani.

Venerdì 6 marzo 2020 alle 20,30 in biblioteca sarà presentato il libro di Giorgia D’errico Femminile plurale in un incontro organizzato da Cgil, Sei Avigliana, Anpi e Circolarmente con il patrocinio del Comune di Avigliana. Direttamente dalla voce delle lavoratrici il racconto esclusivo e inaspettato di una società ottocentesca: quella italiana.

mercoledì 5 febbraio 2020

Il "Saggio" del mese - Febbraio 2020


Il “Saggio” del mese

 FEBBRAIO 2020

In opportuno collegamento con la seconda parte del programma 2019/2020 di CircolarMente sia il saggio di questo mese che quello del prossimo avranno il “cibo” come argomento trattato.  Il titolo di quello che presentiamo per primo potrebbe indurre a ritenerlo una sorta di storia dell’arte culinaria, ma ciò non è se non in qualche passaggio a latere. E’ invece la ricostruzione dell’evoluzione storica del concetto di “cibo” visto non solo nella sua veste fisica di alimento quanto piuttosto in quella di componente fondamentale della cultura e della socialità umane in senso lato
Felipe Fernandez-Armesto (accademico storico inglese di origini spagnole, autore di numerosi saggi storici dedicati in particolare ad aspetti storico-antropologici) articola la storia (universale) del cibo attraverso alcuni passaggi “rivoluzionari” che, a suo avviso, ne hanno contraddistinto l’evoluzione imprimendo caratteri significativi e permanenti al nostro rapporto “culturale” con il cibo. Sono passaggi di rottura che non necessariamente si susseguono in rigoroso ordine temporale, ma al contrario, proprio per la specificità del cibo, si realizzano progressivamente su tempi anche molto lunghi sovrapponendosi l’uno con l’altro a creare la vasta ed articolata storia del cibo. Sono otto le “rivoluzioni” che Armesto ritiene siano i capisaldi che segnano l’indissolubile rapporto dell’uomo con la cultura del cibo:
1.   l’invenzione delle cucina,  come differenziazione dell’uomo dal resto della natura e come evento inaugurale della trasformazione sociale
2.   la scoperta della valenza del cibo che va ben oltre la sua natura di sostentamento
3.   l’avvento della pastorizia, dell’allevamento, dell’addomesticazione
4.   la rivoluzione agricola
5.   il cibo come elemento di distinzione sociale
6.   il commercio del cibo a lungo, lunghissimo, raggio
7.   lo sconvolgimento ecologico degli ultimi secoli
8.   l’industrializzazione del cibo

1 – L’invenzione della cucina. La prima rivoluzione
Difficile, se non impossibile, conteggiare con precisione per quante centinaia di migliaia di anni per l’uomo, nella sue tante forme evolutive, il cibo è sempre e solo stato cibo crudo, da raccogliere o da spolpare. (Un rapporto con gli alimenti tutt’altro che cancellato dalla cultura umana: ancora oggi una “moda” culinaria si basa sull’utilizzo di cibi esclusivamente crudi). Ed è altrettanto difficile stabilire con adeguata precisione tempo e modalità dell’irruzione del fuoco nella cultura tecnica dell’uomo. Poco importa per le finalità di questo saggio ricostruire tutti i probabili passaggi attraverso i quali il fuoco è stato addomesticato dall’uomo, ed al tempo stesso non è possibile, sulla base dei pochi e non facilmente decifrabili reperti archeologici, ricostruire con certezza le modalità con le quali sia stato tecnicamente associato alla preparazione del cibo. Quel che è certo è il fatto che la stessa “idea” di cucinare nasce solamente con la rivoluzione resa possibile dal fuoco. Una delle ipotesi, quella più accreditata, è che i nostri antenati siano stati favorevolmente impressionati dalla qualità del cibo, animale e vegetale, naturalmente “cucinato” da incendi spontanei. Comunque sia la cucinatura del cibo, da questo momento in poi, conosce una costante evoluzione, seppure spalmata in lento procedere su molte migliaia di anni. Un rapporto con il cibo che coinvolge anche gli stessi cibi ancora mangiati crudi. I reperti testimoniano infatti, a testimonianza dell’affermarsi di una propensione al “gusto”, il progressivo ricorso a condimenti atti a renderli sicuramente più commestibili, ma anche semplicemente più invitanti. Ma l’antesignana cultura culinaria, lungo questo lunghissimo arco di tempo, si dispiega ovviamente soprattutto sul cibo cucinato alla fiamma o bollito. Esistono tuttora in numerose usanze culinarie “tecniche” di cottura e di bollitura in acqua che usano gli “utensili” della cucina primitiva, ovvero parti degli animali cacciati, in prevalenza sacche intestinali e pelli. Per non dire poi della onnipresenza della cottura su braci e della sua evoluzione tecnica in quella su lastra di pietra. Nulla nella sostanza, al di là della raffinatezza tecnica degli odierni accessori, è in questo mutato da allora. Ma dalla domesticazione del fuoco a questi primitivi livelli di arte culinaria il salto, per quanto dilatato nel tempo, è notevole: inventiva, fantasia, ingegno sono doti umane in buona misura sollecitate anche dal bisogno, prima, e dal piacere, poi, di avere un cibo sempre più accattivante e più facilmente consumabile L’invenzione di utensili specializzati, quali recipienti di argilla, pietra lavorata, e poi in metallo, sono una invenzione relativamente tarda nella storia dell’umanità, databile attorno a poco più di dodicimila anni fa e indispensabili per il collegato avvento della “frittura”. Una rivoluzione che completa il sorgere della tecnica culinaria, rimasta intatta nella sua base “fisica”, in ispecie per quanto concerne la modalità di trasferimento del calore mediante le radiazioni ad infrarossi generate dal fuoco. Da questo punto di vista l’unica vera innovazione è avvenute ai nostri giorni con l’utilizzo delle radiazioni a microonde negli appositi moderni forni. Ma il più significativo cambiamento culturale avvenuto con “l’invenzione della cucina” è stato sicuramente l’incentivo che ne è derivato alla vita comunitaria: cucinare e consumare insieme il cibo hanno creato un formidabile rafforzamento dei legami comunitari. Molto è rimasto di questa straordinaria valenza: ancora oggi festeggiamenti, accordi, programmi, relazioni nascono e si sviluppano meglio davanti ad un buon cibo. E come vedremo all’atto del mangiare, alla suo carattere puramente nutritivo, si aggiunge fin dagli albori della cucina anche una progressiva  e sempre più significativa valenza “culturale”. E’ la seconda rivoluzione evidenziata da Armesto
2 – Il significato del mangiare. Il cibo come rito e magia
Un argomento che Armesto affronta partendo dal “tabù” della antropofagia, del cannibalismo. Tema, a lungo sospeso fra mito e realtà, quanto mai scabroso per la pretesa autoreferenzialità umana, ma esemplare per comprendere come il cibo abbia molto presto assunto nella cultura umana un significato ed una valenza altamente simbolici. Come per la prima rivoluzione valgono anche in questo caso problemi insormontabili per una ricostruzione cronologicamente precisa dell’assurgere del cibo a “significato culturale”. Come precisato in precedenza poco importa per lo scopo di Armesto individuare con esattezza cronologica la successione dei passaggi di trasformazione nella storia del cibo, la loro comparsa storica non necessariamente segue una linea precisamente consequenziale. e quasi sempre sono processi che già del loro si affiancano e si sovrappongono. Nel caso in questione è lecito supporre un diretto collegamento con la progressiva comparsa del pensiero astratto, con il culto dei morti e con le prime manifestazioni del “divino”, dell’animismo in particolare. Le primitive incisioni rupestri già dicono molto sulla valenza “totemica” di alcuni animali divenuti essenziali nella catena alimentare dei nostri preistorici progenitori. L’attribuire una natura animistica ed un significato totemico a piante ed animali non poteva non confermarsi nel loro successivo trasformarsi in cibo, ponendolo in questo modo a pieno titolo in una sfera metafisica. La stessa antropofagia quindi, per quanto è lecito supporre e prima che in molte culture assumesse valenza di “tabù”, è sussistita per un suo presunto significato simbolico, se non magico, di appropriazione dell’anima, del coraggio, della forza del nemico vinto ed ucciso. Ferme restando le difficoltà di ordine cronologico ben presto il cibo assume pertanto in tutte le culture umane un significato culturale che lo pone su un piano molto più elevato rispetto al suo essere un alimento, una fonte nutrizionale. Diventa il mezzo per una “trasformazione”, che può essere positiva o negativa, e di conseguenza il cibo diventa così divino o diabolico, conferisce potenza e crea legami, può significare vendetta o amore. Con questo carico indissolubile di significato è divenuto strettamente connesso a religione e morale e, non da ultimo, alla medicina. In tutte le culture la sacralità è comunque sempre collegata a determinati cibi, divisi fra “puro” ed “impuro”, e quindi mangiabili o rifiutabili. Anche se non tutti i cibi cerimoniali sono necessariamente sacri. (si pensi ad esempio, per venire a tempi recenti, a cibi cerimonialmente associati ad eventi religiosi, come l’agnello pasquale, ma che non hanno valenza di sacralità. Oppure, al contrario, a cibi che compaiono come sacrali in certi riti, si pensi a quello cristiano del pane e del vino della “comunione”, ma che non per ciò mantengono una  quotidiana “sacralità”). Siamo comunque di fronte a fenomeni culturali straordinariamente complessi ed articolati, da sempre oggetto di studi ed approfondimenti, che, nel contesto del saggio di Armesto, sono sinteticamente presentati, non per essere analizzati a fondo nella loro specificità, ma per testimoniare l’emergere di questo decisivo aspetto nella storia del cibo. Un aspetto che non ha senso affrontare in termini puramente razionali, in quanto strettamente legato all’ordine sopra-razionale e metafisico. Ad esempio i significati attribuiti a certi cibi, in particolare quelli di puro ed impuro, sono, come tutti i significati, convenzioni d’uso ed in quanto tali sempre e comunque arbitrari, e molto legati ai relativi contesti ambientali ed alimentari. In generale, e qui riappare in tutta la sua importanza il significato comunitario del cibo sorto con il nascere della “cucina”, il cibo rivestito di un significato simbolico è uno strumento formidabile per sancire l’identità e la coesione di una comunità e la sua corrispettiva distanza e diversità dalle altre comunità. L’evoluzione storica, soprattutto a partire dalla modernità “occidentale”, sembra aver annacquato questa valenza del cibo, ma, a giudizio di Armesto, molti comportamenti alimentari, anche contemporanei, possono essere più pienamente compresi proprio richiamandola e tenendola in giusta considerazione. L’esempio più calzante secondo Armesto (al quale dedica molte testimonianze qui non riportabili vista la loro complessa articolazione) è rappresentato dal permanere di convinzioni (spiegabili solo in collegamento a ragioni di ordine morale, religioso, filosofico, in quanto quasi mai suffragate da validità “scientifiche, non fosse altro per il fatto che la stessa scienza dell’alimentazione è in costante e contraddittoria evoluzione) per quanto concerne il valore “medicinale e salutista” del cibo. La storia del cibo, anche recente, è ricchissima di esempi di cibi ritenuti curativi, lenitivi, se non miracolosi, che non hanno minimamente retto la controprova scientifica, se non per un loro possibile effetto placebo. In questo senso sono paradossalmente più “sinceri ed onesti” i cibi vantati esclusivamente per loro doti “magiche”, basta crederci ovviamente. Alcune scuole di pensiero nutrizionale, quali ad esempio quella del valore dei cereali, sostenuta nell’Ottocento da un certo  Iohn Harvey KELLOG, piuttosto che quella alternativa del valore della carne, sostenuta negli stessi anni, da un certo Justus von LIEBIG, ambedue raccontate da Armesto con precisa ricostruzione, sono nate proprio sulla base di opinioni salutiste che molto devono al significato filosofico e simbolico del cibo, anche se, visto il loro crescente successo commerciale, ben presto si sono uniformate ad altre considerazioni ben più concrete. Ma questo aspetto del cibo lo si vedrà meglio nella ottava rivoluzione.
3 – Allevare per mangiare. La rivoluzione della pastorizia, dalla “raccolta” del cibo alla sua “produzione”
E’ opinione tradizionale che la pastorizia si sia affermata in epoca preistorica come naturale evoluzione delle pratiche di caccia, e in un identico rapporto evolutivo stanno la raccolta e l’agricoltura. In realtà questo indubitabile processo evolutivo è stato molto più articolato e complesso, essendo fatto di successivi passaggi di perfezionamento di tecniche diverse, di un naturale ed automatico passaggio. Basti pensare che la stessa caccia, attività umana onnipresente, ha avuto però forme molto diversificate legate all’ambiente ed alla fauna che lo abitava. Non tutte queste forme possono essere considerate un sicuro “incubatore” dell’evoluzione in pastorizia ed allevamento. Occorre inoltre considerare che per un lunghissimo periodo la caccia attiva è stata preceduta, e poi altrettanto a lungo affiancata, dal semplice consumo di animali già morti, di vere e proprie “carogne” contese agli altri carnivori. E la pastorizia, che ovunque ha sempre preceduto l’allevamento, poteva comunque sorgere solo là dove il cibo era ottenuto da animali vivi. E’ lecito quindi supporre che le prime forme di pastorizia si siano via via consolidate in relazione a specifici tipi di caccia, in particolare quella di quadrupedi già naturalmente votati al radunarsi in greggi e mandrie, che implicava, nel costante rincorrersi, una sorta di simbiosi fra cacciatori e prede fino ad assumere la forma di un nomadismo controllato. Non a caso ancora ai nostri giorni sopravvivono etnie di cacciatori-raccoglitori che non hanno mai sviluppate pratiche di allevamento. Armento apre però questo capitolo citando una curiosa vicenda, ai più sconosciuta, che testimonia di una propensione all’allevamento che, in base a reperti inoppugnabili, ha certamente preceduto la stessa pastorizia: l’allevamento di lumache. Animali tanto innocui quanto preziosa fonte di cibo ipercalorico, che non richiedono spazi particolari, facili da nutrire con semplice erba, sono stati in effetti il primo animale “allevato” dall’uomo in moltissime aree e culture.  La propensione mentale a considerare l’allevamento una forma praticabile di reperimento di cibo è quindi evolutivamente legata anche alle lumache, constatazione che, va detto, un poco sembra offendere l’umano orgoglio! Un orgoglio che ha invece ragione di essere se si considera che, dopo la cottura dei cibi, la loro sistematica produzione controllata, grazie a pastorizia-allevamento e all’agricoltura, è stata la più grande innovazione nella storia alimentare umana. Una innovazione che, nel caso della pastorizia-allevamento, non è stata priva di scelte difficili, la prima delle quali è consistita proprio in quella di abbondonare la caccia come fonte primaria, se non esclusiva, di procacciamento di cibo. Non certo  per il fascino romanticizzato del cacciare, che pure da sempre esiste e permane in moltissime culture, e non tanto per il fatto di aver svolto egregiamente, per centinaia di migliaia di anni, il suo compito di sostentamento (è stato calcolato che in condizioni ottimali di caccia era assicurato alle popolazioni di raccoglitori/cacciatori un apporto calorico di circa tremila calorie giornaliere, più che sufficiente per gli stili di vita praticati) quanto perché pastorizia ed allevamento, ad indubbi vantaggi, hanno aggiunto non pochi, e non poco pesanti, inconvenienti collaterali: lavoro continuo e faticoso, legame costante con gregge e mandria, ma soprattutto il fatto che il bestiame è fonte inesauribile di infezioni. La ricca fonte di carne commestibile non è rimasta a lungo a disposizione della comunità, Nel capitolo dedicato al cibo come elemento di distinzione sociale si vedrà come la carne sia divenuta una precisa testimonianza in questo senso, ed in quello dedicato all’industrializzazione del cibo come sia ritornata ad essere il cibo di massa per eccellenza. La naturale propensione al gregge ed alla mandria spiega quindi le ragioni che hanno selezionato, pur in una notevole diversità di sottospecie, le tipologie di animali da allevamento, alle quali si sono poi aggiunte quelle di volatili facilmente addomesticabili. Interessante è la constatazione che la carne di allevamento abbia progressivamente cancellato dalle tavole la carne di selvaggina. Meno omogeneo, rispetto alla diffusione di pastorizia ed allevamento, è stato invece lo sviluppo collegato della lavorazione di latticini e formaggi. I prodotti caseari non compaiono in moltissime cucine, quali ad esempio quella cinese, fino ad aver geneticamente indotto nelle popolazioni coinvolte la mancanza di produzione fisiologica di lattasi, la proteina che consente il metabolismo del lattosio. Ma il passaggio rivoluzionario all’allevamento non ha interessato con identica rilevanza una forma di caccia che, al contrario, ha conosciuto uno sviluppo incredibile nel corso dell’ultimo secolo: la caccia in mare. E’ stato calcolato che il tonnellaggio di pescato avvenuto nel solo 900 supera l’intero pescato fatto dall’uomo da quando la pesca in mare è divenuta pratica diffusa di procacciamento di cibo. Anche per la caccia in mare si sta comunque concretizzando una progressiva evoluzione verso l’allevamento, ma è un passaggio pressoché imposto dal concreti rischio di esaurimento delle prede da cacciare.
4 – La terra commestibile. Il dominio del mondo vegetale
Jack Hartlan, un agronomo pioniere dell’ecologia storica, sperimentò che con un falcetto di pietra in un’ora si potevano raccogliere quasi due chili di frumento selvatico, una razione decisamente generosa. Perché allora i nostri progenitori, più di diecimila anni fa, decisero comunque di abbandonare la raccolta e passare alla agricoltura? Perché scegliere un lavoro continuo, faticoso, spesso infruttuoso? Perché dare avvio alla più grande rivoluzione di tutta la storia umana? Una rivoluzione avvenuta nell’arco di pochi millenni praticamente in tutte le parti del pianeta al tempo antropomorfizzate. Nessuna delle risposte finora avanzate è del tutto soddisfacente, anche perché nelle aree in cui ciò avvenne non mancavano sufficienti risorse alimentari naturali, ad esempio i delta dei fiumi del sud-est asiatico, uno dei primi siti “agricoli”, erano dei veri e propri mari di riso selvatico. E convinzione sempre più diffusa che la tradizionale idea dell’evoluzione “naturale”, automatica, dalla raccolta all’agricoltura possa essere completata con il concorso di altri fattori. E’ possibile ad esempio che il rapporto fra la nascita dell’agricoltura e quella dei villaggi/città, sedi di potere politico e religioso, con la prima madre della seconda, possa essere ribaltato, e cioè che ragioni legate al “potere” siano state quantomeno di ulteriore incentivo all’avvento delle tecniche agricole. Restano accertati ed indiscussi i vantaggi che l’agricoltura ha comportato fin dal suo nascere: fame più rara, anche grazie al magazzinaggio, salute migliore con meno patologie croniche, la predisposizione alle carie ad esempio. Certo che il prezzo in termini di fatica, di stanzialità forzata, di continua battaglia con eventi naturali, parassiti, altri animali, è stato altrettanto certo e pesante. Tanto da rendere meno certo il verdetto della classica bilancia. Va al di là degli scopi del saggio di Armesto questa ricostruzione storico-antropologica, quel che conta ai fini della sua storia del cibo è che semplicemente così è stato e che è avvenuto, a maggior conforto della tesi del passaggio non automatico dalla raccolta all’agricoltura, in regioni comunque già ricche di risorse naturali “take away”. Un processo quindi in parte inconsapevole o sollecitato da consapevolezze non solo alimentari, ma anche religiose e politiche. La coltivazione delle piante a fini alimentari si è in ogni caso diffusa ovunque tanto da aver letteralmente trasformato buona parte dell’intero pianeta “abitabile” sconvolgendo i precedenti paesaggi e sistemi ecologici. Fino a giungere ai nostri giorni in cui le piante “coltivate” forniscono, finendo direttamente sulle nostre tavole o indirettamente in veste di alimento degli animali di cui ci cibiamo, ben il 90% del cibo consumato. Ed imponendo, come ricaduta tutt’altro che secondaria, la presenza dominante, se non totalizzante, delle coltivazione della specie vegetale alla base dell’agricoltura, quella delle piante con semi, le graminacee. Sei delle quali, seppure articolate in moltissime sottospecie, sono quelle vincenti: segale, orzo, miglio, riso, mais, e frumento. La ragione che le ha imposte come alimenti base nella storia del cibo non consiste solo nelle loro proprietà nutritive, ma in buona misura anche nel fatto di poter essere facilmente immagazzinate e nel poter essere conservate a lungo, a differenza ad esempio dei tuberi come vedremo a breve. La segale, originaria del Caucaso, si è imposta per la sua adattabilità a climi anche freddi e a diverse altitudini raggiungendo così una diffusione, per quanto marginale, planetaria. L’orzo, originario della Siria, ha parte delle virtù adattative della segale, ma ama altitudini non eccessive ed è stato a lungo l’alimento principe, ancor più del frumento, delle stesse civiltà dei fiumi. Oggi è la coltura base dell’intero altopiano del Tibet. Il miglio, originario delle pianure cinesi del Fiume Giallo, amando però terreni non troppo umidi e non troppo elevati, non ha avuto una diffusione straordinaria, ma ancora oggi in Oriente sopravanza il riso in tutte le regioni non umide. Per capire il ruolo del riso è opportuno dire subito che, ai nostri giorni, fornisce il 10% delle calorie ed il 13% delle proteine consumate, anche grazie al fatto che la sua coltivazione ha una resa eccezionale: un ettaro a riso sostenta mediamente 5,63 persone, il frumento 3,67. Probabilmente originario della regione cinese del Yangtze resta legato all’Oriente come cibo base anche se si è diffuso in buona parte del pianeta (vale come esempio il riso piemontese). A creare in questo modo una situazione che, in linea di massima, vede prevalere il riso ad Est, con aree ristrette dedicate al miglio, l’orzo nell’Asia centrale, la segale già più spostata ad Ovest ma limitata ad aree marginali, ed infine l’Occidente, in senso lato, colonizzato dalle due restanti specie: mais e frumento. Il mais, graminacea anomala con le sue grandi pannocchie, è frutto dell’antica agronomia dei nativi americani. Da sempre è l’alimento base dell’alimentazione sud americana, dove in non poche culture è stato assunto a cibo divino, sacro, e di quella nord americana. Fino a divenire ai nostri giorni, per ragioni legate alle successive rivoluzioni, cibo onnipresente, in forme diverse, della cucina occidentale. Sul trono indiscusso sta però il vero conquistatore del mondo: il frumento. Che ha vinto perché si è rivelato la pianta che di più e meglio si è diversificata adattandosi ad una grande varietà di habitat. Fino aa divenire il simbolo della capacità umana di selezionare e adattare piante ai propri fini alimentari. La massima concentrazione di varietà di frumento è sempre stata nel Sud-Est asiatico anche se la zona che per eccellenza lo ha adottato come coltura base è la valle del Giordano con i suoi campi di farro, il vero capostipite di tutte le varianti di frumento. A completare l’egemonia indiscussa dei cereali nel panorama universale e storico del cibo umano concorre poi un elemento tutt’altro che secondario: tutti sono stati, fin dagli albori della agricoltura, elaborati in forma di bevanda alcolica. Restando al frumento tutti i reperti inducono a ritenere che la sua elaborazione tipica sia stato “il pane”, grazie al fatto che, rispetto alle altre graminacee è la varietà che più contiene “glutine” componente essenziale per una efficace panificazione. Il ruolo del pane, nella sue tanti varianti, è centrale nella storia del cibo. In effetti è il trionfo del pane che spiega quello del frumento. Si è già detto della parallela consistente presenza di altri alimenti vegetali: tuberi e radici, La loro storia non è meno antica di quella delle graminacee ed ancora oggi in molte aree ed in molte culture restano l’alimento base. Facili da coltivare, in grado di dare alte rese, tuberi come il “taro” possono persino concorrere al posto d’onore come prima coltura del mondo. La patata dolce, la patata e la manioca sono state per le Americhe quello che il taro e igname sono stati per il SudEst asiatico ed il Pacifico. Ben noto è poi il ruolo di autentica salvatrice dalla fame della patata per buona parte dell’Europa a partire dal suo arrivo dalle Americhe. Ed oggi la patata è quarta nel mondo, dopo frumento riso e mais, come alimento vegetale. L’unico limite alla maggiore espansione dei tuberi è consistito nella loro facile deperibilità, fattore che ha impedito il loro stoccaggio per compensare eventuali successivi scarsi raccolti. Non a caso, tornando alla storia del cibo nell’Europa moderna, le più gravi carestie si sono avute in periodi di scarso raccolto delle patate, il cibo, quasi esclusivo, della parte più povera della popolazione europea. Ciò non è valso per quella più ricca. Ma questa è la storia della quinta rivoluzione.
5 – Cibo e condizione sociale. Diseguaglianza ed avvento della haute cuisine
Si è verificato molto presto nella storia dell’uomo che il cibo abbia assunto anche la valenza di premio, di riconoscimento, di riconoscenza, per ruoli, posizioni e prove di valore. E non poteva che essere il cibo lo strumento per esprimere tali riconoscimenti vista la pressoché totale assenza di ciò che oggi definiamo “beni voluttuari”, per non dire del “vil denaro”. Lo attestano molti reperti di sepolture del Paleolitico che evidenziano una stretta correlazione tra livelli di nutrizione e segni onorifici. Molto a lungo, fino a scavalcare la rivoluzione della “cucina”, è stata la quantità a contare più che il tipo di alimento o la sua modalità di preparazione. Per quanto è possibile rilevare dai reperti l’avvento di modalità culinarie diverse, collegabili a diversità di condizione sociale, è fenomeno considerevolmente recente. La quantità a lungo a prevalso su una diversa qualità. Non stupisce pertanto che, prima delle contemporanee frugalità salutiste, peraltro presenti solo in alcune culture, l’appetito robusto sia stato considerato una dimostrazione di potenza fisica e di forte personalità. Armesto dedica buona parte di questo Capitolo a ripercorrere testimonianze storiche, dalla prima antichità fino all’era moderna, di appetiti straordinari e di tavole davvero pantagrueliche (Pantagruel esce dalla penna di Rabelais in pieno 1500). E’ solo con il pieno affermarsi dell’arte culinaria, e con quello collegato del “gusto” spesso ottenibile solo con l’utilizzo di ingredienti rari e ricercati, che alla quantità inizia ad abbinarsi la qualità. Ed è solo con l’avvento dell’agricoltura, e delle forme di potere ad essa collegate, che il cibo, sia in termini di quantità che di qualità, entra in stretta dipendenza con la condizione sociale e di censo. Gli abbinamenti classe subalterna-penuria di cibo e classe privilegiata-eccesso (e spreco) di cibo sono il perno attorno al quale ruota gran parte della storia umana del cibo. Fino a tracciare una distinzione non solo fra chi ha e chi non ha, fra chi può e chi non può, ma persino all’interno di chi ha e può fra chi nulla nega all’eccesso e chi, per ragioni di ordine morale e religioso, lo condanna come forma deprecabile di vanità umana. La storia del cibo, in questa sua specifica declinazione, è anche fatta di esaltazione della morigeratezza alimentare, della “frugalità”. A giudizio di molti osservatori il culto dell’abbondanza, e dello spreco, tipica della cultura americana è ancora legato ad una forma di ostentazione ed eccesso come affrancamento proprio dall’originario precetto puritano della frugalità. Non è certo assimilabile ad essa la tendenza aristocratica di privilegiare una forma di distinzione alimentare non più legata all’abbondanza esasperata quanto piuttosto alla raffinatezza, alla ricercatezza degli ingredienti, alla “vestizione” della tavola, alla abilità di preparazione tale da sconfinare nella “arte della cucina”. Restando alla storia del cibo in Occidente è solo a partire dal Rinascimento che la rinuncia all’eccesso quantitativo diventa segno di autentica aristocrazia. Così non è stato ancora per tutta l’epoca romana durante la quale la qualità non era mai comunque disgiunta dalla quantità. E’ solo dai secoli del Rinascimento che, nel nuovo modo di relazionare cibo e status, nasce la “haute cuisine”. Con tutto il suo armamentario, di salse, di intingoli, di audaci accostamenti, di cancellazione dell’aspetto “nutrizionale” e della sua sostituzione del fascino estetico del gusto, di mode per definizione passeggere. Armesto ricorda ad esempio che nel primo Rinascimento il cibo raffinato era ispirato dalla cucina islamica ed ai suoi tre capisaldi: estetica della presentazione, predilezione per l’esotico, sapori i gran prevalenza dolci. Ma già nel tardo Rinascimento, con l’affermarsi del ritorno al classicismo, si afferma la ripresa dei testi culinari greco-romani, segnando una autentica rivoluzione, i cui effetti durano ancora nella modernità. Si passa dal dolciastro islamico a sapori più forti, più “salato-acidi”. Nasce ad esempio la moda dei formaggi ricercati, delle carni elaborate, spesso con contorni di funghi e tartufi, del foie gras, dei pesce con intingoli e salse. Un incentivo al cambiamento venne però dal fatto che lo zucchero, a lungo alimento di lusso, divenne prodotto accessibile e di uso quotidiano diffuso. La necessità di cambiare registro si collega quindi all’imperativo aristocratico della “noblesse oblige”. A questa cucina guarda la nascente borghesia fino ad assumerla come ostentata dimostrazione del potersi ormai permettere lo stesso cibo di corti regali e nobiliari. Diversa, diversissima, ma tragicamente immutata nel tempo, resta la cucina dei poveri. Per tutto l’Ottocento le classi inferiori ancora mangiavano praticamente gli stessi cibi del Medioevo: minestre, pane scuro, verdure, grassi animali di scarsa qualità, legumi. Sono solo leggende culinarie, o fenomeni reali ma databili a periodo ben successivi, le cucine “grasse” alla romagnola o alla romana (letteralmente citate da Armesto). Persino la pasta, divenuta universalmente cibo alla portata di ogni tavola, è rimasto a lungo un genere di lusso. Ancora nel Settecento costava più del doppio del pane bianco, già del suo cibo inaccessibile per moltissimi. Viceversa la storia universale del cibo racconta di alimenti, quali il caviale e le ostriche, divenuti simbolo di gran lusso che sono stati, in determinati contesti, cibo comune alla portata di tutti. A dimostrazione che il cibo è storicamente diventato un elemento in strettissima relazione con le differenze di classe ma con modalità, con piatti ed ingredienti, che sono sempre variati da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra
6 – Gli orizzonti del commestibile. Cibo e scambio di cultura a lungo raggio
L’intero saggio di Armesto è una eccellente commistione di ricostruzione di processi storici e di descrizione degli alimenti, di come siano stati e siano raccolti, cacciati, coltivati, cucinati, consumati. Sono descrizioni accurate e intriganti, spesso sorprendenti e curiose. Questo capitolo è forse quello che di più accompagna il lettore nelle più minute descrizioni di ricette, tavole imbandite, e significative “mangiate”. Impossibile purtroppo riportarle più di tanto in questa sintesi necessariamente centrata sugli aspetti più generali della storia del cibo) Da non pochi secoli è in corso una sorta di guerra, senza vinti né vincitori, fra l’dea di cibo “alla francese” e “alla anglosassone”. Armesto la cita come esempio dell’universale attaccamento alle rispettive cucine tradizionali e di collegata diffidenza, che spesso sconfina in autentica repulsione, per il “cibo che viene da fuori”. La rivoluzione esaminata in questo capitolo è infatti dedicata al contraddittorio incontro fra cibi e cucine diverse che storicamente si è realizzato man mano che le scoperte geografiche, ed il collegato sviluppo delle relazioni commerciali, consentivano nuove e vaste scoperte alimentari. Un incontro che da sempre è stato caratterizzato da un insieme di diffidenze, innamoramenti, chiusure e aperture, non di rado incentivate da interessi economici e politici. Anche in questo caso il cibo si è rivelato un decisivo contenitore culturale in senso ampio, l’aprirsi a nuovi cibi piuttosto che il rifiutarli altro non è che la manifestazione della generale “cultura” che forma e lega una comunità.  Che la cultura alimentare sia in buona misura conservatrice è fatto che da sempre accompagna la storia umana. Il disprezzo del cibo e delle abitudini alimentari degli stranieri era ben radicato già nella prima antichità, come testimoniano i racconti di Erodoto delle prevenzioni degli Egizi verso i cibi che “venivano da fuori”. Da sempre in tutte le culture la cucina tradizionale è sinonimo di identità culinaria, anche se, tutte le ricostruzioni storiche del loro formarsi, evidenziano costanti, seppure lente, “intromissioni” ed aggiunte. Se resta pur vero che il cibo è difficilmente trasferibile da una cultura all’altra la inarrestabile evoluzione dei commerci, lentamente ma inesorabilmente, implica cambiamenti e adattamenti. Non è solo il commercio a provocare queste progressive evoluzioni del gusto, altri fattori storici hanno, fin dagli albori dell’umanità, giocato un ruolo rilevante: guerre ed invasioni di eserciti stranieri, fame e carestie, migrazioni e cambiamenti climatici, venendo poi a tempi storici più recenti, imperialismo e colonialismo. Tutti processi che hanno sempre avuto un doppio senso di circolazione, si importavano e di esportavano cibi, sapori, costumi culinari, a formare sia la stessa cucina “tradizionale” sia un gusto comune e relativamente omogeneo. Come si è anticipato Armesto corrobora queste considerazioni storiche con numerosi e calzanti esempi, alcuni molto legati a situazioni locali specifiche, altre a valenza più generale, ad esempio per quanto concerne alimenti “universali”: sale, zucchero, spezie.  A lungo nella storia il commercio di cibi a lungo distanza è rimasto limitato ai generi di lusso o introvabili in loco, in quanto le componenti base del mangiare sono a lungo state garantite da produzioni locali. Sale, zucchero e spezie invece hanno alle spalle millenni di traffici a lunga distanza. Il sale in particolare è stata in gran misura l’ingrediente più commercializzato su vastissima scala non tanto per il suo uso di “correttore” sui cibi quanto per la salatura degli alimenti per la loro conservazione. Ancora nel tardo Medioevo lungo la direttrice Africa-Europa del Nord, (per la salatura di aringhe e la produzione di burro e formaggi) vedeva un incredibile traffico di quantità impressionanti di sale. Allo stesso modo fra Africa e Medio Oriente già dall’antichità classica e fino a tutto il’alto Medioevo fu intenso il traffico di spezie. Nei secoli successivi, con l’affermarsi dei consumi alimentari delle sempre più consistenti elites nobiliari, il commercio di spezie, in primis pepe, in particolare dall’estremo Oriente, letteralmente esplose. Pe r comprendere il valore di tali commerci basta pensare alle interminabili guerre, non solo commerciali ma veri e propri conflitti armati, fra le potenze marinare dell’epoca: Spagna, Portogallo, Inghilterra ed Olanda. Negli stessi secoli, ma lungo un’altra direttrice, si affermò invece il commercio dello zucchero americano, con volumi altrettanto impressionanti; nel giro di pochi decenni dai primi arrivi lo zucchero di fatto sostituì completamente il miele come dolcificante. E nel 1700 la sua combinazione con il tè orientale contribuì a farla diventare la bevanda nazionale inglese utile a garantire buona parte dell’apporto calorico della nascente classe operaia. Si tratta, parlando di sale, zucchero e spezie, di cibi in qualche modo “accessori”, eppure indispensabili all’alimentazione diffusa europea tanto da essere una delle componenti al sorgere del colonialismo, ossia all’accaparramento in loco della stessa produzione andando oltre il solo trasporto e commercio. L’egemonia occidentale sul commercio del cibo ha caratterizzato per secoli l’intera scena mondiale, per poi trasformarsi, ma sempre mantenendo il governo occidentale dei processi, con l’affermarsi della settime rivoluzione della storia del cibo.
7 – Sfida all’evoluzione. Cibo e scambio ecologico
Lungo tutti i secoli delle nuove rotte commerciali mondiali, ma già in precedenza in quelli dell’antichità, anche se su scala ovviamente molto minore, il cibo non è stato solo base della gran parte del commercio fra popoli e aree geografiche, ma è diventato occasione crescente per una autentica rivoluzione della agricoltura e dell’allevamento in tutti i continenti. Sollecitati da ragioni di vario genere si sono spostati, prodotti alimentari trasferendo e trapiantando esemplari là dove non erano mai esistiti. La svolta epocale è avvenuta a partire dal 1500 con i primi viaggi di Colombo verso le Americhe, e non a caso quindi questa radicale trasformazione è stata battezzata con il nome di “scambio colombiano”. Un processo che ha ben presto, grazie all’apertura di sempre nuove vie di comunicazione, coinvolto l’intero pianeta con una portata ed una incidenze formidabili. Se la deriva dei continenti aveva, da milioni di anni, creato un rigido loro isolamento ecologico, episodicamente interrotto da eventi naturali molto limitati, quali ad esempio semi trasportati da venti e correnti, nel giro di poche decine di anni gli interessi umani danno luogo ad una trasformazione totale.  Il primo esempio, peraltro quello più eclatante, citato da Armesto, per far comprendere la portata di questo cambiamento, sono le grandi praterie americane che, diventate, ma solo nel corso del Novecento, il vero granaio del mondo, ancora in pieno 1500 non avevano mai visto un solo chicco di frumento. Lo scambio colombiano transoceanico, in andata e ritorno da una sponda all’altra dell’Atlantico prima e poi ovunque nel mondo, ha sicuramente costituito il più grande intervento umano sulla storia ambientale terrestre, la maggiore alterazione mai inflitta dall’uomo al resto della natura. Di fronte ad una svolta così radicale la collegata concentrazione a favore del mondo Occidentale, il suo vero beneficiario,  del potere economico e politico sul ciclo del cibo, per quanto di grandissima importanza, appare fenomeno secondario e transitorio. Restando ai mutamenti di ricaduta sul mondo del cibo pochi esempi, fra i tanti citati da Armesto, bastano per avere un’idea della portata delle rivoluzione avvenuta: la cucina italiana è famosa nel mondo per essere un vero e proprio trionfo del pomodoro, le cui origini, è ben noto, sono però nel Nuovo Mondo- Ma non diversa è la provenienza di altri due cibi immancabili nel menò italiano: gnocchi e polenta, ossia patate e mais. Sono sempre le patate che hanno per secoli letteralmente assicurato la sopravvivenza alimentare di buona parte dell’Europa. Che dire poi del tacchino, piatto simbolo della cucina anglosassone, un tempo prelibatezza unica del Nuovo Mondo. E non sono autoctone dell’Europa molte delle verdure che finiscono sulle tavole del Vecchio Continente, le più note sono forse le zucche, le zucchine, in buona compagnia del topinambur. Ma non diversa è stata l’incidenza del fenomeno in senso opposto. Del frumento si è detto, mentre la pampa argentina, che mal si è prestata a coltivazioni intense di cereali, oggi brulica, come i pascoli statunitensi, di bovini dalla carne eccellente ma del tutto inesistenti prima dell’arrivo dei conquistatori europei. Non solo il frumento anche il riso, estesamente coltivato nel Centro America, gli ulivi, e molte varietà di viti, assieme ai maiali, sono lì arrivati con le navi dei conquistadores.  Non è andata diversamente per la banana: ai nostri giorni i Caraibi coprono i tre quarti del commercio mondiale di banane, frutto originario del sud est asiatico.  E spingendoci verso il Pacifico la Nuova Zelanda, oggi patria dell’allevamento ovino, fino a quello stesso periodo non aveva mai visto una pecora, e l’Australia un coniglio, salvo ai nostri giorni esserne letteralmente invasa. Per giungere al fondo del Pacifico nelle isole hawaiane, nella cui immagini da copertina non mancano di certo gli ananas, uno dei ritrovamenti più spettacolari di Colombo nelle Antille.
8 – Nutrire i giganti. Cibo e industrializzazione nel XIX e XX secolo
L’ottava ed ultima rivoluzione consiste nella industrializzazione della filiera del cibo. Nasce, a cavallo del 1700/1800, in stretta ed ovvia relazione con quella industriale, dalla quale è in qualche modo sollecitata ed alla quale, al tempo stesso, fornisce un supporto indispensabile. Abbandono, spesso forzato, delle campagne, inurbamento, a ridosso delle nascenti fabbriche, a creare le fila della manodopera salariata, esplosione demografica, sono i tre fenomeni che impongono la creazione di una “industria” del cibo in grado di alimentare masse urbane sempre più consistenti e ormai lontane dai luoghi di produzione del cibo, Una rivoluzione, ispirata ad una radicale “massificazione” che si articola quindi su aumento del cibo prodotto, del suo confezionamento e del suo trasporto, e che in pochi decenni investe l’intera filiera mondiale del cibo. Ed inoltre una rivoluzione che, anche grazie al ricorso sempre più importante a progressi scientifici, inventa nuove modalità, oppure adotta e adatta alcune già esistenti, in particolare quelle già messe a punto per l’alimentazione degli eserciti di massa. Fino al punto di trasformare in cibo industriale prodotti, come la margarina, inizialmente nati per oleare meccanismi delle navi militari. Nel giro di due secoli questa rivoluzione ha svuotato le campagne del mondo, resta infatti impiegato in agricoltura meno del 10% della popolazione mondiale e meno del suo 20% vive ancora in aree agricole. L’industrializzazione del cibo ha fin dall’inizio implicato la nascita di una imprenditoria agricola che via via sostituisce il piccolo produttore agricolo e quella di “marchi” globali dei prodotti alimentari. Nelle logiche di mercato non poteva che ripetersi per il cibo quello che in contemporanea stava avvenendo nel resto dell’economia. Ad esempio lo stesso investimento dei capitali necessari all’aumento di produzione è da subito legato alle industrie dei concimi, fertilizzanti e mangimi industriali: il primo fertilizzante chimico è stato messo a punto nel 1842, quello a base di azoto puro nel 1909. Più tarda è stata l’industrializzazione spinta dell’allevamento, solo nel 1949/1950 sono stati messi sul mercato i mangimi addizionati di vitamine e di antibiotici alla base dei “pollifici”. L’ottava rivoluzione non ha peraltro inciso sulle tipologie di base del cibo, che sono rimaste sostanzialmente quelle definite dalla precedente rivoluzione dei commerci e dello scambio colombiano, ma ha radicalmente mutato i volumi di produzione e l’intera filiera del trasporto e vendita finale. Le reti ferroviarie hanno collegato le campagne, i porti di arrivo del cibo estero, con le aree industriali ed urbane modellandosi strutturalmente anche su questa funzione. E nelle aree urbane sono sorti punti di vendita sempre più dimensionati sui crescenti ed impressionanti volumi di vendita di cibo. I primi “mercati coperti”, antesignani degli odierni grandi centri commerciali ed ancora abbelliti con eleganti soluzioni architettoniche, hanno visto la luce già nel 1840 prima in Spagna, e poi in Francia ed Inghilterra. Non sono cambiati gli alimenti di base ma, in molti casi, i volumi di vendita e le necessità di confezionamento e trasporto hanno implicato “invenzioni” nelle loro forme. L’esempio più eclatante resta quello della carne in scatola, “inventata” per necessità militari ben presto diventa una alternativa vincente alla carne fresca. Nel corso del 1800 molti cibi, si pensi ai biscotti, da sempre venduti sciolti vengono fatti in funzione del confezionamento; la cioccolata, fino ai primi decenni dell’Ottocento ancora consumata come bevanda diventa cibo solido: verso il 1850 arrivano sul mercato le prime tavolette rigide di cioccolato confezionato (Nestlè è uno dei primi marchi) E’ uno dei tanti successi della chimica applicata al cibo, ma molti altri sono seguiti a testimonianza che il cibo industriale è fondamentalmente “cibo chimico”. Irrompono nel ciclo alimentare i grassi, della margarina si è già detto, gli olii sintetizzati da alimenti, anche esotici, olio di palma in primis, ma anche di girasole e di soia. Il mercato del cibo, non diversamente dal mercato in generale, è ispirato dalla ricerca di profitto. Storicamente si può affermare che il massimo del profitto realizzabile con il cibo si è realizzato con l’abbassamento dei prezzi al dettaglio: meno caro è il prodotto maggiori sono i profitti. E’ lecito pensare che abbassare i costi di produzione difficilmente si è conciliato con la qualità del cibo venduto. E’ però indubitabile che l’industrializzazione del cibo sia riuscita a rispondere adeguatamente alla domanda di base: far arrivare sulle tavole dell’intero pianeta sufficiente cibo per nutrire un’umanità in costante ed impressionante crescita demografica. Non mancano contraddizioni e problemi ma questo obiettivo è stato sostanzialmente centrato fino al punto di omogeneizzare globalmente, nel bene e nel male, l’apporto calorico giornaliero della stragrande maggioranza dell’umanità. Persistono ricorrenti crisi alimentari in diverse aree ma sono oggettivamente molto meno tragiche di quanto si è verificato ancora in epoca moderna: nel 1845/1850 la carestia di patate provocata da un parassita della pianta, la peronospera, uccise un milione di irlandesi, e costrinse un altro milione ad emigrare verso gli Stati Uniti su una popolazione totale di soli otto milioni di persone. Tra il 1876 ed il 1878, a causa di monsoni devastanti, morirono più di cinque milioni di indiani asiatici. Fra il 1880 ed il 1895 l’inversione della corrente del “El nino” provocò una catena di
eventi climatici che sconvolse le agricolture dell’intera Asia: morino di fame dai 12 ai 30 milioni di persone in India e dai 20 ai 30 milioni in Cina. Tragedie come queste non si sono più ripetute e nel corso del 900 solo i disastri provocati da guerre totali hanno implicato il ritorno a sacche di autentica fame. All’ottava rivoluzione va quindi riconosciuto il grande merito di aver accompagnato l’esplosione demografica della modernità industriale con efficaci risultati. Ma questo merito non è disgiunto da gravi, gravissime, negatività. L’appellativo di “rivoluzione verde” usata dai suoi stessi propugnatori non ha alcuna ragione di essere, semmai si dovrebbe parlare di “rivoluzione chimico-agricola” o di “rivoluzione agro-industriale”. Che agli occhi sempre più attenti e sensibili dell’opinione pubblica mondiale sta rivelando tutti i guasti provocati, dal massiccio ricorso a pesticidi e fertilizzanti, ad ambiente, salute e giustizia sociale dei piccoli produttori agricoli. Armesto conclude questo suo saggio dedicato alla “storia” del cibo con una considerazione che guarda al “futuro” del cibo. Il grande storico Fernand Braudel ha scritto che “se vi è stata una rivoluzione del neolitico, ebbene questa sta continuando ancora ad oggi”, per evidenziare che nella sostanza più profonda del nostro vivere, cibo compreso, l’uomo ancora si muove lungo i percorsi delineati allora. La consapevolezza sempre più diffusa dei guasti provocati dall’ottava rivoluzione, l’urgenza di porvi rimedio, consentono ad Armesto di affermare che …….. il compito della prossima rivoluzione nella storia del cibo sarà quello di sovvertire l’ultima ……