venerdì 30 novembre 2018

La formazione professionale nella scuola di ogni ordine e grado - contributo di Mariangela Ranzini Colombo


Riceviamo e pubblichiamo un contributo da parte di una nostra iscritta……………………………..



Veniamo al tema che  mi sta – come è sempre stato – profondamente  a  cuore:  LA  FORMAZIONE PROFESSIONALE  NELLA SCUOLA DI OGNI ORDINE  E GRADO.

E’  un tema da affrontare su  diversi piani: sul piano POLITICO,  non posso assolutamente condividere  un governo come l’attuale, costituito  da dilettanti, incompetenti, parolai e venditori di fumose promesse, con le quali è stato irretito  un “popolo” che continua a vivere  in un’Italia divisa in due: un sud deprivato   di diritti e insensibile ai doveri perché abituato da decenni  a svendersi  con politici e amministratori affiliati al malaffare, e un nord pieno di piccoli e medi borghesi, depauperati progressivamente  di diritti e privilegi, i quali – perciò – “amano” e apprezzano chiunque “ce l’abbia duro” e tenga duro  vivendo di  grossolani e spropositati   insulti verso chiunque, a cominciare  da un’Europa  che – dal canto suo – pare non aver capito  che c’è  un’unica  risposta allo strapotere   di interi continenti, come l’attuale America (del nord e del sud), l’attuale Russia, la Cina ( per non dire  l’intera Asia).  L’ Europa  DEVE ESSERE UNICA E UNITA, e non  fatta di nazioni   che  ALZANO CONFINI  PER FRONTEGGIARE  LA MISERIA PROVENIENTE DA UN’AFRICA E DA UN VICINO E LONTANO ORIENTE , PIENI DI MATERIE PRIME  DA RUBARE E DI   POVERACCI DA FAR MORIRE SUI BARCONI, NEI CARRI BESTIAME DEI TRENI E   NEI RIMORCHI  DEI TIR.

Sul piano  SOCIALE E CULTURALE   , come fronteggiare   questa tragica realtà?  Lo dico da sempre! BISOGNA CAMBIARE LE TESTE DELLA GENTE! COME?   ATTRAVERSO UN’AZIONE PERMANENTE E RICORRENTE  DI  FORMAZIONE “SUL CAMPO” DEGLI ATTORI E PROTAGONISTI DELL’UNICA   AGENZIA   FORMATIVA ORGANIZZATA E PROGRAMMATICA   ESISTENTE, E CIOE’  LA SCUOLA.  SOLO LA SCUOLA   PUO’  FAR CRESCERE L’ALTRA AGENZIA   FORMATIVA “NATURALE”, CHE E’ LA FAMIGLIA, DANDO AI  DESTINATARI   - E CIOE’ GLI STUDENTI -  IL COMPITO E L’ONORE E IL GUSTO   DI DIVENTARE CITTADINI CONSAPEVOLI E MATURI.  E CIOE’ CAPACI    DI ESSERE  - AL MOMENTO DI VOTARE -  DELLE  “PERSONE” E  NON DELLE VITTIME   DI IMBONITORI  POPULISTI CHE  COSTRUISCONO DEI PARLAMENTI  IMPRESENTABILI.

Molto – moltissimo  - c’è  da fare, su tantissimi piani: l’AMBIENTE, LA PARITA’ DI GENERE, L’OCCUPAZIONE, LA SALUTE, LA CASA, L’ETICA E LA BIOETICA, PER NON PARLARE  DELLO STRAPOTERE  DELLE NUOVE  TECNOLOGIE INFORMATICHE E TELEMATICHE   E  DEL FONDAMENTALE BISOGNO DI UN’INFORMAZIONE  LIBERA E  DAVVERO COMPETENTE.  



Mariangela Ranzini  Colombo -  Novembre 2018

domenica 25 novembre 2018

E' arrivato il tempo della resistenza civile - Articolo di Gustavo Zagrebelsky su La repubblica del 24 Novembre (acura di Giancarlo Fagiano)


Innanzitutto per chi non lo ha ancora letto, ma per tutti quanti per farne prezioso uso, pubblichiamo l’articolo, apparso su La Repubblica del 24 Novembre, a firma di Gustavo Zagrebelsky che ha immediatamente suscitato molti commenti ed un dibattito decisamente acceso. Va subito detto che buona parte degli interventi guardano alle affermazioni di Zagrebelsky più legate all’attuale quadro politico, governo gialloverde in primis. Aspetto sicuramente ben presente nell’articolo e affrontato con una partecipazione ed un enfasi molto forti. A nostro modesto parere sarebbe però riduttivo considerarlo soltanto come una sorta di pamphlet antigovernativo, con le conseguenti divisioni aprioristiche fra sostenitori e contrari. Che Zagrebelsky non abbia in gran stima il governo gialloverde, ed i partiti che lo sostengono, è cosa evidente e tutt’altro che celata, ma la sua sensibilità, professionale e civile, per la difesa dei valori democratici della Costituzione non nasce certo in questi ultimi mesi. Ne fa fede il suo curriculum e il suo intero percorso civile, venendo poi a tempi recenti ne aveva data ulteriore testimonianza con il suo impegno per il NO al referendum proposto dal precedente governo di tutt’altro segno politico. Quindi quello che Zagrebelsky ci chiede non è tanto di “votare contro”, quanto piuttosto di riconoscere e combattere, anche ricorrendo a forme di disobbedienza civile, un pericoloso processo di inaridimento delle radici, di quello che egli stesso definisce il “substrato”, della democrazia. Uno sguardo appena un poco meno limitato alle “miserie” di casa nostra ci dimostra che questa questione è tutt’altro che solo italiana, essendo semmai un processo che, ovviamente con caratteri specifici per ogni paese coinvolto, sta investendo tutte le democrazie occidentali. La decisione di pubblicare questo articolo non è quindi mirata ad aggiungere un fuscello locale al fuoco delle polemiche “politiche” inevitabilmente innescate - non è mai stato nel nostro stile fare la conta di chi sta di qua piuttosto che di là - vogliamo recuperare le problematiche di fondo che esso presenta perché condividiamo, da tempo, il grido di allarme che viene lanciato e perché speriamo che “conoscere e capire” siano la migliore risposta a pericoli e degenerazioni.  Con questo spirito abbiamo pertanto evidenziato in corsivo grassetto le frasi che, a nostro personale avviso, meglio evidenziano il pensiero di fondo di Zagrebelsky.
P.S. = nell’articolo si fa ampio riferimento ad un articolo di Umberto Eco sull’ur-fascismo. Ci piace ricordare che a questo termine è stato dedicato un post di questo nostro blog del Febbraio 2015


E’ arrivato il tempo
 della resistenza civile
di Gustavo Zagrebelsky

Un dato culturale assai significativo è che oggi si discute sempre meno di Costituzione e sempre più di fascismo. E’ uno spostamento dell’attenzione da una forma giuridica (la Costituzione) a una sostanza politica (un regime). “Forza normativa del fatto” dicono i giuristi quando il “fatto compiuto”, o che si sta compiendo, scalza il diritto o lo predispone alla resa. Questo spostamento spiega il silenzio di tanti giuristi, fino a qualche tempo fa alquanto loquaci (tra i quali io stesso). Cambia l’oggetto e cambiano gli interlocutori, occupano la scena i politologi, gli storici, i sociologi, i giornalisti, i politici, la gente comune. Tutti insomma meno che i costituzionalisti. Sembra che il loro oggetto stia evaporando. La loro voce, se è critica, si perde come un fruscio fastidioso nel rumore dominante. Per lo più non merita neppure una risposta. Restano per ora i “custodi”: il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale. Essi sono organi della Costituzione, ma fino a quando e fino a che punto potranno resistere alla forza materiale che spinge all’omologazione. Dunque: taceant iurisprudentes in munere alieno e aspettino semmai l’avvento di tempi nuovi, quando forse si richiederà la loro competenza per mettere in forma il fatto compiuto. Che cosa accade quando la forza del fatto insidia la forza della Costituzione? Consideriamo che qualunque sistema di governo ha uno strato e un substrato. Lo strato è la superficie, il substrato è la sostanza. Lo strato è fragile. Il substrato, invece, è molte cose pesanti: valori e interessi, rapporti di dominanza e sudditanza, speranze e disperazioni, credenze e illusioni, miti e credulità, amicizie e inimicizie, altruismo ed egoismo, legalità e corruzione, sopraffazioni e violenze, cultura ed ignoranza; insomma è per così dire il sangue misto che scorre nelle vene della società, portando con sé forze diverse e contradditorie. Per definire la Costituzione si può dire che essa è una selezione: promuove e condanna quanto nella società vi è di buono e quanto di male, secondo ideali di giustizia storicamente vincenti. Ma il progetto di selezione, per non essere campato in aria, deve essere sostenuto da una società che, almeno prevalentemente, ci si identifica, ci crede. A ogni regime politico deve corrispondere infatti un certo tipo di società, lo strato deve appoggiarsi su un substrato coerente: la Costituzione democratica presuppone una società a sua volta democratica. Non esiste democrazia politica se non esiste democrazia sociale. Chi vuole destabilizzare la Costituzione democratica, per poi rovesciarla e costruirne una nuova su altre basi, sa bene che deve incominciare dalla società. Si tratta per lui di amplificare il disgusto per le immancabili corruzioni, di diffondere veleni che alimentino paure, invidie, risentimenti e giustificano così pulsioni autoritarie, sopraffazioni, intolleranze, discriminazioni e violenze. Facilissimo: questo vasi di Pandora è molto più facile scoperchiarlo che chiuderlo. Ma ciò che ne esce è fascismo? La controversia odierna su questo punto, per non essere un esercizio propagandistico, deve considerare, innanzitutto, che il fascismo è solo una tra le tante manifestazioni storiche di qualcosa di assai più profondo, costante e radicato nell’animo umano e nelle pulsioni sociali. Questo “qualcosa” può assumere forme storiche le più varie, pur avendo radici comuni. Noi e l’Europa occidentale ne abbiamo conosciute alcune, non identiche ma fondate su principi similmente antidemocratici: fascismo italiano, nazismo, falangismo spagnolo, estado novo portoghese, ecc.; sicchè si spiega che ancora oggi per indicare ciò che contrasta la democrazia si dica: fascismo!. Ma i nemici della democrazia sono proteiformi, non necessariamente fascisti nel significato che esso ha storicamente assunto. Si può essere antidemocratici senza essere fascisti. Non tutto ciò che non ci piace è fascismo. Questo giornale, il 2 Luglio 1995, ospitò uno scritto di Umberto Eco che parla di fascismo eterno o di ur-fascismo (il prefisso ur indica qualcosa di originario, primordiale). I suoi caratteri sono riassunti così: identità aggressiva e purismo etico, rifiuto della modernità e tradizionalismo reazionario, rigetto dei principii dell’89 e dei diritti individuali, irrazionalismo e primato dell’azione sulla riflessione e sulla discussione, decisionismo, culto della forza e “machismo”., anti-parlamentarismo, ostilità nei confronti della libertà di scienza, arte e stampa, sospette portatrici di germi critici, esaltazione dell’uomo medio e del senso comune, concezione del popolo come un tutt’uno indifferenziato, corporativismo, intolleranza nei confronti dei “diversi” e dei “non integrabili”, xenofobia variamente motivata e razzismo, pensiero unico e unanimismo, fantasmi di complotti, nazionalismo ripiegato su sé stesso contro internazionalismo e, a maggior ragione, cosmopolitismo, complesso di unicità e di superiorità, unito a vittimismo che sfocia in aggressività. Il linguaggio, a sua volta è l’ingrediente comunicativo pieno di sottintesi: parole nuove, parole antiche in significati nuovi, parlar violento e plebeo di cose difficili ed elevate, accarezzare l’ignoranza e la banalità di massa. Non necessariamente tutti compresenti, questi sono aspetti delle “società chiuse” o “società organiche”, di cui il modello primordiale è la “tribù”. Sebbene talora si abbia l’impressione di cose relativamente moderne, comparse nel secolo dei totalitarismi, sono invece antichissime. L’archetipo è il tribalismo da sempre riemergente in particolari situazioni storiche, ogni volta con caratteri propri, per esempio con quelli del fascismo. Ciò significa che tutti i fascismi sono tribalisti, ma non tutti i tribalismi sono fascisti. Donde la deduzione: per mettersi il cuore in pace non basta dire che, data l’incontestabile distanza della società odierna da quella del secolo scorso, ciò che bussa alle nostre porte non è fascismo; possono bussare, uno dopo l’altro, gli ingredienti del tribalismo, ed è persino peggio, perché è facile illudersi che ci si fermi li. Invece, uno dopo l’altro, possono diventare una valanga. A forza di subire adeguandoci, si finisce per diventare qualcosa che non si sarebbe voluto e, all’inizio, nemmeno si sarebbe immaginato. Resta la domanda: che fare? Ritorniamo da capo. Si sarà notato che tutti gli elementi del tribalismo stanno innanzitutto nel “substrato” delle azioni e dei convincimenti sociali. Da lì occorre procedere. A chi pretende di parlare a nome degli “italiani” e della loro “identità” si opponga il dissenso, a chi esalta la forza si oppongano il rispetto e la mitezza, a chi burocratizza la scuola e l’università per trasformarle in avviamento professionale, si oppongano i diritti della cultura, alle illegalità si reagisca senza timore con la denuncia, alla cultura della discriminazione e della violenza si contrappongano iniziative di solidarietà. Agli ignoranti, che usano la vuota e spesso oscena neo-lingua, si chieda: ma cosa dici mai, ma come parli? Eccetera eccetera. Fino al limite della resistenza ai soprusi e delle disobbedienza civile che, in casi estremi, come ha insegnato Don Milani, sono virtù.

sabato 17 novembre 2018

L'angolo dell'arte - Novembre 2018


“L’angolo dell’arte”
Spazio mensile curato da
Valter Alovisio – Point Zero

Cari amici,

Sono tornato da poco da Venezia ed ho ancora negl’occhi l’oscuro riverbero della pittura di Tintoretto. Inseguendo ancora i pensieri e i richiami di inquiete nuvole danzanti nel cielo ho deciso di segnalare, nell’appuntamento mensile che ho con voi, questa mostra che ho avuto opportunità di vedere.
Si tratta di una grande mostra che la città di Venezia ha voluto organizzare per celebrare il suo illustre pittore concittadino, Jacopo Rubusti, detto il TINTORETTO, a cinquecento anni dalla sua nascita
La mostra si articola in tre spazi espositivi distinti tra loro: il Palazzo Ducale, le Gallerie dell’Accademia e la Scuola Grande di San Rocco.
Fiore all’occhiello sono le grandi, grandissime tele esposte a Palazzo Ducale, giunte a seguito di una prestigiosissima collaborazione internazionale con la National Gallery di Washington, con il Prado di Madrid e con il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Per citare solo le più importanti.

Il Paradiso    1588-1594 -Sala del gran consiglio Palazzo Ducale http://palazzoducale.visitmuve.it/
Ma la sede delle Gallerie dell’Accademia non è da meno con una mostra che ha come titolo. “Il giovane Tintoretto”. Questa seconda sezione, forse la vera novità critica di questa mostra rispetto ad altre precedenti sull’autore, è tutta incentrata sulla formazione e l’affermazione del Tintoretto nella Venezia del primo cinquecento, egemonizzata dalla figura di Tiziano. Ad essa ha certamente contribuito il convegno “La giovinezza di Tintoretto” del 2015 organizzato dalla Fondazione Giorgio Cini il cui titolo richiama le ricerche fondatrici di Rodolfo Pallucchini, a cui anche la mostra fa eco titolando appunto l’esposizione “Il giovane Tintoretto”.
La mostra delle Gallerie dell’Accademia mette in luce proprio questo percorso individuando, tra le opere certe del catalogo del giovane Tintoretto (ovvero nel decennio 1538-1548) un pittore che progressivamente abbandona il robusto naturalismo, la spazialità scandita su differenti piani di profondità, gli accostamenti cromatici della tradizione veneziana. Tutto ciò è sostituito da una pittura fatta di “effetti speciali”, impaginazioni affollate di personaggi con fughe ardite e imponenti diagonali, creazioni dalle particolari tensioni dinamiche, dai contrasti timbrici, dalle soprannaturali illuminazioni che conferiscono grande intensità drammatica. Una strada alternativa rispetto a quella dominante del cadorino Tiziano Vecellio.
Questa sezione si conclude con il tesoro tintorettiano delle Gallerie dell’Accademia: ”Lo schiavo liberato”.
Lo schiavo liberato – 1548 – Gallerie dell’Accademia http://www.gallerieaccademia.it/
Imperdibili nelle Gallerie dell’Accademia le sale di Giorgione e Giovanni Bellini e tre capolavori assoluti di Hieronymus Bosch.
La terza sezione è costituita dal grande ciclo che si trova, in modo permanente, nella Scuola Grande di San Rocco. Il “capolavoro di una vita” di Tintoretto.
Tintoretto lega indissolubilmente il suo nome a Venezia e alla storia dell’arte, a questa Scuola/Confraternita, dove lavorò per più di vent’anni (dal 1564 al 1588 circa) dipingendo oltre sessanta opere, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento realizzando quello che, secondo alcuni critici, è per Venezia quello che per Roma è la Cappella Sistina.


La crocifissione–1565–Sala dell’albergo Scuola Grande di San Rocco http://www.scuolagrandesanrocco.org/home/
Valter Alovisio

giovedì 15 novembre 2018

- Traccia della relazione tenuta dal prof. Gianni Colombo nel seminario "Tecnologia: meraviglia e smarrimento. Consapevoli o passivi?"



Pubblichiamo in questo post le diapositive utilizzate dal prof. Gianni Colombo nella sua seguita relazione tenuta nel seminario del 13 Novembre. Confidiamo possano essere utili ai presenti per rafforzare la memoria delle considerazioni sviluppate dal relatore nelle Parti 1 e 2, e a chi non ha potuto partecipare al seminario per recuperare, almeno in parte, il discorso presentato. Per tutti possono essere propedeutiche alla presentazione della Parte 3 che si terrà VENERDI’ 23 P.V. – ore 16,30 – Bar del Fassino (piano terra).

N.B. = Le brevi frasi di collegamento fra le diapositive sono opera di chi pubblica questo post ed hanno lo solo scopo di fornire una, personale, traccia di percorso di lettura, non hanno quindi la pretesa di sintetizzare la ben più articolata e stimolante presentazione del relatore


La relazione si apre con una frase che è al tempo stesso la chiave di lettura dell’intera esposizione e il risultato a cui tendere, l’obiettivo che il prof. Colombo ci propone di condividere

Le ragioni che devono indurci a fare nostra questa considerazione/obiettivo, al fine di avere un rapporto “attivo” verso la tecnologia, uscendo così dal ruolo di meri utilizzatori inconsapevoli, consistono in……
La tecnologia ci riguarda: non c’è dubbio infatti che i grandi temi globali che attualmente investono l’umanità vedono la tecnologia come componente decisiva…….

……In particolare la tecnologia è divenuta il principale fattore di spinta alla spirale produzione/consumo, la vera sfida dei nostri tempi ……..
…….Una spirale che ci avvolge nell’intreccio fra crescita e sostenibilità, aggravata negli ultimi decenni dalla seconda spirale “finanza/credito” sempre più finalizzata alla “produzione di denaro mediante denaro”………

…………Questa doppia spirale racchiude e determina la necessità, non più rinviabile, di sciogliere il dilemma “crescita, e stabilità sociale, / sostenibilità, e salvaguardia del pianeta Terra”……………..

………………La conferenza COP21 del 2014 di Parigi ha evidenziato l’urgenza di una inversione di rotta agendo immediatamente sulle cause scatenanti il riscaldamento globale; questa necessità ha inevitabili e importanti ricadute sul modo di sciogliere il dilemma crescita/sostenibilità……………….

………….Se questo è il quadro entro il quale dobbiamo ridefinire, in modo attivo, il nostro rapporto con la tecnologia, stante il suo ruolo decisivo, il primo passo è quello di accrescere la consapevolezza di quanto, e di come, la tecnologia sia entrata nelle nostre dimensioni di vita……………..


…………Per sviluppare un rapporto consapevole ed attivo verso la tecnologia, e la sua cresciuta importanza, la politica è chiamata ad assumere un ruolo decisivo…………….

……………La consapevolezza a cui mirare necessita anche di uno sguardo storico lungo, l’uomo è da sempre attore, attraverso la tecnica, di un intervento “forte” sul mondo, sulla natura…………

……..Certo, tornando ai giorni nostri,  non è semplice relazionarci con la incredibile crescita della capacità tecnica dei nostri tempi, con le potenzialità che ha creato e con le sue collegate ricadute positive e negative……

…………A fronte di queste incredibili possibilità (la meraviglia e lo smarrimento da cui abbiamo preso le mosse) sorgono insopprimibili domande……………..

……………Domande che si è posto lo stesso Albert Enstein……………

…………..Ma allora come agire concretamente ed efficacemente?................

………….Un “nostro ruolo” che deve ispirato da valori etici, individuali e collettivi, e puntare al raggiungimento di una sorta di nuova “utopia”………….

…..e su collegati diritti…..

…………..Valori etici e diritti che guidino quindi il nostro sguardo al ruolo trasformativo della tecnologia…………..

…………ci possono accompagnare in questo  percorso importanti ed autorevoli scuole di pensiero filosofico………….

……….Ma è innanzitutto indispensabile ricalibrare il modo con cui guardiamo la realtà. Gli stessi progressi scientifici, la maggiore e migliore comprensione del rapporto osservatore-oggetto osservato, implicano un metodo che, andando oltre quelli in uso agli inizi della rivoluzione scientifica, è ormai irrinunciabile per comprendere e affrontare le complesse problematiche determinate dal ruolo e dal peso crescenti della tecnologia. E quindi partendo da Bacone……………..

……passando per Newton, e lo stesso Bertrand Russel……

……e le prime perplessità e critiche…….

…..e soprattutto grazie al pensiero di Karl Popper……

…….si è definito un metodo basato sul rapporto, inscindibile e bivalente, fra osservatore ed oggetto osservato, il concetto di paradigma e le sue tre proprietà …………….

……………una evoluzione del metodo di osservazione che ha coinvolto anche le scienze sociali………………

……che, con una evoluzione analoga, sono passate da…….

…….a capire che……

……e quindi definendo anche nel campo delle scienze sociali un metodo costruttivista…………

……finalizzato a………….

……il metodo costruttivista si completa con la necessità di adottare una capacità di anticipazione indispensabile sia per una maggiore e più completa conoscenza sia per un più corretto approccio etico……

La relazione del prof. Colombo, al tempo stesso lucida ed appassionata, ci ha sin qui consentito, affrontando le Parti 1 e 2

1. La tecnologia ci riguarda

2. Confessare lo smarrimento e identificare un nostro ruolo

di condividere la necessità di esercitare verso la tecnologia, il suo ruolo, la sua rilevanza, le sue ricadute, un ruolo attivo di conoscenza, di governo e di indirizzo, culturale ed etico. Di comprendere che per farlo, e per intervenire così facendo sul decisivo intreccio “crescita/sostenibilità”, occorre avere verso la tecnologia uno sguardo consapevole dell’intreccio fra osservatore ed oggetto osservato e capace di una visione anticipatoria.
 Nella Parte 3

3. Guardare la realtà e immaginare soluzioni
                                        o    la tecnologia come utilizzatori
                                        o    la tecnologia come produttori
                                        o    l’intelligenza artificiale
                                        o    tracce per un’azione
su queste basi, verranno affrontate situazioni e problematiche specifiche ed esemplari, per immaginare conseguenti azioni e soluzioni concrete


a cura di Giancarlo Fagiano

lunedì 12 novembre 2018

Ma di che PIL parli - a cura di Giancarlo Fagiano



Ma di che PIL parli?

Le cronache da settimane ci raccontano dello duro scontro sulle previsioni di crescita del PIL italiano negli anni  futuri ad iniziare dal prossimo. La previsione ottimistica del governo giallo-verde di una crescita dell’1,5% nel 2019 è decisamente messa in discussione dalla UE e di certo non trova una buona base di partenza nel trend attuale che ha visto, per il terzo trimestre del 2018, una crescita zero. Chi scrive non è mai stato un gran estimatore del PIL: certo è  indicatore fondamentale per misurare il tasso di crescita della produzione, e quindi dell’economia in generale, ma averlo assurto a parametro pressochè esclusivo (la cosiddetta “dittatura del PIL”) del bene-essere, dello sviluppo in senso lato, della salute generale di un paese, di una società, è operazione molto discutibile. Discorso molto ampio che varrebbe la pena di riprendere nel nostro riflettere sui “futuri”, ci limitiamo in questo post ad una sorta di “spigolatura”, a fin di bene naturalmente, sul valzer di cifre che ballano fra contendenti disposti al duello all’ultimo sangue (speriamo proprio di no, l’Italia ha bisogno dell’Europa e l’Europa non ha senso senza l’Italia) per un decimale di differenza di previsione. Ci soccorre un interessante grafico trovato, su suggerimento di un articolo letto sull’ultimo L’Espresso, nel sito vividmaps.com (che propone una raccolta di tabelle, grafici, mappe, su una miriade di argomenti a valenza globale, in grado di fornire in modo visivamente sintetico indicazioni e dati molto chiari e stimolanti); il grafico riassume per i quindici paesi che componevano al tempo la UE la percentuale di crescita del PIL nel ventennio 1995-2014:

Spicca il colore rosso dell’Italia, unico paese ad avere, con un misero 1,9%, un tasso di crescita nel ventennio in esame inferiore al 10%, a confronto del 13,5% della Grecia (appena prima del baratro successivo), del 19,1% del Portogallo, del 23,9 della Spagna, del 20,7% della Francia, del 28,7% della Germania, per non dire dei paesi colorati in verde chiaro e più ancora in verde scuro. Non compaiono nella mappa ma in alto a destra, a caratteri piccoli, sono indicati per lo stesso periodo le percentuali, tutte decisamente più positive, degli Stati Uniti, del Giappone, del Canada, le altre nazioni non europee componenti il G7, ossia il consesso dei sette paesi più industrializzati del mondo. Tornando alla spigolatura se la storia qualcosa insegna, e se la matematica non mente, l’Italia dal 1995 al 2014 vanta, si fa per dire, un tasso medio di crescita annuale dello 0,095%. E’ un dato che dovrebbe far capire, ed era esattamente quanto ci disse nella sua conferenza del Maggio 2017 lo storico dell’Economia Giuseppe Berta, che il paese Italia ha subito dopo il boom del trentennio d’oro 1960-1990, un drastico ridimensionamento ed una radicale trasformazione della sua base produttiva, una ridotta capacità di innovazione (salvo poche isole felici), la perdita di importanti settori industriali, ossia le basi principali sule quali poggia ogni ipotesi di crescita del PIL. Una situazione che, visto che per prepararci al futuro  non si può non tenere conto di questo recente passato, meriterebbe una riflessione molto più radicale e lungimirante di quella attualmente in corso, così condizionata da interessi di rendiconto elettorale a breve. Non pare infatti che questo stia avvenendo, nessuna forza politica ha il coraggio di riconoscere l’evidente declino del nostro paese per individuarne le cause ed i possibili correttivi. Evidentemente “parlare chiaro” non garantisce gli stessi ritorni elettorali del delineare “futuri”, però molto difficilmente sostenibili. Speriamo, ovviamente di sbagliarci e di essere smentiti soprattutto dai fatti, per intanto……ma di che PIL parli?

venerdì 9 novembre 2018

L'Italia, gli italiani ed il voto del 4 Marzo scorso - a cura di Giancarlo Fagiano



L’Italia, gli italiani
ed il voto del 4 Marzo scorso

A distanza di diversi mesi dal voto del 4 Marzo scorso,  sedimentate ormai le impressioni “a caldo”, è diventata possibile, se non indispensabile, una riflessione su un risultato elettorale che, al di là delle personali opinioni politiche, ha evidenziato un profondo mutamento nel rapporto fra “gli italiani” , la politica ed il sistema dei partiti fin qui conosciuto, lasciando prefigurare una corrispondente profonda metamorfosi del paese “Italia”  nel suo complesso, i cui esiti si stanno ulteriormente manifestando in questi mesi successivi al voto. Per affrontare, nel nostro blog di CircolarMente, questa riflessione ci affidiamo ad una rigorosa analisi del voto e dei suoi significati svolta da un gruppo di ricerca della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Urbino Carlo Bo. I risultati di questa analisi sono stati condensati in un interessante libro a firma di Bordignon Fabio, Ceccarini Luigi e Diamanti Ilvo, dei tre sicuramente il più mediaticamente conosciuto, dal titolo “Le divergenze parallele”:

I tre autori hanno incrociato i risultati elettorali con una consistente serie di dati socio-economici e con una apposita indagine post-voto, effettuata dall’Istituto Statistico Demos (diretto dallo stesso Ilvo Diamanti) su un campione significativo di votanti, volta a individuare le ragioni e modalità alla base del voto espresso. Emerge un quadro di profondo mutamento tale da implicare non poche considerazioni sullo stato di salute della democrazia rappresentativa nel nostro paese. Ci limitiamo in questo post, senza escludere eventuali ulteriori approfondimenti sui “futuri” che da questo quadro potrebbero ulteriormente maturare, a estrapolare dal testo di Bordignon, Ceccarini e Diamanti le considerazioni che di più ci sono sembrate in grado di costruire la fotografia di quanto è emerso il 4 Marzo  scorso.

Dis-continuità elettorale – dis-ordine di sistema
La prima indicazione, tanto importante quanto inoppugnabile, è quella che per molti versi il voto del Marzo 2018 rappresenta una netta cesura rispetto alle caratteristiche del voto italiano visto sul lungo periodo precedente, in particolare per il consolidato passaggio, per quanto concerne il sistema dei partiti, da una situazione bipolare ad una tripolare, scombinando così ulteriormente le basi sulle quali sono state finora costruite tutte le ipotesi di definitiva (?) riforma del sistema elettorale.  Un cambiamento che ha in effetti accentuato e stabilizzato una tendenza già emersa nel precedente voto del 2013, visto il successo al tempo ottenuto dalla lista M5s: (22%). L’analisi dei flussi elettorali (che qui non verrà affrontata nello specifico essendo tutto sommato già sufficientemente conosciuta) evidenzia inoltre la collegata tendenza ad un voto ormai strutturalmente più dinamico, fluido e concorrenziale ad ampio raggio rispetto ai precedenti trend di lungo periodo della storia elettorale. Lo testimonia la clamorosa consistenza dei voti persi dalle due componenti sulle quali si era configurata l’alternanza fra centrodestra e centrosinistra negli ultimi decenni: senza considerare le già consistenti emorragie precedenti nel 2018 i voti persi, rispetto al 2013, dal PD sono stati 2.600.000 (su 8.600.000) e quelli di FI 2.800.000 (su 7.300.000).  Un ridimensionamento così importante sancisce, al di là di specifiche spiegazioni contingenti, la definitiva fine del “voto devoto” ed il passaggio ad un “voto liquido” (il sottotitolo di “Le divergenze parallele”). Vedremo successivamente le modalità con le quali si è determinata questa propensione, interessa per intanto evidenziare che questa dis-continuità per essere meglio compresa deve però essere collocata nella corrispondente tendenza, che sembra ormai avere caratteristiche sistemiche, del continuo calo dell’affluenza alle urne:

Sicuramente impressiona rivedere che per tutto il trentennio dal 1948 al 1976 la percentuale dei votanti sia rimasta su livelli superiori al 90%, che il calo che da lì in poi si è manifestato sia comunque rimasto decisamente contenuto fino al 1994, per poi accentuarsi nelle elezioni successive ma ancora restando, fino al 2008, ancorato a percentuali superiori all’80%. Le elezioni del 2013 registrano la prima importante caduta al 75,0% che si accentua ulteriormente nel 2018 con il 72,9&, quando ormai più di un elettore su quattro non si presenta alle urne. Inevitabile quindi il collegamento fra voto di rottura e disaffezione elettorale, due fenomeni che si completano a vicenda e che trovano, ambedue, conferma ed origine nel trend della fiducia verso le istituzioni politiche e di governo nel loro insieme:
Anche per questo aspetto impressiona il repentino drastico calo della fiducia verso le istituzioni politiche (dal Comune, che resta il più apprezzato, passando per lo Stato, e sue cariche istituzionali, la UE per finire, al fondo della specifica graduatoria di sfiducia, al sistema dei partiti) avvenuto in pochi anni dal 2005 al 2014 con un sostanziale dimezzamento (dal 41% al 21%). La successiva ripresa non può essere di gran conforto attestandosi, con caratteristiche ormai di strutturale stabilità, attorno al 25%. In altre parole solo un cittadino su quattro esprime una convinta fiducia verso gli istituti fondanti la democrazia rappresentativa. Il tema della “crisi della democrazia” non è certo solo italiano, e non è una improvvisa scoperta. Siamo di fronte ad un processo che parte da lontano, globale e in accentuazione, che pone domande sempre più di fondo al centro di un ampio, ma per ora improduttivo, dibattito. Non è certo questa la sede per affrontarlo, così come non fanno i tre autori di “Le divergenze parallele” i quali prendono però in esame l’incidenza su questa tendenza generale di alcune problematiche, accentuatesi nell’arco temporale preso in esame 2005-2018, che, stante l’incapacità, reale e/o percepita, delle istituzioni di affrontarle efficacemente, hanno sicuramente contribuito, nel caso specifico italiano, a contribuire al preoccupante calo di fiducia:
-    Immigrazione straniera = l’affermazione “gli immigrati sono un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico” registra una costante condivisione da diversi anni, ma registra un salto molto significativo dal Dicembre 2012, punto percentuale più basso raggiunto con il 26%, al picco del 45% toccato nel Gennaio 2018 a ridosso quindi del voto del 4 Marzo. Si può certamente discutere sulle ragioni, reali o “gonfiate”, che hanno portato a questo dato, ma resta il fatto che quasi un italiano su due ha vissuto, a ridosso del voto, con grande apprensione la presenza dei migranti nel nostro paese
-    Insicurezza legata alla criminalità = in questo caso i dati reali sull’effettivo aumento dei reati nel nostro paese, che registra una sostanziale stabilità e per alcuni tipi di reato addirittura una significativa flessione, legittimavano una maggiore tranquillità diffusa. Così non è stato, anzi. La sensazione di vivere in una situazione di “insicurezza”, legata in particolare alla micro-criminalità e, anche in questo caso, alla presenza di “stranieri”, è rimasta costante nell’ultimo decennio con pochi scostamenti da una media ormai stabilizzata attorno al 40/41% (a Dicembre 2017, tre mesi prima del voto, era del 41%).
-    Insicurezza economica = nel Novembre 2008, nel pieno della crisi economica più grave dal secondo dopoguerra, il 63% degli italiani si dichiarava insicuro sulle proprie prospettive lavorative ed economiche. La stessa identica percentuale viene registrata a Dicembre 2017, dieci anni dopo e sempre tre mesi prima delle elezioni. Segnale indiscutibile di una atteggiamento ormai cronicizzato difficilmente rimuovibile stanti le perduranti difficoltà del sistema economico e produttivo e la ristrettezza di strumenti di intervento adeguatamente efficaci.
Quindi un paese intero e la sua base elettorale, demotivati, distaccati (il Censis nel Rapporto 2017 ha parlato, non a cuor leggero, di vero e proprio “rancore” dell’elettorato diffuso verso il sistema dei partiti, e in particolare verso quelli più connessi a ruoli di governo) insicuri (l’insicurezza totale, determinata dal sommarsi delle specifiche insicurezze, si è attestata, dal 2008 al 2018, su percentuali che variano di poco in una forbice che va dal 75% all’80%, otto italiani su dieci quindi si dichiarano  comunque “insicuri”) fisiologicamente alla ricerca di un “nemico” su cui scaricare la tensione così cresciuta. Lo trovano, con variazioni legate alla cronaca, nel migrante, nel diverso, nell’Europa e, inevitabilmente, nei “partiti”, specie quelli storici (la casta, l’elite, l’establishment). Non stupisce quindi il consolidarsi di un clima antipolitico, fenomeno peraltro che va ben oltre i confini nazionali e che si manifesta, con accentuazioni specifiche ma sulla base di un sentire comune, in tutti i paesi occidentali. Restando a casa nostra sono quanto mai indicativi i livelli di adesione a queste due affermazioni:


Le risposte ai due quesiti periodicamente posti nel corso dell’ultimo decennio da Demos sintetizzano bene il “sentimento dell’antipolitica” che ormai si è sedimentato nel nostro paese (il calo nel primo grafico di sei punti percentuali per la condivisione di una democrazia “senza partiti” si spiega con il successo di liste che dell’antipolitica hanno fatto una bandiera catalizzandola così verso un “anomalo” sostegno ai partiti, mentre per il secondo grafico non deve trarre in inganno l’andamento visivo della curva, la percentuale di chi ritiene che fra i partiti non ci siano più differenze  veleggia ormai stabile dal 2005 al 2018 attorno al 65%. E’ questo in sostanza il quadro di base entro cui guardare per tentare di capire non solo ciò che è avvenuto il 4 Marzo ma anche possibili prossimi “futuri”

Tra (in)decisione di voto e discussione pre-elettorale
All’interno di questo contesto “Le divergenze parallele” evidenzia alcuni aspetti di dettaglio non meno importanti, utili in particolare per meglio comprendere attraverso quali “percorsi” si sia concretizzato il passaggio dal “voto devoto” al “voto liquido” di cui si è detto in precedenza. Lasciando da parte le ragioni più “politiche” che possono aver determinato il “distacco” è in effetti importante cercare di mettere a fuoco quali tempistiche, quali strumenti, quali fonti hanno inciso sulla effettiva scelta elettorale compiuta da quella consistente fetta dell’elettorato che, ad iniziare dal 2013, ma in modo compiuto nel 2018, si è ritenuta non più vincolata al voto, più o meno “devoto”, fin lì espresso. Si tenga conto, per meglio comprendere la portata del cambiamento, che già in diverse occasioni precedenti si erano verificati voti “critici”, che però restavano comunque nel perimetro dell’appartenenza di “area”, questa volta non è stato più così, le analisi dei trend elettorali evidenziano spostamenti anche, se non soprattutto, di “area” (ad esempio dal PD più verso M5s e Lega che verso LEU, da FI non solo verso la Lega ma anche verso il M5s).  La domanda che “le divergenze parallele” ha posto è: quali sono diventati i tempi di decisione del voto effettivo di questo elettorato così “liquido”? Quando tempo prima è maturata la scelta del voto poi espresso?

Solo un elettore su due nel 2018 dichiara di “non aver mai avuto dubbi” su chi votare un mese prima del voto. Ed il quadro complessivo che emerge da questa rilevazione conferma una notevolissima crescente rapidità dei cambiamenti nelle tempistiche di maturazione della scelta elettorale La discesa dal 66% del 2006 al 50% è stata davvero molto repentina. Va detto inoltre che, se comunque la tendenza alla “liquidità” del voto appare già così sufficientemente dimostrata, quel 50% non rappresenta solo lo zoccolo duro del precedente voto “devoto”, al suo interno ha già una sua consistenza la stessa quota di elettori definibili “liquidi”, anche se, come da tradizione, il voto già certo tempo prima delle elezioni premia maggiormente i partiti più grandi. Il grado di “fedeltà” rilevabile il 4 marzo 2018 vede infatti queste percentuali:

grado di fedeltà rilevato
PD
62%
M5s
58%
Lega
55%
FI
54%

Sono dati che per essere debitamente interpretati richiederebbero l’incrocio con diverse altre rilevazioni, interessa qui, in relazione alle tematiche al centro della nostra attenzione ed escludendo quindi ogni constatazione “di parte”, sottolineare che se il 62% del PD (a fronte dei 2.600.000 voti persi rispetto al 2013 e con la conferma venuta dall’ulteriore calo rilevato dai sondaggi successivi al voto) è in buona misura  identificabile come “zoccolo duro”, questo però  si ferma ormai a poco più di un elettore su due. Peggio ancora per FI, all’ultimo posto in questa particolare graduatoria, che, dopo aver perso 2.800.000 voti rispetto al 2013 e colpita, in base a successivi sondaggi, da un sostanziale ulteriore dimezzamento, non può certo vantare come un successo quel 54% reclutabile come “voto devoto”. Viceversa il risultato del M5s sembra dimostrare che dal 2013 al 2018, in contemporanea con il balzo generale in avanti, sia diventata al contempo consistente la quota di elettori definibili come fedeli. Ancor più rilevante il dato della Lega, ma in un'altra ottica: se solo un elettore su due di quelli che l’hanno votata il 4 Marzo proviene dall’area dei già “fedeli”, il consistente balzo dal 4% al 17% ottenuto alle elezioni è quindi in gran misura frutto della conquista di nuovi consensi. Il dato complessivo più significativo resta ad ogni buon conto la crescita esponenziale della quota di intenzioni di voto maturate nel corso dell’ultimo mese: dal 34% del 2006 si è passati al 50% del 2018, e di questi ben il 13% decide per chi votare la mattina stessa del voto o poco prima. Difficile, per definire questa situazione, ricorrere ad un termine diverso da “liquido”. Liquidità peraltro testimoniata anche dalla rilevazione di chi, di cosa, abbia influito su questa scelta così a ridosso del voto, peraltro in una campagna elettorale che è stata ampiamente seguita, visto che il 90% degli elettori (effettivi) ha dichiarato di averlo fatto, non fosse altro che per la sua crescente spettacolarizzazione mediatica. In questo contesto appare interessante la combinazione fra le modalità di acquisizione delle informazioni e quelle della loro elaborazione per la scelta del voto. Mantenendo lo sguardo analitico concentrato sull’ultimo mese prima del voto, divenuto come si è visto decisivo, le fonti di informazione più utilizzate sono state in questi ultimi trenta giorni:

Da quali fonti ha ricevuto informazioni nel corso
dell’ultimo mese prima del voto?

In %
Variazione su 2013
Televisione
88
-      2
Da amici, parenti, colleghi
65
+ 10
Giornali
60
-      3
Social media
53
+ 14
Radio
48
+  1
Volantini, manifesti, depliant
44
-      3
Settimanali, periodici
41
-      1
Messaggi su cellulare
22
n.r.
Manifestazioni politiche
19
+ 1
Contattato da candidati
14
-      1
Mail ricevute
13
-      2

La televisione, seppure in leggera flessione, resta la principale fonte di informazione. Contribuisce non poco, in un generale processo di spettacolarizzazione del dibattito politico, il ruolo dei talk show, spesso ripresi sui cellulari. Ed appare perciò evidente che in un contesto di elettori che decidono chi votare a ridosso del giorno delle elezioni “vincere” in un talk show, piuttosto che mettere in campo strategie accattivanti di fronte alle telecamere diventa un elemento decisivo. Occorre tenere conto, per meglio comprendere queste dinamiche, che sono stati presi in considerazione elettori che hanno comunque deciso di votare, un elemento che diventa centrale per capire il ruolo della seconda fonte di informazione: amici/parenti/colleghi. In aggiunta alla quale, a completare l’importanza della discussione personale, è stato rilevato che chi aveva deciso che comunque avrebbe votato, e che ha definito il suo voto nel corso dell’ultimo mese, mediamente ha discusso “spesso o abbastanza spesso” in famiglia, sul lavoro, fra amici. Un interessante trend in crescita: lo ha fatto infatti il 72% nel 2008, il 74% nel 2013 ed il 78% nel 2018. Oltretutto ciò è avvenuto in ambiti dove solo il 37% era orientato politicamente in modo omogeneo, il restante 63% era composto da idee contrastanti se non divergenti. Studi non solo italiani, la situazione appena descritta ha analogie significative con molti altri paesi dell’Occidente, evidenziano poi che in questi canali di informazione/discussione hanno un ruolo centrale soggetti, tecnicamente definiti “leader di opinione intermedi”, ossia coloro che nelle cerchie di conoscenza sanno far valere il maggior grado di informazione. Il che rimanda però a quali fonti di informazione vengono a loro volta utilizzate da questi leader, non si può infatti escludere, in un simile contesto, una diffusione partigiana e sfalsata di dati e notizie. Fatte salve queste due prime, per incidenza, fonti di informazione va rilevato che i nuovi canali della Rete pesano in misura importante: l’incrocio fra social – messaggistica su cellulare – mail ha ormai assunto una rilevanza notevole, in particolare per le fasce di elettorato più giovani. Fatto 100 il dato di quanti si sono informati in Rete nel 2008 si è passati a 169 nel 2013 per poi salire ancora nel 2018 a ben 230. Sebbene “Le divergenze parallele” non affronti questa problematica appare evidente che, in questo ambito, il peso delle “fake news” assume una valenza molto significativa. Continua, seppure in modo ancora abbastanza contenuto, il calo del ruolo dei media cartacei e delle forme più tradizionali di propaganda politica, peraltro ormai in via di disuso da diverse tornate elettorali. Tornando al ruolo avuto dalle informazioni/discussioni fra amici/parenti/colleghi l’indagine Demos ha evidenziato un interessante collegamento con i tempi della decisione effettiva di voto (vedi grafico precedente)

Ancora dubbi sulla “liquidità”, temporale e di sostanza, del voto?

Interpretazione del voto
Ma quali sono stati i fattori che hanno inciso maggiormente sulla scelta del voto il 4 Marzo scorso, che abbiamo visto essere liquido, coinvolgere sempre meno elettori, e su cui incidono talk show, Rete, e amici/parenti/colleghi?
Il primo dato, oggettivo, che emerge è rappresentato dalla scelta delle due forze “vincenti, M5s e Lega, di puntare molto sui tre elementi di insicurezza, migranti-sicurezza-crisi economica, evidenziati in precedenza. Al di là delle opinioni politiche, è bene ribadirlo ancora una volta, il voto ha senza ombra di dubbio premiato chi ha assunto questi tre fattori come componenti centrali della proposta politica. Scelta premiata dall’elettorato non solo in una visione “positiva”, ossia legata al fatto che erano temi ben presenti nel programma prescelto, ma anche in una versione “negativa” di condanna verso le altre forze politiche che di meno avevano assunto come centrali questi temi. E d’altronde la protesta, il voto “contro”, sollecitato non solo dai tre temi suddetti, ma anche da quel “rancore” evidenziato dal  Censis, è stato un fattore importante il 4 Marzo. Il 29% dei votanti, quasi uno su tre, posto di fronte alla domanda secca: “voto per” oppure “voto contro” ha scelto questa seconda modalità. E entrando nel dettaglio dei voti alle liste, sempre prendendo in considerazione i quattro partiti maggiori (che raccolgono l’80% dei voti) si coglie ancora meglio l’incidenza di questo orientamento
La lettura di questo grafico è immediata ed evidenzia come per le due forze vincitrici il peso del sostegno al programma presentato, con le maggiori attenzioni prestate ai fattori di “sfiducia”, si sia comunque accompagnato ad una notevole incidenza del “voto contro”, molto spesso abilmente sollecitato ma altrettanto spesso già presente del suo negli umori diffusi degli elettori. La domanda di fondo che sembra opportuno porsi, ragionando su possibili “futuri”, è se il peso del voto di protesta, nel contesto ormai acquisito di “voto liquido”, non possa diventare l’elemento determinante per le scelte degli elettori. Il che significherebbe elevare una semplice, si fa per dire, “liquidità” al rango di “discontinuità costante” di orientamento elettorale, ossia nella possibilità di una turbolenza continua di consensi elettorali orientati più a punire che a premiare, e quindi legati ad ondeggiamenti umorali creati da situazioni contingenti, quando non di breve periodo.
Un secondo fattore che in questi ultimi anni sembra, con unanime consenso,  aver caratterizzato la competizione elettorale è rappresentato dal peso del “leader”. Sono stati versati fiumi di inchiostro sul fenomeno, universale e crescente, della personalizzazione del confronto elettorale; ed è innegabile che la scelta del candidato leader, la sua capacità di rappresentare un valore aggiunto, quando non esclusivo, per una proposta politica sia diventata una opzione fondamentale. Il voto del italiano del Marzo non smentisce questo trend: l’insieme degli elettori di tutti i partiti hanno messo in ordine di importanza come ragione per il voto espresso:
1)   – il programma elettorale = 23%
2)   – il leader                       = 22%
3)   – le proprie idee politiche = 20%
4)   – la fiducia nel partito      = 16%
Non c’è quindi dubbio che il 4 Marzo abbiano giocato un ruolo importante, in positivo ed in negativo, le capacità attrattive di Salvini, di Di Maio, di Berlusconi, piuttosto che la mancanza di un leader chiaramente indicato nel PD, è però necessario per meglio capire misurare la loro specifica incidenza su questo voto al di là quindi del dato aggregato di tutti i partiti. L’indagine Demos ha pertanto messo a fuoco dati finalizzati a meglio capire se il peso del leader abbia assunto il valore di un “di più” per una scelta già del suo davvero indirizzata verso un partito piuttosto che un valore “a sé stante” (e quindi potenzialmente spendibile persino “al di fuori” di quel contenitore partito/programma. Per farlo è stato ovviamente necessario guardare ogni singolo rapporto leader/partito (sempre prendendo in esame i quattro maggiori partiti):


Sembra difficile ricavare da questi dati una precisa indicazione su linee di tendenza in atto, le condizioni specifiche del voto del 2018 hanno inciso in modo evidente, così come contano i diversi percorsi storici dei singoli partiti. Non sorprende quindi il dato di FI, fin dalla sua nascita un partito/persona, così come non stupisce, anche se in senso completamente opposto, quello del PD pur sempre erede di una concezione del partito che va oltre il ruolo del leader. Più vicina, fatte salve le abissali differenze di base, alla situazione del PD è quella del M5s, un “movimento/partito” che sembra avere nel Dna di costituzione un orientamento preferenziale verso il ruolo del “partito/movimento”. Difficile al contrario negare, visto il dato molto vicino a quello di FI, che il cambio di nome da Lega Nord a “Lega per Salvini” abbia in effetti rappresentato un traino significativo. Sembra però possibile sostenere che, nel complesso, ferma la sua innegabile rilevanza, la figura del leader sia allo stato attuale più un valore aggiunto al peso del partito che non una prerogativa dotata di valore autonomo.

Perdenti e vincenti (della globalizzazione)
Due fotografie riassumono bene la cesura rappresentata dal voto del 4 Marzo. La prima, a tutti nota da subito dopo le elezioni perché sintetizza visivamente l’esito elettorale, è quella del colore politico dell’Italia, un perfetto bicolore con una macchia verde pressochè uniforme al Nord-Centro ed una gialla altrettanto omogenea al Sud-Centro. Interrompono queste due colorazioni poche zone rosse nel Centro. La seconda è meno nota, ma è decisamente importante, perché evidenzia i movimenti elettorali dei ceti sociali protagonisti della grande migrazione dal “voto devoto” al “voto liquido”. Gli stessi grandi numeri di questa migrazione dimostrano infatti che non sono mutati voti indistinti, generici, la grande cesura è avvenuta proprio nelle basi sociali che hanno tradizionalmente costituito le aree “certe” del voto devoto, in particolare quelle della sinistra. Quella che segue è la tabella che riassume, enucleando in particolare la situazione dei quattro partiti maggiori, la ripartizione, in percentuale, dei voti ottenuti fra i vari profili della condizione socio-professionale


PD
M5s
LEGA
FI
altri
Operaio
9%
41%
20%
12%
18%
Tecnico/Impiegato/Funzionario/Dirigente
18%
33%
16%
10%
23%
Libero professionista
17%
27%
15%
11%
30%
Commerciante/artigiano/Imprenditore
11%
35%
29%
13%
12%
Studente
16%
36%
15%
12%
21%
Casalinga
11%
35%
24%
19%
11%
Disoccupato
9%
57%
12%
14%
8%
Pensionato
35%
38%
15%
18%
4%
Altro
13%
26%
13%
12%
36%

Le percentuali del voto “operaio” e dei “disoccupati” sul totale dei consensi ottenuti dal PD spiega meglio di molte valutazioni “di linea politica” la rivoluzione elettorale del 4 marzo, ancor più se messa a raffronto con quelle raccolte dal M5s negli stessi ambiti sociali. Ma questo dato rappresenta una ulteriore conferma della liquidità del voto, proprio per quanto concerne la sua relazione con le basi sociali di riferimento, quelle che erano storicamente le protagoniste del “voto devoto”. Un secondo importante aspetto viene dalla lettura complessiva dei dati della tabella: escludendo infatti il 57% del voto dei “disoccupati” al M5s (per il quale è evidente l’incidenza della provenienza geografica ed il collegamento alla proposta elettorale del reddito di cittadinanza) tutti i quattro partiti maggiori esprimono una sostanziale omogeneità di consensi fra le varie figure sociali, ossia più nessuno presenta un evidente profilo di rappresentanza “forte” di determinate aree sociali. Tutti pescano, con maggiore o minore successo, fra tutti. Segnale di un proposta politica ormai socialmente indifferenziata? O del prevalere di linee di divisione elettorale non più collegabili a quelle di divisione sociale? Piuttosto che del prevalere di fattori di scelta non più determinati dalla collocazione sociale?  Bordignon, Ceccarini e Diamanti avanzano una differente interpretazione che recupera una “lettura di classe” del voto aggiornata però a una diversa linea di demarcazione: quella di un voto diversificato dall’essere, e dal sentirsi, “perdenti” o “vincenti” della globalizzazione. In effetti la “liquidità” del voto non può essere ascritta, con una relazione troppo riduttiva, unicamente alle inadeguatezze di determinate proposte politiche, essa non può non essere collegata ai mutamenti intervenuti nella composizione sociale ed al parallelo esaurirsi delle visioni ideologiche basate sulla storica divisione di classe. Per riprendere il titolo di questo post sono, negli ultimi tre decenni, sicuramente cambiati gli italiani, ed è diverso fin nelle sue fondamenta il sistema paese Italia. Ciò à avvenuto in coincidenza con il pieno realizzarsi di due trasformazioni, politiche, culturali ed economiche, epocali: la fine della divisione fra i due blocchi Est – Ovest, ma soprattutto  la planetaria trasformazione dei sistemi produttivi ed economici riassunta in un unico nome atto a sancirne l’identità, la natura: per l’appunto la globalizzazione. Interessa qui recuperarne in particolare la ricaduta relativa alla composizione di classe. Lo stare sotto o sopra, nella scala sociale, assieme a forme sempre più accentuate di disuguaglianza economica, si è saldato, lungo una linea di demarcazione che ha attraversato tutte le figure sociali, con lo stare al riparo, o al contrario con l’esserne investiti, dalle ricadute, interne ad ogni paese, della globalizzazione. Si è sempre, in parole povere, disoccupati, operai, impiegati, artigiani e via discorrendo, e queste differenze sociali mantengono un loro peso generale, ma non tutti i disoccupati, gli operai, gli impiegati e gli artigiani hanno vissuto allo stesso modo la globalizzazione, alcuni ne sono stati investiti in pieno, altri meno, alcuni hanno percepito di esserlo stati, altri no. E questa “frattura interclassista” ha modificato, assieme ad una diversa concreta condizione economica, la coscienza di appartenenza di classe, e con essa il fondamento del “voto devoto”. E’ questa la tesi di “Le divergenze parallele” per spiegare gli shock elettorali avvenuti, in moltissimi paesi occidentali ed in successione quasi simultanea, in questi ultimi anni, e nel nostro in particolare il 4 Marzo scorso. Riprendiamo testualmente da “Le divergenze parallele” ……..Detto in altri termini la globalizzazione ha creato un nuovo cleavage (frattura, spaccatura) che si apre lungo il solco dello sviluppo globale. Ha preso forma un diverso segmento della perifericità sociale. I left-behind, ossia quei soggetti rimasti indietro sul piano economico e spaesati su quello culturale. Si tratta di soggetti che si sentono esclusi dalle dinamiche che hanno coinvolto e ridefinito i confini del mondo in senso globale. E’ una linea di frattura che si estende oltre quelle tradizionali o, quanto meno, le ridefinisce e le esaspera. Secondo questa prospettiva due sarebbero le figure idealtipiche protagoniste di questa nuova linea di distinzione: i vincenti ed i perdenti della globalizzazione……. I vincenti sono coloro che hanno tratto vantaggi dai cambiamenti, o che quantomeno non ne hanno subito troppi danni, i secondi quelli che ne sono stati investiti in pieno. I vincenti sono quelli che non si sono sentiti retrocessi, i perdenti sono quelli che convivono con la convinzione di essere esclusi. Si tratta peraltro di una percezione che ha una conferma molto concreta nei dati Istat sulla crescita della povertà assoluta e relativa in Italia. Caratteristiche queste che si sono definite con un processo lungo, come si è detto, all’incirca un trentennio e che ha avuto una accelerazione decisiva negli ultimi dieci anni post crisi 2008, una crisi che se è oggettivamente ascrivibile, soprattutto nei suoi risvolti finanziari, alla globalizzazione, è stata comunque percepita come tale in modo diffuso. Venendo alle specifiche ricadute elettorali Bordignon, Ceccarini e Diamaanti sostengono, dati alla mano e con un rapporto che capovolge i due estremi, che in generale i “perdenti della globalizzazione” si sono orientati in maggioranza verso i partiti che il 4 marzo hanno vinto, viceversa  i “vincenti della globalizzazione” sono rimasti più legati ai partiti che il 4 marzo hanno perso.
Per meglio comprendere questa affermazione occorre collegare a cascata fra di loro alcuni dati acquisiti dall’indagine Demos, iniziando da quelli che definiscono, rispetto ai due temi centrali della soddisfazione economica e del rapporto con l’immigrazione, la (auto)collocazione fra vincenti e perdenti

 Quanto si ritiene soddisfatto della situazione economica (del paese e della famiglia) con un voto da 1 a 10?
Insoddisfatti e soddisfatti, in totale,  si attestano sulla medesima percentuale a testimonianza di una frattura che ha diviso a metà gli italiani

Rispetto al tema dell’immigrazione non esistono invece dubbi, la grande maggioranza degli italiani esprime una posizione di netta chiusura.
L’incrocio fra le risposte a queste due domande, quelle centrali per comprendere come sono percepite le ricadute della globalizzazione, consente di articolare alcune caratteristiche riferibili ai “vincenti” ed i “perdenti”, che definiscono quattro tipologie, due pure e due miste:
-      Vincenti (puri) = sono per una società aperta e sono soddisfatti della situazione economica = valgono il 21%
-      Vincenti (comunitari) = sono per una società chiusa e sono soddisfatti della situazione economica = valgono il 36%
-      Perdenti (cosmopoliti) = sono per una società aperta e sono insoddisfatti della situazione economica = valgono il 15%
-      Perdenti (puri) = sono per una società chiusa e sono insoddisfatti della situazione economica = valgono il 28%


Un ulteriore incrocio con altri dati raccolti consente di tracciare un idendikit di queste quattro tipologie tipi agganciandole al genere, all’età, alla condizione sociale, all’istruzione, all’area geografica.  Si tratta ovviamente di indicazioni che riassumono le caratteristiche “medie” prevalenti, al cui interno è sicuramente ampia la casistica reale, ma che sono comunque in grado di fornire gli elementi “visivi” di una tipologia standard:

vincenti puri
vincenti comunitari
perdenti cosmopoliti
perdenti puri
uomini anziani
uomini
donne
donne anziane

istruzione elevata
Istruzione bassa
mista
Istruzione media

Dirigenti, impiegati, professionisti,  studenti, pensionati
pensionati, impiegati
Studenti, disoccupati
Operai, disoccupati, lavoratori autonomi, casalinghe

Nord-Ovest         Centro-Sud
Nord-Est                 Centro-Nord
Nord-Ovest                Sud e isole
Sud e Isole




Un ultimo passaggio dell’indagine svolta consente infine di ribaltare sugli orientamenti politici, sempre riferiti ai quattro partiti maggiori, la suddivisione dei quattro tipi così definiti individuando la presenza in percentuale sul totale dei voti raccolti delle quattro tipologie di elettore “post-globalizzazione”

Il dato del PD non presenta dubbi: la somma di vincenti puri (ben il 43%) e dei vincenti comunitari (34) evidenzia che più di tre suoi elettori su quattro rientrano nelle tipologie di coloro che non vivono il presente come una minaccia; a dimostrazione di una capacità di un buon rapporto con le componenti più dinamiche della società italiana, pagata però, con la sola eccezione dell’appoggio consolidato di una buona percentuale degli anziani, con la perdita del consenso dei settori sociali più marginali, quelli tradizionalmente più legati alla sinistra. Nel centrodestra il travaso di voti da FI alla Lega non ha comportato un cambiamento della base sociale di riferimento, ambedue questi partiti continuano a rappresentare un elettorato la cui caratteristica prevalente è quella della chiusura sulla comunità di appartenenza, un elettorato che vale il 38% di FI e ben il 49% della Lega. L’obiettivo della difesa della comunità di appartenenza trascina con sé anche una percentuale importante di perdenti puri, in buona misura composti da figure sociali (lavoratori autonomi, casalinghe) da sempre loro consolidato bacino elettorale, che vivono la globalizzazione come una minaccia.
Il M5s è invece quello che presenta una ripartizione fra le quattro tipologie più equilibrata, a conferma di una sua caratteristica di forza politica trasversale, in grado di intercettare consensi da tutti i settori sociali, ai quali si presenta in modo multi-ideologico, a volte di sinistra, a volte di destra, giocando ancora molto sulla sua caratteristica di forza ultima arrivata sulla scena con una forte valenza “anti-casta”.
Il dato in qualche modo riassuntivo sembra pertanto confermare l’assunto che i due partiti risultati perdenti insieme ottengono i consensi del 60% dei “vincenti”, risultato che si rovescia nel suo opposto con il 60% dei “perdenti” che premiamo i due partiti risultati vincenti.
Una situazione riassumibile con quello che va inteso come un semplice slogan (peraltro citato molto, non a caso, dalle due forze vincenti)  “noi, il popolo contro loro, l’establishement”; è presto per dire se questo stato di cose  è destinato a restare a lungo la chiave di lettura del rapporto fra l’Italia, gli italiani, e la politica, sono troppi i fattori in evoluzione che potranno incidere nel prossimo futuro su un voto ormai strutturalmente “liquido”, fluido e dinamico, di sicuro è quello che ha detto il voto del 4 Marzo.

……….certo è che le elezioni del 2018 hanno spinto ancora di più la democrazia italiana  lungo quella strada  che assieme alle altre democrazie (occidentali) aveva da tempo imboccato verso la “popolocrazia”………(da “Le divergenze parallele)