sabato 27 giugno 2020

"Come la Cina è diventata una superpotenza tecnologica"


“Occidente vs Oriente” si sta ormai imponendo come il principale terreno di confronto, e di scontro, economico e politico, ma al tempo stesso anche come, nel bene e nel male, un continuo fertile scambio di differenti esperienze e visioni del futuro. Al riguardo molto ci sarebbe da dire, e molto di certo si dirà nei prossimi anni, ci limitiamo nell’introdurre il seguente articolo/intervista che racconta del ruolo e delle forme della tecnologia cinese, ad una battuta: finora si è sempre detto che quello che succedeva negli USA tempo qualche anno sarebbe arrivato ovunque, adesso è tempo di dire che quello che succede in Cina tempo qualche mese arriverà ovunque?
Come la Cina è diventata

 una superpotenza tecnologica

Intervista di Andrea Daniele Signorelli (si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel 2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti” per Informant Edizioni) a Simone Pieranni (giornalista del Manifesto, ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014, tornandoci poi diverse volte, e ha appena pubblicato per Laterza “Red Mirror”) – sito online “Il Tascabile”
La piattaforma di messaggistica WeChat è uno dei principali simboli del graduale rovesciamento dei rapporti di forza, in campo tecnologico, e quindi politico, tra Cina e Occidente. WeChat nasce a Shenzhen, in Cina, nei laboratori del colosso digitale Tencent. In Europa fece una fugace apparizione: nel 2013, lanciato con un pubblicità in cui Lionel Messi, numero 10 del Barcellona, registrava e inviava un messaggio vocale. Al tempo i vocali non erano ancora stati introdotti in quasi nessuna delle app più popolari, qui da noi, e quello spot ci era parso una stramberia destinata a fallire, l’ennesimo tentativo di un’azienda cinese di sbarcare in Europa –  dove Whatsapp, iMessage, Messenger stavano già saturando il mercato –, con una copia di un prodotto occidentale. Dal ruolo sempre più dominante nel campo dell’intelligenza artificiale alla leadership nel settore smart city; dalla capacità di influenzare l’industria digitale del resto del mondo alle prospettive distopiche in termini di sorveglianza, liste nere e sistemi di crediti sociali: Red Mirror è un saggio che esplora l’avanzata digitale cinese e la sfida politica, tecnologica ed economica che pone al resto del mondo. Ma è proprio da WeChat che il libro inizia, con un racconto che riassume bene che cosa sia diventata questa app, oggi, per i suoi 1,2 miliardi di utenti (non solo ma soprattutto cinesi): WhatsApp, ApplePay, Google Maps, TripAdvisor, Groupon, email, MyTaxy, Uber, Google News. Tutto in un unico posto. Un sistema onnipervasivo, che riunisce in un unico ambiente ciò che noi utenti occidentali troviamo invece sparso in decine di applicazioni diverse – consentendo un’integrazione a noi sconosciuta – e che ha permesso alla Cina di fare un enorme salto verso la digitalizzazione di ogni attività. WeChat, in un certo senso, per i cinesi è internet stesso, ma più integrato, più funzionale, più efficace, più evoluto. Come direbbero alcuni: più smart. Sono finiti i tempi in cui la Cina copiava male le innovazioni che uscivano dai laboratori di ricerca della Silicon Valley, e oggi è Mark Zuckerberg che studia il modello WeChat.  “Si tratta però di un processo ancora in corso”, mi racconta Pieranni. “Per ora l’unico software cinese – quindi escludendo gli smartphone Huawei e di altri – che davvero va forte in Occidente è TikTok (di proprietà di Bytedance, ndA). Ma già adesso sempre più stranieri vanno in Cina a lavorare, anche perché, per esempio nel campo dell’intelligenza artificiale, si guadagna a volte ancora meglio che in Occidente. Arrivando più cervelli arriva anche più innovazione. La recentissima vicenda dell’ex top manager di Disney Kevin Mayer, diventato CEO di TikTok nel maggio 2020, è un altro esempio di come stia cambiando la dinamica e di quale sia la strategia cinese per entrare nel nostro mercato”. Nel frattempo i tentativi di Facebook e Google di entrare (o rientrare) sul mercato cinese non solo continuano a non dare frutti (nonostante i due colossi statunitensi siano disposti a qualunque compromesso pur di riuscire nell’impresa), ma sembrano ormai anacronistici. Perché la Cina dovrebbe (ri)accettare uno scomodo intruso come Google quando può utilizzare il motore di ricerca Baidu (la cui intelligenza artificiale è stata sviluppata da un pioniere del deep learning come Andrew Ng)? Perché dovrebbe aprire i confini a Facebook e Messenger quando i cinesi già usano Weibo, QQ e altri? “E infatti questi tentativi si sono ormai smorzati”, spiega Pieranni. “Google e Facebook avevano interesse a trovare spazio in Cina perché avevano capito molto bene, da tempo, che lì si potevano raccogliere enormi quantità di dati. Oggi credo che sia un’ipotesi tramontata: un po’ perché, con la nuova legge, i dati che raccogli in Cina devono restare su server cinesi, un po’ perché Facebook ormai coltiva buoni rapporti con la Cina allo scopo semmai di entrare nel capitale azionario di qualche azienda cinese”. I giganti cinesi (Baidu, Alibaba, Tencent) stanno mostrando di poter raggiungere quelli statunitensi (Google, Amazon, Facebook, Apple) e di poter fare a meno di parecchi di loro. Ma il successo di TikTok – forse ancor più della rivoluzione digitale di WeChat, che rimane per ora piuttosto confinata – è il simbolo più potente del rovesciamento in corso. Come avremmo reagito, solo pochi anni fa, se ci avessero detto che il social network più in voga del momento, che sta nuovamente rivoluzionando il linguaggio digitale, sarebbe stato un prodotto cinese? Per quanto imprevisti, questi scossoni non sono stati improvvisi o casuali. Sono anzi il frutto di una strategia inaugurata ormai più di un decennio fa: “Il processo era già partito da molto tempo, ma la vera svolta c’è stata nel 2008 con la crisi economica occidentale, che ha fatto diminuire gli ordini manifatturieri in Cina spronandola a spingere sull’innovazione”, prosegue Pieranni. “Era necessario non solo continuare a sviluppare un mercato interno, ma anche svincolarsi almeno in parte da una produzione manifatturiera che li teneva al livello globale più basso di guadagno. A partire dal 2008 hanno quindi iniziato a finanziare tantissime startup e a creare tante piccole Silicon Valley, tra cui Innoway a Pechino”. Fedeli al detto di Deng Xiaoping, secondo cui la Cina avrebbe cambiato il mondo nel momento in cui i cinesi all’estero sarebbero tornati a casa, il governo ha anche promosso il ritorno di scienziati e ricercatori formati in Occidente, e che in patria hanno trovato praterie da esplorare. Esiste un concetto, in campo economico, chiamato del leapfrogging, usato per descrivere il “salto della rana” che alcune economie emergenti possono fare: costrette, all’inizio, a usare tecnologie più sostenibili e efficienti, finiranno per saltare le tappe intermedie dello sviluppo industriale seguite dagli altri paesi, sorpassandoli in termini di innovazione. Per esempio, i pagamenti via smartphone in Cina hanno potuto diffondersi più rapidamente rispetto all’Occidente anche perché le carte di credito erano ancora poco diffuse. Una situazione che ha messo la Repubblica Popolare nella condizione di fare un “leapfrog”, saltando un passaggio e atterrando più avanti. Ma non è tutto. “Bisogna anche prendere in considerazione il modo in cui agisce la forte cornice cinese, dove c’è un partito che ha la capacità di coinvolgere un’intera nazione su alcuni progetti precisi”, precisa Pieranni. “Per esempio, a Xi Jinping è bastato nominare l’intelligenza artificiale in un paio di discorsi e in tempo zero sono sorti migliaia di corsi di laurea in deep learning. Oggi l’intelligenza artificiale viene insegnata già alle elementari. La capacità di mobilitazione cinese è qualcosa di cui non si può non tenere conto: quando il presidente pronuncia le parole ‘intelligenza artificiale’ tutti si buttano e si crea una feroce competizione, in cui la legge della giungla premia il valore di quelli che sono sopravvissuti dopo essersi scontrati con un mercato folle e velocissimo”. Finanziamenti, entusiasmo e capacità di mobilitare oltre un miliardo di persone: se si prendono in considerazione queste caratteristiche, si inizia a intuire quali siano i vantaggi strategici della Cina. “Ma non è tutto”, prosegue Simone Pieranni. “C’è un altro aspetto legato alla peculiarità politica della Cina. Non vorrei che passasse l’idea che i cinesi si facciano andare bene tutto, perché non è così, ma ci sono sicuramente meno barriere nei confronti dell’invasività tecnologica nella vita quotidiana. Quando in Cina si è iniziato a fare tutto con il riconoscimento facciale, nessuno ha battuto ciglio, anzi c’è stato entusiasmo nei confronti di un’innovazione che mostrava i progressi tecnologici cinesi. È una cosa che ha a che fare anche con alcune concezioni filosofiche cinesi, che impediscono la formazione di barriere etiche nei confronti dell’impatto della tecnologia sulla vita quotidiana. Tutto questo fa sì che la Cina possa procedere con balzi più ampi dei nostri”. Un altro aspetto cruciale, restando in campo di intelligenza artificiale, è quello dei dati: il bene primario con cui vengono nutriti gli algoritmi di deep learning e dei quali tutti i colossi tecnologici hanno una fame insaziabile. Anche da questo punto di vista, la Cina ha un cruciale vantaggio strategico, in quanto le leggi sono molto più permissive in termini di privacy e le consentono di raccogliere dati di ogni tipo da utilizzare per l’addestramento delle intelligenze artificiali. E che, dal punto di vista del controllo politico, un domani dovrebbero portare a quel in grado – proprio sulla base dell’analisi dei big data – di premiare i cittadini virtuosi e punire gli altri. Ma davvero i cinesi vivono con tale nonchalance la completa assenza di privacy a cui sono soggetti, tanto da accettare che, negli incroci più trafficati, dei maxischermi mostrino i volti e i nomi dei trasgressori? “Bisogna partire da un punto fondamentale: in Cina la privacy non è praticamente mai esistita. C’è sempre stato un controllo fisico molto forte. Si potrebbe risalire fino all’età imperiale, ma già nel 1949, con il maoismo, la configurazione delle città veniva immaginata affinché consentisse un controllo sociale totale da parte dei cittadini sui cittadini”, spiega Pieranni. “La cosa è proseguita anche con l’arrivo delle gated communities degli anni Novanta, cittadelle fortificate cinesi che non hanno nulla da invidiare a quelle immaginate da Ballard. Anche in questo caso, la loro progettazione è improntata alla possibilità che un cittadino ne controlli un altro. Il concetto di privacy non è mai stato preso più di tanto in considerazione, anche perché è ancora valido quel patto sociale tra partito e popolazione, che accetta il controllo e in cambio riceve città sicure”. Eppure, è proprio in quel patto sociale che si nascondono le insidie più pericolose per questo modello governativo. Per due ragioni. Abbiamo detto che i cinesi accettano tutta una serie di cose, bisogna però tenere presente che nella cultura e nel diritto cinese esiste il concetto di “revoca del mandato”: “quando chi gestisce il potere attua a lungo pratiche che la popolazione non accetta, questa ha il diritto di abbattere il potere: la stabilità cinese è più fragile di quanto non si creda”. Inoltre, la nascita e diffusione di una vera e propria classe media, tale non solo dal punto di vista economico ma anche a livello di società civile, non può che presentare sfide inedite al governo: “Con la pandemia le cose si sono un po’ arenate e, anzi, si è di nuovo potuta mostrare l’efficacia del controllo sociale nel tenere a bada il coronavirus. Nonostante questo, sta comunque nascendo una riflessione sulla privacy, anche in seguito all’ingresso del riconoscimento facciale in tutte le scuole, tutti gli uffici e anche nelle case. Eric Lee, che è il boss di Baidu, aveva per esempio iniziato da qualche tempo a porre problemi di etica dell’intelligenza artificiale e della raccolta dati”. Problemi che diventeranno sempre più pressanti, visto che la Cina è all’avanguardia anche nella progettazione delle smart city del futuro. Terminus, società di Pechino che si occupa della gestione digitale e intelligente di quartieri e compound, avrebbe già portato a termine oltre seimila progetti di smart city: città inevitabilmente verdi e sostenibili, rese intelligenti dall’uso della tecnologia, della raccolta dati, del dispiegamento di algoritmi in grado di regolare il traffico e di centrali di controllo che tutto analizzano. E in cui, ovviamente, le potenzialità di sorvegliare la popolazione aumentano a dismisura. La visione d’insieme, che unisca le città smart al progetto dei crediti sociali, mostra però come in Cina sia un corso un colossale esperimento di ingegnerizzazione della società. “È evidente come la Cina non stia proponendo solo dei nuovi sistemi urbanistici, ma dei veri e propri nuovi modelli di cittadinanza. Nelle smart city ci potrà vivere solo chi è ricco, ma tra i ricchi vi potranno accedere solo quelli che hanno un miglior punteggio. Attraverso le smart city si creano nuovi modelli sociali”. Grazie all’assenza di privacy, in poche parole, la Cina è avvantaggiata nella progettazione di dispositivi tecnologici che spesso vengono poi utilizzati per aumentare ulteriormente la sorveglianza, per esempio attraverso progetti scintillanti di città che sono in realtà un modello di sorveglianza totale in versione “verde” e digitale. Il fatto di essere uno stato autoritario ha fornito alla Cina alcuni vantaggi strategici, a partire dalla raccolta dati necessaria per lo sviluppo degli algoritmi di intelligenza artificiale. C’è ovviamente un elefante nella stanza: dal punto di vista della competizione tecnologica internazionale, il fatto di essere uno stato autoritario ha fornito alla Cina alcuni vantaggi strategici. “La conclusione che si può trarre è che la globalizzazione così com’è concepita oggi viene gestita meglio da un governo autoritario che da una democrazia, almeno a livello di competizione economica”, spiega Pieranni. “Non è necessario fare tutta una serie di compromessi con la società civile o con l’istituzione parlamentare a cui invece si è soggetti in democrazia. In effetti, se osservi ciò che avviene in Occidente in materia di governo, anche al di là delle emergenze gestite a colpi di decreto, è chiaro che questa dinamica è in atto da tempo anche da noi, e si vede anche dalle tante richieste di presidenzialismo o semipresidenzialismo. La Cina è ciò che molti paesi vorrebbero ma, per nostra fortuna, non possono essere”. L’impatto della Cina sul resto del mondo, però, non si limita all’innovazione tecnologica. Come gli Stati Uniti insegnano, una vera superpotenza che aspira all’egemonia deve puntare anche sull’industria culturale. Qualche segnale inizia a vedersi anche qui: come scrive Pieranni nel libro, il kolossal di fantascienza più importante degli ultimi anni è forse The Wandering Earth, di produzione e con attori cinesi; lo scrittore di fantascienza più famoso al mondo è il cinese Liu Cixin (da cui The Wandering Earth è stato peraltro tratto), mentre un’autrice sempre di fantascienza come Hao Jingfang è giunta fino in Italia con il suo Pechino Pieghevole (senza dimenticare il successo di parecchi videogiochi cinesi). Il dominio sulla cultura pop della Cina parte quindi dalla fantascienza? “Ci stanno puntando molto ed è anche merito di un fenomeno di massa come la vangluo wenxue, la letteratura online, con milioni di lettori ma anche di scrittori, da cui vengono tratte anche serie tv e videogiochi”, conclude Pieranni. “La Cina deve però ancora riuscire a fare il salto di qualità, perché al momento – anche per via della spinta da parte del governo – questa cosa della fantascienza rischia di trasformarsi in una bolla. In più devono liberarsi da un po’ di ‘cinesate’ e magari anche perdere un po’ di spocchia: non è possibile che in tutti i film ci sia la Cina che salva il mondo”. Nel libro Pieranni racconta anche la storia di Peng Simeng, giovane scrittrice di fantascienza che, grazie a un concorso di letteratura online, è riuscita ad abbandonare la carriera da product manager di Tencent: un’esistenza dedicata esclusivamente al lavoro che la faceva ormai sentire “come una macchina” capace solo di lavorare, “mangiare, bere, fare shopping e fare shopping”. La sua vicenda non è isolata, scrive Pieranni: gli scrittori della nuova fantascienza cinese provengono spesso da una formazione scientifica e hanno lavorato a lungo nella nuova filiera digitale, dove hanno vissuto un’oppressione simile a quella di Peng Simeng. “I ritmi sono diventati insostenibili”, conferma Pieranni. “Ormai la normalità è lavorare nove ore al giorno, che possono diventare anche 14 con gli straordinari, per sei giorni a settimana”. Visto con i nostri occhi di occidentali, l’aspetto più preoccupante è forse il fatto che questa tendenza al superlavoro si stia facendo rapidamente largo anche da noi: “C’è una sorta di sinizzazione del lavoro in Occidente: i nostri ritmi diventano sempre più simili. Nel libro riporto anche le parole di alcuni manager della Silicon Valley, che sottolineano come in Occidente si stia a discutere di diseguaglianze mentre in Cina lavorano come pazzi e raccolgono i risultati”. Anche in questo caso, la tendenza sembra quella di voler guardare al modello cinese sforzandosi di non notarne le criticità. Chiudiamo la nostra conversazione citando un altro caso esemplare e paradossale: quello relativo al controllo di stato sulla circolazione dell’informazione, che in Cina non si limita più ad affidarsi alla censura del Grande Firewall (che impedisce ai contenuti esteri sgraditi di arrivare fino agli utenti internet cinesi), ma si è fatto molto più sofisticato e si affida oggi all’intelligenza artificiale, alla polizia informatica e anche al cosiddetto “esercito dei 50 cent”, utenti pagati 50 centesimi per ogni commento favorevole al governo che postano sui social network e altrove, dirottando, o almeno bilanciando, le conversazioni critiche. “In questi casi non si può nemmeno parlare di censura, ma più di ‘accompagnamento’ dei dibattiti online”, precisa Pieranni. Il controllo dell’informazione si affida oggi all’intelligenza artificiale, alla polizia informatica e al cosiddetto “esercito dei 50 cent”, utenti pagati 50 centesimi per ogni commento favorevole al governo. “L’abbiamo visto anche in questi giorni, in cui Twitter ha cancellato migliaia di account cinesi di bot e troll che cercavano di guidare il dibattito e l’informazione su alcuni temi, tra cui le manifestazioni di Hong Kong. Anche in questo caso si tratta di metodi cinesi utilizzati oltre i confini e che diventano quindi un esempio molto interessante per i governi occidentali autoritari o simil-autoritari. Turchia e Russia imparano dalla Cina a fare queste cose”. In poche parole, si tratta di “turchi meccanici” il cui compito è di svolgere semplici e rapide operazioni sul web, per guidare la conversazione a favore del governo di Pechino. Un sistema talmente radicato, che “è diventato ormai uno sfogo per l’occupazione”, racconta Pieranni. “Parliamo di centinaia di migliaia di persone impiegate. Non è solo il governo, ogni azienda in Cina ha il suo ufficio della propaganda, che potremmo anche definire ufficio della censura. È uno dei tanti sistemi economici che la Cina ha messo in piedi. È diventato irrinunciabile”.

lunedì 15 giugno 2020

Articolo su Mario Palazzetti, nostro stimatisimo socio


E’ con molto piacere, e con una punta di orgoglio per averlo nostro socio e attivo partecipante alle nostre iniziative con interventi sempre puntuali e stimolanti, che pubblichiamo questo articolo che ci fa meglio conoscere lo straordinario curriculum professionale di Mario Palazzetti

Palazzetti, 84 anni e 80 brevetti:

 «Io? Sono solo un inventore»

Dal sistema Abs al Totem, alla casa passiva e ora anche una macchina anti-virus ma l’Italia ha preferito lasciare fruttare le sue invenzioni altrove

Articolo di Christian Benna – torino,corriere.it del 15 giugno
Da Vittorio Valletta a Elon Musk. Ottantaquattro anni e 80 brevetti. Mario Palazzetti ha smesso di contare: sia le candeline sulle torte di compleanno che tutte proprietà intellettuali che portano in calce la sua firma. Ma questo ingegnere elettronico torinese, in attività dal 1962, e fino al ‘96 a bordo della fucina hitech che era il Centro Ricerche Fiat, non riesce a smettere di innovare. L’ultima idea balzata all’onore delle cronache è il Biostopper, una macchina anti-virus che crea barriere biologiche attorno alle persone. E rende più serene le tavolate ai ristoranti ai tempi del Covid-19. Il progetto, sviluppato durante il lockdown, è in fase di test presso i laboratori del Politecnico di Torino. «Se continuo a sfornare invenzioni è perché evidentemente non riesco a farle fruttare», sorride Palazzetti, divertito ma con un pizzico di amaro in bocca. Perché l’ingegnere elettronico, in smart working da 20 anni almeno («sono un pensionato che a casa si dà da fare»), avrebbe potuto essere milionario. Un Elon Musk ante-litteram, «ma lui è il più bravo di tutti, è un imprenditore visionario, io sono solo un inventore».
Dal sistema Abs al Totem
Con i suoi brevetti Palazzetti avrebbe potuto riempirsi le tasche di milioni, o forse no, ma sicuramente, se fosse stato più ascoltato, avrebbe potuto tanta ricchezza per le aziende italiane. Eppure per qualche oscura ragione, ancora tutta da scoprire e da brevettare, l’Italia ha preferito lasciare fruttare le sue invenzioni altrove. In Germania e in Svezia per esempio, dove Volvo negli anni settanta lancia il sistema antibloccaggio Abs che consente la conducibilità di un veicolo anche durante le frenate. L’Abs, un vero e proprio dispositivo salva-vita, è stata poi commercializzata dalla Bosch diventando così uno standard nell’industria automobilista. Il sistema però prende il largo a Torino da un’intuizione di un giovane progettista del centro ricerche Fiat, Mario Palazzetti, entrato al Lingotto negli anni in cui dominava ancora la figura di Vittorio Valletta. «Anti-skid così chiamavamo questo sistema frenante: Fiat l’ha utilizzato negli Usa per qualche anno. Poi il marchio è stata ceduto alla Bosch». Quando Palazzetti varca per la prima volta i cancelli del Lingotto, nei primi anni sessanta, Fiat era ancora un monolite: industria di terra, mare, aria. «Tutto tenuto assieme, poi scorporato quando nasce l’Iva». Incontra Valletta e stringe la mano all’ Avvocato Gianni Agnelli. Sono gli anni in cui nasce il Centro Ricerche Fiat. E Palazzetti prevede che il risparmio energetico sarà il business del futuro. A suo nome brevetta il Totem: a partire da un motore Fiat crea un piccolo cogeneratore, ovvero una caldaia intelligente che produce elettricità oltre che calore. Un sistema che consente il recupero dell’energia. Fiat sforna queste macchine in piccola quantità fino al 1985, poi smette di investirci. Era la stagione del nucleare. A che serve risparmiare energia se i reattori ne forniscono in abbondanza? Oggi la Germania utilizza più di 300 mila di questi micro-generatori a stormo. In Italia solo la torinese Asja Ambiente ne ha portato avanti la commercializzazione.
La casa passiva
Negli ultimi anni il lavoro di Palazzetti si concentra sull’ambiente, sulla casa passiva, edifici autonomi dal punto di vista energetico. Tanto che i teorici della decrescita felice, come Maurizio Pallante e Serge Latouchee, lo eleggono a guru del loro movimento. Mario Palazzetti lascia perdere la teoria e continua a inventare cose concrete. Propone a Gtt e al Comune di Torino una strada elettrica. Al posto dei fili che fanno viaggiare tram, immagina strade che ricaricano le vetture. la proposta cade nel vuoto. «L’auto elettrica?» si sente dire. «Pura fantasia». Palazzetti è non pentito per niente. «Gli inventori devono fare gli inventori. A far fruttare le idee ci vogliono imprenditori veri, come Elon Musk. Ma in Italia abbiamo imprenditori di questa razza?».

Comunicare la scienza in tempo di crisi


Uno dei più sottolineati effetti collegati alla pandemia è stata la diffusa attenzione verso il mondo della scienza, ed in particolare verso quelle sue specializzazioni più inerenti alla epidemia. E, conseguentemente, mai come in questo periodo media, Rete, social hanno dedicato ampio spazio a servizi, notizie, dati e dibattiti sul tema e più in generale sul mondo della scienza. Una valanga di momenti divulgativi strettamente connessa ad una richiesta ed un attenzione del tutto comprensibili e per molti versi confortanti, che si spera possano sedimentare in molti un interesse duraturo. L’esperienza concreta avvenuta in questi mesi ha evidenziato però che questo incontro tra “popolo” e “scienza” ha colto ambedue in qualche modo impreparati. Per il “popolo” si è trattato ovviamente di recuperare almeno in parte un notevole deficit di conoscenza e informazione, la “scienza” invece è stata chiamata a calibrare su questa platea amplissima i suoi consolidati canali di comunicazione di norma specialistici e selettivi anche quando divulgativi. Al di là della effettiva capacità di soddisfare le diffuse esigenze di approfondimento la stessa speranza che questa eccezionalità si confermi in una attenzione costante è quindi affidata a quella di ottimizzare tale comunicazione garantendo i due requisiti fondamentali: chiarezza, comprensione e validità scientifica. Il seguente articolo riflette sull’esperienza concreta di questi mesi ed offre interessanti indicazioni in questo senso

Comunicare la scienza in tempo di crisi
Come è stata affrontata l’emergenza COVID-19 dal mondo della divulgazione? Un dialogo a più voci su nuovi ostacoli e antiche incomprensioni.

Articolo di Fabio Gironi (filosofo, traduttore,  giornalista) – sito online Il Tascabile

Se c’è una lezione, semplice ma cruciale, che possiamo trarre dalla pandemia che ha colpito il pianeta negli ultimi tre mesi, è che il mondo della ricerca scientifica è un sistema incredibilmente complesso, composto da centinaia di migliaia di persone, centri di ricerca, laboratori, fondi, ipotesi, esperimenti, conferme e smentite. Cercare spiegazioni semplici di fenomeni complessi è nella natura umana, ma non sempre è possibile, neanche restringendo il campo di analisi a una sola sfera del sapere, o a una singola disciplina scientifica. Lo sa bene chi, per mestiere, cerca di rendere accessibile il mondo della ricerca scientifica al pubblico: divulgatori, comunicatori e giornalisti scientifici. Se già prima di quest’emergenza la comunicazione della scienza richiedeva la costante e niente affatto banale ricerca di un equilibrio tra rigore e accessibilità, nel pieno della crisi coronavirus la mole di pubblicazioni scientifiche da assimilare e presentare al pubblico — nuovi studi, dati, preprint, trend statistici, e così via — è aumentata, per una volta è il caso di dirlo, esponenzialmente. Grandi e piccole testate giornalistiche che, normalmente, avrebbero pubblicato poche notizie scientifiche al mese hanno iniziato a parlare quasi unicamente di concetti che, di solito, sono relegati alla stampa di settore: virus a RNA, curve logaritmiche e esponenziali, il parametro R0, droplets, mascherine N95 — tutti termini di cui, nostro malgrado, siamo diventati improvvisamente esperti. Come è stata affrontata la crisi da parte del mondo della comunicazione scientifica? Quali problemi sono emersi, e quali sono i più importanti da affrontare, sia di forma che di contenuto? Ho voluto parlarne con tre persone che, in maniera diversa, durante i mesi dell’emergenza sanitaria hanno provato a fare ordine, a riportare al pubblico in modo chiaro un quadro epidemiologico complesso e, soprattutto, in costante evoluzione. Roberta Villa è una giornalista scientifica, scrive anche per il Tascabile: specializzata in medicina e biologia, da anni si distingue per una strategia comunicativa accessibile ma sempre responsabile e cauta, e per il suo uso dei social media, delle storie video si Istangram, per raggiungere direttamente il pubblico. Giorgio Sestili è un fisico, coordinatore e fondatore di “Coronavirus: dati e analisi scientifiche”  , un gruppo di analisi dei dati emerso prima su Facebook e poi su altri canali social, che ha fornito un eccezionale servizio di interpretazione e “sistematizzazione formale” dei tantissimi dati e grafici che hanno provato a tracciare l’evoluzione della pandemia in Italia e nel mondo. Alexander Bird è professore di filosofia della medicina al King’s College di Londra, e ha prodotto una serie di testi e video divulgativi mirati a chiarire gli aspetti più formali dell’analisi dei dati e della costruzione di modelli epidemiologici, il concetto di immunità di gregge e la risposta alla pandemia del governo britannico.

Comunicare la scienza, in condizioni normali, non è un compito facile, e la situazione in cui ci troviamo ha aggiunto difficoltà: ad esempio non è solo il contenuto o i meccanismi interni della disciplina scientifica che va comunicato, ma c’è una situazione di evoluzione costante, e un flusso continuo di dati che richiede un’analisi “formale” (epidemiologica, statistica, e probabilistica) che forse è ancora più difficile da interpretare senza una preparazione matematica. Ci sono state moltissime iniziative da parte di scienziati e comunicatori per cercare di rendere la situazione più chiara, riassumendo le informazioni più attendibili. Quale è stato l’ostacolo più grande in questa situazione di mutamento continuo delle informazioni disponibili?

GIORGIO SESTILI = La difficoltà di comunicazione più ovvia, ma più importante, durante la pandemia, è stata avere a che fare con un virus di cui quattro/cinque mesi fa non conoscevamo nemmeno l’esistenza. Gli scienziati in tutto il mondo si sono messi rapidamente a fare ricerca, cercando di capirne il funzionamento: cosa che però ha prodotto uno spaventoso sovraccarico di informazioni. In pochissimi mesi, sono stati prodotti migliaia di paper e preprint scientifici. Questa marea di informazioni è composta da una piccola parte di ricerche eccellenti, una buona parte di pubblicazioni che generano solo rumore di fondo, e una grandissima parte che non supera neanche una fase di review. È una rincorsa che ha reso il nostro lavoro ancora più complicato, dato che è necessario scegliere attentamente le fonti e capire cosa, di ciò che viene pubblicato dalla comunità scientifica, meriti un ragionamento pubblico.  Il secondo ostacolo è quello relativo ai dati: ogni giorno ci troviamo di fronte a dati che vanno prima analizzati e poi comunicati, e ci siamo resi conto, giorno dopo giorno, di aver a che fare con dati spesso completamente falsati: numeri che si discostano molto dalla reale fotografia della situazione (questo è vero in Italia ma anche in tanti altri paesi, tutti quelli che sono stati presi di sorpresa dal virus e si sono visti costretti a rincorrere una situazione in evoluzione, senza poterla affrontare fin dal suo inizio). Considera ad esempio il fatto che ora sappiamo che il virus in Italia ha circolato per almeno un mese senza che nessuno se ne accorgesse (tra gennaio e febbraio), e che il numero dei casi conteggiati è ampiamente sottostimato, cosa che sembra dimostrata da quel 14% di letalità – una percentuale che chiaramente non è attendibile. Lo abbiamo visto anche più recentemente: il Ministero della salute ha emanato un protocollo in 21 indicatori per il monitoraggio della diffusione, ma le regioni non sembrano essere in grado di comunicare tutti i dati richiesti.

ROBERTA VILLA = In questa situazione c’è un concetto chiave da considerare: quello di responsabilità. In “tempo di pace” una comunicazione della scienza scorretta può avere poco impatto, o averlo pian piano nel tempo, lasciando così la possibilità di essere corretta in seguito. Ma, in una situazione di emergenza come questa, una comunicazione scorretta porta con sé una responsabilità sociale enorme, che si può contare in termini di vite umane. Ritengo che un’accurata presentazione dell’incertezza e la responsabilità di una comunicazione corretta sono stati i due elementi più delicati di questa crisi – non solo per quello che riguarda potenziali notizie false, ma anche riguardo a notizie vere. Il comunicatore ha anche il compito di gestire l’emotività della popolazione, e a volte si trova a dover gestire situazioni difficili. Ad esempio, quando ho visto per la prima volta il documento della SIAARTI — che specificava le linee guida per i rianimatori, e i criteri da seguire in caso di necessità — pur sapendo che queste cose succedono abitualmente, nondimeno ho deciso di aspettare qualche ora a parlarne, e ho meditato un po’ sul da farsi. Poi la notizia è uscita con titoloni acchiappa-click sui giornali, e a quel punto ho cercato di spiegarne il significato a chi mi seguiva. Tuttavia ho esitato, perché mi sono resa conto che riportare quella notizia poteva dar luogo a fraintendimenti (come infatti è successo) ma soprattutto poteva generare disperazione, in casi estremi spingendo le persone a non rivolgersi agli ospedali per paura di non ricevere assistenza.

ALEXANDER BIRD = In generale esistono diverse categorie di problemi. Come hai accennato, ci sono problemi relativi a ciò che il pubblico è in grado di comprendere, considerato il tipo di educazione scientifica che abbiamo. L’ostacolo più ovvio forse è il fatto che molti, comprese persone istruite, “spengono” la propria attenzione quando vedono un numero o un’equazione. Usare diagrammi e altre immagini per trasmettere un’idea può essere di aiuto, ma ci sono limiti a ciò che si può ottenere in questo modo. È un peccato, soprattutto perché questa reazione negativa anche al più semplice formalismo matematico è un riflesso mentale — il solo vedere qualcosa del genere porterà molte persone a dirsi, inconsciamente: “questo non lo capirò, quindi non ci provo neanche”. Un’altra categoria di ostacolo riguarda i comunicatori scientifici. Devono fare delle scelte, in particolare scegliere tra accuratezza e intelligibilità. Immagina di voler trasmettere un’idea scientifica complessa: un modo per farlo è quello efficace ma rozzo, un metodo inaccurato, che lascia fuori molti dettagli, e che per certi versi può anche essere fuorviante. Un altro modo è molto più fedele ai fatti scientifici, ma non sarà comprensibile a buona parte del pubblico. Quale scegliere? Si può essere tentati di provare il secondo approccio: dopotutto, ci interessano la verità e l’accuratezza scientifica. Inoltre, il comunicatore scientifico non vuole apparire ingenuo, o essere accusato di semplificare eccessivamente i temi che affronta — in particolare vuoi essere preso sul serio dagli stessi scienziati. Tuttavia, se vogliamo comunicare, scegliere il primo metodo potrebbe spesso essere la scelta migliore.

Quello dell’incertezza sembra essere un concetto chiave, spesso non molto chiaro al pubblico. Allo stesso modo, l’idea di “disaccordo” tra gli scienziati viene spesso fraintesa come una cronica mancanza di consenso che rende qualsiasi opinione inattendibile.

ROBERTA VILLA =  Sì, la criticità maggiore è l’incertezza, soprattutto in un mondo — come quello della cultura italiana — in cui negli ultimi anni è circolata un’idea della scienza come qualcosa di granitico, capace di asserire verità con la stessa certezza che 2+2=4. Questo è un messaggio controproducente, che offre una descrizione erronea di una disciplina che si nutre di dubbi e di domande. È stato difficile per chi comunica la scienza, ma probabilmente anche per il pubblico, affrontare una situazione dove domina l’incertezza e, come si diceva, in continuo divenire: queste circostanze hanno presentato una visione della scienza che è sicuramente più realistica, ma in contrasto con quella che è stata diffusa negli anni passati.

GIORGIO SESTILI = Nel lavoro che abbiamo fatto con il nostro gruppo, abbiamo sempre cercato di inserire il dato all’interno di una tendenza: da dove veniamo e a che punto siamo della curva epidemica, per esempio, cosa ci aspettiamo per i prossimi giorni? Facendo il paragone con altri modelli e altri paesi abbiamo cercato di presentare degli andamenti, sempre tenendo ben presenti i dubbi e le incertezze. Questo è molto importante: chi fa comunicazione scientifica non deve vendere certezze. Dove non ci sono certezze è molto importante che questo stato di incertezza sia comunicato, ammettendo apertamente: “questo la comunità scientifica ancora non lo sa”. Noi lo abbiamo sempre fatto e mi sembra che il nostro pubblico lo abbia molto apprezzato.

ALEXANDER BIRD = Sì, spesso il pubblico ha difficoltà a metabolizzare il disaccordo tra scienziati, e questo problema può essere aggravato dai media, quando danno l’impressione che ci sia ancora più disaccordo di quanto non ne esista realmente. Ad esempio, ricordo che quando Andrew Wakefield pubblicò il suo famigerato articolo che ipotizzava un legame tra l’autismo e il vaccino trivalente contro morbillo parotite e rosolia, in radio gli fu dato lo stesso tempo che fu destinato ai medici che presentavano l’opinione condivisa (allora e oggi) che tale legame non esistesse affatto. Di conseguenza, agli ascoltatori sembrò, erroneamente, che ci fosse una vera incertezza scientifica — questo “equilibrio” non rifletteva la divisione dell’opinione tra gli esperti medici. La stessa cosa succede oggi con i negazionisti climatici. Quindi, nella comunicazione scientifica, è importante non sopravvalutare il disaccordo e sottolineare l’alto grado di accordo, quando esiste. Quando discutiamo delle previsioni degli scienziati riguardo al clima, è importante che i comunicatori scientifici spieghino chiaramente che, benché vari scienziati usino modelli che potrebbero non essere d’accordo su alcuni dettagli delle loro previsioni, tutti concordano sull’esistenza di cambiamenti climatici antropogenici, e che questo rappresenta per tutti un problema serio. La domanda è a questo punto: come mai molte persone fraintendono il disaccordo scientifico e l’incertezza della ricerca scientifica? Personalmente attribuisco questo problema all’educazione scientifica a scuola, che si concentra sui prodotti della scoperta scientifica piuttosto che sui processi della scoperta scientifica. Ci viene insegnato il contenuto della scienza, e quel contenuto è limitato ai fatti accertati. Veniamo esaminati sulla nostra conoscenza di tali fatti e sulla nostra capacità di manipolarli, e ragionare con essi.  Da un certo punto di vista questo è giusto, dal momento che ci sono fatti scientifici consolidati che è necessario capire. Ma è un quadro incompleto di cosa sia la scienza.

Mi sembra che questa situazione abbia anche evidenziato problemi riguardo al modo in cui i media mainstream riportano le notizie, spesso in modo poco accurato o sensazionalistico. 

GIORGIO SESTILI = A me piacerebbe che tutti i media di informazione istituissero al proprio interno una redazione scientifica, dal momento che sono veramente pochi quelli che hanno giornalisti scientifici a tempo pieno. Benché ci siano anche stati casi di ottima informazione (e vorrei citare il canale Ansa “Scienza e Tecnica” come esempio virtuoso), mi sono reso conto, collaborando con alcuni importanti quotidiani sia cartacei che online, di come queste testate si siano ritrovate a parlare di scienza tutti i giorni senza avere le competenze, all’interno delle loro redazioni, per farlo. Questo ovviamente ha generato problemi, dato che si sono dovuti rapidamente adattare a questa situazione di emergenza. Ma considerato che dovremo fronteggiare anche in futuro dei temi importanti che ci porteremo avanti tutta la vita — come questo virus — è necessario affrontare questo problema di competenza giornalistica in modo più sistematico.

ROBERTA VILLA = La situazione in cui ci siamo trovati, durante la quale si è reso necessario coprire la notizia 24 ore al giorno su tutte le televisioni e giornali, ha messo in luce il fatto che nella maggior parte delle redazioni mancano giornalisti scientifici, mentre di solito ci sono esperti di economia o di sport. I pochi che, come me, sono stati coinvolti, sono stati intervistati in qualità di “esperti”, ma solo raramente hanno potuto svolgere il loro ruolo, quello di gestire la comunicazione, mediandone la complessità e rivolgendo in prima persona domande appropriate a medici e scienziati. Aggiungo un aneddoto piuttosto curioso: io ho dovuto spesso insistere per essere presentata, appunto, come “giornalista scientifica”, perché nel mondo della stampa italiana la figura di “giornalista scientifico” è misconosciuta: al massimo vengo definita giornalista e divulgatrice scientifica, ma il termine “giornalista scientifico” — che indica una competenza specifica, come nel caso di un “giornalista sportivo” o un “giornalista economico” — non viene considerato.

Certe distinzioni e idee importanti — ad esempio la differenza tra il concetto di prova scientifica e quello di trend statistico; epidemia e pandemia, o l’ormai famoso indice di riproduzione R0 — vanno spiegati con chiarezza a un pubblico che potrebbe non sempre esserne al corrente. Personalmente mi sembra che ci sia una grande difficoltà a comprendere quello che succede nella “scatola nera” della scienza, nel momento di attività pratica che va dalla scoperta di un problema alla sua risoluzione (ad esempio, dall’isolamento di un nuovo virus allo sviluppo di un vaccino).

ALEXANDER BIRD = Sì, penso che tu abbia ragione. L’attuale crisi ha permesso alle persone di vedere ciò che gli scienziati fanno in tempo reale, e hanno anche potuto vedere che la produzione scientifica può essere molto disordinata. Spero che si sviluppi una consapevolezza del fatto che è del tutto normale, e che la confusione che caratterizza il processo non compromette l’affidabilità del prodotto. Ma una cosa più specifica che spero che il pubblico comprenda meglio è il fatto che gli scienziati lavorano molto spesso con i modelli. I modelli possono essere strumenti molto potenti. Tuttavia hanno dei limiti: in genere comportano una sorta di semplificazione, che in alcune circostanze potrebbe essere eccessiva, e controproducente. Oppure il modello potrebbe essere appropriato, ma i dati necessari per comprendere e prevedere un particolare fenomeno potrebbero essere inaffidabili. La probabilità è un altro aspetto generale del pensiero scientifico che è estremamente importante, e che dovrebbe essere compreso meglio. La ricerca psicologica ci ha dimostrato che noi tutti facciamo fatica a ragionare con le probabilità. Per farlo bene, è necessario utilizzare metodi formali. Ma, come abbiamo detto, ci sono molte resistenze a qualsiasi approccio formale o matematico.

GIORGIO SESTILI = Bisogna anche dire che dipende dal livello di interesse e della cultura scientifica del pubblico a cui ci riferiamo. Chi segue giornalmente la nostra pagina Facebook ha avuto sempre modo di ricevere informazioni dettagliate e, ad esempio, abbiamo sempre detto che l’ipotesi di 12/18 mesi per sviluppare un vaccino è molto ottimistica, perché in passato non è mai stato raggiunto un vaccino in così poco tempo (se non il vaccino influenzale, ma quella era una situazione ben diversa, perché era un virus ben conosciuto). D’altro canto c’è anche un’enorme fetta di pubblico che non ha una grande cultura scientifica e rischia di prendere informazioni che riceve a pezzetti, senza un contesto appropriato: questo è un problema che si risolve solo incentivando l’educazione scientifica.

ROBERTA VILLA = Io vado forse un po’ controcorrente riguardo all’idea che il pubblico sia scientificamente poco colto o — soprattutto — poco interessato. Credo poco a questa emergenza di analfabetismo funzionale di cui si sente spesso parlare: non sono d’accordo perché i dati ci dicono diversamente, e perché è evidente che oggi ci sia una cultura maggiore di 40 o 50 anni fa — quando c’era un vero analfabetismo, un ben minore livello di scolarizzazione, e una scarsa comprensione delle notizie. Piuttosto credo che oggi ci sia una confusione causata da un eccesso di informazioni: le persone, proprio perché sono più scolarizzate, tendono a volersi fare un’idea riguardo a tutto, hanno a disposizione internet che gli permette di arrivare a tutte le fonti di conoscenza, e quindi possono facilmente rimanere confuse, accedendo a notizie per le quali non hanno un background sufficiente, per interpretarle e contestualizzarle nel migliore dei modi. Bisogna anche aggiungere che, quando diciamo che le persone non hanno competenza, ci dimentichiamo che la scienza è un mondo enorme, di grande complessità e che ha un suo linguaggio molto tecnico. Si pensi allo “spread” — termine che abbiamo iniziato a capire solo dopo la crisi del 2008 — o al “parametro R0” che abbiamo imparato in questi mesi. Questo è per dire che il rischio che si è sviluppato negli ultimi anni è quello di pensare che l’unico ambito che possa essere preso come metro di misura per le capacità cognitive del pubblico sia quello scientifico. Ci sono diversi ambiti di conoscenza: un avvocato può capire poco di buchi neri ma saprà interpretare una sentenza, mentre se io non comprendo una sentenza, sono più preparata per parlare di vaccini, e così via. Questa mi sembra una considerazione importante che ti permette, nell’ambito della comunicazione, di approcciarti in una maniera più rispettosa. Detto questo, sono d’accordo che raccontare meglio il processo pratico della scienza — piuttosto che i risultati, che possono sempre essere oggetto di cambiamento — sia importante ed affascinante. Ma soprattutto quando si parla di metodo scientifico l’obiettivo dovrebbe essere quello di correggere questo errore di comprensione, di convincere il pubblico che la scienza è un processo in divenire, che si nutre di domande e di dubbi, e che la sua bellezza è proprio questa capacità di farsi delle domande e di avanzare gradualmente. Spero che questa pandemia abbia perlomeno questo effetto, piuttosto che quello di diminuire la fiducia nella scienza. E spero che ci serva anche a capire che, anche per quanto riguarda questioni diverse dal coronavirus, se riceviamo informazioni contrastanti rispetto a questo o quell’argomento non è perché la scienza sbaglia, ma perché le evidenze cambiano, e spingono a volte in un senso, a volte un altro. In ogni dato momento sono la migliore guida a nostra disposizione, e non un vangelo immutabile. Difendere un’immagine granitica e immutabile della scienza significherebbe anche suggerire che la scienza non ha bisogno di essere sostenuta e finanziata: se abbiamo già la Verità in tasca, perché fare ricerca?

Per fronteggiare il sovraccarico di informazioni a cui siamo stati esposti in questi mesi, è legittimo pensare che il comunicatore scientifico debba fungere da filtro tra scienza e pubblico, spiegando risultati assodati ma evitando di riportare ogni singolo passo del processo di continuo disaccordo tra gli scienziati che, solo alla fine, conduce a un consenso? In altri termini: esporre il pubblico agli aspetti più “disordinati” della ricerca scientifica non rischia di diminuire la fiducia nella scienza?

GIORGIO SESTILI = A mio parere bisogna fare un discrimine. Un conto è il normale dibattito interno alla comunità scientifica, tramite cui la scienza fa progressi: vengono pubblicati molti studi, alcuni vengono accettati altri rigettati. Il compito di chi fa comunicazione scientifica è quello di mettere ordine. Dobbiamo partire dal presupposto che una comunicazione errata può generare confusione. Faccio un esempio molto pertinente: i famosi studi sul particolato atmosferico tramite cui il virus si sarebbe diffuso. Perché, benché fossero studi senza evidenza scientifica, hanno avuto così tanta risonanza, ricevendo moltissima attenzione dai media nazionali? Probabilmente perché, per i giornali, era una notizia interessante da pubblicare, perché avrebbe fatto scalpore. Noi, come anche altri, abbiamo pubblicato un post spiegando perché queste ricerche non avessero ancora una solida base scientifica. Chi fa comunicazione scientifica è sia un collante che un filtro tra la comunità scientifica e la società, e saper metter ordine nelle informazioni è fondamentale. Detto questo, non direi che questa situazione abbia creato una maggiore sfiducia negli scienziati, anzi: noi proveniamo da un periodo durante il quale la scienza è stata messa molto in discussione (ad esempio nel contesto del dibattito attorno ai vaccini), ma questa pandemia mi sembra che abbia rimesso il ruolo della scienza e dello scienziato al centro della società. Ogni governo oggi ha una task force di scienziati a cui rivolgersi, e nessuna decisione viene presa senza prima consultare il loro parere. Questo non significa che gli scienziati si possano sostituire alla politica: guai a pensare che gli scienziati possano prendere il posto dei politici. Però la politica si può affidare al parere di esperti, per poter avere un quadro chiaro sulla base del quale prendere decisioni. 

ROBERTA VILLA = Aggiungo che è necessario distinguere diversi ruoli che spesso tendiamo ad assimilare: il comunicatore, il giornalista e il divulgatore. Questi sono ruoli diversi con compiti diversi. Oltre a questo, però, per rispondere alla tua domanda bisogna anche considerare chi si ha di fronte, e quale è il target della comunicazione. Io lo vedo bene con i miei follower su Instagram, ad esempio. Seguendomi da tempo hanno compreso che qualunque studio di cui parlo rappresenta sempre un piccolo, e provvisorio, pezzo del puzzle scientifico, e non una verità assodata. Faccio un esempio: la mammografia. Viene spesso presentata come un test assolutamente fondamentale e del tutto affidabile, sebbene a livello scientifico vi siano dei dibattiti: sul ruolo della sovradiagnosi, sull’età a quale sia più opportuno farla, e così via. Al pubblico generalmente si dà un messaggio molto più certo, e a volte anche parzialmente scorretto. Io mi sono interrogata a lungo su questo problema, e per molto tempo ho evitato di parlare dei dubbi che circondano questo tipo di screening, poiché ci sono voluti talmente tanti anni per convincere le persone alla necessità di sottoporvisi che sollevare dubbi rischiava di creare una confusione pericolosa. Quanto più i temi scientifici sono delicati, e hanno un impatto sulla vita delle persone, tanto più è necessaria cautela: il che non significa nascondere le cose, ma riportarle solo in maniera cauta e corretta.

ALEXANDER BIRD = Io credo che il fraintendimento del disaccordo tra scienziati derivi anche dalla trasformazione del metodo scientifico in un mito. Dal voler parlare cioè del metodo scientifico come di un mezzo unico e inequivoco per produrre conoscenza, comune a tutta la scienza e la cui corretta applicazione si traduce sempre e infallibilmente in nuove conoscenze. Se l’immagine della ricerca che uno ha è questa, o è influenzata da questo mito, allora il disaccordo scientifico risulta incomprensibile: come fanno due gli scienziati che stanno applicano entrambi il metodo scientifico in modo appropriato a essere in disaccordo? Dovrebbero necessariamente finire per essere d’accordo, proprio come due cuochi che, seguendo attentamente la stessa ricetta, devono finire con lo sfornare torte simili. Da qui può scatenarsi una reazione a catena di sfiducia – verso gli scienziati, le loro ricerche, il metodo scientifico – che, alla fine, può portare a mettere in dubbio l’affidabilità di tutta la scienza. L’obiettivo di una migliore educazione scientifica — e di un più accorto giornalismo e comunicazione scientifica — dovrebbe essere quello di dipingere un quadro più dettagliato e realistico dei processi di scoperta.  Bisogna eliminare il mito del metodo scientifico, non ne esiste uno  

Questa crisi ha mostrato con particolare urgenza i limiti della comunicazione che ha luogo tra la sfera politica e la sfera scientifica. La politica vuole indicazioni precise per prendere misure da attuare nell’immediato, la scienza fornisce risposte provvisorie e trend statistici. Questo mi sembra dipenda anche da una profonda differenza nella concezione del tempo: lo scienziato costruisce le proprie ipotesi sulla base di secoli di conoscenza pregressa, è consapevole del lento e cauto progresso della ricerca, e guarda al futuro della propria disciplina. Il politico ha un limite temporale preciso (il mandato) che è molto più breve, e quindi i due registri decisionali si vengono a scontrare. Qual è la strategia più efficace per colmare questo gap tra scienza e politica? Bisogna cercare di cambiare l’approccio dei per fare pressione indiretta sulla sfera politica?

 ALEXANDER BIRD =  Abbiamo già citato le nostre difficoltà a ragionare con i concetti di probabilità e rischio. Siamo tutti soggetti a vari tipi di bias cognitivi, tendiamo tutti (anche gli scienziati) a commettere errori di ragionamento probabilistico. E invece, come dici, i politici vorrebbero risposte inequivocabili ed immediate, ma gli scienziati possono spesso fornire solo risposte probabilistiche, e risposte che, in più, cambiano nel tempo, man mano che vengono raccolte nuove prove, come nel caso di questa pandemia. Quando la scienza è incompleta e i politici vogliono risposte immediate il rapporto tra buona scienza e buona politica si lacera. Per ripararlo, pensare che la soluzione sia l’educazione dei soli politici o del solo pubblico è un’illusione. Una considerazione sobria della scienza e dei suoi limiti dovrebbe essere parte permanente del discorso pubblico, accessibile a tutti i partecipanti. Detto questo, se, per ipotesi, come comunicatori della scienza dovessimo scegliere un solo gruppo a cui parlare, penso che bisognerebbe mirare al pubblico, perché qualora l’opinione pubblica fosse allineata con la scienza, i politici sarebbero costretti a seguire la sua volontà.

ROBERTA VILLA = Credo anch’io che sia più importante puntare sulla sensibilizzazione del pubblico, dato che il politico cerca il consenso. Ma è anche importante fornire alla politica quelle competenze scientifiche che gli mancano. Ad esempio: io apprezzo molto l’esistenza, in alcuni paesi, di uffici parlamentari di consulenza scientifica – come il POST (Parliamentary Office of Science & Technology) nel Regno Unito. Si tratta di commissioni di esperti in grado di tradurre la scienza in un linguaggio comprensibile e utile ai politici, che vengono consultate nel momento in cui ci siano decisioni da prendere riguardo a temi scientifici. Raccolgono tutte le evidenze disponibili al momento, filtrando tutti i possibili conflitti di interesse che possono avere gli scienziati, e fornendo quindi alla politica dati e documenti rilevanti. Questi documenti vengono poi anche messi a disposizione del pubblico, per informarsi e per vedere in che modo verranno poi tradotte dai decisori politici – cosa che in Italia è sempre poco chiara.

GIORGIO SESTILI = Quello del rapporto tra scienza e politica è un punto fondamentale: c’è un problema temporale che pertiene alla gestione di grandi fenomeni come le pandemie, i cambiamenti climatici, o i terremoti: eventi ciclici, che siamo sicuri che avverranno, pur non sapendo quando, e per cui dobbiamo essere pronti. La prossima pandemia potrebbe arrivare tra 30 o 40 anni, come il mese prossimo. Come hai detto bene tu, la politica è abituata a ragionare di anno in anno, o al massimo in vista delle prossime elezioni e questo è un problema enorme, perché significa che saremo sempre impreparati a gestire questi fenomeni, come abbiamo visto nel caso di COVID-19. Come si risolve questo problema? Io credo molto nelle spinte dal basso, penso che dalla società possano venire importanti spinte di cambiamento, e che quindi il ruolo degli scienziati e dei comunicatori scientifici sia quello di creare una cultura scientifica e una consapevolezza dei problemi e dei rischi, così che da questa consapevolezza potranno nascere delle spinte a far meglio di come si sta facendo ora. Poi certo, esistono anche i culturale dall’alto, top-down, che va a investire tutta la società. Sarebbe necessario cominciare a delineare piani strategici a medio-lungo periodo, aggiornare i piani pandemici, attuare delle politiche a lungo termine relative ai problemi climatici, e via dicendo. Queste sono tutte misure che non servirebbero solo a salvarci in un momento di crisi, ma che produrrebbero cambiamenti culturali enormi.

Si sente spesso parlare della necessità di “non tornare a come eravamo prima”, ovvero di cercare di trasformare questa crisi in un’opportunità di cambiamento, per migliorare la nostra condizione (in campo sociale, economico, ambientale…) ed essere quindi più pronti ad affrontare un’inevitabile futura crisi — da una nuova pandemia alla spada di Damocle dei cambiamenti climatici. Seguendo questo sentimento, quali sono le ripercussioni più positive che potrebbero verificarsi nel campo della produzione e della comunicazione della scienza? Esistono nuove tensioni all’interno dell’opinione pubblica che sarà possibile sfruttare per promuovere un nuovo tipo di coinvolgimento?

ALEXANDER BIRD = Sarebbe bello se questa crisi potesse avere un effetto positivo di questo tipo. Vale la pena tentare. Un pessimista potrebbe dirti che, per molti, il consumo di informazioni viene comunque fortemente influenzato dai propri pregiudizi. Ma voglio pensare che ora ci sarà maggiore desiderio di conoscere alcune delle cose di cui abbiamo discusso: i processi della scienza, la natura e l’uso dei modelli scientifici e il concetto di rischio. Comprendere queste idee è essenziale per poter affrontare molte sfide che richiedono una risposta scientifica: citi giustamente la scienza del cambiamento climatico come esempio chiave. Sinceramente non so come sarà possibile sfruttare al meglio un tale desiderio: sospetto che voi giornalisti siate in una posizione migliore per rispondere a questa domanda!

GIORGIO SESTILI = C’è un nuovo interesse nei confronti della scienza, questo è indubbio. Si trova a vari livelli, e potrebbe produrre — per esempio — un incremento del numero dei ragazzi che, nei prossimi anni, si iscriveranno a facoltà scientifiche: potrebbe esserci un maggior interesse verso le facoltà di biologia, o di matematica e fisica che studiano modelli epidemiologici, e così via. Per quanto riguarda direttamente la comunicazione io penso sempre che ci siano tre attori fondamentali: scienziati, società e, nel mezzo, i comunicatori scientifici. Laddove ci fosse un aumento dell’interesse nella scienza, il ruolo dei comunicatori sarà fondamentale. Va anche detto che “comunicatori scientifici” è un termine piuttosto ampio, perché può indicare giornalisti, addetti all’ufficio stampa di istituti di ricerca, chi fa divulgazione o anche chi produce video e animazioni – sono tantissime le professioni in questo campo. Una tendenza positiva potrebbe essere un aumento di opportunità di fare comunicazione scientifica, nelle redazioni dei giornali, in nuovi media e nuove riviste, nell’ambito di nuovi progetti finanziati a livello europeo. Abbiamo anche visto come, nel corso di questa pandemia, i governi hanno avuto difficoltà a comunicare, e quindi ci potrebbero essere spinte per la creazione di organi istituzionali che siano in grado di comunicare meglio in queste situazioni di crisi. Io me lo auguro.

ROBERTA VILLA = Viene da pensare che, in questi mesi, le persone si siano rese ben conto dell’impatto che la scienza può avere sulle loro vite, e quindi da questo punto di vista possiamo auspicare una nuova sensibilità e attenzione per la scienza, e un maggiore interesse a far pressioni sulla politica. Tu hai giustamente citato la crisi climatica: sono decenni che la comunità scientifica cerca di convincere la politica e il pubblico dell’importanza di questi problemi. Qualche scettico oggi potrebbe magari ricredersi, e pensare che se gli scienziati avevano ragione riguardo al rischio di una pandemia, forse hanno anche ragione riguardo all’importanza dei cambiamenti climatici. Io spero che ci sia anche una nuova consapevolezza dell’importanza del ruolo dei giornalisti scientifici e dei comunicatori, che ci si renda conto di quanto è importante la scienza ma anche di quanto sia fondamentale comunicarla bene. E questo dovrebbe andare al di là della facile narrazione di fake news contro verità accertate, bot russi contro esperti affidabili. Abbiamo visto come informazioni scorrette siano arrivate da ogni parte, incluse fonti in teoria “affidabili” come agenzie di stampa, grossi quotidiani nazionali, o fonti istituzionali. scientifiche, si produca anche una consapevolezza di quanto sia facile essere ingannati: le “notizie” virali che rimbalzano nei gruppi WhatsApp sono spesso inaffidabili, ma anche i pareri dei singoli esperti possono essere errati. Quello che conta sono i dati accertati e condivisi. Voglio aggiungere che lo spauracchio delle fake news e il mito del popolo bue che crede a tutto rischiano di portare all’eccesso opposto, a una limitazione delle libertà individuali. Abbiamo visto YouTube bloccare arbitrariamente i video che ritiene stiano diffondendo fake news — a volte censurando contenuti del tutto validi — o come Amazon abbia rimosso dal proprio catalogo un libro sulla COVID-19 di un giovane divulgatore come Gianluca Pistore (che include un’introduzione di Walter Ricciardi) perché ha deciso di vendere (su un sito che di solito raccoglie anche ebook amatoriali e autoprodotti) solo ebook sul coronavirus che vengono da “fonti ufficiali”. E la censura è ancora più grave se è di stato. Siamo fortunati a vivere in una democrazia, ma il modello di censura cinese (che abbiamo visto avere effetti tragici all’inizio di questa epidemia) è sempre un rischio da tener presente. Già oggi, ad esempio, i dipendenti del Servzio Sanitario Nazionale in Lombardia non sono autorizzati a rilasciare interviste ai giornalisti, e quindi non possono lamentarsi delle condizioni in cui svolgono il loro lavoro. Sebbene queste siano misure eccezionali mirate a controllare la situazione, dobbiamo comunque essere molto vigili e prudenti.

domenica 7 giugno 2020

Il "Saggio" del mese - Giugno 2020


Il “Saggio” del mese

 GIUGNO 2020



……La catastrofe sarà   innescata da un evento imprevedibile …… quel che solo pochi scorgevano sarà ad un tratto noto ai più: l’economia organizzata in vista dello “star meglio” è il principale ostacolo allo “star bene”…

Ivan Illich “Convivialità”



Inizia con questa citazione il breve saggio di Donatella di Cesare (filosofa, saggista e editorialista italiana, insegna Filosofia teoretica alla Università "La Sapienza" di Roma. È una delle filosofe più presenti nel dibattito pubblico italiano e internazionale, sia accademico sia mediatico) dal titolo, che apertamente mette in relazione la forma di cvd19 e la sua influenza su tutti noi, “Virus sovrano?”
con il quale in poche, ma dense, pagine, suddivise in brevi capitoli a sé stanti, propone una lettura complessiva della pandemia, e dei suoi aspetti più rilevanti, vista con lo sguardo della filosofia al tempo stesso attento a riflessioni politiche e sociali.
Il male che viene
E’ opinione diffusa che questa pandemia rappresenti un evento “senza precedenti”. Ed in effetti, anche se ogni evento storico, inserendosi nel generale percorso storico, non è mai un unicum, sono poco intonati i paragoni con altre vicende, anche recenti, di forte impatto.  Questo terzo millennio, ad esempio, è stato inaugurato dal clamoroso atto terroristico delle Torri Gemelli, un evento mediaticamente formidabile ma le cui ferite si sono via via chiuse nel consolidato percorso della globalizzazione neoliberista. E l’umanità pressoché intera lo visse al tempo da spettatrice, mentre oggi una pandemia senza confini ha reso tutti noi vittime, non in senso solo metaforico.  Questo coinvolgimento ineludibile di corpi e di spiriti, con modalità che già del loro meritano attenzione, ha accentuato la percezione, che già circolava in germe, di un evento fatale ……. che irrompe nel cuore del sistema …… con una valenza di chiara irreversibilità. Il raffronto con l’altro passaggio storico che ha segnato in profondità il nuovo millennio, la crisi economica del 2008, ne evidenzia poi un altro aspetto fondamentale: quella crisi fu la inevitabile evoluzione di contraddizioni tutte “interne al sistema”, la pandemia, per quanto fattrice di dolosi percorsi umani, è per definizione “extrasistemica” e come tale in grado colpire a più livelli e più in profondità.
Tra calcoli e pronostici sulla “fine del mondo”
Eppure non era poi così imprevedibile: un rapporto congiunto della Banca Mondiale e dell’OMS nel Settembre 2019, facendo seguito a precedenti segnali di allarme, parlava esplicitamente di …….un patogeno in rapido movimento in grado di uccidere decine di milioni di persone, devastare economie e destabilizzare la sicurezza ……. Pochi mesi prima del disastro quegli stessi scienziati ora ansiosamente interpellati erano del tutto inascoltati. Il repentino e globale irrompere del virus ha così comportato il prevalere di una universale attesa colma di angoscia che si interroga, come mai prima di ora, su un futuro imprevedibile. La “fine del mondo”, assunta come orizzonte possibile da climatologia, geofisica, oceanografia, biochimica, ecologia, sempre troppo poco ascoltate, agita fin dall’antichità le culture di tutto il mondo. Mai in contemporanea  con la paura di una parte del mondo, di una civiltà, si è sin qui sempre accompagnata la fiduciosa crescita di un’altra cultura, persino confinante. Così non è al tempo del coronavirus. La sua potenzialità già universale è stata ingigantita da una globalizzazione che ha reso il mondo intero un solo paese. Non solo le scienze empiriche richiamano la “possibile” fine del mondo”, anche quelle sociali la indicano come possibile scenario. Ad esempio due donne, Isabelle Stengers (chimica e filosofa della scienza) e Donna Haraway (filosofa e militante femminista) da tempo ammoniscono sulla …… sopravvivenza in un pianeta infetto ……. Anche in questi preannunci si coglie il carattere nuovo, rispetto a quelle del passato, dell’attuale “fine del mondo”: non più premonizioni teologiche o scenari politici, ma il senso storico di uno sbocco strettamente connesso alla modernità scientifica e all’uso autodistruttivo che l’uomo stesso di essa fa. …… siamo i primi a dover pensare di essere forse gli ultimi…… Sembra così scomparire la fiducia nel futuro, l’idea stessa di progresso. Viene alla luce, non come  nota a margine, la disfatta della politica ormai organicamente priva di slancio sul domani, appiattita sul presente, vissuto come un succedersi di emergenze. Sarà ancora una volta la scienza a sciogliere queste nubi su un possibile, e migliore, domani? E’ lecito dubitarne se si guarda al concreto funzionamento dell’attuale civiltà tecno-scientifica
L’asfissia capitalistica
Quel che è certo, nubi sul domani persistendo, è che il virus ha imposto alla accelerazione del turbocapitalismo globale un imprevisto e profondo rallentamento. Stanno di conseguenza irrompendo sulla scena problemi giganteschi di sopravvivenza di vasti settori economici e produttivi, con gli inevitabili disastri di tenuta sociale.  ……. eppure in questa sosta forzata viene alla luce l’aberrazione della frenesia di ieri ……. Ancora il giorno prima dello scoppio della pandemia l’umanità intera, condizionata dalla vorticosa economia del tempo nell’era del capitalismo avanzato e solo apparentemente libera, era invece sotto il giogo dell’imperativo della crescita infinita, della produzione per la produzione, dell’ossessione del rendimento. Le paure sulla “fine del mondo” dovrebbero almeno produrre la benefica ricaduta di riflettere sulla insostenibilità di questo stato di cose e la consapevolezza di una umanità ridotta al classico criceto nella ruota. Mai come prima cvd19 offre la possibilità di interrompere questa folle corsa evitando il conseguente salto autodistruttivo
Onnipotenza e vulnerabilità
Il paradosso della pandemia è consistito anche nel fatto che un essere infinitesimale abbia avuto una potenza tale da sconvolgere non solo la nostra salute ma l’economia, gli equilibri geopolitici, gli stili di vita, intere realtà sociali ed il rapporto tra popoli. Tutto quello che concretamente rappresentava il primato umano sul pianeta è stato sconvolto fin dalla sue basi. Mai come stavolta l’onnipotenza umana è stata messa in discussione. Ma non si è trattato di un castigo divino, e neppure di una nemesi della storia. Questo sconvolgimento radicale della sensazione di onnipotenza è la logica ed inevitabile conseguenza di scelte ecologiche ed ambientali miopi e devastanti. Eppure non c’è certezza che l’ammonimento sia stato realmente colto. La controprova consisterà nel non cadere nell’errore di ritenere che sia sufficiente colorare di verde, di green, economia ed agire umano, …… un nuovo modo di abitare la terra è impensabile senza congedarsi dall’economia planetaria capitalistica ……. la vera causa ultima del violento processo di dominio sulla natura. Già anni fa Jean Baudrillard profeticamente scriveva ….. il virus è il genio maligno dell’alterità …… in tal senso è il peggio ed il meglio: infezione letale ma anche contagio vitale. La perdita dell’immeritata sensazione di onnipotenza deve indurci in sostanza a ripensare l’abitare questa terra ……. un abitare che non è sinonimo di avere, di possedere, bensì quello di essere, di esistere, un abitare che non significa essere radicati alla terra, bensì respirare nell’aria …… proprio quel respiro che il virus ci sta impedendo
Stato d’eccezione e virus sovrano
Da molti è stato citato “lo stato d’eccezione”, una definizione usata da Giorgio Agamben nel suo libro (del 1995!) “Homo sacer, il potere sovrano e la nuda vita”, in cui riprendeva precedenti riflessioni sul tema di Carl Schmidt, di Michel Foucault, di Hanna Arendt. Attorno a questo richiamo nel pieno della pandemia le opinioni si sono diversificate. Resta indubbio, al di là della specifica necessità di contenimento del contagio che ancora una volta la legislazione per decreto si è imposta come il formato ormai abituale di esercizio del potere, anche se il ”sovrano” non è più da tempo il monarca dell’ancient règime. La “sovranità” sempre più si manifesta nella pratica amministrativa, il tiranno è stato sostituito dal funzionario subalterno, dal burocrate di turno, dal gendarme ostinato. Che da decenni “mettono la faccia” a rappresentare un potere che, incapace di governare l’attuale complessa modernità, ricorre abitualmente alla legislazione d’urgenza nel vano tentativo di rincorrere quei problemi che la sua stessa iniziale inerzia ha contribuito a creare. Se il paradigma dello “stato d’eccezione” può quindi risultare sempre più valido, l’insistenza di Agamben sembra troppo legata ad una visione novecentesca del potere, perché ……. quello odierno è molto più intricato e la sovranità tutt’altro che monolitica …… Non a caso oggi il biopotere è sempre di più anche psicopotere, al controllo dei corpi e delle vite sempre più si aggiunge quello dei pensieri, degli stati d’animo, delle emozioni.
Democrazia immunitaria
La difesa della democrazia, obiettivo universalmente condivisibile, non deve però sottovalutare lo stretto legame che essa ha con l’appartenenza nazionale: sempre e comunque la “democrazia” è in primo luogo quella del paese di appartenenza. Il che implica un rischio di chiusura comunitaria, di valorizzazione implicita, e in buona misura anche inconsapevole, della “appartenenza”: la democrazia, inevitabilmente, quindi …. cattura e bandisce, include ed esclude …… E’ questa la base sulla quale poggia una possibile “democrazia immunitaria”, …… ma si può parlare davvero di “democrazia” là dove l’immunizzazione vale per alcuni e non per altri? ….. Ma soprattutto se le libertà democratiche fondamentali, non universalmente applicate, richiedono in effetti una sorta di “noli me tangere”? anteponendo così la “protezione” alla “partecipazione”?  L’immunità, invocata a difesa invalicabile delle libertà individuali e collettive, come si collega con “l’appartenenza”, o meglio con le tante “appartenenze”, di genere, territoriali, di censo, di classe e ceto? Non si corre il rischio che questa immunità, per sostenersi, alimenti una “anestesia” nei confronti “dell’altro”, che sfoci nella “indifferenza” per chi non rientra nel recinto immunizzato? Già Hanna Arendt, nella sua analisi dei totalitarismi, aveva lanciato il monito di una sorta di “doppio binario” ……. più si fa esigente ed esclusiva l’immunizzazione per chi è dentro più diventa implacabile l’esposizione dei superflui lì fuori. Così funziona la democrazia immunitaria …… Non mancano nel recinto immunizzato ingiustizie e differenze “interne”, ma se essa mira a proteggere ciascun cittadino “in essa incluso” non solo si diffonde la fobia del contatto con chi immune non è, ma, come ben ha spiegato Roberto Esposito, …….. dove prevale l’immunità viene meno la stessa comunità …… Il significato etimologico della parola latina “immunitas, di non semplice traduzione, consiste nell’essere dispensati dal dono, dal tributo, dall’onere verso gli altri, essere “immuni” è il contrario di “comuni”, ossia del condividere un impegno reciproco al dono, al tributo, all’onere verso gli altri. La storia degli ultimi anni, specie nella parte “ricca” del mondo racconta di un crescente ritirarsi della comunità in questo suo opposto, l’immunità. Lo attestano il diffuso rifiuto dell’altro, dello straniero, dell’intruso, e la collegata richiesta sempre più pressante di protezione, di sicurezza, di distanziamento. Quanto potrà aver pesato su questo quadro la pandemia? Quanto avrà inciso, nelle misure per fronteggiarla, il sovrapporsi, di medicina e politica? Quanto l’attuale muoversi sociale sarà condizionato da una temperie in cui ……. non si sa dove finisca il diritto e dove cominci la sanità ……?
Il governo degli esperti: scienza e politica
Già subalterna all’economia la politica nell’era della pandemia lo è divenuta anche verso gli “esperti scientifici” …….ma chi è l’esperto? Come intendere il suo mediare il sapere scientifico con le ricadute pratiche? ………. Va detto che un esperto, pur non essendo necessariamente uno scienziato “puro”, è colui che coniuga competenza scientifica con capacità gestionali. Nell’era della eccezionalità divenuta forma ordinaria di governo l’esperto viene sempre più spesso chiamato a supplire alle carenze della politica, ma resta però vero che il possesso di competenze scientifiche non è di per sé sinonimo di saggezza e lungimiranza. Vale ancora la vicenda esemplare dell’esperto timoniere di Agamennone capace di riportare il Re in patria da Troia attraverso mari perigliosi, ma solo per consegnarlo di fatto alla sua uccisione, come a dire che se era giusta la rotta non altrettanto lo fu la meta. In campo politico, come dimostra la stessa vicenda cvd19, la figura dell’esperto chiamato ad affiancare i governanti spesso è poi strumentalmente usato a come parafulmine per gli eventuali insuccessi e per le certe critiche verso provvedimenti quasi sempre impopolari. Ma la politica, quella vera, non può affidarsi totalmente all’esperto, la buona amministrazione, che dovrebbe essere già un valore a sè, non può prescindere da un orizzonte ideale verso il quale tendere, una competenza questa che non è dote garantita dagli esperti. Salvo che la politica rinunci all’idealità, completando  così il suo suicidio.
Fobocrazia
Termine che indica un potere esercitato sulla paura (phòbos in greco), sull’allarme protratto all’infinito. La psicopolitica non è una novità: già Machiavelli ammoniva che se la paura domina gli animi allora con la paura è possibile dominare gli animi altrui. Tutto il Novecento è stato percorso dalla paura, dal terrore, fino a sfociare in una vera fobocrazia, la quale non va confusa con la tirannide, un regime che ancora distingue amici e nemici, mentre la paura fonde tutti e tutto in un indistinto contesto. Oggi in più ……. la paura è divenuta un’atmosfera ……. uno stato dell’animo, del singolo e della collettività, che altro non cerca che un capro su cui scaricarsi. Ieri il migrante piuttosto che il ladro, oggi il contagiato o l’estraneo senza mascherina incrociato per strada. Buona parte della politica “annunciata” guarda alla paura per offrire una sicurezza quasi mai realizzabile, per la semplice ragione che è il potere stesso che la deve continuamente alimentare per mantenere consenso ….. si accendono e si spengono focolai di apprensione collettiva senza alcuna strategia se non la chiusura immunitaria di una comunità divenuta passiva …..
Pieni poteri
Il potere fobocratico è chiaramente visibile dietro la metafora della “guerra” dichiarata al virus, dietro gli appelli all’unità della nazione, dietro il continuo ribadire l’eccezionalità della fase. Con una differenza fondamentale rispetto al precedente storico della “eccezionalità” del terrorismo: il suo carattere “sanitario”. Se va da sé che non ….. vanno rifiutate in modo ingenuo ed avventato i rimedi e le cure che possono frenare l’epidemia …… non si deve però cadere nel vortice di misure securitarie e biosecuritarie. Occorre essere lucidamente vigilanti, fino  a diffidare delle proprie pulsioni, per evitare che la pandemia inauguri un’era del sospetto generalizzato, dove l’estraneo è comunque e sempre un possibile untore, una minaccia permanente. La conseguenza, disastrosa per la democrazia, sarebbe quella …… di non avere più un mondo in comune, di non condividere più neppure lo spazio pubblico della polis …….
Il contagio del complotto
A tutto ciò è strettamente collegato l’incredibile dilagare delle teorie complottistiche a spiegare la nascita, la diffusione, la vera finalità del virus. …… cosa c’è dietro?, la domanda ripetuta ossessivamente ….. Il complottismo, da molto tempo, rappresenta una esasperazione così diffusa, così partecipata, da non poter essere iscritta a semplice ossessione minoritaria. Con il web è anzi divenuto un modo mainstream di leggere la realtà, che richiede specifiche attenzioni. ……. non c’è avvenimento che non abbia un colpevole …… Se da una parte si deve constatare che il congedo dalle religioni tradizionali e dalle ideologie politiche ha lasciato spazio anche a credulità e dogmatismi, è altrettanto innegabile che la crescente complessità in cui viviamo chiama a gran voce la scorciatoia della semplificazione. A che pro misurarsi con spiegazioni spesso parziali quando trovato il colpevole la questione è risolta? Quanto più lo scenario appare intricato tanto più aumenta la smania di trovare, proprio perchè semplificante, una spiegazione ultima.  ……. da qui l’analogia con il mito, la cui efficacia non sta nella veridicità ma nelle esigenze a cui risponde, nelle emozioni che suscita, nelle suggestioni che accende ….. Il complottismo però non si limita a presupporre immaginifiche spiegazioni e colpevoli, individuatoli si muove concretamente per contrastarli, per fermarli ……. non si deve dimenticare che il complottismo è il cardine di un certo populismo ….. Ed al tempo stesso, in relazione non casuale, è l’altra faccia della fobocrazia, che, per alimentarsi e per raccogliere consensi, ha continuamente bisogno di riversare i propri fallimenti ed errori su un nemico. Il “virus cinese” trumpiano non ne è che l’ultima testimonianza.  Esiste peraltro l’altra faccia della medaglia: fatta la tara ai suoi limiti ed ai suoi pericoli il complottismo, alla fin fine, altro non è che un sintomo ……. esprime il desiderio, per quanto ingenuo, di capire di più, di vederci chiaro …… Ancora una volta la buona politica è chiamata a battere un colpo
Mantenere la distanza
L’angoscia del contatto si è diffusa di pari passo con il virus rendendo, a compensazione, più accettabile il rinserrarsi nello spazio dell’intimità domestica. E’ quanto mai attuale la celebre frase di Elias Canetti ad incipit di “Masse e potere”: ……  nulla teme l’uomo di più che essere toccato dall’ignoto …… Una frase che si applica al moderno abitare ovunque protetto dal Diritto, che non a caso ha alla sua base l’integrità della sfera domestica sancita come estensione del nostro stesso corpo. Ed il corpo di tutti noi è stato al centro del contenimento del contagio fondato sull’assioma del “distanziamento sociale”, ben più dei dispositivi di protezione loro limitato surrogato. Accorgimenti e precauzioni che hanno una loro indiscutibile valenza sanitaria, e quindi immediatamente fatti propri dalla stragrande maggioranza, ma che in un certo modo incidono sull’essenza stessa della comunità, della civiltà dell’apertura verso l’altro, della ospitalità, della fiducia, del gioco, della danza, della festa. Una limitazione che, per quanto comprensibile dato il contesto pandemico, non può non avere conseguenze politiche nel suo cancellare la dimensione della folla, dell’assembramento. Ancora una volta è Canetti a dirci quanto questa dimensione abbia peso e ruolo ……. solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato …… La conseguenza politica non consiste però nel favorire l’individualismo, che si nutre nell’era neoliberista di ben altri stimoli e ruoli, ma nel contrapposto incentivo alla fobia della massa, che è strettamente legata, come altra faccia della stessa medaglia, all’avvento della società massificata.  Il “distanziamento”, termine all’apparenza asettico, ha, come immediata conseguenza nell’era della comunicazione mediatica, una evidente ricaduta …… la privazione sensoriale del prossimo …… Sostituito dal paradigma immunitario per eccellenza: lo schermo, gli schermi che ormai ci circondano costantemente e che, da tempo per altro, hanno smesso di essere semplici superfici per divenire di fatto il prossimo stesso, il mondo tutto. …… ma il rapporto con lo schermo non è quello con lo sguardo ….. Il medium digitale, in crescente feticizzazione, mentre consente di comunicare, di fatto separa, ci fornisce una sorta di assicurazione della disponibilità dell’altro senza però oberarci della sua presenza fisica. La messa a distanza è il codice base della comunicazione nell’era immunitaria. Ponendoci così nell’ansia del non saper utilizzare tutte le possibili prossimità tecnologiche, e dimentichi che questo scenario non può costituire il noi della comunità politica.
Pandemia psichica
Se il virus colpisce il corpo, la pandemia è però anche un’emergenza psichica. Il primo aspetto impone il proteggersi, il difendere l’organismo, la seconda rischia di paralizzare le relazioni umane, di ostacolare i contatti affettivi, di contribuire pesantemente alla tristezza, alla rabbia, all’irritabilità, alla violenza domestica, all’insinuarsi subdolo dell’idea che la vita non sarà più quella di prima, oppure più semplicemente ad uno stato d’animo che si potrebbe definire di noia esistenziale, ovvero come contrappasso di una irragionevole frenesia di consumare ogni spazio di riapertura. Vengono in mente parole di Valter Benjamin ……. la noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza, ma ogni minimo rumore delle frasche lo mette in fuga …….
Confinamento e sorveglianza digitale
Un dato non è stato a sufficienza evidenziato: ai primi di Aprile 2020 metà degli abitanti della terra, quasi quattro miliardi di persone, sono stati costretti in contemporanea  a rimanere in casa. Una fotografia impressionante. Una situazione che però non è definibile come una sorta di prigione per la semplice ragione che le prigioni, quelle vere, sono rimaste un mondo a sé con l’esplosione di veri e propri drammi, troppo presto, ma non a caso, dimenticati.  Poco alla volta quei quattro miliardi di persone stanno riprendendo, con gradualità diverse da paese a paese, ad uscire di casa anche grazie al ricorso, seppure anche in questo caso con diverse modalità, a tecniche varie di diagnostica, di tracciamento degli spostamenti e dei contatti, di monitoraggio della socialità. …… ecco dunque, in tutta la sua ambivalenza, la scelta fra confinamento e controllo digitale …… Una scelta che evidenzia che ormai la presenza di dispositivi digitali in tutte le pieghe del nostro vivere è in buona misura irrinunciabile, ma al tempo stesso che non è di pochi “resistenti” il timore che diventi una forma continuativa di controllo sociale. In Corea del Sud sono stati resi notti i movimenti di cittadini infetti esponendoli così all’umiliazione pubblica, in Cina è stata adottata un’app che emette un codice rosso, verde o giallo, legato allo stato di salute, per consentire se e dove muoversi. Forse è tempo che alla favorevole accettazione di strumenti in grado di agevolare la gestione sanitaria della pandemia si accompagni la consapevolezza del forte rischio che ……. un regime di visibilità permanente consegni tutti ad una potenziale inquisizione ……
Spietatezza della crescita
Inevitabile nei commenti della pandemia il ricorso a paragoni con altri simili avvenimenti storici, non del tutto pertinenti perché la pandemia attuale, in un mondo globalizzato, non ha precedenti. Ma l’accostamento alla peste nera del 1348 ha una sua specifica validità. Da quella epidemia ebbe inizio, nel fervore del Rinascimento, la corsa all’arricchimento, al benessere, al guadagno. Ci si lasciò alle spalle lo stile di vita agricolo, e quindi il naturale accompagnare il ciclo naturale della produzione, per avviare, con l’audacia messa in moto dal reagire ad un morbo apocalittico che uccise un terzo della popolazione europea, l’esplosione dei commerci, dei viaggi e delle scoperte di terre nuove, dell’aumento della produzione di un numero crescente di beni, “della crescita e del progresso”. E’ partito allora il grande sogno europeo della globalizzazione come dimensione naturale del guadagno, del profitto. Un sogno che, fra mille contraddizioni, è comunque durato fino a poco prima della pandemia cvd19.  Allorquando il disastro ambientale e l’esplosione impressionante di disuguaglianze ha progressivamente innescato domande sempre più pressanti e sempre più diffuse sul senso ultimo di questa corsa globale all’arricchimento.  Domande che sono state poi rese ancor più lucide e condivise dalla pandemia. Con un effetto esattamente contrario a quello della reazione alla peste del Trecento. Il termine crescita, se inteso solo nella sua accezione di arricchimento, ha per molti ormai un connotato negativo. I prossimi anni diranno se …….. in uno scenario dove le ricchezze materiali sembrano svuotate di senso si può stagliare un futuro fatto di sobrietà conviviale, scevra del superfluo, che porti alla luce legami dell’esistenza altrimenti dimenticati, che è necessario chiedersi per cosa vivere in futuro, che è indispensabile guardare ai confini ultimi ……
Il lockdown delle vittime
La storia delle epidemie antiche, a partire dai racconti di Tucidide, insegna che la morte in fondo è sempre stata vista come un contagio. Eppure in passato, ed ancora fino a tempi non troppo lontani, la morte era al tempo stesso naturalmente accettata nello spazio pubblico, era una “normale” compagna di viaggio. Non è più così ….. nell’attuale cultura igienizzante la morte deve essere ripulita, disinfettata, sterilizzata ….. Il disumano trattamento che in molti casi, specie qui da noi, è stato riservato ai morenti ed ai morti della pandemia lo dimostra. In tragica aggiunta ha poi messo a nudo il mascheramento della morte dei più anziani, allontanati dalla vista del mondo in quelle che, eufemisticamente chiamate “case di riposo”, altro non sono che uno spazio in cui la vecchiaia viene segregata e liquidita “prima della morte”. Anche i decessi sono stati ormai inseriti nel ciclo della produzione economica, la loro rimozione, in quanto “fatto disturbante”, è stata esasperata nell’era del capitalismo avanzato. La morte non è funzionale al capitalismo dei consumi, alla sua logica di coazione alla crescita. Byung-chul Han ha sottolineato che “il capitale viene accumulato contro la morte, che è vista come la perdita assoluta”. Sempre la storia insegna che il non riconoscere la dignità alla e della morte mina l’intera comunità, impedisce il lavoro del lutto, inibisce la memoria personale e collettiva, implica ……. l’impossibilità di elaborare il passato, e quindi sospende il presente, sbarra il futuro, è una perdita di mondo, perdita di memoria …..
La catastrofe del respiro: indenni?
……. Forse un giorno, finalmente il virus si ritirerà dall’aria, ma ne resterà a lungo il fantasma …… Anche in chi, sopravvissuto non solo al virus, ma anche ai molteplici effetti negativi collegati, si sentirà più forte, pervaso da una sensazione di forza più grande persino dell’afflizione altrui. Ed anche se non sarà stata una guerra purtroppo molti potranno essere i perdenti, ed ancora una volta rischiano di essere i più indifesi, i più esposti. Ed il respiro, simbolo stesso dell’esistenza e terreno di attacco del virus, manterrà un ruolo centrale per capire che cosa potrà davvero essere il mondo questa pandemia. Peter Sloterdijk ha usato il termine “atmoterrorismo” per definire azioni che mirano a colpire l’atmosfera in cui vivono le sue vittime. E con lui sono innumerevoli gli intellettuali che hanno visto nel respiro la chiave di lettura delle vicende umane. …… ma l’aria ha perso già da tempo la sua innocenza …… L’integrità del nostro respirare è un miraggio del passato, ma ancor più dopo il virus la cura del respiro, in senso concreto e metaforico al tempo stesso, ci costringerà ad una cura ossessiva di sé, ad una medicalizzazione continua, ma anche ad una chiusura selettiva, a sistemi immunitari sempre più ampi e potenti, cercando così di coniugare salute e società. …….. l’edificazione dell’immunità, il recupero del respiro, va ben al di là di categorie biochimiche o mediche, mostra evidenti caratteri politici, giuridici, religiosi, psichici ……. Rischiando di farci dimenticare che la lotta che si verifica tra virus ed anticorpi è un gioco intricato, nel quale se il sistema immunitario va troppo a fondo nella difesa rischia di compromettere lo stesso organismo che vuole difendere. Le morti per covid19 si spiegano in gran misura per questa ragione. Se poi già l’aria non è più la stessa occorre capire che l’integrità totale è ormai irraggiungibile, che altri virus, del corpo e della società, possono aggredirci. Per funzionare al meglio, in un caso e nell’altro, gli anticorpi …….. devono interpretare la parte degli estranei ……. sarà necessario convivere con questo virus e con altri, il che significa coabitare con il resto della vita in ambienti complessi nel segno di una riscoperta co-vulnerabilità …….