lunedì 15 gennaio 2024

Il "Saggio" del mese - Gennaio 2024

 


Il “Saggio” del mese

GENNAIO 2024

Giovanni De Luna ( 1943, storico specializzato in Storia dell’Italia Unita, a lungo docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Torino, saggista e autore televisivo di diverse trasmissioni a carattere storico)

 Sono tre le ragioni che spiegano la scelta di questo breve libro come primo “Saggio del mese” del 2024: la conoscenza diretta del suo autore (apprezzato relatore della conferenza di apertura del nostro programma di incontri 2016/2017 con titolo “La costruzione della memoria nello spazio pubblico), il taglio originale dato al testo, ben precisato dal suo sottotitolo “Piccolo manuale contro il disincanto”, capace di fondere scientifica sintesi storica e coinvolgimento personale, e soprattutto il titolo “Che cosa resta del Novecento” che, pur rivolgendosi a tutti perché tutti coinvolti dal disincanto, chiama in causa la maggioranza di chi segue CircolarMente, le sue iniziative e questo suo blog, che, carte di identità alla mano (a partire da chi scrive), ha potuto conoscere da vicino alcune delle vicende storiche prese in esame da De Luna.

Parte prima, il Novecento

(nella quale De Luna recupera i tratti salienti dei fatti storici che lo hanno segnato)

1 – E’ passato il Novecento = Tre recenti accadimenti hanno indotto De Luna a tentare di spiegare, in termini di sintetica riflessione storica, i suoi personali sentimenti di inquietudine e sgomento maturati, al culmine della sua attività di storico ed al compimento dei suoi ottant’anni, per il preoccupante corso che l’umanità sembra aver intrapreso nel nuovo secolo/millennio: la pandemia, ossia la natura che si ribella all’uomo mettendo a nudo la fragilità della sua idea di essere al vertice delle gerarchie naturali ed accentuando le preoccupazioni per l’inerzia globale nell’affrontare le emergenze ambientali climatiche - il ritorno della guerra alle porte dell’Europa, il terrore voluto, programmato, gestito dagli uomini per fini eticamente inaccettabili – il collasso della democrazia in Israele (De Luna ha scritto questo saggio diversi mesi prima della sconvolgente guerra nella striscia di Gaza seguita al criminale pogrom del 7 Ottobre, ciò rende ancor più sorprendente, e meritoria, questa sua attenzione) avvenuto con l’insediamento nel Dicembre 2022 del nuovo governo Netanyahu, ossia il paradigma della fragilità dell’artificialismo politico novecentesco con la sua invenzione dal nulla di uno Stato malgrado ciò capace di essere, fino a tale data, un “miracolo democratico” a dispetto di opposizioni acerrime e conseguenti eccessi difensivi. Questi ultimi fatti storici completano un lungo elenco di avvenimenti che hanno messo a nudo l’inconsistenza del pilastro concettuale del Novecento: l’idea, teleologica, che, a dispetto delle tante tragedie che hanno segnato questo secolo, ancora e sempre ogni stadio della storia sarebbe stato migliore del precedente, a maggior ragione nell’era di uno sviluppo tecnico e tecnologico senza precedenti. Le generazioni che hanno attraversato questo secolo sono state così tanto compresse tra tragedie e fiducia nel futuro da stentare ad esprimere un giudizio ragionato sul secolo definito dallo storico inglese Eric Hobsbawn “il secolo breve”. De Luna suggerisce di provarci usando la chiave di lettura della coppia “continuità/rottura” per individuare le analogie e le differenze tra ieri e oggi.

2 – Le guerre = Diversi storici hanno definito il Novecento, guardando all’impressionante numero dei morti, il “secolo delle guerre”, tra il 1900 ed il 1993 sono infatti avvenute 54 guerre che hanno causato un totale di circa 100 milioni di vittime (fra campi di concentramento, pulizie etniche, conflitti armati internazionali, guerre civili, terrorismo). Nella prima parte del secolo è stata l’Europa l’area più interessata, dopo il 1950 l’epicentro dei conflitti si è invece spostato verso il Medio Oriente, l’Africa, e l’Asia. La definizione di secolo di guerre mette inoltre in risalto il nesso strettissimo tra “guerra” e “genocidio”, mai così eclatante nella storia umana, ed al tempo stesso fa emergere i “nodi” che intrecciano per la prima volta: guerra, violenza, ricerca scientifica, tecnologia e logiche produttive industriali. Il tratto epocale del secolo delle guerre (il cui paradigma sono le due atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki) sembra infatti consistere in un carattere eccessivo e smisurato, determinato proprio dalla combinazione di tutti questi elementi, non solo e non tanto per le sue dimensioni quantitative quanto per l’oggettiva mancanza di una giustificazione ragionevole del rapporto fra effetti e strumenti. La bomba atomica ha rappresentato per molti decenni, tutti quelli della “guerra fredda” una vera angoscia sentitamente vissuta dall’intera umanità.

lo psicanalista Franco Fornari chiamò “prospettiva pantoclastica” la possibilità che l’uomo con le sue stesse armi fosse in grado di distruggere l’intero pianeta, d’altronde dal 1945 al 1996 sono state costruite 130.000 testate nucleari pari a una potenza esplosiva di 25.000/30.000 megatoni. Quella usata in tutte le guerre precedenti sfiorava a malapena i 10 megatoni

Qualcosa poi però deve essere avvenuto se ai nostri giorni la ventilata possibilità del ricorso ad armi atomiche sia stata presentata come una fra le tante opzioni possibili

3 – I lager = Il genocidio, compagno di strada delle guerre, ha assunto nel Novecento, con l’esperienza del nazismo, la dimensione del totale annientamento dell’oggetto odiato. La morte di un intero popolo, intesa come progetto totale e definitivo, non è stata una esasperazione casuale, ma ha rappresentato il voluto culmine della “politicizzazione della vita”, di una visione biopolitica (una idea di potere che si sente legittimata a disporre in toto della “nuda vita”, della pura esistenza biologica spogliata di ogni cittadinanza) del corpo di intere popolazioni ridotto a banale posta in gioco di strategie politiche. I campi nazisti di sterminio di razze inferiori (ebrei ma anche zingari) questo raccontano, ad Auschwitz la cancellazione della nuda vita di popoli interi, perseguitati in quanto tali e non in ragione di loro opinioni o della loro fede, ha rappresentato il vero ed unico scopo. Ed al tempo stesso l’organizzazione “industriale” dei lager, ben evidenziata da molte ricostruzioni storiche, testimonia l’apogeo terrificante di un’altra idea novecentesca: la concezione, anch’essa biopolitica, di corpi interamente sottomessi alle logiche automatizzate del Lavoro (De Luna usa il maiuscolo per tutti i termini che a suo avviso restituiscono la trama concettuale del Novecento, quindi Lavoro, ma anche Guerra, Morte, Politica, Stato, Partito). I lager (prima dell’accelerazione dello sterminio puro e semplice verso la fine della guerra) erano infatti strutturati su due fasi: iniziale produzione forzata e poi, quando i corpi erano sfiniti e quindi improduttivi, l’eliminazione. I lager hanno rappresentato una sorta di laboratorio dell’applicazione scientifica della Morte su scala industriale fino ad assumere le condizioni estreme, ma coerenti con le premesse che le hanno create, di un “inferno progettato dall’uomo”.

4 – I gulag = Non convince l’idea da alcuni sostenuta di porre sullo stesso piano dei lager i gulag sovietici, una criminale esperienza di impressionante impatto numerico, perché sul piano concettuale essi hanno rappresentato un diverso obbrobrio: l’eliminazione di sottoprodotti di scarto, di intralcio, del sistema, nella quale la morte dei corpi non era la vera finalità, ma un sottoprodotto, non disdegnato, di altri progetti. I gulag (un sistema di migliaia di singoli campi, spesso situati in zone molto fredde della Siberia, che si calcola abbiano avuto un totale di circa 18 milioni di internati, rinchiusi per brevi e lunghi periodi) hanno rappresentato, assieme alle deportazioni di massa (circa sei milioni di individui) e alle immediate fucilazioni di massa (nel solo biennio 1937/1938 sono state fucilate più di 800.000 persone) lo strumento per eccellenza dello spietato controllo sociale e politico del regime di Stalin. Ma i loro sistemi brutali di trattamento servivano, non a eliminare la nuda vita come nei lager, ma a “governarla”, sono cioè stati un mezzo non meno scientificamente rivolto contro chi veniva considerato dissidente ed oppositore. La logica repressiva che li ha ispirati ha guardato di più al Lavoro che alla Morte (ad ogni gulag era assegnato l’obiettivo dell’autosufficienza economica e della produzione di un significativo surplus, il loro contributo all’economia sovietica è stato molto rilevante, soprattutto per il settore delle estrazioni minerarie)

5  – Il totalitarismo = Il totalitarismo novecentesco (un modello di organizzazione statuale che nega la separazione dei poteri e d il pluralismo politico che prende piede nel convulso intermezzo fra le due guerre mondiali. E’ stato attentamente analizzato da Hanna Arendt nel suo saggio “Le origini del totalitarismo”) rappresenta il fenomeno politico che spiega la lucida follia di lager e gulag perché nasce con la finalità ultima del dominio totale di uomini, e delle loro idee, sugli altri uomini a partire dai loro corpi. Per essere meglio capito richiede di chiamare in causa altri fenomeni che hanno segnato il Novecento, in particolare sono stati determinanti per la sua affermazione l’intreccio fra organizzazione scientifica del lavoro e della produzione (il fordismo), la partecipazione politica di massa (i grandi partiti), le nuove forme di comunicazione di massa (il mondo dei media), la dissoluzione dei valori culturali ottocenteschi (nuovi modi di vivere), nuovi equilibri geopolitici globali (l’eredità della Prima Guerra e della fine del colonialismo classico). Una vera e propria rivoluzione che si è accompagnata al sorgere di nuovi Stati (i 42 Stati sovrani di inizio secolo diventano 183 ad inizio anni Novanta) molti dei quali, specie nelle ex colonie, non di rado hanno assunto esplicite forme autoritarie a dimostrazione di un fenomeno non circoscrivibile, temporalmente e geograficamente, ai suoi casi più emblematici: stalinismo, fascismo, nazismo. Il pendolo della storia segna con il totalitarismo un fase contraddittoria per il ruolo dello Stato: la sconfessione del liberismo ottocentesco che, all’insegna del laissez faire assegnava al mercato la libertà di autoregolarsi, si concretizza nei totalitarismi, sostenuti da  un sistema di valori ideologici, in un ruolo dello Stato persino asfissiante su ogni aspetto dell’economia e della società, al lato opposto diventa però, a partire dalla crisi economica del 1929, la genesi dell’idea di uno Stato sì interventista in campo economico ma rispettoso della libertà della società e degli individui sino a divenire l’incubatrice dello “Stato sociale” che prenderà forma compiuta nel secondo dopoguerra. L’intera storia novecentesca si è così svolta attorno al contrapporsi di queste due concezioni che, con accentuazioni diverse, ha interessato quasi tutti gli Stati. Ma è soprattutto l’Europa ad aver espresso i casi più significativi della soluzione totalitaria che, basata su un rigido corpo di dottrine affidate ad un partito unico guidato da un “Capo” a cui obbedire ciecamente, ha richiesto un uso estensivo ed intensivo di tecniche di condizionamento di massa unitamente ad un opprimente apparato di controllo.

6 – Le ciminiere = Il 1973, l’anno della grande crisi petrolifera, rappresenta la data simbolo di un’altra determinante svolta. Fin lì il Novecento, ampliando a dismisura il lascito ottocentesco, è stato definibile come il “secolo delle ciminiere”, un elemento fumante nel paesaggio che testimoniava la centralità della fabbrica, il luogo, fisico e simbolico, in cui avveniva il confronto fra due attori sociali, l’operaio ed il padrone, tra loro contrapposti ma ambedue legati ad una visione “edificante del lavoro”. Il lavoro salariato, per tutta la fase ottocentesca del capitalismo semplice fonte oppressiva di sopravvivenza economica, nel primo Novecento assume una valenza sociale identitaria (Primo Levi fa dire al protagonista del suo libro “La chiave a stella” che “ogni lavoro che incammino è come un primo amore”) fino a proporsi come una misura morale, un tratto che definiva per ognuno il suo posto nella società. Ma nel secondo Novecento, con il definitivo affermarsi del lavoro automatizzato e tecnologizzato dominato dalle “macchine”, questa valenza è andata sempre più scemando (il famoso film “Tempi moderni” con la scena di un disumanizzato Chaplin divenuto parte integrante della catena di montaggio resta emblematico di questa svolta). L’individuo progressivamente smette di essere definito dal lavoro che svolge per acquisire, la sua identità sociale esce dalla fabbrica per assumere la veste del “consumatore”. L’introduzione sul mercato di una quantità ed una qualità di merci mai vista in precedenza stravolge ogni meccanismo sociale: non si è più quel che si fa, ma quel che si possiede e si consuma. Ma anche questa è una fase di breve durata, nell’ultima parte del Novecento sparisce il fordismo, ma resta, ed anzi aumenta a dismisura, il mondo dei consumi. Sotto le ciminiere si lavorava in tanti, nelle cattedrali del consumo ci si muove individualmente, decade per sempre (?) l’agire sociale collettivo che ha segnato uno dei tratti più distintivi del Novecento.

7 – Le masse, la politica = Il termine “massa” è strettamente connesso, anche terminologicamente, a tutti gli elementi storici fin qui esaminati per la semplice ragione che il Novecento è stato in tutti i suoi aspetti plasmato dall’ingresso attivo delle masse nella storia, è stato a tutti gli effetti il “secolo delle masse”, una valenza costitutiva che ha trascinato con sé un’altra sua caratteristica fondamentale: l’irruzione sulla scena storica della politica, il Novecento è stato indubbiamente anche il “secolo della politica”, e meglio ancora della “politica di massa”. I tanti movimenti rivoluzionari novecenteschi ne sono la più fulgida testimonianza, declinata in negativo nell’adesione di massa a fascismo e nazismo, piuttosto che, in positivo, nella nascita di partiti definiti per l’appunto “di massa” perché alle masse si rivolgevano e perché a lungo hanno contato sulla loro attiva adesione.  Le moltitudini che per secoli erano state costrette a subire in silenzio le conseguenze del potere concentrato in poche mani hanno conquistato, grazie a questa forza espressa in lotte durissime, lo spazio e gli strumenti per far pesare la propria voce. Lo hanno fatto con passaggi rivoluzionari oppure con i modi consentiti dalle democrazie rappresentative, ma in ogni caso sempre con convinzione e spesso con entusiasmo. E’ stata una svolta storica radicale che ha investito, positivamente, l’istituzione “Stato” trasformandola da pura espressione del potere di controllo a soggetto attivo capace di governare i processi economici, sociali e culturali. Verso la fine del secolo con il crescere della loro complessità, e del loro evolvere dalla scala nazionale a quella globale, tanto da essere ingovernabili punti di rottura, il connubio “masse e politica” si è però allentato fino a divenire dalla parte della politica impotenza e da quella delle masse passivo disinteresse.   

8 – Il dominio sulla natura = In questo novecentesco contesto economico, sociale e politico, la convinzione umana, soprattutto occidentale, (che ha antiche radici culturali nella stortura antropocentrica del rapporto uomo/natura) di poter disporre a piacimento della natura è così a dismisura cresciuta, con l’esplosione produttiva e consumistica consentite dall’impressionante sviluppo tecnologico, da compromettere seriamente l’equilibrio dell’ecosistema terrestre. Le parabole storiche novecentesche testimoniano che nessun paese, nessuna esperienza politica, è esente da tale responsabilità. Non lo sono stati i totalitarismi che hanno piegato, oltre che uomini, anche natura e territorio alle loro logiche di dominio, (Mussolini dichiarò apertamente che il regime avrebbe cambiato radicalmente, assieme allo spirito italico, la terra. Ancora oggi le mitiche “bonifiche” sono ricordate come una delle “cose buone” fatte dal fascismo), ma non di meno lo sono state le democrazie avanzate di Europa e Usa che, direttamente sul proprio suolo e indirettamente su quello delle ex colonie, hanno visto nell’ambiente un semplice fornitore di risorse per alimentare il mito della crescita infinita e del benessere consumistico. Verso la fine del Novecento si sono così fatti sempre più evidenti gli inevitabili guasti che questa bulimia antropocentrica ha procurato ad ambiente e clima. Il secolo si è di fatto chiuso lasciando all’umanità intera un tremendo monito: tutte le vicende storiche qui seguite, al di là della loro specifica valenza, sono fra di loro negativamente collegate dall’essere responsabili, stante la convinzione di cui si è detto, del maggiore rischio di sopravvivenza che la specie umana abbia mai conosciuto

9 – Il fallimento della politica = Questa pretesa antropocentrica di disporre della natura chiama allora al banco degli imputati il Novecento nella sua veste di secolo della politica, se con politica, come si è detto, si intende la dimensione statuale chiamata a governare il percorso umano in tutti i suoi aspetti, rapporto con la natura compreso. La somma dei problemi aperti che il Novecento lascia in eredità ha una prima responsabile, la politica unitamente alla sua più compiuta espressione, lo Stato con l’intero insieme delle sue competenze. Come si è detto è proprio nel Novecento che lo Stato si è globalmente imposto come l’attore principale delle scelte legate al vivere umano, evolvendosi dalla ottocentesca forma che limitava la sua sfera d’azione alla politica estera, all’ordine pubblico, ai servizi pubblici essenziali, in una ben più articolata e onnicomprensiva nuova forma. I limiti della politica nella forma dello Stato (nazionale) si sono resi evidenti nell’esasperazione dei propri interessi particolari fino a concepire la guerra come strumento principe per risolvere i conflitti che ne derivavano. L’impalcatura statuale come forma per eccellenza della politica, dopo essersi così facendo macchiata delle tragedie novecentesche, si sta infine dimostrando del tutto inadeguata ad affrontare lo scenario, che a fine Novecento si è sempre più chiaramente delineato, di un mondo che ha, nel bene e nel male, scavalcato confini e barriere in campo economico, sociale e culturale. L’emergenza ambientale e climatica sono solo l’ultima, e la più evidente, testimonianza del fallimento di questa idea novecentesca di politica

Allora proprio nulla da salvare del secolo breve? certo che no, il giudizio soprattutto delle generazioni della seconda metà, quelle che hanno conosciuto un benessere ed una pace mai visti prima, molto salva, comprensibilmente, del Novecento, ma per lo sguardo lungo dello storico queste positività cedono il passo agli aspetti negativi qui percorsi a comporre un elenco tale da rende difficile la sua assoluzione storica. Eppure resta vero che

….. il XX secolo sarà stato un brutto secolo, ma è stato comunque il nostro, quello in cui siamo cresciuti, abbiamo amato, gioito, sofferto. Molte idee che allora ci sembravano fondamentali sono sparite, ma qualcosa resta. E vale la pena interrogarsi su questa eredità. annotazione autografata sulla copertina del saggio

Nella seconda parte del saggio De Luna riflette proprio su questa eredità.

Parte seconda, dopo il Novecento

10 – Il senno di poi  = Non è una formula di buon senso popolare, nel campo degli studi storici fatti e processi possono essere valutati e compresi solo quando è certo il loro esito finale. Questo criterio appare ormai applicabile al Novecento se tutti i suoi capisaldi concettuali sembrano svaniti. E’ allora possibile storicizzarli ed esaminare la loro eredità

11 – La fine della guerra fredda  = Ad esempio la fine dell’URSS e della Guerra Fredda sono fatti storici a tutti noti su cui vale la pena riflettere per meglio capire il percorso che ha portato a ciò e, di conseguenza, al definitivo affermarsi dell’egemonia USA e al rafforzamento della UE grazie alla riunificazione delle due Germanie. Secondo alcuni storici l’idea sovietica di società ed economia, così rigida e centralizzata, non ha retto all’avvento della “società globale” innescata dai cambiamenti tecnologici soprattutto nel campo delle ICT (informazione e comunicazione). Una seconda tesi, di grande successo mediatico, è stata quella della “fine della storia(elaborata dal politologo statunitense Francis Fukuyama) secondo la quale nel 1989 non è finita solo la Guerra Fredda ma l’intero senso del procedere storico dovuto alla definitiva e globale affermazione della democrazia liberale e del capitalismo. Un’altra tesi, decisamente più pessimista, è stata quella dello “scontro di civiltà”, la fine del conflitto politico USA-URSS, comunque sia avvenuta, lasciava cioè il campo ad un confronto, persino più duro ed esteso, tra i valori dell’Occidente e tutti quelli del resto del mondo, per quanto fra di loro variegati e distinti, ai primi non allineati. Con il senno di poi sembra possibile sostenere che queste due ultime tesi non abbiano retto alla prova del tempo, la democrazia non ha per nulla conquistato tutto il mondo e al contempo lo scontro di civiltà non si è innescato, nei termini immaginati, per l’evidente maggiore forza di quella occidentale. Qualche merito va invece concesso alla tesi della società globale: l’economia, nella sua versione neoliberista, si è fatta globale imponendo un’interdipendenza fra Stati e aree che scavalca ogni blocco, rivoluzionando ovunque sistemi produttivi e relazioni sociali globali, innescando una radicale trasformazione del mercato del lavoro mondiale, omogeneizzando l’intero pianeta su nevrastenici standard consumistici. Di certo per un primo tratto ereditario del Novecento, quello del “Lavoro” e delle collegate relazioni sociale, sembra evidente che si debba parlare di rottura e non di continuità

12 – Guerre simmetriche e asimmetriche = Di continuità si deve, purtroppo, parlare per un secondo aspetto costitutivo del Novecento, la “Guerra”, fine della Guerra Fredda non ha per nulla significato la fine delle guerre, che sono proseguite dilatandosi nel passaggio tra i due secoli, anche se con evidenti diversità rispetto a quelle “classiche” novecentesche. Tra il 1989 ed il 2005 su 121 conflitti ufficialmente censiti solo 11 sono stati combattuti tra Stati nazionali, tutti i restanti sono scoppiati al loro interno. Non solo: nel 2016 le guerre in corso vedevano coinvolti come protagonisti, accanto a soli 67 Stati, ben 774 gruppi e organizzazioni militari/paramilitari non riconducibili ad uno Stato (si pensi agli eclatanti casi dell’Isis e del gruppo mercenario Wagner). In termini “tecnici” questa impressionante evoluzione viene definita come differenza tra “guerre simmetriche”, quelle combattute da Stati-nazione con eserciti in divise e bandiere riconoscibili e con una loro qual osservanza delle regole del Diritto Internazionale, e “guerre asimmetriche”, tutte quelle che al contrario non sono altrettanto caratterizzate da precisi canoni di inquadramento dei partecipanti, dei mezzi usati e delle forme di combattimento. In mezzo sono collocabili le cosiddette “guerre civili”, ossia quelle che, come quelle già avvenute nella Seconda Guerra (ad esempio la nostra stessa Resistenza), hanno rafforzato uno scontro tra Stati con un conflitto armato al loro interno ad esso stesso però riconducibile.  La ragione principale di questa evoluzione consiste nella già evidenziata crisi dello Stato-nazione provocata dalla globalizzazione e dal diverso intreccio delle relazioni conflittuali che spesso si sono tradotti in linee di frattura interne agli Stati coinvolti. Non a caso le guerre asimmetriche si sono affermate solo dopo la fine della Guerra Fredda che, con la sua logica di divisione mondiale in “blocchi”, aveva in qualche modo ingessato (anche grazie allo spettro del terrore atomico) uno status quo turbato esclusivamente da alcune “guerre locali(ad esempio a quelle della Corea e del Vietnam), sempre contenute dal rispetto dell’equilibrio bipolare. Con la fine della divisione in blocchi anche le guerra locali hanno mutato volto, ovunque nel mondo si accendono e si spengono focolai di violenza bellica, creati da tensioni etniche, religiose, di controllo risorse naturali, che sempre più sfuggono ad ogni possibilità di controllo e soluzione (ad esempio nell’Afghanistan). In questo quadro sempre più “irregolare” si è poi inserito il fenomeno, mai visto in precedenza con questa portata e queste modalità, del “terrorismo”, emblematico di una “guerra ai civili” (ad esempio la “guerra santa” del jihadismo). Le tragedie belliche novecentesche, per quanto di dimensioni impressionanti, rispondevano comunque a logiche che consentivano, quando le armi si sono taciute, di ricostruire su diverse basi livelli accettabili di equilibrio fra i contendenti. La continuità/discontinuità delle guerre attuali incute persino paure maggiori proprio perchè motivate da logiche per molti versi irragionevoli e quindi incontrollabili. La guerra russo-ucraina, giunta al culmine di questa trasformazione, si presenta come paradigmatica dell’evoluzione del concetto di guerra: è al tempo stesso “simmetrica”, due eserciti nazionali che si fronteggiano, “civile”, ucraini filorussi contro ucraini filoccidentali, “guerra ai civili”, viste le cifre di vittime non militari, “combattuta da mercenari e irregolari”, Wagner, Ceceni ma anche Azov, “forza locale ma inserita nel globale”.

 13 – Il ritorno dello Stato = Sembra più complessa l’applicazione della coppia “continuità/rottura” alla terza componente strutturale del Novecento: lo Stato ed il suo ruolo. Si è visto che dopo aver caratterizzato con un ruolo centrale l’intero esso ha poi conosciuto la “rottura” del profondo ridimensionamento imposto dalla globalizzazione, ma due avvenimenti del nuovo secolo sembrano averlo riportato al centro della scena con una qual “continuità” con il precedente ruolo. La crisi globale del 2007/2008 prima e la pandemia Covid dopo hanno infatti ridato centralità allo Stato e a tutte le sue competenze ed articolazioni. Dalla prima è emerso con evidenza che il mercato, globalizzato e finanziarizzato, lasciato libero di inseguire con qualunque mezzo le proprie logiche di profitto non era in grado da solo di riparare le conseguenti inevitabili crisi, rendendo evidente che, come nel 1929, solo il ruolo coordinatore, regolatore, e propulsore dello Stato poteva ad esse porre rimedio. La seconda, con il suo impressionante carico di morti e due anni di forti limitazioni in ogni campo dell’agire umano, ha fatto comprendere che simili emergenze, sempre più da mettere in conto stante il disastro ambientale, possono essere efficacemente contrastate e assorbite solo con un intervento pubblico congiunto al contributo della scienza. Ma anche in questo caso il riaffermarsi di una continuità con l’eredità novecentesca non è stato al contempo privo di elementi di rottura. Ritorno dello Stato si, ma non dello Stato del Welfare, le politiche neoliberiste di esaltazione del privato continuano imperterrite a dettare legge e a imporre il suo ridimensionamento. Ritorno dello Stato si, ma non dello Stato potente e sicuro di poter governare ogni processo storico. L’incapacità statuale di governare fino in fondo i processi globalizzati ha messo a nudo la sua impotenza strutturale, nessuno Stato da solo è oramai in grado di muoversi con adeguata capacità in questo contesto. Non solo, fenomeni epocali come quello delle migrazioni di massa hanno ormai raggiunto dimensioni tali da accentuare a dismisura questa impotenza strutturale producendo così tensioni sociali, insicurezze, alimentando timori e reazioni esasperate e quindi irrazionali chiusure e limitazioni. Negli ultimi anni sono stati costruiti in tutto il mondo ben 10.000 km di “muri”, che non assomigliano per nulla al “muro” simbolo del Novecento, quello di Berlino. Questo separava due mondi, capitalismo e comunismo, democrazia e totalitarismo, i muri di oggi separano le persone, quelle che vogliono difendere la propria sicurezza e quelle che scappano dalle loro insicurezze. Altri muri, figurati, sono poi sorti anche all’interno degli Stati, in molte parti del mondo, Europa in primis, si possono cogliere tendenze, più o meno accentuate, al separatismo, al sogno anacronistico di tante piccole patrie nel segno di mitiche purezza etnica e identità storiche. E peraltro anche muri e separatismo trovano spiegazione in questo ritorno, monco e spuntato, dello Stato nella sua attuale versione di un soggetto pretenziosamente “sovrano”, ma a tutti gli effetti privo di vera sovranità. Restando in Europa questa contraddizione, mai adeguatamente compresa, è la causa principale della oggettiva fragilità, dovuta proprio alla ritrosia dei singoli Stati a procedere con coerenza e coraggio sulla strada intrapresa del percorso comunitario nato sulle basi della tragica eredità delle guerre innescate proprio da nazionalismi aggressivi.  La crisi del 2007/2008 e il fenomeno migratorio hanno purtroppo accentuato questa ritrosia aprendo così ampi spazi al riaffermarsi di una idea sovranista di Stato, basata sulla sua totale identificazione con la corrispondente idea, non meno idealizzata e non meno insostenibile,  di popolo definito in gran prevalenza “in opposizione” a presunti nemici interni, le élite, ed esterni, i migranti. Sovranismo e populismo sono quindi altre significative evidenze di un ritorno dello Stato privo però delle indubbie prerogative a lungo possedute nel Novecento.

14 – Tra realtà e rappresentazione della realtà = L’esplosione di applicazioni entrate nelle vite individuali e collettive grazie all’incredibile sviluppo delle ICT rappresenta un elemento di così radicale rottura con il Novecento da non consentire nessun particolare collegamento con la sua eredità, in particolare per la formidabile conoscenza in tempo reale dei fatti del mondo tale da incidere profondamente su umori ed orientamenti dell’opinione pubblica. Eppure, seppure su una scala radicalmente diversa, una qual certa continuità sembrerebbe ancora rintracciabile in questa rottura. Per tutto il Novecento, con accentuazioni parossistiche nelle fasi di guerra e di forte tensione sociale e politica, è infatti stato molto rilevante il fenomeno delle “voci(per la maggior parte del tutto false, ma a cui i loro ascoltatori deliberatamente erano portati a credere) create e fatte circolare ad arte, a scopo di propaganda e di ricerca di consenso, dal potere in carica piuttosto che dall’opposizione, oppure da un belligerante o dai suoi nemici. E’ possibile presupporre una loro continuità con la valanga di news dell’attuale Rete? Tali voci novecentesche equivalgono alle attuali “fake”? Il paragone non regge, anche in questo caso non esiste continuità, ma piena rottura. Le news moderne, specie nella versione fake, nascono a ritmi vertiginosi e incontrollati, ed anche quando sono presumibili i loro autori ed i fini per cui vengono create, gli ascoltatori raramente possiedono strumenti per selezionarle. Non si è di fronte a una neutra evoluzione dell’arte della propaganda e della costruzione di consenso, questa rivoluzione nel campo della comunicazione, della “rappresentazione artificiale della realtà”, ha modificato in modo decisivo il mondo della Politica, ha di molto contribuito alla crisi della forma Partito, irrimediabilmente ancorato a logiche interne, ed ha così accentuato la crisi di altri due pilastri dell’eredità novecentesca.

15 – Ancora la democrazia = Un ultimo valore fondante del Novecento, fin qui rimasto sotto traccia ma alla base di tutte le considerazioni svolte, chiede di entrare in scena: la Democrazia. Per tutte le generazioni novecentesche che sono cresciute in essa, che per la sua difesa ed ampliamento si sono battute, è difficile adeguarsi all’asfissia strumentale che caratterizza la sua attuale efficienza. Inquinata dai sovranismi e populismi, stravolta dai meccanismi mediatici e dalla spettacolarizzazione, sofferente per apatia e disinteresse, stravolta in versioni “illiberali”, intaccata in diversi aspetti fondanti, sfibrata ed estenuata, percepita come inefficace per gestire i problemi sempre più complessi della modernità, rischia di essere una lontana parente della democrazia basata su valori condivisi, inclusiva, partecipata, ispirata dalla voglia di capire e contare, che ha positivamente accompagnato la seconda parte del Novecento. Tutto ciò pesa ancor di più proprio per le generazioni che in quei primi decenni del secondo dopoguerra hanno vissuto il miracolo di una democrazia riconquistata e appassionatamente vissuta. L’attuale incerta e fallimentare gestione dell’eredità del Novecento, da una parte incapace di risolverne limiti e contraddizioni e dall’altra alle prese con sfide finora mai conosciute, richiederebbe un di più di democrazia non un di meno. Se è pur vero che essa non è dogma, essendo pur sempre un contenitore, se funziona al suo meglio aiuta a riempirla di processi partecipati di costante rinnovamento sociale, politico, culturale.

lunedì 1 gennaio 2024

La Parola del mese - Gennaio 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

GENNAIO 2024

La Parola di questo mese è di recente salita alla ribalta del dibattito pubblico essendo stata provocatoriamente usata per definire gli Italiani alle prese con le tante problematiche del presente. Ci è sembrato interessante recuperarla proprio per questa sua sintetica efficacia descrittiva e per (ri)proporre le più rilevanti osservazioni analitiche che l’hanno suggerita

SONNAMBULO

sonnambulo (dal latino “somnus”,sonno, e “ambulare”, camminare = affetto da sonnambulismo, un disturbo del sonno che porta il soggetto a muoversi nella fase del sonno profondo senza quindi avere  pieno controllo del suo vagare.

Sonnambuli sono stati definiti gli Italiani dal CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali, un istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964 e divenuto nel 1973 una Fondazione, il cui storico Presidente è il sociologo Giuseppe De Rita) nel suo annuale “Rapporto sulla situazione sociale del Paese”, unanimemente considerato il più qualificato e completo strumento di interpretazione della realtà italiana.

Nella prefazione della edizione 2023 si legge infatti:

I sonnambuli: ciechi dinanzi ai presagi. Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o sono comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza. La società italiana sembra affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali dagli esiti funesti ………. il nostro Paese ha costruito in decenni il proprio meccanismo di vita sociale preferendo lo sciame allo schema, l’arrangiamento istintivo al disegno razionale. Uno sciame che però oggi appare disperdersi, distaccando dietro di sé mille scie divergenti ……

Si tratta senza ombra di dubbio di un ammonimento preoccupato e preoccupante (al quale non sembra invece che sia stata prestata la giusta attenzione) che dovrebbe far scattare in chi di dovere, e in tutti noi, una reazione adeguata. I medici sostengono che non è opportuno svegliare bruscamente un sonnambulo, ma questo è un caso a sé stante. Gli italiani sonnambuli devono al contrario svegliarsi, essere svegliati. Un buon rimedio in questo senso è scorrere i dati e le rilevazioni che il Censis propone in questo suo ultimo Rapporto. Ne presentiamo, fra i tantissimi che lo compongono, solo alcuni di quelli che ci sono sembrati più significativi per fotografare le attuali tendenze e, su questa base, per condividere le preoccupazioni e l’esigenza di recuperare un disegno razionale.

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Alcuni dati mettono bene in luce la consistenza di un fenomeno che, essendo l’effetto finale di diversi processi fra di loro intrecciati e dei correlati modi di (non)affrontarli, appare al momento inarrestabile: l’inverno demografico

*   Nel 2050 l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti (come se le due più grandi città, Roma e Milano insieme, scomparissero). La flessione demografica sarà il risultato di una diminuzione di 9,1 milioni di persone con meno di 65 anni (-3,7 milioni con meno di 35 anni) e di un contestuale aumento di 4,6 milioni di persone con 65 anni e oltre (+1,6 milioni con 85 anni e oltre)

Talvolta si affaccia nel chiacchiericcio politico qualche segnale di allarme al riguardo, ma non pare proprio di cogliere una adeguata attenzione a questa situazione (i cui effetti già ora si fanno sentire) a maggior ragione se si guarda alla sua articolazione generazionale

*   Gli anziani over 65 rappresentano oggi il 24,1% della popolazione, nel 2050 saranno 4,6 milioni in più e saranno quindi pari al 34,5% della popolazione, più di uno su tre abitanti

*   I 18-34enni sono poco più di 10 milioni (nel 2003 superavano i 13 milioni) pari al 17,5% della popolazione totale, nel 2050 saranno poco più di 8 milioni, appena il 15,2% della popolazione (meno di uno su sei abitanti)

*   Il numero medio dei componenti delle famiglie scenderà da 2,31 nel 2023 a 2,15 nel 2040. Le coppie con figli diminuiranno fino a rappresentare nel 2040 solo il 25,8% del totale, mentre le famiglie unipersonali aumenteranno fino a 9,7 milioni, il 37,0% del totale). Di queste, quelle costituite da anziani diventeranno nel 2040 quasi il 60%

*   All’interno di questo quadro si stimano quasi 8 milioni di persone in età attiva in meno nel 2050

Da quest’ultimo dato appare evidente che ogni strategia di lungo periodo sul piano economico, produttivo, e di sostenibilità della spesa sociale, se avulsa da questa tendenza appare velleitaria, inapplicabile. Altri dati illustrano alcuni importanti dettagli di queste tendenze e forniscono al contempo interessanti indicazioni sugli attuali stili di vita:

*   Le famiglie in Italia sono 25,3 milioni. Quelle tradizionali, composte da una coppia, con o senza figli, sono il 52,4% del totale (erano il 60,0% nel 2009). Il 32,2% delle famiglie è formato da una coppia con figli (erano il 39,0% nel 2009). 1,8 milioni di famiglie (il 7,0% del totale) sono composte esclusivamente da stranieri

*   Il numero dei matrimoni si riduce (ne erano stati celebrati 246.613 nel 2008, solo 180.416 nel 2021) e oggi 1,6 milioni di famiglie, (l’11,4% del totale), sono costituite da coppie non coniugate. Inoltre, dal 2018 al 2021 sono state celebrate 8.792 unioni civili

Emerge inoltre un altro processo che non poco incide su questo quadro

*   più di 5,9 milioni di cittadini italiani, pari al 10,1% della popolazione, attualmente risiedono  all’estero e valgono più dei 5 milioni, pari all’8,6% della popolazione, di  stranieri residenti

*   A caratterizzare questo flusso centrifugo è l’aumento significativo della componente giovanile. Nell’ultimo anno gli espatriati sono stati 82.014, di cui il 44,0% tra 18 e 34 anni. Con i minori al seguito delle loro famiglie (13.447) si sfiorano le 50.000 unità: il 60,4% di tutti gli espatriati nell’ultimo anno

*   Anche il peso dei laureati sugli espatriati 25-34enni è aumentato significativamente, passando dal 33,3% del 2018 al 45,7% del 2021, a confermare un saldo migratorio dei laureati costantemente negativo per il nostro Paese.

*   i 15-29enni, che non studiano e non lavorano (definiti NEET), sono il 19,0% del totale, a fronte di una media europea dell’11,7% (siamo secondi solo alla Romania). Il 26,8% dei 18-24enni (oltre un milione) ha conseguito al più la licenza media e di questi l’11,5% (oltre 460.000) è classificabile come early school leaver (i giovani che lasciano precocemente il ciclo di studi)

Nessuna sorpresa, il problema della attuale (dis)occupazione giovanile (che moltissimo incide sulle personali prospettive di vita e quindi sull’evoluzione dell’inverno demografico) emerge con evidenza:

*   Tra i 25-34enni i tassi di occupazione sono particolarmente bassi, collocando il nostro Paese all’ultimo posto in Europa (il 66,1% a fronte del 79,0% medio). Nel 2022 il tasso di occupazione dei 25-34enni con la licenza media è del 53,9%, sale al 67,6% tra chi è in possesso del diploma e arriva al 72,8% tra i laureati

La situazione economica e produttiva è qui chiamata in causa, i dati del Rapporto bene illustrano l’attuale quadro in chiaro/scuro (più scuro che chiaro) che non appare possa conoscere, stanti le attuali linee di tendenza di lungo periodo, facile soluzione:

*   Il segno negativo davanti alla variazione del Pil nel secondo trimestre del 2023 (-0,4%) seguito dalla stagnazione del terzo trimestre (0,0%) certificano una nuova fase di incertezza (che peraltro ancora non incorpora gli effetti del conflitto in Medio Oriente)

*   Tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno si sono ridotti dell’1,7% gli investimenti fissi lordi (in particolare nelle costruzioni: -3,3%).

*   Tra il 2021 e il 2022 gli occupati sono aumentati del 2,4% e nei primi sei mesi del 2023 la crescita rispetto allo stesso periodo del 2022 è stata del 2,0%. Sono 23.449.000 gli occupati al primo semestre: il dato più elevato di sempre. Eppure si sono ridotte le ore lavorate in tutti i settori produttivi: -3,0% nell’agricoltura, -1,1% nell’industria, -1,9% nelle costruzioni, -0,5% se si considera l’intera economia (molti occupati hanno contratti saltuari e part time)

*   L’Italia rimane comunque all’ultimo posto nell’Unione europea per tasso di occupazione: il 60,1%, ancora al di sotto del dato medio europeo (69,8%) di quasi 10 punti  

*   nel 2019 il numero delle dimissioni volontarie si attestava poco sopra le 800.000 unità, nel 2022 ha superato il milione, con un incremento significativo: +236.000 ovvero +29,2%. Il tasso di ricollocazione, che indica il reimpiego entro tre mesi dalle dimissioni, è anch’esso cresciuto, passando dal 63,2% del 2019 al 66,9% del 2022. La motivazione principale che spinge le persone a cercare un nuovo lavoro è l’attesa di un guadagno maggiore (per il 36,2% degli occupati) e l’interesse per prospettive di carriera migliori (per il 36,1%)

*   La fase espansiva dell’occupazione del 2023 ha portato a un recupero dei livelli di impiego precedenti la pandemia. Il numero degli occupati nel 2022 rispetto a quattro anni fa si attesta sui 60.000 in più (+0,6%). Si registra però tra i due anni una variazione negativa del 2,2% delle professioni qualificate e tecniche. All’opposto, aumentano i dirigenti e gli imprenditori del 6,2%, gli impiegati dell’8,5%. L’area del personale non qualificato perde invece circa 14.000 addetti. Gli ultimi mesi mostrano una maggiore intensità nel processo di crescita delle professioni più elevate (qualificate e tecniche: +5,4%) e della categoria impiegatizia (+1,6%), mentre si riducono operai e artigiani (-0,6%), e si riduce il personale non qualificato. A cavallo della pandemia (2018-2022) il lavoro indipendente in Italia si riduce del 5,5%, con il principale contributo negativo proveniente dai lavoratori autonomi (247.000 in meno: -8,1%). Si riduce anche la consistenza dei liberi professionisti (-5,3%), mentre gli imprenditori vanno in controtendenza, con un aumento del 27,0% in quattro anni

Quest’ultimo dato (che non specifica tipologia e dimensioni della relativa attività) non deve stupire nell’era neoliberista degli “imprenditori di sé stessi”, mentre, mettendo in relazione inverno demografico ed economia, diventa sempre più importante il ruolo, ed il peso, del fenomeno immigratorio

*   I lavoratori stranieri sono 2.374.000 e rappresentano il 10,3% del totale degli occupati. Di questi, 2.068.000 (l’87,1%) sono lavoratori dipendenti. Tra i lavoratori dipendenti stranieri il 22,5% (465.000) è occupato a tempo determinato e il 24,4% (579.000) ha un lavoro part time.

*   Tra gli stranieri occupati, il 29,9% svolge lavori per cui non è necessaria alcuna qualifica professionale, contro il 9,5% degli occupati italiani, e solo l’8,2% è impiegato in professioni tecniche e qualificate, contro il 37,3% degli italiani.

*   Il 48,2% degli stranieri che lavorano è in possesso al massimo della licenza media (tra gli italiani la quota è del 27,4%), mentre l’11,5% è in possesso di un titolo terziario (tra gli italiani la quota sale al 25,8%).

*   il 61,4% degli stranieri laureati comunque svolge lavori di livello più basso rispetto al titolo conseguito.

*   Nei prossimi tre anni saranno ammessi in Italia attraverso il “Decreto flussi” 452.000 cittadini stranieri, un numero decisamente più alto rispetto al passato, ma, dato 2023, del tutto insufficiente per la domanda effettiva (le richieste di personale sono state tre volte tanto le assunzioni possibili in base al Decreto flussi)

L’immigrazione straniera, già oggi, non rappresenta soltanto una preziosa stampella per le attività economiche e produttive, ma sembra esserlo ancora di più per l’aspetto demografico (anche perché ogni eventuale politica che miri a contenere l’inverno demografico italiano se mai dovesse sortire risultati concreti nella migliore delle ipotesi non è pensabile che incida prima di due/tre decenni)

*   Già oggi senza gli stranieri l’Italia sarebbe un Paese di poco meno di 54 milioni di abitanti.  Sono 5.050.000, pari all’8,6% della popolazione totale, in aumento del 9,5% rispetto a dieci anni fa (oltre 400.000 in più nel decennio), ma sono aumentati solo dello 0,4% nell’ultimo anno (circa 20.000 in più).

*   Mentre tra gli italiani gli under 35 sono circa 17 milioni (pari al 31,7% della popolazione) il 45,6% degli stranieri residenti (circa 2,3 milioni) ha meno di 35 anni (tra questi, il 20,8% è un minore e il 24,8% è un giovane di 18-34 anni). Solo il 5,4% è ultrasessantacinquenne

*   Inoltre, più della metà (il 55,6%) delle donne straniere residenti è in età feconda mentre tra le italiane tale percentuale scende al 37,0%. L’età media delle madri al parto è di 29,7 anni per le straniere e di 32,8 anni per le italiane. Il numero medio di figli per donna per le italiane è di 1,2, per le straniere è di 1,9.

*   Nel 2022 sono nati più di 53.000 figli da entrambi i genitori stranieri, pari al 13,5% dei nati. E quasi 30.000 da almeno un genitore straniero. Senza di loro, le nascite in Italia sarebbero state ridotte a sole 311.000.

Sono questi gli ultimi dati che si è ritenuto importante recuperare dal Rapporto Censis, è sembrato infatti giusto limitarli per non appesantire una lettura sicuramente molto interessante ma decisamente complessa e articolata. Li completiamo con un ultimo disordinato elenco di opinioni raccolte dal Censis per cogliere gli umori prevalenti fra gli italiani. Le pubblichiamo così in ordine sparso e senza commento per lasciare spazio alle personali impressioni. Ci limitiamo ad evidenziare che alcune (in particolare le ultime dell’’elenco) ci sono apparse sorprendenti e confortanti 

*   il 56,0% (il 61,4% tra i giovani) è convinto di contare poco nella società.

*   il 69,3% pensa che la globalizzazione abbia portato all’Italia più danni che benefici

*   l’80,1% (l’84,1% tra i giovani) è convinto che l’Italia sia irrimediabilmente in declino

*   L’84,0% è impaurito dal clima “impazzito”

*   il 73,4% teme che i problemi strutturali irrisolti del nostro Paese provocheranno nei prossimi anni una crisi economica e sociale molto grave con povertà diffusa e violenza

*   per il 73,0% gli sconvolgimenti globali sottoporranno l’Italia alla pressione di flussi migratori sempre più intensi che  non saremo in grado di gestire

*   il 53,1% ha paura che il colossale debito pubblico provocherà un collasso

*   il 59,9% degli italiani teme che scoppi un conflitto mondiale che coinvolgerà anche l’Italia

*   il 73,8% degli italiani ha paura che negli anni a venire non ci sarà un numero sufficiente di lavoratori per pagare le pensioni

*   il 69,2% pensa che non tutti potranno curarsi, perché la sanità pubblica non riuscirà a garantire prestazioni adeguate

*   per l’87,3% degli occupati mettere il lavoro al centro della vita è un errore

*   il 94,7% rivaluta la felicità derivante dalle piccole cose di ogni giorno

*   il 57,3% riconosce che i giovani sono la generazione più penalizzata, mentre il 30,8% considera danneggiato soprattutto chi oggi si trova nell’età di mezzo e l’11,9% pensa invece che siano lasciati indietro soprattutto gli anziani

*   Per il 62,7% degli italiani il lavoro non è più centrale nella vita delle persone: il senso che viene attribuito al lavoro discende direttamente dal reddito che se ne ricava

*   Resta però molto diffusa l’opinione che il lavoro oggi disponibile sia poco qualificato

*   Per il 72,8% i migranti svolgono lavori necessari che gli italiani non vogliono fare, con percentuali che arrivano al 76,0% nelle regioni del Sud.

*   Il 74,0% si dice favorevole all’eutanasia

*   il 70,3% approva l’adozione di figli da parte dei single

*   il 65,6% si schiera a favore del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso

*   il 54,3% è d’accordo con l’adozione di figli da parte di persone dello stesso sesso

*   il 34,4% approva la gestazione per altri (Gpa)

*   il 72,5% è favorevole all’introduzione dello ius soli (la concessione della cittadinanza ai minori nati in Italia da genitori stranieri regolarmente presenti)

*   il 76,8% è favorevole allo ius culturae  (la cittadinanza per gli stranieri nati in Italia o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato un percorso formativo nel nostro Paese)

Chiudiamo infine con un passaggio del Rapporto che indica un possibile percorso che si presenta ai sonnambuli al momento dell’’auspicabile loro risveglio

……..Tutto concorre a comporre un disegno, per la verità ancora piuttosto confuso, di una società che, più che avviare un nuovo ciclo, sta sostituendo il modello di sviluppo costruito a partire dagli anni ’60, nel quale si rivendicava il lasciar fare, la copertura dei bisogni essenziali, il riconoscimento delle identità e dei diritti collettivi, con un modello nuovo in cui sia assicurato il lasciar essere, l’autonoma possibilità – specie per le giovani generazioni – di interpretare lavoro, investimenti, coesione sociale senza vincoli collettivi. Rimane sullo sfondo il dubbio che, se ciascuno conquisterà la libertà di essere qualsiasi cosa, senza regole, senza vincoli, senza sciame, non sapremo fare, insieme, le cose che da soli non siamo in grado di fare e non sapremo essere, tutti insieme, ciò che da soli non siamo in grado di essere……