lunedì 19 dicembre 2022

Video della conferenza di Martedì 13 Dicembre - Relatore Marco Davì

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della conferenza tenuta dall’aviglianese Dott. Marco Davì  (Consulente per le questioni di conflitto, sicurezza e sviluppo presso la Banca Mondiale) con titolo:

La regione Saheliana tra conflitti, fragilità e

rinnovata competizione geopolitica in Africa

Per accedere al video cliccare qui: Conferenza Marco Davì


Ci scusiamo per la qualità non eccelsa del video, audio compreso, dovuta al fatto che la conferenza è stata tenuta online essendo il relatore negli USA a Washington

giovedì 15 dicembre 2022

Il "Saggio" del mese - Dicembre 2022

 

Il “Saggio” del mese

 DICEMBRE 2022

E’ purtroppo molto lungo l’elenco delle situazioni – geopolitiche (nella recente nostra conferenza tenuta dal prof. Coralluzzo “L’Europa di fronte alla guerra in Ucraina” sono emersi con chiarezza i gravi limiti della politica estera “europea” di fatto inesistente perché ancora demandata ad ogni singolo Stato), economiche, sociali, ambientali, culturali - che evidenziano quanto sia ancora lunga la strada per poter compiutamente parlare di “Europa Unita”. Sono poi frequenti le contrapposizioni, fra singoli Stati e fra gruppi di Stati, a segnare fratture difficilmente superabili, che non lasciano ben sperare per il prossimo futuro. Al di là di queste difficoltà e divergenze, colpisce in particolare la mancanza di una più precisa idea condivisa di Europa, di una sua concezione ideale, capace di orientare strategie, politiche di lungo respiro e singoli passaggi. A più di ottant’anni dal “Manifesto di Ventotene”, la prima forte sollecitazione all’unità europea basata proprio su motivazioni di ordine ideale e valoriale, è quindi ancora tutto da definire il concetto di “identità europea”. Le attuali emergenze impongono di colmare il prima ed il meglio possibile questo vuoto. Per sperare di riuscirci, per incidere sul presente e sul futuro europei, diventa innanzitutto indispensabile recuperare dal passato le ragioni, di ordine storico, culturale e ideale, a cui guardare in questo sforzo. Il “Saggio” di questo mese si muove esattamente in questa direzione

Il saggio (prima edizione del 2007, quella utilizzata per questa sintesi è edita da “Il Mulino” nel 2016) di Rossi (1930, torinese,  filosofo e storico della filosofia, per molti decenni docente di Filosofia delle storia dell’Università di Torino) attesta la grande attenzione verso questo tema nel recente dibattito storico-filosofico italiano, confermata dalla pubblicazione, appena precedente (2003), del saggio di Giovanni Reale (1931-2014, filosofo, storico della filosofia, accademico e traduttore italiano).



Questo testo (in cui emerge la profonda e sincera fede cristiana di Reale) individua, pur non rinnegando il peso di altre influenze, le radici culturali e spirituali della possibile idea di Europa soprattutto nella “filosofia classica greca” (con al centro un concetto di uomo coincidente con la sua “psychè”, il “pensare per concetti, il valore della persona, della sua intelligenza e della sua anima), nel “cristianesimo” (nella sua strettissima relazione con la filosofia greca ed in particolare con quella di Platone), ed infine nel “metodo matematico-sperimentale” (alla base dell’affermarsi delle scienza moderna). Il dibattito sulle possibili radici culturali e spirituali europee tanto è aperto, approfondito, in costante evoluzione, in campo culturale quanto è sterile, superficiale, strumentale, deformato e rigido, in campo politico ed ideologico. Seguendo la traccia del saggio di Rossi ci si muoverà, ovviamente, nel primo solco (I primi tre Capitoli, quelli di inquadramento generale, sono qui percorsi a volo d’aquila)

Capitolo primo = Un continente “inventato”

Condizione essenziale per definire una possibile identità comunitaria è avere contezza dei confini fisico/geografici che la contengono. Per quelli dell’Europa sorge però in una prima complicazione, non aiuta infatti la sua conformazione orografica e idrografica. Se non vi è dubbio sui suoi confini occidentale, settentrionale e meridionale, chiaramente definiti da mari e oceani, quella orientale che sfuma verso l’Asia ha invece sempre avuto confini incerti stante la loro continuità fisica.


Attualmente per Europa, nella parte orientale e sud-orientale, si intende il territorio delimitato dalla lunga catena degli Urali, dal fiume Ural, dal Mar Caspio, dalla catena del Caucaso, dal Mar Nero, dallo stretto dei Dardanelli e del Bosforo. Sono però confini naturali non omogenei essendo il risultato di un lungo percorso storico nel corso del quale essi sono stati più volte ridefiniti non sulla base di evidenze fisiche, ma su una sempre provvisoria delimitazione geo-politica e culturale. L’Europa rappresenta quindi un caso a sé rispetto a tutte le altre aree continentali proprio perché la sostanziale continuità territoriale con l’Asia (tale da definire non due continenti distinti, ma un’unica entità geografica: l’Eurasia. All’interno della quale la parte storicamente definibile come Europa ha comunque sempre avuto dimensioni non comparabili a quelle dell’Asia). Un destino peraltro segnato fin dall’origine mitica del nome “Europa” (il nome della fanciulla sedotta da Zeus e da lui resa madre di Minosse alludeva in effetti al solo legame tra la civiltà cretese e quella greca). Anche la trasposizione del nome di Europa da una figura femminile mitica ad una mutevole parte della Terra dimostra che essa è, di fatto, una “invenzione storico-culturale” che si è costituita, e spesso smarrita, nel corso dei secoli.

Capitolo secondo = Etnie, lingue e patrimonio genetico

Una seconda, non meno rilevante, complicazione deriva poi dalla composizione etnica dei popoli che l’hanno abitata. Il recente sviluppo della mappatura genetica delle popolazioni, con l’ausilio della ricerca archeologica e linguistica, consente ormai di avere un quadro sufficientemente preciso. Il processo di formazione della popolazione europea ha inizio (circa 50.000 anni fa) con alcuni più consistenti arrivi dall’Africa di Sapiens, la cui prolungata (e talvolta conflittuale) convivenza con i preesistenti Neanderthal (poi estintesi circa 40.000 anni fa, a giudizio di molti anche per mano di Sapiens, ma le cui tracce genetiche sono comunque in parte rimaste negli attuali europei) dà vita ai primi sparuti insediamenti umani. A partire da circa 12.000/10.000 anni questi originari Sapiens “europei” scompaiono (lasciando tracce genetiche in pochissime aree, ad esempio nelle regioni basche) essendo stati assorbiti/integrati dalle ripetute, e ben più consistenti ed attrezzate, migrazioni di popolazioni di ceppo indo-europeo. E’ in questa fase che si forma la comune base genetica che resta in gran misura la caratteristica di base dell’intera attuale popolazione europea. Altre successive ondate migratorie, e la diffusione verso nuove aree di quelle preesistenti, creano, già a partire dal terzo/secondo millennio a.C., un rilevante grado di differenziazione “etnica”. Sulla comune base genetica si innestano cioè evoluzioni, culturali e linguistiche, che differenziano, su base locale, la primigenia unità di stirpe, segnando un processo evolutivo che si è di fatto concluso (dopo la determinante fase dell’espansione “romana” e delle ultime ondate di invasioni barbariche) solo durante il Medioevo. Parallelamente a questo processo si è sviluppato quello, linguistico a comporre un mosaico di lingue, frammentate in una miriade di dialetti locali, solo parzialmente affiancate nei secoli dell’Impero Romano dal latino e, sempre a partire dal Medio Evo, dal primo affermarsi di lingue territorialmente più diffuse grazie alla lenta costruzione di regni e imperi. (chi fosse interessato ad approfondire l’evoluzione linguistica europea può visionare il nostro post del “Saggio del mese” di Aprile 2022 “Storia universale delle lingue” di Harald Haarman). L’Europa, così come è oggi intesa, presenta quindi una originaria unità genetica (determinata più dalle vicende preistoriche che da quelle storiche), seguita però da una variegata differenziazione etnica e linguistica con, a grandi linee, una linea di separazione tra le popolazioni dell’area mediterranea e quelle dell’area centro-settentrionale

Capitolo terzo = il mondo antico e la nascita dell’Europa

L’originaria idea di Europa della classicità greca, ben più ristretta di quella attuale essendo limitata alla sola area mediterranea, [Erodoto (484 a.C. – 425 a.C.) definiva Europa la parte di mondo compresa fra l’Asia e la Libia, a indicare l’Africa], è rimasta a lunga intatta, per poi conoscere una prima estensione grazie a quella parallela del dominio romano al di là delle Alpi verso Nord e verso Est (ma mai oltre il fiume Reno). La lunga stagione successiva al dissolvimento dell’Impero Romano non modifica più di tanto questa visione che semmai (con la nascita dell’Impero Carolingio, verso la fine del primo millennio dell’era volgare) sposta il suo baricentro dal Mediterraneo verso la terraferma continentale. Per alcuni secoli è poi la Chiesa cristiana, con la sua diffusione, a rappresentare una parvenza di idea unitaria di Europa, ma la sua successiva divisione fra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente (avvenuta con lo scisma di inizio nuovo millennio) fissa una netta linea di demarcazione. A lungo l’idea di Europa, per quanto ancora sempre solo abbozzata, includerà quindi solo la parte occidentale del continente. Solo con l’impero di Carlo V d’Asburgo (1500-1558) in questo termine confluirà, accanto al compiuto consolidamento di questa parte (rafforzata dall’opposizione all’avanzata dell’Islam arabo) un primo sguardo verso l’Oriente, aprendo una più netta strada verso un’idea di Europa sempre più sovrapponibile a quella attuale.

Capitolo quarto = Le molteplici “radici” dell’Europa

Il quadro sin qui molto sinteticamente tracciato rappresenta il contesto geo-storico nel quale si colloca la ricerca, che per non essere fuorviante non deve però essere mossa da motivazioni ideologiche, delle possibili “radici” dell’Europa. Quella delle radici è chiaramente una metafora e come tale di complessa lettura, meglio è tentare di ricostruire le possibili “componenti costitutive della cultura europea”, individuando cioè i processi che hanno portato al loro formarsi, conservarsi, trasformarsi e talvolta cancellarsi. In questo senso si impone una prima considerazione: alla base della cultura europea si rintracciano una pluralità di componenti – religiose, politiche, etniche, sociali – il cui peso è mutato più volte nel corso dei secoli (il quadro storico tracciato dà senso ad una loro ricerca  solo a partire dagli ultimi secoli del primo millennio E.V.). Dall’insieme delle più recenti ricerche in campo storico [emergono fra gli altri i lavori di Dawson Christopher (1889-1970) e di Febvre Lucien (1878-1956) fondatore della Ecole des Annales] sostanzialmente emergono tre rilevanti componenti:

*   la cultura greco-latina = o perlomeno quanto, per tutto il Medioevo, ne viene recuperato nei monasteri e nelle “scholae”.  In essa rientra anche il modello romano di organizzazione politico-amministrativa ampiamente diffuso e sedimentato, e la sua successiva “commistione” (che comunque ne salva l’impianto di base) con l’organizzazione tribale delle ripetute invasioni barbare (e’ opinione condivisa in campo storico che la stessa società feudale europea sia il frutto della combinazione di “elementi romani” e “elementi barbari”)  

*   la religione cristiana = che soppiantando i culti pagani (molte tracce dei quali sono comunque rinvenibili nello stesso canone religioso cristiano) assicura per diversi secoli non solo una fondamentale unificazione religiosa, ma anche una organizzazione sociale gerarchica non meno decisiva per l’integrazione dei popoli barbari

*   l’assimilazione etnica = che, attraverso un percorso lungo e spesso tortuoso, consente la progressiva sintesi in un unico sentire delle comunità locali che, per quanto molto frazionate, lentamente forma essenziali elementi di omogeneità sociale e culturale.

Queste componenti conoscono una loro specifica evoluzione:

*   la cultura classica conosce nella stagione “umanistica(1300-1500) una diffusa espansione, non poco aiutata dal parallelo affermarsi delle “lingue volgari”, delle “autonomie locali” e delle “corti signorili”. Nascono in questo periodo le prime vere “scuole filosofiche” protagoniste di un intenso recupero e valorizzazione della classicità che, iniziato in Italia, presto diffonde in tutta Europa gli “studia humanitatis” fondamentali per il formarsi di una prima comune “cultura europea

*   la religione cristiana, prima della sua traumatica divisione con il Protestantesimo (la Chiesa d’Oriente ha esclusiva  influenza nella regione balcanica e nelle regioni europee più orientali), conosce una diffusione ad ampio raggio (coinvolgendo via via tutte le etnie comprese quelle barbare) ed in profondità in ogni strato sociale  per quanto non poco condizionata, come meglio si vedrà qui di seguito, dall’affermarsi del “potere temporale” della Chiesa

*   il processo di integrazione etnica, se lentamente contribuisce a formare una visione comunitaria capace di inglobare, ma a lungo solo su scala locale, le diverse culture etniche, acquisisce, strada facendo, caratteri politici, tali da segnare l’evoluzione delle forme di potere, il contrasto tra città e campagne, l’affermarsi di nuovi strati sociali legati al commercio e alle finanze, ma anche la lunga stagione delle infinite guerre che segnano, con geometria variabile, l’intera storia europea

Capitolo quinto = Il rapporto con il passato tra richiamo e distacco

Il lungo percorso che vede queste tre “componenti” formare, lentamente e con un andamento quanto mai irregolare, un primo più compiuto abbozzo di Europa, ha alla sua base un comune e decisivo elemento, che si prolunga fino alle soglie della Modernità, costituito dal bisogno, visto come salvifica soluzione, di un “ritorno al passato”.  Che però, inevitabilmente, si è sempre manifestato con uno sguardo molto condizionato da contingenti convenienze e quindi di fatto rivolto verso aspetti, a formare un’idea di un passato strumentalmente idealizzato, di volta in volta differenti.  Questo sguardo “obliquo” non può pertanto non rafforzare la stessa perplessità verso l’uso del termine “radici”, le quali presuppongono al contrario una loro costante e immutabile interpretazione. Non a caso il grande storico Eric J. Hobsbawn (1917-2012) ha perentoriamente affermato che la tradizione di un popolo, di una comunità, non è un dato certo e permanente, ma è al contrario il risultato di un continuo processo di formazione, è sempre “il prodotto di una invenzione più o meno intenzionale”.  Questa strumentale deformazione ha riguardato tutte le tre componenti:

*   il rapporto con l’antichità”, si è infatti manifestato in momenti diversi della storia europea assumendo ogni volta differenti valenze. All’originaria volontà medioevale di trovare nei testi classici spunti di conforto, morale e culturale, lungo i “secoli bui”, è subentrata, nel corso del Rinascimento prima italiano e poi europeo, quella di vedere e recuperare nell’antichità greco-romana “modelli ideali di bellezza, di armonia, di tensione culturale” per sostenere l’dea di una nuova humanitas. Ma già verso la fine 1600 il primato della cultura antica viene messo in discussione nel corso della “querelle des anciens e des modernes”, promossa dalla Académie Francaise, che vedeva nel moderno uomo europeo un soggetto più preposto al progresso proprio perché capace di riassumere in sé, andando oltre i modelli del passato antico, “tutti gli ingegni dei secoli precedenti”. Non a caso già da metà Settecento, con il crescente affermarsi delle scienze moderne, la classicità, pur mantenendo una qualche presenza negli studi umanistici e negli stessi percorsi educativi, viene ridotta a puro modello estetico per le arti figurative.

*   l’eredità religiosa della cristianità conosce a sua volta un percorso ben più complesso. Se non muta, nella sua più intima sostanza, il sentimento religioso cambiano invece, e anche profondamente, i modi in cui si esso è stato vissuto e le forme in cui si è storicamente manifestato. Emergono, già nei primi secoli del nuovo millennio, profonde differenze nelle sguardo rivolto al passato, alle origini del cristianesimo, a formare due tendenze che si misurano spesso in forte contrasto tra di loro. Da una parte quella della devozione, della fede popolare mossa dall’immagine idealizzata delle originarie comunità cristiane, con la loro carica di fratellanza e di attenzione caritatevole verso i bisogni degli ultimi, dall’altra quella dell’istituzione Chiesa che, in nome della titolarità della “vera fede” già a partire dagli ultimi secoli del primo millennio, acquisisce una dimensione di potere “temporale”. Nei primi secoli del Medioevo si assiste infatti alla graduale costruzione di una monarchia pontificia al culmine di una struttura gerarchica i cui pilastri consistono nel “primato del Vescovo di Roma”, nel sorgere di una “curia”, nella “separazione tra clero e fedeli”, di fatto relegati ad un ruolo passivo, nella uniformazione dei contenuti dogmatici, dei riti, della liturgia. Come contraltare la fede popolare ha spesso promosso movimenti (fra gli altri si ricordano quelli dei Catari, degli Albigesi, dei Valdesi) che, richiamandosi alla povertà evangelica del passato originario, non di meno formano uno dei presupposti fondamentali della cultura europea sfociando in un loro definitivo compimento con la “Riforma protestante”. La quale però, in aggiunta al rifiuto del ruolo della Chiesa romana, segna una svolta ben più profonda basata su una costruzione teologica assai distante anche dall’originario Cristianesimo medioevale. Il principio della “sola scriptura(l’unico vero riferimento del fedele sono le Sacre Scritture) incide profondamente nelle modalità di vivere le fede e crea una netta divisione nel campo cristiano che vede, a grandi linee, restare sotto il controllo della Chiesa l’Europa mediterranea con quella continentale che, con varie articolazioni, aderisce invece al Protestantesimo, incidendo così in profondità sull’esistenza di una unica “radice cristiana(la lunga stagione delle guerre europee è in gran misura alimentata, in aggiunta al formarsi degli Stati nazionali su cui si tornerà in seguito, da questo contrasto)

E’ comunque nella congiunzione fra Rinascimento e Riforma, nell’evoluzione delle prime due componenti, che si pongono le basi dell’Europa moderna, ed ambedue condividono, nella loro genesi, la forte valenza di questo ricorrente “ritorno al passato”, per entrambi però segnato dalla condanna, dal rifiuto di quello più recente, quello della cultura della cultura scolastica per il Rinascimento e quello delle decadenza temporale della Chiesa per la seconda. In questa loro congiunzione si innesta poi, e non caso, l’irruzione della scienza, del metodo scientifico, dell’epoca dei “Lumi”, a segnare la definitiva cesura con i secoli precedenti e a formare un nuovo fondamentale terreno comune sul quale germoglierà definitivamente l’Europa Moderna.

*   l’evoluzione della terza componente, quella etnica, va collocata in questo quadro. La sua valenza resta a lungo sostanzialmente stabile manifestandosi, quasi sotto traccia, nelle varie comunità locali del loro non poco impermeabili alle sollecitazioni culturali. Sono quindi un caso a sé alcune dinamiche, come quella francese che vede la sconfitta della cultura occitanica da parte di quella delle regioni centrosettentrionali. Non deve quindi stupire che lo sguardo etnico al proprio passato lo fissi come elemento fondativo, spesso di carattere mitico, che rende il mondo delle comunità locali quello più lento nel percorso verso una identità più ampia. Non incidono più di tanto su di esso neppure i nascenti stati monarchici che, basati su chiave dinastica, accorpano, ma in un continuo confuso mutare di confini, etnie diverse non di rado in contrasto tra di loro. E’ stata semmai la Riforma a mettere in moto un cambiamento delle culture locali favorendo l’uso delle loro lingue per tradurre e leggere le Sacre Scritture (fin lì diffuse solo in latino) e creando così un collegamento tra religione ed etnia fin lì di fatto sconosciuto. La persistenza del compattamento etnico spiega, successivamente, anche la resistenza verso il carattere universalistico della cultura illuminista. Vista come un “prodotto francese” innesca una difesa del passato identitario di comunità, un elemento che lo stesso Romanticismo europeo assumerà come proprio riferimento identitario. Sarà infine il superamento degli Stati dinastici (quello Asburgico in primis) e l’affermazione di Stati più coincidenti con una più ampia comunità a formare uno “spirito del popolo” capace di inglobare, con riferimento ad un comune territorio, le singole component etniche. Ma l’onda lunga di uno sguardo rivolto ad un passato di mitica omogeneità etnica non scomparirà mai del tutto, tanto da manifestarsi, ancora in pieno Novecento, con l’esaltazione nazista della razza ariana e con il mito fascista del destino imperiale romano (e con la stessa esplosione di nazionalismi e sovranismi sorti negli ultimi decenni)

Capitolo sesto = Identità per differenza

Al termine di questa complessa e disordinata evoluzione diventa possibile, a partire dalla Modernità, una riflessione su una, per quanto ancora ipotetica, “identità europea”. Il concetto di identità è in effetti una nozione di per sé stessa a rischio di vaghezza, e più è ampia, composita, antica, la comunità alla quale riferirla e più rischia di essere vaga e artificiale. E quindi è bene tenere ferma la considerazione che questa possibile identità non può essere intesa, a differenza di quelle nazionali, come una espressione di elementi strettamente connessi tra di loro a formare un insieme organicamente definito. Sarebbe cioè una inutile forzatura, un grave errore, immaginarla come un insieme di valori, di comportamenti, di credenze, condivisi con identico coinvolgimento in ogni singola realtà nazionale. Essa può semmai indicare una continuità di comune percorso nel tempo, a comporre una memoria altrettanto comune, definibile sulla base di una attenta selezione degli elementi che la compongono. Sono infatti molteplici i processi che possono concorrere a delinearla e quello che emerge per primo dal percorso storico europeo è il suo manifestarsi per via negativa, vale a dire per dinamiche di esclusione di altre identità viste come alternative. Nella storia secolare dell’Europa è infatti chiaramente rintracciabile un costante alternarsi di processi di inclusione e, ancora più spesso, di esclusione. Fra quelli più significativi il primo a manifestarsi è stato il conflitto plurisecolare con il mondo islamico [è soprattutto nel secolo che va da metà 1400 alla battaglia di Lepanto del 1571 che la guerra contro l’Islam diventa un elemento decisivo per la nascita di un’idea di Europa, anche se già nelle “Chanson de geste” (il ciclo cavalleresco del paladino Orlando) compare per la prima volta la parola “Europa” e i guerrieri che combattono gli Arabi sono chiamati “europei”] Le diverse analogie fra Cristianesimo e Islam (entrambi religioni monoteiste, “del libro”, di derivazione dall’ebraismo, di aspirazione universalistica) sono esattamente la ragione che spiega la loro storica inconciliabilità (che perdurerà fino all’Età Moderna per poi stemperarsi con non poca fatica) che impone all’Europa intera di unirsi, spiritualmente e militarmente (rientrano in questo aspetto le diverse Crociate per liberare Gerusalemme, anche se discontinue e spesso improvvisate), per fronteggiare le mire espansionistiche mussulmane. Ed è ancora una differenza di carattere religioso alla base di un secondo conflitto secolare: quello con la Chiesa “ortodossa”. Se con l’Islam la minaccia percepita arrivava da Sud, quella con i popoli dell’oltre Elba (il fiume che attraversando Germania e Repubblica Ceca ha per diversi secoli segnato il confine orientale dell’Europa) arriva da Est, dalla parte dell’Asia che a lungo è stata vissuta come una minaccia, mai ben definita, di una civiltà comunque differente. Ma in questa oscura minaccia, che dalla lontana Asia investiva il cuore dell’Europa, è a lungo ricaduto anche l’ampio spazio geografico (occupato da popoli di etnia germanica, slava, nordica) nel quale si sono concentrate due correlate ragioni di diversità: quella teologica con la Chiesa Ortodossa (nata a Bisanzio nel 988), e quella geopolitica con la Russia imperiale (che si forma ad inizio Settecento). Vero è che la contrapposizione tra il Cristianesimo romano e quello Ortodosso non ha mai generato, a differenza dell’Islam, espliciti conflitti armati ed ha semmai, nel corso dei secoli, creato una configurazione di influenza religiosa a macchia di leopardo. Diversa quella con la Russia, a lungo vista come una potenza ostile con mire espansionistiche e quindi motivo di frequenti conflitti armati, la quale era percepita come una differente forma di forte potere centralizzato di tipo dispotico inconciliabile con i valori di libertà che, negli stessi secoli di formazione dell’Impero Russo, sempre più si affermavano. Al punto di vivere questa differenza come una autentica “contrapposizione tra civiltà e barbarie[episodicamente interrotte per brevi periodi da alcuni imperatori illuminati come Pietro il Grande (1672-1725) e Caterina II (1729-1796)] Come meglio si vedrà qui di seguito questo percorso di formazione di una “idea di Europa” come differenza da altre culture ha però al tempo stesso contribuito a formare la convinzione europea (rafforzata dalla incontestabile superiorità tecnologica che troverà ulteriore accentuazione nella espansione coloniale verso Africa, Asia ed America, e nell’incontro con altre civiltà) di uno status di superiore civiltà, di essere destinata su questa base ad una sorta di “missione civilizzatrice”, come se all’Europa fosse stato consegnata, nel suo definirsi identitario, “la sorte di guidare l’umanità”.

Capitolo settimo = Identità locali, identità nazionali, identità europea

Il lungo, tormentato e complesso, percorso storico di formazione di una possibile identità europea, è stato non meno condizionato di quello, a lungo su di esso prevalente, di un’altra forma di identità, l’ “identità nazionale”. Il senso di appartenenza comunitaria, che nell’antichità si esauriva nella “consanguineità dell’appartenenza etnica” vissuta nelle piccole comunità del tempo (lungo i suoi molti secoli anche l’Impero romano, quando non percepito come occupatore, non sembra aver costituito una diffusa appartenenza identitaria)  a partire dal medioevo inizia a coincidere con una superiore dimensione socio-economica: quella delle città, là dove queste sorgono come risultato di un processo di inurbamento (a creare sedi di residenza del potere, temporale e religioso, e di concentrazione dei commerci). La contemporanea successiva appartenenza a regni ed imperi, vissuti come una “dimensione altra(come si è visto per molti secoli soggetta a continue modificazioni), non sembra aver inficiato le basi questa radicata relazione identitaria. E’ solo molto più tardi, agli albori della modernità europea con la progressiva affermazione della forma “Stato”, che il concetto di “nazione”, di “stato nazionale”, inizia ad avere una sua valenza nello spazio identitario. Gli elementi che hanno concorso al formarsi di questo nuovo senso di appartenenza, ad una comunità non più etnica ma “politica” di più ampie dimensioni (anche in questo processo il ruolo del definirsi “per differenze” è stato fondamentale), sono stati molteplici. E’ rimasta centrale la consanguineità, che però, inserita in un più ampio contesto, non sempre corrispondeva esattamente alla reale comunanza etnica, essendo diluita in una sorta di “nuovo potere”. Tant’è che ad essa si è dovuta progressivamente affiancare una “comunanza culturale”, la condivisione di “miti fondativi” basati su un passato idealizzato da narrazioni letterarie (si pensi ad esempio, per il caso italiano, a Dante e a Petrarca, al più politicizzato Machiavelli, e poi secoli dopo alla loro ripresa da parte di Vittorio Alfieri ed Ugo Foscolo). Per il sorgere di una identità nazionale è stato quindi fondamentale il ruolo della “nazione culturale”, anch’essa non sempre esattamente sovrapponibile ai preesistenti legami identitari. Solo a processo di formazione dei moderni Stati nazionali completato l’avvenuta unificazione di un territorio in un’unica “entità politica” giustificata da una ben individuata “sovranità statale[In questo contesto, politicamente e istituzionalmente definito, hanno poi giocato un ruolo decisivo di rafforzamento della costruzione identitaria l’istruzione pubblica ed il servizio militare (nella mitologia della nazione il “morire per la patria” ha acquisito un significato sacrale)] si è completato il processo di identificazione dei vari popoli europei, magari comprensivi di più etnie, con le rispettive “patrie .  E’ n questo quadro va collocata la stessa incidenza della stagione dei “Lumi” sulla storia della cultura europea. A dispetto del suoi caratteri fondanti - esaltazione del ruolo della scienza e del metodo scientifico, promozione di una visione sociale basata su un marcato laicismo in netta contrapposizione ad ogni forma di dispotismo e di condizionamento religioso, convinzione del carattere universalistico di tali valori – che avrebbero potuto costituire un fondamentale apporto alla costruzione di una identità europea, le ricadute effettive dell’Illuminismo in ambito europeo hanno invece avuto un esito del tutto opposto, tanto da rendere difficile (come anticipato in precedenza) la sua assunzione al rango di “componente” di una identità europea. L’universalità del suo messaggio è stata infatti sicuramente recepita, in forme più o meno consistenti e diffuse, nell’ambito culturale di diversi paesi europei, ma divenendo nel reale procedere storico una visione ovunque declinata in termini nazionalistici. In ogni caso l’identità nazionale, liberamente scelta piuttosto che artificiale, forzata quando non costruita ad arte, ha caratterizzato per più secoli, fino a giungere al suo drammatico culmine nei conflitti novecenteschi, l’intero percorso identitario europeo. Il quale è potuto rientrare apertamente in scena solo nel secondo dopoguerra proprio come reazione ovunque condivisa a queste autentiche carneficine. La partita è però tutt’altro che chiusa, le idealità del dopoguerra hanno sì messo in moto l’attuale contraddittorio percorso di costruzione comunitaria ma l’attuale cronaca politica sembra essere caratterizzata dal risorgere di “nazionalismi” e “sovranismi”. E’ non è casuale il loro manifestarsi, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica e del suo ferreo controllo, soprattutto in quella “terra di mezzo mai compiutamente “europeizzata” come si è visto in precedenza.

Capitolo ottavo = L’Europa e le altre Europe

In questo Capitolo Pietro Rossi ripercorre, inevitabilmente in modo non poco sintetico, il percorso storico europeo di “esportazione/imposizione” della propria cultura e del proprio modello di società in tutto il resto del mondo sulle ali della sua colonizzazione spinta. Un processo che ha creato “altre Europe”, per diversi aspetti molto dissimili tra di loro stante la diversità delle civiltà colonizzate, spiegabile con la superiorità tecnologica, economica, e militare europea. Si tratta comunque di un tema così complesso da non poter essere trattato nel dettaglio in questa sede. Certo è che la vicenda coloniale ha avuto una precisa influenza sulla genesi dell’identità europea avendo accentuato non poco quella presunzione europea di una superiorità culturale e civile già messa in luce nel precedente capitolo sesto.  Allo stesso modo non è affrontato in questo Capitolo il tema, in parte ripreso nell’ultimo Capitolo decimo, di quanto abbia influito, e stia tuttora influendo, l’evidenza di una Europa che non è più la guida del mondo in quanto sopravanzata, e sostituita in questo ruolo, da molte delle stesse parti del mondo a lungo colonizzate

Capitolo nono = Integrazione senza unità

Sembra davvero difficile sostenere che il processo sin qui avvenuto di integrazione e di costruzione di una vera comunità europea abbia adeguatamente contribuito al rafforzamento di quella identità europea immaginata, auspicata e teorizzata, dalle correnti di pensiero che, seconda guerra ancora in corso, con questo concetto si sono misurate. Nel difficile contesto geopolitico del secondo dopoguerra, condizionato dai fragili equilibri consentiti dalla guerra fredda, era pressoché inevitabile che la spinta iniziale per una visione comunitaria poggiasse soprattutto sugli aspetti economici. Già nella fase di ricostruzione postbellica (e poi a maggior ragione nel tumultuoso affermarsi di un mercato sempre più globalizzato) la dimensione nazionale risultava inadeguata alle sfide del mercato. I sogni autarchici, che a lungo sono stati una importante componente delle identità nazionali, divenuti ormai insostenibili appartenevano definitivamente al passato. A distanza di più di cinquant’anni dai primi passi (creazione di un primo abbozzo di mercato comune delle materie prime, carbone e acciaio in primis) va riconosciuto che, pur nella sua incompletezza e nelle sue consistenti contraddizioni, si è realizzata, una significativa “comunità economica europea” con alla base un unico grande mercato, privo di barriere doganali, dove merci, capitali e persone possono liberamente circolare. Ma al tempo stesso non si può non cogliere che questi importanti passi in avanti sul piano delle relazioni economiche comunitarie si sono dimostrati, come d’altronde era prevedibile, inadeguati a realizzare da soli una più ampia e definita identità europea. Perchè ciò potesse avvenire era, fin dall’inizio, indispensabile che alla costruzione di un “mercato comune europeo” corrispondesse un parallelo processo politico di costruzione di istituzioni europee investite di reale potere, vale a dire la realizzazione, per quanto progressiva, di una corrispondente vera “unità politica europea”, in grado a sua volta di promuovere una concreta unificazione sociale e culturale. E cioè di replicare, su scala ampia, i processi formazione delle identità nazionali. Così non è stato, così non si è voluto che fosse, (un primo eloquente segnale negativo in questo senso è stata, già alla fine degli anni cinquanta, la rinuncia alla creazione di “esercito comune europeo” capace di supportare una “comune politica estera”. La stessa attuale guerra russo-ucraina ha messo drammaticamente in luce il peso di queste assenze). Alle resistenze nazionalistiche alla cessione di ambiti di potere si è poi aggiunto, ad aggravare la situazione, un allargamento degli Stati aderenti (soprattutto di quelli tornati indipendenti dopo il Crollo del Muro di Berlino e la fine dell’egemonia sovietica) affrettato, mal governato, mosso in gran prevalenza da ragioni puramente economiche di mercato. La conseguente nascita, in quel di Maastricht nel 1993, dell’Unione Europea rappresenta un suggello di una costruzione unitaria per molti versi formale, incompiuta, persino mal tollerata. Il rammarico per questa incompiutezza è accentuato dalla constatazione che nel corso di questi decenni, anche grazie ad ammirevoli iniziative comunitarie, si è davvero realizzato un concreto avvicinamento tra popoli e paesi europei che ha inciso profondamente su abitudini di vita, su modi di vivere e di relazionarsi: un’altra componente che, se ben accompagnata ed incentivata, può davvero essere fondamentale per una più diffusa identità europea. Resta purtroppo evidente un bilancio complessivo di costruzione di una vera Europa Unita non sufficientemente positivo, improntato di più ad una “uniformazione” che ad una autentica “unità”. Non deve allora stupire, accentuato dalle complesse sfide interne e globali, il risorgere di nazionalismi, di sovranismi, di veti incrociati determinati da insostenibili egoismi. A distanza di così tanti decenni, per troppi versi, si deve ancora parlare di una “Europa delle patrie”.

Capitolo decimo = Quale identità?

A chiusura di questo viaggio nella storia e nella cultura europea sembra comunque possibile sostenere l’esistenza di  elementi adeguati a suffragare una idea di “identità europea”. La quale non poggia però su presunte uniformi “radici culturali e spirituali”, le quali, come si è visto, pur svolgendo un ruolo rilevante hanno più caratteristiche di “componenti” di un quadro identitario decisamente complesso. Il richiamo alla classicità greco-romana, quello al primo cristianesimo e quello all’influenza etnica, hanno da parte loro avuto un ruolo decisivo nel creare un originario substrato comune che non si è però, per le ragioni sin qui evidenziate, sufficientemente evoluto e adattato al nuovo spirito del tempi.  Allo stesso modo la decisiva spinta verso la modernità del secolo dei Lumi ha contribuito di più alla nascita degli “Stati nazionali”, in costante conflitto tra di loro, che alla nascita di una condivisa idea di Europa. L’insieme di questi fattori comunque ha rappresentato, nel bene e nel male, un terreno culturale, sufficientemente compatto, per il primo reale manifestarsi di una potenziale “identità europea”. La quale, al termine di una lunga incubazione iniziata fin dal Medioevo, si è manifestata in nuce con la congiunzione di tutte queste componenti nell’“età moderna europea ”. Vale a dire l’era in cui l’Europa, nel suo insieme, assume un ruolo oggettivamente centrale, grazie allo straordinario sviluppo scientifico, tecnologico, economico e sociale, nel quadro geo-politico globale. La diffusa consapevolezza di essere divenuta, purtroppo anche grazie alle ciniche e crudeli politiche coloniali ed espansionistiche, il perno del mondo intero ha da una parte contribuito a rafforzarla fino a generare uno “spirito europeo”, ma dall’altra, come si è già detto, lo ha fatto coincidere con l’auto-rappresentazione di una sua, superiore, diversità rispetto al resto del mondo [questo aspetto è stato lucidamente analizzato dal padre della sociologia moderna Max Weber (1864-1920)]. Questa, provvisoria e incompiuta, identità europea, composta da molte luci e molte ombre, appare comunque alle “soglie di una profonda trasformazione”. L’Europa non è più il perno del mondo, molte altre aree l’hanno ormai superata a formare un quadro geo-politico che per molti aspetti, aggravati dai suoi stessi limiti, l’ha relegata ad una posizione marginale. L’ideale unitario, frutto delle tragedie novecentesche, dovrebbe allora essere incentivato dalla consapevolezza che, in questo quadro, solo l’unità comunitaria le può consentire un ruolo, certo diverso ma sicuramente forte sul piano valoriale, adeguato al suo passato. L’Europa di oggi è un cantiere in corso e la sua identità, non può che essere ridefinita sulla base del “materiale a disposizione”. Non sono poche le complicazioni che incidono sulla qualità di questo materiale: la sua composizione etnica, sotto la spinta di inarrestabili migrazioni, sta mutando, si riaffacciano sul suolo europeo i fantasmi di guerre e di conflitti etnico-religiosi, è sempre più difficile la sostenibilità dei sistemi di “welfare” che hanno segnato l’autentico trentennio d’oro del vecchio continente in campo economico e sociale, la sua cultura fatica a reggere il confronto con quelle provenienti dal resto del mondo ed ondeggia indecisa sotto la spinta della omogeneizzazione consumistica. Quel che resta certo è che senza la capacità di preservare e rilanciare, adeguandola ai tempi, l’eredità della cultura europea e traducendola in una sua nuova identità, sarà sempre più difficile reggere le sfide del nuovo millennio.