venerdì 22 marzo 2024

Video della conferenza del 20 Marzo 2024 - relatore prof. Guido Boella

 

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della partecipata conferenza (oltretutto ingentilita dalle apprezzate esibizioni pianistiche di allievi del  Centro Studi di Didattica Musicale Roberto Goitre di Avigliana) tenuta, in data 20 Marzo 2024, presso l’auditorium D. Bertotto, dal prof. Guido Boella (ordinario del Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino, Vice-Rettore per i rapporti con l’Industria dell’Università, Co-fondatore della Società per l’etica dell’AI) con titolo:

Libertà e Tecnologia,

Etica e Intelligenza Artificiale

Per accedere al video cliccare qui

venerdì 15 marzo 2024

Il "Saggio" del mese - Marzo 2024

 

Il “Saggio” del mese

 MARZO 2024

La riflessione che il Saggio scelto per questo mese ci propone è attorno ad un tema, quello della “guerra”, drammaticamente ritornato sulla scena globale con una intensità ed un coinvolgimento che nel secondo dopoguerra sembrava ormai lecito non dover più vedere. Vero è che in tutti questi decenni non si sono mai interrotti conflitti qua e là nel mondo (ed anche qui nella nostra Europa, ex Jugoslavia anni Novanta), ma è purtroppo innegabile che con l’aggressione della Russia all’Ucraina si è fatto molto più forte il timore (accentuato poi dalla tragedia della Striscia di Gaza) che il mondo stia tornando a vedere nella guerra una “normale se non inevitabile” soluzione delle fisiologiche tensioni geopolitiche fino all’assurdità di contemplare come possibile lo scenario di un conflitto nucleare. Questo Saggio entra nel merito di questa svolta per cercare di capire quali ragioni, quali convenienze, stiano di fatto riportando indietro l’orologio della storia ri-consegnandoci una aggiornata idea di guerra

il cui autore è Fabio Armao

(attualmente professore di Relazioni internazionali al Dipartimento Interateneo, Università e Politecnico, a Torino, dopo essere stato a lungo Docente di Sociologia presso l’Università di Torino. Autore di numerosi saggi, collabora a diverse riviste. Apprezzato relatore alla nostra conferenza di Marzo 2018 con titolo “Nuove forme di criminalità organizzata e di delinquenza giovanile”)

In questo saggio Armao prende in esame i fattori che sostengono l’affermarsi di una diversa idea di guerra tutti collegati alla più generale evoluzione del quadro globale economico, sociale, politico ed istituzionale avvenuta nel corso degli ultimi decenni. In questo quadro il ripresentarsi di conflitti armati ad alta intensità rappresenta solamente il punto più alto e tragico di un ricorso sistematico alla violenza organizzata che in diverse forme caratterizza ormai l’intera società globale

Prologo

Tutte le guerre, da sempre, offrono ad uno sguardo analitico alcune identiche caratteristiche (politiche di potenza, imperialismi e nazionalismi, interessi economici ed espansionismi), ma tutte allo stesso tempo possono essere davvero capite e spiegate solamente individuando i loro fattori specifici e le collegate dinamiche. Anche il conflitto russo-ucraino, l’avvenimento che meglio può sintetizzare l’attuale versione del concetto di guerra, non sfugge a questa regola e propone un inedito modello di relazioni tra politica e mercato, tra pubblico e privato, che come si vedrà è strettamente connesso al contesto di una globalizzazione pienamente realizzata. Due elementi di novità, fra i tanti che stanno emergendo e che verranno quindi esaminati, lo evidenziano: il primo consiste nel fatto che anche in campo bellico sono  sempre più le logiche del mercato neoliberista a dettare le regole, ricorrendo ad esempio anche a pratiche di subappalto a corporation private di funzioni un tempo rigidamente in capo allo Stato (logistica, addestramento delle truppe, intelligence, ruoli mercenari di combattimento, per non parlare della privatizzazione ormai totale dell’industria degli armamenti), il secondo nel dilagare di quelle che sono definite le “nuove guerre”, ossia conflitti che per lo più avvengono all’interno degli Stati per ridefinirne la collocazione all’interno di contrapposti interessi globali (la stessa guerra scatenata da Putin può essere fatta rientrare in questa categoria se si guarda alle storiche relazioni fra i due paesi e alla oggettiva incerta definizione dei confini che li separano). Si è quindi di fronte ad una significativa evoluzione, non adeguatamente compresa ed evidenziata, che non a caso si intreccia con il preoccupante accentuarsi della questione ambientale e climatica le cui concrete ricadute stanno inevitabilmente influendo sul sistema delle relazioni geopolitiche e sulle priorità in capo alle scelte politiche. Anche per questa ragione, oltre al dramma dei conflitti in sé, trovare un’alternativa alla guerra è ormai diventata una questione di vita o di morte per l’intera umanità

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Da sempre le guerre sono state delle scelte e non delle necessità, degli eventi pianificati per raggiungere obiettivi, più o meno legittimi e condivisibili, ritenuti non ottenibili con altri mezzi. Questo sintetico concetto storico di base ha però poi conosciuto nel corso del Novecento un evidente salto di qualità, reso possibile dal formidabile sviluppo tecnologico e produttivo avvenuto in particolare in Occidente. L’impressionante “potenza di fuoco” che via terra, via mare, via cielo, ha segnato i due sanguinosissimi conflitti mondiali è stata efficacemente sintetizzata dal giudizio storico con la riassuntiva definizione di “guerra industrializzata” intendendo con essa non solo l’utilizzo mirato del potenziale tecnologico, ma anche la collegata evoluzione delle stesse strategie belliche verso una loro versione “scientifico-produttiva”.  La quale non ha inciso solo sugli avvenimenti avvenuti sui campi di battaglia, ma, proprio grazie al potenziale tecnologico industrializzato, ha progressivamente avuto un impatto diretto sulle popolazioni civili che, lungi dall’essere dei semplici “soggetti collaterali” come fin lì storicamente avvenuto, sono anch’esse divenute un preciso obiettivo strategico (le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki ne sono la più drammatica testimonianza). Il Novecento ha quindi inaugurato una nuova concezione della guerra sostanzialmente basata su due componenti: quello materiale degli apparati bellici e quello immateriale delle modalità di concepire le conseguenti strategie belliche, e soprattutto delle ragioni politiche ed ideologiche alla base del ricorso al conflitto, del collegato coinvolgimento, attivo e passivo, delle popolazioni coinvolte, del sistema di relazioni tra sfera delle decisioni politiche e quella degli interessi economici. La prima dimensione vede, in linea con le consolidate realtà tecnologiche e produttive, il permanere di una forte concentrazione dell’industria degli armamenti in pochi paesi, eredità consolidata dei conflitti novecenteschi e della successiva divisione nei due blocchi, quello occidentale in capo agli USA e quello orientale con capofila l’URSS con la successiva aggiunta della Cina

Per quanto concerne la prima componente (che sta conoscendo una ulteriore impressionante accelerazione tecnologica con non pochi aspetti a dir poco fantascientifici quali, a puro titolo di esempio, il ricorso a “robot soldati”) Armao fornisce alcuni dati che confermano il ruolo centrale dell’industria bellica occidentale aggiornato dalle new entry di alcuni paesi di consolidata potenza economica ed industriale: nel quinquennio 2017-2021 il 91,8% delle esportazioni di armi belliche è stato in capo a 10 Stati soltanto, di cui ancora ben il 68,2% da paesi del “fronte occidentale” (USA, Europa, Corea del Sud, Israele, Turchia) ed il restante da quelli del “fronte orientale” (Russia, Cina)

Questo quadro novecentesco ha poi trovato un suo nuovo e diverso equilibrio globale con la svolta avvenuta con la fine del blocco sovietico: i decenni successivi alla caduta del Muro hanno infatti visto il realizzarsi dell’aspetto fondamentale per comprendere ragioni e forme della nuova idea di guerra che si è concretizzata ai nostri giorni: l’inarrestabile globalizzazione neoliberista che, senza più ostacoli da superare, ha imposto ovunque le sue logiche di mercato, la sua sbilanciata visione del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, una nuova gestione delle relazioni tra paesi ed aree del mondo. Non rientra nelle finalità di questo saggio entrare nel merito delle caratteristiche di questa autentica rivoluzione globale, interessa qui rilevare che, inevitabilmente, la svolta neoliberista è stata capace di squilibrare anche le classiche modalità di gestione della sicurezza globale, la sfera entro la quale si definiscono e si concretizzano gli stessi eventuali ricorsi alle guerre guerreggiate. Un dato aiuta a meglio comprendere perché tutto ciò sia potuto succedere: a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso si è infatti via via consolidata una strettissima connessione tra le istituzioni pubbliche che presiedono questa sfera ed il settore pubblico/privato specializzato nella ricerca e nella produzione dei componenti, sempre più di altissimo contenuto tecnologico, indispensabili per una ottimale gestione operativa dello scontro. E’ questo ormai il terreno strategico sul quale i possibili conflitti, soprattutto quelli potenziali su scala ampia, vengono preventivamente decisi, ed ogni effettivo scontro armato è in gran misura determinato dall’arsenale e dai sistemi tecnologici concretamente posseduti

i quali vanno dal monitoraggio alla copertura informativa, dalla disponibilità e dall’efficientamento dei dispositivi alla gestione dei combattimenti veri e propri. Resta pur vero comunque che sul campo di battaglia, soprattutto quelli di ridotta scala locale, incidono ancora altri fattori, a partire da quello umano, la stessa guerra russo-ucraina (per quanto i costanti appelli ucraini per adeguate forniture militari confermino l’importanza di questo aspetto) così come gli scontri in corso nella striscia di Gaza, dimostrano che sono pur sempre combattenti in carne ed ossa che si misurano

Si tratta di un processo che ha progressivamente accompagnato tutte le guerre avvenute negli ultimi decenni a cavallo dei due secoli, a partire da quelle combattute sotto l’egida delle Nazioni Unite o della Nato (1991 Guerra del Golfo, 1992-1995 Somalia, 1999 Kosovo, 2001 Afghanistan, 2003 Irak, 2014 Stato Islamico Isis)  per passare anche a quelle classificate come “guerre civili(1992-1995 ex Jugoslavia, 1994 Ruanda, 1998-2003 Congo, dal 2011 e tuttora in corso in Libia, sempre 2011 e sempre tuttora in corso Siria, sono solo le più eclatanti in un elenco molto più lungo). Al di là delle loro caratteristiche specifiche, delle ragioni del loro innescarsi, sono tutti conflitti che bene testimoniano questo dato di fondo: da decenni la guerra nella sua definitiva versione neoliberista ha generato un’intera filiera globale ad alta redditività capace di coinvolgere tutte le sfere del capitalismo, da quella industriale della produzione di armi, a quella commerciale del traffico e della vendita (lecita ed illecita) di armi, dalla sfera ipertecnologica a quella finanziaria (e non va neppure dimenticata la consistenza di gruppi mercenari e di agenzie di contractors) che vede coinvolte le autocrazie di turno, ma non di meno le stesse democrazie. Si è in questo modo completata la trasformazione della guerra, avviata nei conflitti novecenteschi con la sua prima industrializzazione, in una “normale” componente del capitalismo globalizzato, in una delle voci, non meno pianificabile e gestibile, che contribuiscono ai suoi ricchi bilanci.  In questo nuovo quadro globale, ed in particolare nelle sue caratteristiche di fondo materiali ed immateriali, va collocata anche la guerra russo-ucraina, lo scontro armato decisamente più pericoloso per la pace nel mondo che, come tale, meglio aiuta a mettere a fuoco alcuni specifici aspetti che meritano di essere considerati. Emerge un primo dato: trent’anni dopo l’introduzione forzata ed accelerata delle logiche capitalistiche in un paese, l’ex URSS già del suo allo sbando totale, la sinergia fra un dispotico potere centrale ed un mercato oligarchico ha prodotto una società ibrida nella forma ma allineata nel macro dato dell’ingiustizia socioeconomica: nella Russia che invade l’Ucraina il 10% più ricco della popolazione detiene il 70% della ricchezza del paese, ossia lo stesso identico dato di USA e Cina. Questa sostanziale omogeneità strutturale viene spesso trascurata nelle analisi del conflitto che evidenziano molto di più l’aspetto neoimperialistico di Putin, la sua esaltazione del ritorno alla Grande Russia, ma fra i due aspetti esiste una evidente correlazione che capovolge questa riduttiva versione. Nel corso del Novecento le politiche belliche aggressive erano infatti basate sull’assunto ideologico, creato ed alimentato ad arte, del concetto di nazione, di patria, della sua grandezza e del suo diritto storico di “un posto al sole” , ed erano conseguentemente orientate ad incidere sui rapporti esterni, oggi, nella Russia di Putin (ma non solo perché non ne sono esenti altri insospettabili paesi, a partire dagli stessi USA piuttosto che  dalla Turchia di Erdogan), fare appello alla nazione, alla sua grandezza storica, ha assunto in misura prevalente una finalità interna: quella di dissimulare, di coprire, le evidenti storture socioeconomiche interne (come quella della disuguaglianza economica), è cioè divenuto una vera e propria arma di distrazione di massa.  Il che da subito richiama in causa un secondo aspetto: se anche la dimensione, “eccezionale” della guerra rientra, strumentalmente, nell’orbita ampia di “normali” logiche di profitto, è inevitabile che conseguentemente, proprio perché questo impongono queste logiche, si inneschino dinamiche, pressochè automatiche, di una costante corsa al rialzo competitivo (ben testimoniata dalla tendenza globale all’aumento della relativa quota dei bilanci statali). Il che significa, a guerra in atto, una continua corsa verso l’alto dello stesso scontro armato. In questo senso l’errore di calcolo di Putin non è consistito tanto nel sottovalutare la capacità di resistenza del popolo ucraino (che ha comunque fatto saltare la sua presuntuosa illusione di chiudere la vicenda in pochi giorni quasi senza colpo ferire), ma nel non aver adeguatamente previsto e considerato l’entità della reazione occidentale di sostegno all’aggredito visto che in ultima istanza sarebbe stata animata dalle sue stesse logiche di guerra. Emerge inoltre un terzo aspetto, più specifico, che richiama quanto già evidenziato in precedenza sul coinvolgimento nel conflitto della popolazione civile: la maggior parte dei bombardamenti russi più che a obiettivi militari mira sistematicamente a colpire infrastrutture civili (centrali elettriche, acquedotti, scuole, ospedali, centri commerciali, chiese) ed intere città. Anche in questo caso si è di fronte ad un perfezionamento di tendenze già emerse nel corso della novecentesca guerra industrializzata: la distruzione sistematica della polis, delle città, ossia del contenitore simbolico dell’intera struttura sociale, è da tempo divenuta una precisa strategia militare, dagli analisti definita con il termine “urbicidio

la distruzione sistematica di città, iniziata nella seconda guerra mondiale con i bombardamenti a tappeto delle città tedesche (Dresda docet) e con le atomiche americane sul Giappone, è infatti divenuta una prassi abituale in tutti gli ultimi conflitti, si pensi ad esempio a Mosul e Falluja nella guerra in Iraq, a Raqqa in Siria, Tripoli e Tobruk in Libia, Sana’a in Yemen, Sarajevo nell’ex Jugoslavia. Per quanto rappresenti un conflitto per alcuni versi a sé stante è poi impossibile non citare quanto sta succedendo nella striscia di Gaza

La rabbia putiniana verso il popolo ucraino colpevole di aver osato disubbidirgli ha quindi come dichiarato obiettivo la deliberata distruzione di ogni spazio sociale e mira a fare dell’Ucraina, o meglio della parte che non gli sarà mai possibile conquistare, autentica terra bruciata. Rappresenta il culmine di una cinica logica distruttiva che nella nuova idea di guerra non prevede più la delimitazione dei luoghi di battaglia, la distinzione fra uomini in divisa e normali cittadini. Ma sarebbe un grave errore ridurre queste logiche alla spietata irrazionalità dell’autocrate di turno, la necessità urgente di capirle, e quindi di superarle, chiama in causa (vedi elenco precedente) come colpevole protagonista il mondo intero, a partire dalle stesse democrazie occidentali che, guarda caso, ancora non hanno fatto pienamente i conti con l’eredità storica delle loro conquiste coloniali piuttosto che dell’interessato sostegno a sanguinose dittature in Asia, Africa e Sud America. Chiamare quindi anch’esse a rispondere implica, inevitabilmente, interrogarle sulla loro reale democraticità ben consapevoli che la democrazia, pressochè ovunque, già del suo non sta passando un buon momento. Lo attestano, in aggiunta alla crisi del sistema dei partiti e alla diffusa disaffezione elettorale, i dati relativi alle effettive forme istituzionali: il numero delle liberal-democrazie è ormai tornato ai valori del 1989 ospitando solo il 13% della popolazione mondiale, il resto vive in autocrazie ancora elettorali o dichiaratamente tali (Democracy Report 2022). Secondo Armao il dato più sconfortante che emerge consiste soprattutto nella innegabile degenerazione autoritaria che in esse è stata indotta dalle stesse logiche globalizzate di mercato già protagoniste della negativa evoluzione di cui si è testè detto. Siamo cioè di fronte, anche per questo aspetto, all’indiscutibile esito di un processo di mutazione nei rapporti tra capitalismo e Stato, iniziato negli ultimi decenni del secolo scorso (a partire dalla fine degli accordi di Bretton Woods che regolavano rigidamente modi e confini del sistema finanziario internazionale), che ha fatto piazza pulita dei meccanismi di regolazione politica del mercato instaurando un sistema, globale, di gran lunga più flessibile fatto di meccanismi ed attori che si muovono indipendentemente dalle forme giuridiche e istituzionali dei singoli Stati. L’aver ridotto la politica a servizievole ancella di logiche di profitto spacciate come neutra scienza economica, l’unica possibile per l’ideologia del mercato autoregolato, ha inevitabilmente abbassato di molto l’asticella della vera democraticità. Questa constatazione offre lo spunto per approfondire alcuni aspetti del rapporto fra interessi economici, scelte politiche, funzionamento dei sistemi democratici, gestione della sfera della sicurezza, che hanno una evidente ricaduta anche sulla propensione e gestione di potenziali conflitti armati, e più in generale sul bilanciamento tra legalità ed illegalità. Il primo dato da cui prendere le mosse consiste nella constatazione dell’innegabile esistenza di un vero e proprio doppio capitalismo, uno in qualche modo ancora legato alla sfera delle decisioni politiche ed uno che, in parte comunque tollerato se non addirittura  legalizzato, è da queste molto più slegato. Si tratta di quello, tecnicamente definito “economia informale(la versione 2.0 della tradizionale economia sommersa) che la World Bank, nel 2022, ha stimato valere per circa un terzo del PIL mondiale con punte del 70% nelle economie in via di sviluppo.

Accanto alla classica produzione di beni e servizi rientra nell’economia informale una serie alquanto varia e sofisticata di agenzie, specie di intermediazione creditizia (con gran utilizzo delle criptovalute), che completano un ciclo finanziario e produttivo che non si fa certo scrupolo di sfruttare al meglio paradisi fiscali e centri offshore

Si parla cioè di un autentico convitato di pietra sulla scena politica e decisionale globale. Sono cifre che rendono bene l’idea di quanto valga quest’area dell’economia globale che viaggia parallela a quella ufficiale sfuggendo però, in modo intenzionale e sistematico, al controllo politico e giuridico che, oltre ad essere inevitabilmente una ghiotta opportunità per le attività in capo a gruppi criminali, contribuisce non poco ad alimentare le diseguaglianze economiche allargando la forbice dei redditi all’interno dei singoli paesi e, a livello globale, la differenza fra Nord e Sud del mondo. Per meglio comprendere il collegamento che l’esistenza consolidata ed ormai globalmente strutturata di questo secondo capitalismo ha con la sfera della sicurezza è inoltre necessario evidenziare quello che altrettanto organicamente esso ha sviluppato con la politica. La potenza di fuoco, termine in questo caso quanto mai appropriato, che essa è in grado di mettere in campo per consolidare i propri margini d’azione e di profitto non poteva non investire una politica già del suo prona alle logiche neoliberiste, appiattita sul governo del presente e finalizzata alla mera raccolta di consensi elettorali. Nell’epoca del neoliberismo globalizzato e del conseguente scavalcamento del potere locale e nazionale non stupisce più di tanto che ciò sia avvenuto  proprio nel momento in cui processi di profonda innovazione, come quello appena evidenziato, avrebbero al contrario richiesto una politica forte in grado di conoscerli e governarli. Si è invece assistito ad una progressiva mercificazione della politica ridotta ad un insieme di brand che si fronteggiano nel mercato dei voti (e quindi con partiti leggeri sempre più ridotti a comitati elettorali, con il ruolo preminente di leader mediatici, con l’uso massiccio di una pubblicità ben diversa dalla classica propaganda, con l’adozione di messaggi politici semplificati se non ridotti ad una raccolta di slogan). Un recente fenomeno testimonia il perverso intreccio tra sfera politica e degli affari: quello delle cosiddette revolving doors (porte girevoli), ossia politici, anche di altissimo livello, che con assoluta indifferenza lasciano la politica per subito assumere prestigiosi incarichi in imprese che molto dipendono da commesse pubbliche

non si tratta della pur impattante attività di lobbysmo sempre più presente negli ambienti politici di buona parte del mondo, ma della spudorata cinica formalizzazione degli interessati intrecci fra pubblico e privato. Due esempi fra i tanti: Gerhard Schröder dopo essere stato Cancelliere (Primo Ministro) della Germania dal 1998 al 2005 ha ricoperto, anche grazie all’amicizia intima con Putin, posizioni di grande rilievo in aziende energetiche russe. Ancor più esemplare è la vicenda di Dick Cheney, Segretario alla difesa del presidente George Bush padre dal 1989 al 1993, gli anni della prima Guerra del Golfo, che subito dopo diventa Amministratore Delegato della Halliburton, una multinazionale americana del settore energetico che possiede anche una compagnia militare, per poi tornare in politica come Vice Presidente USA con George Bush figlio dal 2001 al 2009, gli anni della seconda Guerra del Golfo, con, guarda caso, appalti multimiliardari alla sua ex azienda

Dall’intreccio fra tutti questi processi (qui percorsi molto sinteticamente) che hanno caratterizzato la ristrutturazione dell’economia e della società globale emerge un quadro complessivo composto da una sommatoria di interessi economici (nella loro forma di doppio capitalismo) in grado di incidere in modo rilevante su tutti comparti della sfera decisionale politica ed istituzionale, compreso quello della guerra. Ciò avviene in duplice modo: sia condizionando le scelte strategiche che determinano gli intrecci geopolitici, sia orientandole verso sbocchi in grado di assicurare concreti ritorni economici. Vale a dire che ai giorni nostri una guerra (quella che ha assunto le caratteristiche dell’ulteriore evoluzione della novecentesca guerra industriale) può innescarsi perché gli equilibri geopolitici possono essere visti non più congeniali per determinate strategie e può avere un determinato sviluppo, più o meno accentuato, in relazione agli interessi economici in gioco. Questo nulla toglie all’incidenza di altri fattori (ad esempio nazionalismi esasperati, eredità di tensioni storiche, contrasti di ordine religioso) che possono sicuramente accentuare, sino ad esserne vero detonatore, processi già solidamente avviati del loro. Si tratta di una evoluzione, spesso sotto traccia, che ha di fatto sconvolto anche un presupposto basilare sul quale a lungo si è fondata la gestione dei motivi di conflitto: la presenza di una o più potenze egemoni in grado di determinare la stabilità dell’intero sistema internazionale. La realtà storica degli ultimi decenni  dimostra l’esatto contrario: se è vero che (con la sola eccezione dello scontro aperto tra truppe americane e cinesi nel corso della guerra di Corea del 1950-1953) non si sono registrati conflitti armati con il coinvolgimento diretto delle tre grandi potenze (USA, URSS/Russia, Cina), non è meno vero che, soprattutto dalla fine del bipolarismo, sono state le stesse grandi potenze ad alimentare i più rilevanti, per quanto periferici, conflitti. Sembra davvero un azzardo definire “stabilità” un quadro di questo genere caratterizzato dal costante strumentale scavalcamento del concetto di “sovranità nazionale”. Paradossalmente l’elemento che in qualche modo potrebbe concorrere a contenere i rischi di guerre consiste proprio nel dilagante totalitarismo (diffuso sottoprodotto non casuale della globalizzazione neoliberista che, a differenza di quello novecentesco più concentrato in specifici Stati, si disperde ormai in tutte le aree del pianeta), alle autocrazie locali sono infatti imposti spazi limitati per esasperare le ragioni di tensione con altri Stati. Il capitalismo globalizzato poggia così tanto su una totale libertà di movimento, di ininterrotta circolazione di merci, persone e soprattutto dati, che non tollera fastidiosi elementi di disturbo (come quelli avvenuti nel 2022 in Kazakistan diventato il più importante centro al mondo per le movimentazioni, legali e non, di criptovalute grazie all’installazione, incentivata dalle politiche governative locali, di un numero impressionante di potentissimi server). Partecipare allo stesso globalizzato sistema capitalistico (nelle sue due versioni), che come si è fin qui detto costituisce il quadro d’insieme che sostiene l’attuale idea di guerra, può, a fronte di evidenti ragioni di tornaconto, rendere più complicato il ricorso alla guerra, sempre che questa non si dimostri una soluzione in qualche modo conveniente per tutti gli attori coinvolti e per le loro, a ben vedere, comuni logiche.

Resta comunque significativo il peso dell’irrazionalità competitiva da sempre insita nelle logiche capitalistiche. Molte delle attuali guerre sono ancora troppo spesso il frutto di scelte tanto irrazionali quanto criminali compiute da Stati guidati da leader autocratici in delirio di onnipotenza (spesso sostenuti da clan, anche mafiosi, che agiscono nella sfera del secondo capitalismo) che sfruttano le opportunità offerte da un mercato globale che offre tutto ciò che serve per un conflitto armato

….. Se il delicato equilibrio tra Stato e mercato viene meno e un capitalismo senza regole detta legge, a rischio è, con eguaglianza e democrazia, la stessa pace ….



venerdì 1 marzo 2024

La Parola del mese - Marzo 2024

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

Marzo 2024

La Parola di questo mese è un recentissimo neologismo entrato nel vocabolario Treccani soltanto nel 2018 dopo essere per la prima volta comparsa, per definire una evidente tendenza politica ed istituzionale, in un articolo in prima pagina de La Repubblica del 24 Settembre 2017 a firma di Michele Ainis e dopo essere, da lì in poi, entrata con frequenza nell’odierno linguaggio politico italiano. Si tratta di ……..

CAPOCRAZIA

Capocrazia [sostantivo composto da “capo (persona che dirige, che è posta al comando di altre persone) e da “crazia (dal greco “cratos” = potere, dominio, esercizio del potere) = il potere del capo di un partito politico o di una istituzione

Siamo alle prese con un termine tanto chiaro nel suo significato quanto efficace nel sintetizzare un tratto della scena politica, italiana ma non solo, e nel recuperare, adattandolo ai tempi attuali, l’eterna e diffusa tendenza a semplificare la gestione del potere affidandola in toto al capo di turno. Non a caso Capocrazia è il titolo che lo stesso Michele Ainis

(1955, costituzionalista, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi, editorialista di diversi quotidiani) ha scelto per il suo ultimo saggio in cui prende in esame la decisione dell’attuale governo Meloni di avviare l’ennesima riforma costituzionale in questo casi basata su una accentuata idea di “premierato”)

Ainis è infatti convinto che capocrazia sia la chiave di lettura più appropriata per capire e valutare la proposta di “premierato forte”, recentemente avanzata dalla coalizione di centrodestra che sostiene l’attuale governo. La prassi prevista dalla Costituzione per approvare una sua riforma impone lunghi e complicati passaggi inevitabilmente destinati ad occupare buona parte del dibattito politico dei prossimi mesi/anni. Ci è comunque sembrato utile avviare da subito una nostra riflessione su tale tema prendendo spunto dalla personale lettura che della proposta in sé e delle visioni politiche che la sostengono fa, in questo saggio, uno dei più seguiti costituzionalisti del nostro paese (in questo post ci limitiamo tuttavia a recuperare i Capitoli più direttamente connessi alla nostra Parola del mese)

Se una Costituzione si può migliorare, significa che si può anche peggiorare. E’ questo il rischio del presidenzialismo, è questa la sua sfida

Sono queste le parole che aprono il testo di Ainis ad indicare che mettere mano a modifiche costituzionali è sempre un passaggio molto delicato che va affrontato entrando, con serena razionalità e con un inclusivo sguardo di lungo periodo, nel suo merito a partire dalle motivazioni e dalle finalità che lo ispirano. A maggior ragione questo vale in tempi, come quelli attuali, caratterizzati da evidenti sofferenze nel funzionamento delle “classiche” regole democratiche e quindi sempre più pericolosamente propensi a soluzioni semplicistiche e sbrigative. In particolare è in questo contesto che si sta da tempo assistendo al ritorno del “mito del Capo” che, riadattato ai tempi della Rete e dei social, ha assunto secondo Ainis le sembianze di una più complessiva capocrazia. Questa nuova proposta di modifica della Costituzione italiana, che ridisegna in particolare la sua Parte Seconda (quella che definisce l’ordinamento della Repubblica) appare ispirata proprio dalla finalità di dare riconoscimento formale al ruolo del “capo”. (è bene ricordare che la Costituzione Italiana, per quanto ancora relativamente giovane, gode del poco invidiabile primato di essere fra quelle più interessate da  proposte di modifica, la maggior parte delle quali comunque naufragate in itinere). E’ dato acquisito. o perlomeno tale dovrebbe essere, che la Costituzione sia un valore condiviso da tutti, e come tale quindi al di sopra delle pur legittime visioni di parte. Pertanto le sue sempre possibili modifiche è bene che non avvengano a “colpi della maggioranza di turno”, L’augurio che tutti dovrebbero condividere e perseguire è che ciò avvenga anche in questo caso. Fermo restando questo contesto il dato di partenza su cui riflettere è una proposta che, faticosamente, ha preso le mosse grazie ad una iniziativa dell’attuale governo Meloni

sostenuto dalla coalizione di centrodestra vincitrice delle elezioni del 2021 con il 43,79% dei voti espressi dal 63,91% degli aventi diritto al voto, e quindi in effetti votato dal 26,7% degli italiani. A sua volta Fratelli d’Italia, il partito capofila della coalizione, con il suo 25,99% di voti raccolti nella quota proporzionale è stato scelto dal 18,5%. Sono dati che confermano l’importanza di acquisire, andando oltre l’interesse di parte, il maggior consenso trasversale possibile, ripetendo cioè la straordinaria esperienza di unità nazionale che ha prodotto, con la nascita della Repubblica Italiana, l’attuale Costituzione del 22 Dicembre 1947

Il programma della coalizione di centrodestra prevedeva, al punto 3 del programma elettorale vittorioso alle elezioni del 2022, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che però, pochi mesi addietro, è stata invece mutata in una diversa proposta, quella dell’elezione diretta del Capo di Governo, del Premier. Si tratta, come si vedrà, di una idea perlomeno originale che, improntata ad una non meglio precisata idea di “democrazia diretta”, presenta al momento ancora così tanti aspetti incerti e confusi da avere, a partire dalle stesse forze politiche che la stanno promuovendo, il carattere di un cantiere in corso. Per quanto quindi ancora suscettibile di cambiamenti, e sulla base di quanto è sin qui dato di capire, l’idea di fondo che la sta ispirando è quella dell’introduzione di una forma di democrazia basata sul presidenzialismo, ossia “una particolare forma di governo, uno dei modi con cui, in una democrazia, avvengono la trasmissione e l’esercizio del potere distribuendolo fra i vari organi costituzionali”. ciò che caratterizza il presidenzialismo non è tanto la figura del Presidente in sé, ma l’insieme dei poteri che gli sono attribuiti nell’ambito dei rapporti con gli altri organi istituzionali. Si tratta cioè di una architettura del potere che può variare, anche di molto, in relazione alla diversa modulazione di diversi elementi quali ad esempio: la durata del mandato, il suo abbinamento a quello del Parlamento, l’età minima e massima previste per diventare Presidente, la divisione di poteri con gli altri organi. La nascita del presidenzialismo coincide di fatto con quella della stessa democrazia a fine Settecento e nel corso di questi secoli si è sostanzialmente articolato su tre modelli, il più rilevante dei quali è ancora oggi quello americano, il primo ad essere stato adottato. 

Capocrazia non è un testo specialistico di diritto costituzionale, non offre quindi una illustrazione analitica e dettagliata del complesso delle norme che regolano la struttura del potere, si limita, con taglio divulgativo, a presentare i tratti essenziali di questi tre modelli con la finalità precipua di meglio capire la loro eventuale adattabilità alla situazione italiana

*   il modello statunitense = gli USA (United States of America), sono,  com’è noto, uno Stato federale, attualmente composto da 50 Stati, che concede loro  ampi spazi di autogoverno. E’ ancora oggi l’immutata eredità delle scelte costituzionali operate dai Padri Fondatori a fine Settecento all’indomani dell’ottenuta indipendenza dal Regno Unito. La scelta del presidenzialismo, ossia di una forte figura al vertice della struttura del potere, si spiega proprio con le caratteristiche degli USA di allora: uno Stato neonato, privo di una sua consolidata organizzazione centrale, con una classe politica in gran misura ancora formata da personalità individuali, in impetuoso e continuo sviluppo. In tale situazione la figura di un Presidente, dotata di forti poteri, sembrò essere l’unica in grado di tenere insieme, nell’ambito di un attento bilanciamento dei poteri, efficienza e rapidità decisionale con rappresentatività elettorale. La Costituzione americana del 1787 prevede infatti che a capo del governo centrale stia un Presidente, dotato di forti poteri (fra gli altri, a puro titolo esemplificativo,  è titolare di tutte le funzioni esecutive del governo federale stabilendo le direttive di politica interna ed estera, nomina tutti i ministri e affida tutti i più rilevanti incarichi istituzionali, è Comandante in capo delle Forze Armate) la cui elezione (con un mandato, rinnovabile una seconda volta, di quattro anni) avviene in forma indiretta [ogni Stato elegge con criterio maggioritario (chi vince prende tutti i delegati ad ognuno di essi assegnati), dei rappresentanti, i “grandi elettori”, che in una seconda votazione eleggono Presidente e Vice-Presidente]. Il sistema elettorale americano, anch’esso figlio di scelte settecentesche maturate quindi ben prima dell’avvento delle masse sulla scena politica, non favorisce più di tanto l’affluenza elettorale (per votare il cittadino deve fare espressa domanda di iscrizione alle liste elettorali) da sempre quindi tutt’altro che alta, questo aspetto combinato con le modalità di assegnazione dei grandi elettori ha da sempre implicato che il Presidente eletto non sia automaticamente l’espressione della maggioranza dei votanti (esempio recente è quello del 2016 quando Hillary Clinton ottenne ben 3 milioni di voti in più di Donald Trump che però, avendo conquistato la maggioranza dei delegati, vinse le elezioni). Il bilanciamento del poteri presidenziali è assicurato da due organi: la Corte Suprema (la corrispondente della nostra Corte Costituzionale, che  è però composta da nove membri nominati a vita la cui scelta, all’atto delle loro dimissioni, compete allo stesso Presidente di turno, un aspetto che sbilancia notevolmente la sua obiettività) chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale dei provvedimenti presidenziali e ad esercitare un forte controllo (tramite la nomina di “commissioni d’indagine”) ed il Congresso (il nostro Parlamento) formato dalla Camera dei Deputati e dal Senato a cui compete, oltre alla legislazione ordinaria, la fondamentale approvazione del bilancio di Stato senza la quale il Presidente perde ogni risorsa spendibile fatta salva la sola gestione ordinaria delle spese. Un ulteriore bilanciamento è dato dallo sfalsamento dei turni elettorali, il Congresso viene eletto a metà mandato presidenziale (elezioni di mid-term) ed è quindi possibile che il Presidente, se non ha ben governato, non veda confermata la maggioranza che l’ha sostenuto. Va inoltre detto che in aggiunta a questi bilanciamenti istituzionali il potere giudiziario americano è molto forte (non esiste ad esempio la nostra “immunità parlamentare”) e molto autonomo (i giudici dei singoli Stati sono eletti dai cittadini) tanto da giustificare la formula che definisce il sistema americano “government of judges(governo dei giudici). In questo quadro normativo, rimasto sostanzialmente immutato per tutti questi secoli, la storia realmente avvenuta racconta di un Presidente a lungo non più di tanto vero centro del funzionamento del sistema (salvo temporanei passaggi come ad esempio la presidenza di Abraham Lincoln) essendo all’atto concreto sempre stato l’espressione prima dei notabili e poi dei partiti che ne garantivano l’elezione. E’ solo con la grave crisi del 1929 e la presidenza di Franklin Delano Roosevelt che si crea un più diretto rapporto tra Presidente eletto ed elettorato tale da porlo in condizione di prevalere sugli stessi partiti (di conseguenza da lì in poi sempre più appiattiti su di esso) e di avviare un aggiustamento della reale struttura di potere ad oggi riducibile ad un insieme di cerchi concentrici: al centro l’Executive Office, un gabinetto formato dal Presidente e dai suoi più stretti collaboratori, a cui segue un secondo cerchio costituito dai dipartimenti (quindici, assimilabili ai nostri ministeri) con al suo esterno un terzo cerchio composto da numerose autorità indipendenti con funzioni normative e di vigilanza. Una sorta di sistema solare che ha effettivamente al suo centro il Presidente. Il presidenzialismo americano esprime quindi un sistema indiscutibilmente democratico (grazie ai previsti contrappesi) in grado al contempo di esprimere un efficiente decisionismo presidenzialista (Congresso permettendo). Ma è al tempo stesso evidente che si tratta di un modello che, per le sue caratteristiche originarie, per le condizioni economiche, sociali e culturali del paese, per il forte ruolo dei singoli Stati, appare difficilmente esportabile, così com’è, in altri paesi con differenti storia, cultura, struttura. Emerge pertanto un primo aspetto di cui tenere conto: nelle faccende costituzionali conta il testo, ma ben di più il contesto che lo determina e lo interpreta

*   il modello francese = Prende forma due secoli dopo, nel 1958, quando il Generale De Gaulle, l’eroe della guerra di liberazione dall’occupazione nazista, venne richiamato al governo per far uscire la Francia dalla gravissima crisi algerina (la lotta di liberazione della ex colonia e la reazione, al limite del colpo di stato, di una parte dell’esercito francese). De Gaulle accettò l’incarico a fronte di una modifica costituzionale espressamene richiesta proprio per avere un ampio margine di comando (preparata in tempi molti brevi e senza dibattito parlamentare, ma sancita da un plebiscito che l’approvò con l’80% dei voti) che di fatto pose fine alla centralità del Parlamento rafforzando di molto i poteri del Governo e del Presidente e dando così avvio alla V Repubblica francese. Una svolta radicale che trovò la sua giustificazione, ed il necessario consenso elettorale, nella urgente necessità di mettere fine all’incapacità del “regime dei partiti” di gestire una crisi drammatica e che vide il suo compimento, quattro anni dopo nel 1962, quando un secondo referendum sancì anche la collegata elezione diretta del Presidente della Repubblica. Per quanto questa soluzione costituzionale (adottata da altri paesi nel mondo, in Europa lo ha fatto ad esempio il Portogallo) sia passata alla storia con il nome di “semipresidenzialismo” a conti fatti rappresenta al contrario un “super-presidenzialismo”, il Presidente francese ha infatti molti più poteri del collega americano, può ad esempio sciogliere a sua discrezione il Parlamento, può approvare leggi senza il voto parlamentare (come fatto da Macron con la contestata legge sulle pensioni del marzo 2023) ovvero può convocare referendum per far approvare le sue scelte se contrastate dal Parlamento, ed in più nomina direttamente il Primo Ministro che può, a sua discrezione, sfiduciare. Oltretutto, diversamente dagli USA, la sua elezione, grazie ad una terza riforma costituzionale, avvenuta nel 2000, coincide con quella del Parlamento e ciò, nel caso di duplice vittoria elettorale, rafforza vieppiù i suoi margini di manovra. Si è in sostanza di fronte ad un quadro costituzionale decisamente sbilanciato, eppure la storia attesta che non c’è stata, fin qui, alcuna svolta autoritaria come per molti versi sarebbe anche lecito immaginare. La spiegazione consiste, a giudizio concorde di storici e costituzionalisti, nel fortissimo legame che il popolo francese, con l’intera sua classe politica, ha con la democrazia nata con la Rivoluzione Francese di fine Settecento. Consiste in questo aspetto una seconda rilevante indicazione ….. la democrazia può vestirsi con varie forme di governo, ma per sopravvivere ha bisogno di un popolo che la sostenga, che le voglia bene ….

*   il brevetto israeliano = è forse il modello di presidenzialismo che di più offre spunti di riflessione per il caso italiano. Innanzitutto perché introduce una variante, del tutto coerente con la visione di un Presidente eletto direttamente dal popolo, anche se in questo caso chi viene scelto dal voto popolare non è il Presidente della Repubblica, ma il Capo del Governo, il Premier (da qui il termine di “premierato”). Nulla cambia in effetti: passando alla situazione italiana il vero titolo formale di quello che la vulgata chiama Primo Ministro è “Presidente del Consiglio dei Ministri”. Tornando all’esperienza israeliana, l’unica finora ad aver sperimentato l’elezione diretta del Capo del Governo, va constatato che si è trattato di una svolta costituzionale (anche se Israele non ha un vero e proprio testo costituzionale, che è di fatto composto da più distinte “Leggi fondamentali”) avvenuta nel 1992 (ispirata dall’allora primo Ministro Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995 da un estremista di destra proprio per il suo ruolo riformatore). La necessità di un rafforzamento dell’esecutivo era determinata dall’esistenza di una legge elettorale fortemente proporzionale (ancora oggi basta l’1,5% dei voti per entrare nella Knesset, il Parlamento israeliano) giustificata dalle stesse caratteristiche di nascita dello Stato d’Israele. Inevitabile che tale frantumazione del quadro politico producesse una ingestibile instabilità politica determinata da governi quasi sempre nati da fragili coalizioni post voto (un aspetto ancora oggi presente).  Il presidenzialismo israeliano (premierato) venne quindi adottato con la finalità di assegnare ad un Premier forti poteri in grado quindi di stabilizzare l’azione governativa. Consegnava quindi al Primo Ministro il fondamentale potere di sciogliere la Knesset, di essere di fatto il regista unico della formazione del governo e delle sue politiche, restando però sempre vincolato ad essere formalmente nominato anche da un voto di fiducia da parte della Knesset.  Questo aspetto ha implicato il mantenimento, stante la frammentazione parlamentare, di complicate trattative per la formazione di maggioranze parlamentari nelle quali anche i piccoli partiti mantenevano un forte potere di ricatto (Benjamin Netanyahu, il primo premier eletto nel 1996 con questo sistema, subì nel corso dell’unica legislatura basata sulla elezione diretta del Premier ben 63 voti di sfiducia!). Nel 2001, cinque anni dopo la svolta costituzionale del 1996, a fronte del totale insuccesso dell’esperienza concreta la Knesset ha abolito il sistema dell’elezione diretta del Presidente del Governo. Il percorso tormentato di questo terzo modello presidenzialista, nato e morto per ragioni strettamente connesse alla particolare situazione partitica israeliana, offre un ulteriore terzo decisivo elemento di riflessione: l’architettura costituzionale è sempre e ovunque una costruzione così complessa e fragile da subordinare l’introduzione di elementi di modifica per quanto parziali alla conservazione dell’equilibrio complessivo del quadro costituzionale

Ferma restando l’importanza delle indicazioni fornite da questi tre modelli di presidenzialismo è doveroso riconoscere che il tema del rafforzamento del potere esecutivo, anche con il ricorso all’elezione diretta del suo Capo, è da tempo presente nel dibattito in campo accademico e politico. Nel primo è stata rilevante la convinzione teorica, determinata dal frequente continuo valzer di Primi Ministri nel corso della stessa legislatura, del giurista Serio Galeotti (1922-2000) sulla necessità di abbinare, con due votazioni simultanee, l’elezione del Presidente del Consiglio e del Parlamento, creando così le condizioni per cui  se cade il primo decade anche il secondo. A cavallo dei due campi si colloca la stagione referendaria (1991-1993, che in particolare introduce l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti delle allora Province ) promossa da Mario Segni che ha, introducendo il sistema maggioritario, avviato la cosiddetta “seconda Repubblica(per quanto paradossalmente sempre retta dalla Costituzione della Prima). Segni è stato il principale ispiratore dell’idea politica (che al tempo raccolse consensi trasversali) di un legame più stretto tra Premier ed elettori, sintetizzata nello slogan del “Sindaco d’Italia(ancora nel 2022 l’hanno sostenuta Azione ed Italia Viva). E’ però oggettivamente, una soluzione istituzionale sgrammaticata perché un conto è governare un paese, una città, persino una Regione, tutt’altro quello di guidare un governo nazionale. L’insieme di queste esperienze suona come ulteriore richiamo a quanto dedotto dalla vicenda israeliana: le istituzioni sono un sistema di vasi comunicanti, non è possibile alterare la fisionomia di un organo senza produrre effetti su tutti gli altri.

In questo senso non si può non rilevare che l’esperienza di Sindaci e Presidenti di Regione (la cui elezione diretta è stata introdotta, sulla scia di quella dei Sindaci, nel 1999) resi più forti grazie alla loro elezione diretta ha inevitabilmente sminuito il ruolo dei Consigli Comunali e Regionali.

Sono questi i principali presupposti su cui basare la valutazione della proposta in itinere di presidenzialismo portata avanti dalla Ministra per le Riforme Istituzionali Alberti Casellati. Che ha, come si è già evidenziato, visto una prima clamorosa svolta con il passaggio dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica a quella del Premier

a giudizio di molti ciò è avvenuto per evitare che l’adozione di un presidenzialismo all’americana o alla francese implicasse l’uscita dal Colle di Sergio Mattarella, passaggio molto impopolare. Meglio passare alla soluzione israeliana per quanto malandata e già terminata, certo che, se così fosse, diventa lecito dubitare della consistenza teorica dell’intero impianto riformista.

Ciò premesso e sempre tenendo in conto che si è di fronte ad un cantiere in corso con possibili ripensamenti e aggiustamenti, anche sostanziali per quanto è stato dato di conoscere finora, lascia intendere una proposta, contenuta nel disegno di legge approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 3 Novembre 2023, di fatto una sorta di miscela tra l’idea del “Sindaco d’Italia” e quella del Premierato israeliano, articolata su:

*    elezione diretta, ogni cinque anni, del Premier (al momento è incerta la dirimente collegata attribuzione di un premio di maggioranza alla coalizione/partito che lo sostiene)

*   adozione di una norma anti-ribaltone, (già modificata rispetto alle prime ipotesi) in base alla quale il premier può dimissionarsi (a fronte della manifesta perdita della maggioranza parlamentare) venendo però sostituito da altro membro della stessa maggioranza che l’ha sostenuto. Ove ciò non avvenisse si andrebbe a nuove elezioni.

Impossibile per ora entrare più di tanto nel merito di un testo in corso di definizione, e d’altronde i tempi della sua approvazione saranno così lunghi da consentire a tutti una giusta disamina della stesura definitiva, Ainis si limita pertanto ad indicare i passaggi più dirimenti:

*   il ruolo del Capo dello Stato nel nuovo quadro istituzionale

*   i poteri conferiti al Premier eletto direttamente dal popolo

*   il rispetto della sentenza della Corte Costituzionale n° 1146 del1988 che dichiara che “le leggi di revisione costituzionale non possono offendere i principi supremi della Carta”

*   la gestione del referendum approvativo (che sicuramente si terrà) sperando che sappia entrare correttamente nel merito formulando i quesiti su cui esprimersi nel modo più chiaro possibile onde evitare storture strumentali

Come ulteriore contributo alla personale formazione di un giudizio di merito indica quelli che ritiene siano gli elementi su cui si fonda la disamina dei vizi e delle virtù del Presidenzialismo, vale a dire la sua relazione/incidenza su:

*   stabilità del quadro istituzionale = nel contesto di una democrazia parlamentare di norma l’unico organo che non ha un orizzonte temporale definito è l’esecutivo, può infatti durare l’intera durata legislativa, ma può anche terminare e mutare ben prima e più volte (l’Italia ne è un desolante esempio, basti pensare alla tornata 2018-2022 che ha visto succedersi un governo giallo-verde, uno opposto giallo-rosso, ed uno tecnico di terzietà), in relazione al mutare delle maggioranze parlamentari. In questo senso il Presidenzialismo dovrebbe teoricamente garantire, sulla base del mandato popolare, la copertura dell’intera durata legislativa, ma è pur altrettanto vero che la stabilità, di per sé stessa, non può essere un valore così dirimente (le dittature vantano una grande, ma negativa, stabilità), e comunque non può essere determinata dalla sola continuità delle persone elette, semmai quello che dovrebbe essere stabile, per produrre ricadute positive sull’azione del governo, è l’indirizzo politico degli obiettivi di lungo periodo. I critici del Presidenzialismo evidenziano che il suo tratto saliente non consiste tanto nella potenziale stabilità, ma nel rischio, opposto, di eccessiva rigidità, la virtù di un buon sistema di governo è infatti quella di una virtuosa flessibilità, ossia la capacità di rimodularsi in relazione al mutare del contesto socio-economico si cui è chiamato ad intervenire

*   l’efficienza governativa = è una diretta conseguenza della stabilità ulteriormente garantita dal fatto che con il Presidenzialismo il programma da realizzare non è frutto delle trattative post voto fra le forze che in Parlamento sono chiamate a sostenere il Capo eletto, tutto ciò dovrebbe essere già avvenuto in precedenza con la scelta di indicare il Presidente/Premier e di formare, attorno al suo nome, una coalizione. Un dubbio, non solo ipotetico, nasce dal sempre possibile guastarsi del rapporto tra Premier e coalizione

*   la sovranità popolare = “Appartiene al popolo” recita il primo Articolo delle Costituzione Italiana, così come molte altre nel mondo. Il Presidenzialismo, soprattutto se rafforzato dal congiunto doppio voto di Presidente/Premier e del Parlamento, dovrebbe rispettare due volte questa indicazione. Il diavolo potrebbe però nascondersi nel dettaglio, che tale in effetti non è, della reale coerenza politica fra questi due voti

*   il sistema delle garanzie = in tutte le democrazie si basa sulla separazione dei poteri. In particolare vale, in aggiunta a quello ineliminabile della piena autonomia del potere giudiziario, quella tra potere legislativo (leggasi Parlamento) e potere esecutivo (leggasi Governo). Il Presidenzialismo che prevede due organi elettivi (Presidente/Premier e Parlamento) di pari dignità in quanto a legittimazione data loro dal voto popolare dovrebbe essere un rafforzamento del sistema delle garanzie. Molto dipende da come le norme regolano il rapporto tra i due poteri: chi prevale dove, quando e come

*   il sistema dei controlli = discende da quello precedente delle garanzie e, con il Presidenzialismo, dovrebbe avere un importante rafforzamento soprattutto se viene garantito che il controllo parlamentare sull’attività dell’esecutivo non metta a repentaglio l’esistenza stessa del controllore. Fuor di metafora è ciò che succede nei Comuni in Italia: il Consiglio Comunale può rimuovere Sindaco e Giunta con una mozione di sfiducia, ma a questo punto decade anch’esso. Potrebbe allora essere reale il rischio (ben conoscendo la scarsa voglia di andare a casa della classe politica) che per sopravvivere (meglio tirare a campare che tirare le cuoia) venga a decadere il controllo stesso

*   la responsabilità = la vera essenza della democrazia rappresentativa che consegna ai governati la possibilità di decidere (ed il giorno del giudizio è quello delle elezioni sull’azione dei governanti in quanto “responsabili” del loro agire. La maggior virtù del Presidenzialismo consiste proprio nel fatto che, con l’elezione del Presidente/Premier, l’individuazione delle responsabilità è automatica. Una virtù che rischia però di essere macchiata dal possibile rimpallarsi tra Presidente/Premier e maggioranza parlamentare di sostegno, e comunque di impallidirsi nell’eventuale secondo mandato

*   la modernità = se e vero che, come si è visto, il Presidenzialismo compie ormai ben più di due secoli, è però altrettanto vero (ed è un prezioso indicatore dell’attuale preoccupante stato di salute della democrazia) che negli ultimi cinquant’anni quasi tutte le nuove democrazie sorte nel mondo sono imperniate su un Presidenzialismo spesso dotato di forti poteri …. è un vento forte quello che sta soffiando e, a quanto pare, spazza via ogni resistenza per quanto fondata questa possa essere ……..

Ainis articola nei successivi capitoli una ricostruzione dei conflitti politici già avvenuti nel corso dei quasi ottant’anni di vita della Repubblica Italiana attorno al tema del rafforzamento dell’esecutivo ed una valutazione “tecnica” delle riforme costituzionali già intervenute e di quelle fallite o bocciate in sede di referendum. In coerenza con la nostra premessa non sono qui sintetizzati, per quanto di indubbio interesse, perché non immediatamente connessi alla finalità di questa Parola del mese

Nella parte finale del saggio ritorna prepotentemente sulla scena il termine che ha dato spunto a questa riflessione: capocrazia. L’intera discussione sul Presidenzialismo, ed in particolare sulla sua versione di Premierato, non può non tenere conto di un decisivo dato di fatto: ben prima che una versione formale di Presidenzialismo sia attuata anche in Italia si è, da tempo, chiamati a fare i conti con un evidente “Presidenzialismo di fatto”, una innegabile concentrazione di potere verso l’alto che ormai da decenni caratterizza il concreto gioco politico italiano. Una riforma presidenzialista può essere anche tacita, inespressa, informale, ed ha per l’appunto come nome: capocrazia. All’interno di un più generale, e più complesso, riaffacciarsi della figura dell’ “uomo (donna) solo al comando(fenomeno che, coerente completamento dell’individualismo neoliberista, richiederebbe una dettagliata analisi a sé stante) Ainis, da costituzionalista, concentra la sua attenzione sui passaggi che, nella recente storia politica e istituzionale, di più testimoniano questa evoluzione. A partire dalla incongruenza nominalistica che vede nascere negli anni Novanta quella che è ormai passata alla storia come “Seconda Repubblica”, per quanto ancora si reggesse sulla Costituzione della “Prima Repubblica(anomalia che verrebbe sanata solo con la nascita di una “Terza Repubblica”, ad esempio quella determinata proprio dalla  riforma presidenzialistica se davvero attuata, questo  è imposto da un minimo di coerenza nominalistica, non a caso in Francia dove la costituzione è stata variata cinque volte sono arrivati alla “Quinta Repubblica”). Ma al di là dei termini distorti appare evidente che sono profonde le differenze fra i contesti politici delle due Repubbliche italiane: nella Prima i voti degli italiani erano espressi guardando ai partiti, certo i loro leader potevano aggiungere un certo richiamo, ma i manifesti elettorali riportavano solo simboli e nomi di partiti. Nella Seconda il simbolo, quasi sempre modificato, migra sul fondo e viene coperto dal nome del leader, che spesso diventa il nome stesso del partito ormai reso ad esso subalterno

…. a puro titolo di memoria storica, perché quelli attuali ancora troneggiano, vanno ricordate ad esempio le liste: Segni, Pannella, Dini, Di Pietro, Bonino ….

Una evoluzione che viene sancita dalla terminologia usata nella Legge Elettorale del 2005, dove il termine “Capo” è introdotto in modo esplicito ( …… Capo della forza politica, unico Capo della coalizione ….,  recuperando così un termine in precedenza usato soltanto nella mussoliniana Legge 2263 del 1925) per definire “Capo del Governo” quello che fin lì era il Presidente del Consiglio. Va poi constatato che anche i partiti/movimenti che hanno conservato il riferimento esclusivo a simbolo e nome della lista non sono, nella pratica concreta seppure con diversa accentuazione, sfuggiti a questa metamorfosi del rapporto fra vertice e base.

il Movimento 5 Stelle convoca nel 2017 primarie online per eleggere il suo “Capo politico”, espressione ripetuta per 17 volte nei 7 articoli del regolamento di voto, il Partito Democratico ha da sempre una consolidata storia di forte concentrazione di potere nella figura del suo Segretario che, oltre ad essere automaticamente candidato premier, esprime la linea, gestisce il simbolo, decide le liste elettorali. Altri ancora, come Forza Italia e Fratelli d’Italia, hanno ipocritamente mascherato la fortissima concentrazione del potere nella figura del loro Capo, ancora definendolo Presidente

La capocrazia italiana non si esprime solo sulla scena nazionale, ma si accentua persino in quella locale e regionale. Come già evidenziato in precedenza l’elezione diretta dei Sindaci (Legge 81 del 1993) e dei Presidenti di Regione (Legge Costituzionale 1 del 1999) ha affidato loro ampi poteri che hanno sminuito di molto l’azione dei Consigli Comunali e dei Consigli Regionali, ma hanno, in perniciosa aggiunta, innescato anche una situazione di disordine normativo dovuta al conflitto di competenze fra questi tre livelli di capocrazia. La vicenda pandemica ne è stata la testimonianza più significativa con la giungla di provvedimenti, emessi da Governo, Regioni e Comuni (un quadro che rischia di essere ulteriormente aggravato dall’ipotesi di “autonomia differenziata” messa in campo, a giudizio di molti, come compensazione a quella del Premierato finalizzata al mantenimento di equilibri interni all’attuale governo). Si è in questo modo, dando formale riconoscimento all’accentramento dei poteri nella figura del Capo di turno, creato un sistema diffuso di poteri “presidenzialisti” che giustifica ampiamente il ricorso alla parola “capocrazia”. Va inoltre evidenziato che la figura del Premier/Primo Ministro ha già conosciuto in questi stessi decenni, ben prima di ogni proposta di riforma presidenzialista, un rafforzamento di poteri tale da giustificare la constatazione di un “presidenzialismo di fatto”. Si è trattato di un processo, avvenuto con il sempre più accentuato ricorso a Decreti Legge, a Decreti Delegati, a DPCM (Decreto Presidente Consiglio Ministri, diventati famosi proprio durante la pandemia), il cui utilizzo l’attuale Costituzione prevede limitato a casi eccezionali ed urgenti. Di fatto il Parlamento si è in questo modo svuotato del suo potere legislativo riducendosi a semplice organo confermativo visto anche il sempre più frequente ricorso al “voto di fiducia(il Governo lo richiede per far approvare un Decreto, la cui mancata approvazione lo farebbe automaticamente decadere). Si è giunti in questo modo ad un sostanziale svuotamento dell’indicazione costituzionale che, a tutt’oggi, prescrive e norma una forma di “governo parlamentare”. Il percorso di approvazione della riforma costituzionale che mira all’introduzione del premierato potrebbe allora rappresentare, positivamente, l’occasione per riflettere su quanto è già avvenuto in modo strisciante e, valutando le concrete ricadute già provocate dalla “capocrazia” che si è così realizzata, meglio indirizzarla verso una scelta ragionata

……un mutamento tacito che si è consumato goccia a goccia, senza revisioni formali del documento costituzionale, con una lente azione corrosiva di comportamenti illegittimi legittimati dall’uso ripetuto …. il Presidenzialismo di fatto subentrato alla centralità del Parlamento ne è la prova più evidente, anche se non l’unica …… e forse è già troppo tardi per metterci rimedio …… dopotutto il vero argomento che sostiene la riforma è proprio questo: l’esigenza di riallineare la Costituzione scritta a quella materiale, al modo in cui viene oggi applicata …..