domenica 25 aprile 2021

Il mondo digitale non è sostenibile

 

E’ opinione comune ritenere che la tecnologia informatica possa dare un contributo importante, diretto e indiretto, al contenimento dell’emergenza ambientale. Tanto da essersi guadagnata una sorta di patente “green”. E’ proprio sempre così? Sulla classica bilancia dei costi e dei benefici il piatto dei costi (ambientali) è davvero poco pesante? Il seguente articolo mette in dubbio questa convinzione e, sulla base di dati che sembrano oggettivi, dimostra che occorre prestare non poca attenzione all’impatto ambientale provocato dalla irresistibile ed impressionante crescita del “mondo digitale”

Il mondo digitale non è sostenibile

Tra emissioni, consumi, rifiuti e impronta ambientale, la rivoluzione informatica è sempre meno ecologica.

Articolo di Alessio Giacometti (Sociologo, editorialista per diverse riviste on-line) – Il Tascabile

Foto del 1994:

un giovane e intrepido Bill Gates si cala con fune e imbragatura in un bosco di abeti. Nella mano sinistra tiene bene in vista un iridescente CD-ROM, la destra è poggiata su una pila di fogli di carta che pareggia in altezza il fusto degli alberi. Il messaggio del ragazzo che vuole portare un calcolatore elettronico su ogni scrivania d’America e del mondo non chiede spiegazioni: guardate quanta informazione ci sta in un disco compatto di memoria, quanta carta ci farà risparmiare l’archiviazione digitale dei dati informatici. Basta già poca immaginazione per intravedere un futuro sfavillante in cui l’informazione, ormai quasi del tutto smaterializzata, viaggerà dal centro pulsante di un microchip fino allo schermo luminoso di un computer che potremo tenere in tasca. Alleggeriremo così la nostra impronta sull’ambiente, muoveremo i dati e non le cose, ci faremo efficienti e sostenibili. È la promessa spregiudicata di una rivoluzione digitale ed ecologica assieme. A distanza di quasi trent’anni da quello scatto divenuto nel frattempo celebre, il savio e visionario Gates ama ancora farsi passare per guru della sostenibilità digitale, eppure la sua profezia pare essersi realizzata soltanto per metà. La rivoluzione digitale si è in effetti compiuta, almeno in larga parte, mentre la crisi climatica è sempre lì che incombe, anzi: sempre più. Ridimensionato l’ottimismo acritico della prima ondata per l’innovazione digitale – già messo in discussione, su basi economiche e politiche, da autori come Evgeny Morozov – le cosiddette ICT (information and communications technologies) hanno alla fine deluso le aspettative più rosee di riduzione dell’impatto ambientale. Negli anni, le tecnologie informatiche e digitali sono diventate, anzi, per certi versi, parte del problema. Qualche dato: per fabbricare un computer si utilizzano 1,7 tonnellate di materiali, compresi 240 chili di combustibili fossili. Internet da sola succhia il 10% dell’elettricità mondiale e rispetto a dieci anni fa inquina sei volte di più, con un monte emissioni che eguaglia oggi quello dell’intero traffico aereo internazionale. Due ricerche su Google rilasciano anidride carbonica al pari di una teiera d’acqua portata a ebollizione, Netflix consuma da sé l’energia di 40mila abitazioni statunitensi. Mezz’ora di streaming emette quanto dieci chilometri percorsi in automobile (secondo altre fonti, non più di un chilometro e mezzo ), mentre un solo ciclo di training linguistico di un algoritmo arriva invece a inquinare come cinque automobili termiche lungo il loro intero ciclo di vita. Complessivamente, i consumi energetici dell’intelligenza artificiale raddoppiano ogni 3,4 mesi, e per risolvere in pochi secondi il cubo di Rubik a un algoritmo serve l’elettricità prodotta in un’ora da tre centrali nucleari. Ci sono poi i videogiochi: complici la pandemia di coronavirus e le conseguenti restrizioni, il 2020 è stato un anno da record per l’industria videoludica, che nei soli Stati Uniti assorbe il 2,4% dell’elettricità domestica, più di quanto facciano congelatori e lavatrici, generando tante emissioni quante quelle di 55 milioni di automobili a motore termico. Per ridurre consumi ed emissioni Sony e Microsoft hanno introdotto una modalità di utilizzo a risparmio energetico nella loro ultima generazione di console, rispettivamente, e tuttavia la sensazione è che l’intero settore stia rapidamente avanzando verso il più energivoro cloud gaming multipiattaforma. C’è, infine e soprattutto, il problema della moneta digitale: allo stato attuale, l’impronta di carbonio di una singola transazione in Bitcoin equivale a quella di 680 operazioni Visa e di 51 ore di binge watching su YouTube. Paradossalmente, estrarre un dollaro di Bitcoin richiede quattro volte più energia che fabbricarne uno in rame e tre volte uno in oro, con proporzioni solo un po’ migliori per altre criptovalute come Ethereum, Litecoin e Monero. Al netto di definizioni troppo contorte e cervellotiche per i non addetti ai lavori, la moneta digitale non è altro che l’energia impiegata per produrla, e più ne viene estratta più calcoli (ed energia) sono necessari per generarne di ulteriore, motivo per cui i siti di produzione tendono a fare marginalità recuperando il gas di torcia dall’attività di fracking del petrolio, oppure localizzandosi lì dove l’elettricità viene ricavata dal carbone e perciò venduta a prezzi competitivi – come accade  in Cina, dove le emissioni del settore superano ormai quelle di intere nazioni come Repubblica Ceca e Qatar. I computer usati nel mining della criptovaluta si surriscaldano così tanto che per raffreddarli si ricorre a sistemi di ventilazione simili a quelli impiegati negli allevamenti intensivi di polli in batteria. Mining è una delle rare metafore del lessico digitale che rimandano esplicitamente all’industria estrattiva, un po’ come quando si dice che i dati sono il nuovo petrolio. La maggior parte delle analogie – softwarecloudsmartphone, chip… – evoca un immaginario eufemistico di efficienza, leggerezza e intangibilità che contribuisce a oscurare l’impatto reale delle ICT. È stata soprattutto la miniaturizzazione dei processori a cambiare il modo in cui facciamo esperienza delle tecnologie digitali e della loro impronta ambientale. “Ingannati dalle dimensioni minuscole dei nostri apparecchi”, osserva Christina Gratorp in un articolo ripreso da Internazionale, “non ci fermiamo a riflettere sulla gigantesca industria che c’è dietro, sulle enormi quantità di risorse materiali che consumano quando li usiamo e sulle condizioni di lavoro di chi fornisce all’industria quelle risorse”. Colossus ed Eniac, tra i primi calcolatori della storia, pesavano rispettivamente 5 e 27 tonnellate. Oggi una persona su cinque tiene in mano uno smartphone che per capacità di elaborazione supera il computer con cui la NASA è riuscita a mandare il primo essere umano sulla Luna. Si deve all’introduzione del silicio nei circuiti integrati lo sviluppo stupefacente dei microprocessori, cominciato nel 1971 con il lancio di Intel 4004. Da allora la potenza di calcolo è effettivamente raddoppiata ogni diciotto mesi mantenendo inalterate le dimensioni dei microchip, ma quello che la Legge di Moore non racconta è che la materialità delle tecnologie digitali non è affatto scomparsa: è stata soltanto rimossa da sotto i nostri occhi. Tutt’altro che nell’etere, Internet scorre come petrolio negli oleodotti attraverso 1,2 milioni di chilometri di cavi che si snodano sui fondali oceanici. Per fare acquisti online o muovere messaggi in chat serve carburante, e se le fonti rinnovabili sono insufficienti occorre ricavare l’elettricità da gas e carbone. Memorizzare dati informatici necessita di capienti archivi materiali: non esiste alcuna “nuvola”, il cloud è soltanto un imponente computer che lavora a tutto spiano in un torrido e congestionato data center. Così Gratorp: “per sua stessa natura il software consuma il mondo fisico, perché i bit non esistono senza gli atomi. Anche se imparassimo a codificare meglio, a fare test più rigorosi e a riciclare di più, sarebbe fisicamente impossibile non consumare materia ed energia”. Che doccia fredda: le tecnologie digitali sono essenziali per ridurre le emissioni e frenare il riscaldamento globale, ma quello della loro presunta immaterialità e sostenibilità è solamente un mito, tanto diffuso quanto fuorviante. Misurare l’impronta ecologica dell’industria informatica e digitale è un’impresa laboriosa e scoraggiante: tolto il “Cleaning Click Report” di Greenpeace sono pochissimi altri i tentativi degni di nota, e tuttavia le Big Tech della Silicon Valley non mancano mai di dare sfoggio delle proprie ridotte emissioni. Di recente Google, Microsoft e Apple si sono promesse carbon neutral entro il 2030, Amazon entro il 2040. Qualche anno in più per installare pannelli fotovoltaici a sufficienza e le “sorelle” FAAMA (Facebook, Apple, Amazon, Microsoft e Alphabet) assicurano di farsi carbon negative: produrranno più energia pulita di quella che consumano e riassorbiranno le proprie emissioni storiche con tecnologie di stoccaggio dell’anidride carbonica. In futuro mail e chat verranno alimentate interamente con energia solare, i cloud saranno ottimizzati e decarbonizzati, il green computing diventerà una consuetudine per una nuova generazione di programmatori. Le opache e discutibili compensazioni ambientali faranno il resto assieme ai massicci fondi di investimento per la sostenibilità, oggetto di una corsa filantrocapitalistica a chi elargisce la cifra più alta. Peccato che in gioco ci sia il solito, irrisolto problema di sempre, ossia quello degli “effetti rimbalzo”: la domanda di servizi cresce più rapidamente del risparmio di energia che si riesce a ottenere efficientando le tecnologie. Per farsi un’idea di quanto emettano i data center nei quali vengono archiviati i dati informatici è stato introdotto anni fa un indicatore, il power-usage effectiveness (PUE), che tuttavia misura l’efficienza dei server, non la loro impronta di carbonio. Sono variabili ben distinte: per assurdo, il supercalcolatore più efficiente del pianeta potrebbe essere alimentato con elettricità ricavata interamente dalla combustione del carbone – la fonte energetica più inquinante – come di fatto avviene in molti data center. Ce ne sono circa otto milioni in giro per il mondo, quelli di scala industriale sono poche centinaia. Facebook detiene i propri server, Netflix si appoggia invece a quelli di Amazon che nel settore del cloud computing controlla la fetta di mercato più grossa assieme a Microsoft e Google. Dal 2010 la capacità di calcolo complessiva dei data center è cresciuta del 550% mentre i consumi di elettricità soltanto del 6%. L’impressione degli esperti è però che l’efficientamento dei server abbia ormai raggiunto il limite. Per evitare la fusione dell’hardware surriscaldato dall’elaborazione dei dati si tenta oggi di incorporare nelle componenti elettroniche degli impianti miniaturizzati di raffreddamento a liquido. Altrove si sperimentano soluzioni ancor più avveniristiche, come quella di far funzionare i chip con fotoni al posto dei normali elettroni, oppure quella di immagazzinare i dati informatici nel DNA batterico. Facebook ha per ora risolto la faccenda del cooling delocalizzando parte delle proprie server farm nella gelida penisola scandinava, mentre Microsoft ha da poco ripescato gli 864 server del progetto sperimentale Natick, che punta a sfruttare le basse temperature degli abissi marini per raffreddare i processori. Se il calore prodotto dai calcolatori non viene smaltito in qualche modo c’è infatti il rischio che le “nuvole” di dati vadano in fiamme: vedere per credere il recente incendio ad uno dei data center di Strasburgo del colosso informatico OVHcloud. Il fatto è che prima di quanto immaginiamo prenderanno piede tecnologie come il 5G, il quantum computing, l’intelligenza artificiale, la blockchain, le criptovalute, le stampanti 3D, l’internet delle cose, le auto a guida autonoma. Serviranno nuovi data center e tanta, tantissima energia per alimentare tutto questo, archiviare e mantenere in vita i dati su cui si regge l’intera infrastruttura digitale. Da dove la prenderemo? I giganti dell’industria informatica sono già i principali client di elettricità al mondo, ma al momento non sembrano porsi seriamente il problema. Resta oltretutto aperta la questione dell’effettiva utilità dei dati memorizzati nei server – pare che solo il 6% sia veramente in uso – e dell’impiego ambiguo dei supercalcolatori, che troppo spesso vengono messi al servizio delle aziende petrolifere ed estrattive. Uno di questi computer ad alte prestazioni si trova in Italia, nella campagna pavese, e più precisamente al Green Data Center di Eni: è in questo centro di elaborazione dei big data che a inizio 2020 è entrato in funzione HPC-5, ancora nella top ten dei supercomputer più potenti ed energeticamente efficienti del pianeta. I suoi 70 petaflop di potenza – una capacità di calcolo da 52 milioni di miliardi di operazioni al secondo – lavorano in parte in progetti di ricerca sulle fonti rinnovabili, e in parte nella rilevazione di nuovi giacimenti di gas e petrolio. Nel 2015 è stato proprio uno dei primi HPC del gruppo Eni a scovare il più grande giacimento di gas naturale del Mediterraneo, dimezzando così i tempi medi di localizzazione dei nuovi siti di estrazione. Anche Amazon, Google e Microsoft cedono i propri servizi di punta ai giganti dell’industria fossile, motivo per cui Greenpeace parla apertamente di partnership che devastano il pianeta, di cloud che grondano petrolio. Era forse questa la promessa di sostenibilità della rivoluzione informatica e digitale? Usiamo enormi quantità di energia per mettere in funzione i supercalcolatori, archiviare i dati e potenziare l’intelligenza artificiale, per poi mancare l’applicazione delle tecnologie digitali più sofisticate a questioni di pubblica utilità e urgenza come il riscaldamento globale. In aperta contraddizione con la percezione di sostenibilità e immaterialità delle tecnologie digitali si pone anche il tema dei rifiuti elettronici, derivanti soprattutto dalla dismissione di smartphone, computer, periferiche e altre consumer elettronics. Secondo il  Global E-waste Monitor delle Nazioni Unite, nel 2019 sono stati prodotti 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, oltre 7 chili per ogni abitante del pianeta – una cifra che cresce a un ritmo tre volte superiore a quello della popolazione mondiale. Dove vanno a finire tanti apparecchi di scarto, di frequente gettati via ancora funzionanti e ben prima di aver concluso il ciclo di vita potenziale? Sempre nel 2019 solo il 17% dell’e-waste è entrato in circuiti legali di riciclo, del resto si è perso traccia in discariche abusive in Africa e nel Sud-est asiatico. Qui, per accelerare il recupero dei metalli rari, le componenti plastiche dei rifiuti elettronici sono solitamente bruciate in roghi altamente inquinanti che disperdono nell’ambiente sostanze nocive come diossine, piombo, mercurio, cadmio. Le tecnomasse tossiche e obsolete vengono esportate nel Sud del mondo perché il riciclo sarebbe un processo altrimenti complesso e oneroso. Un singolo smartphone contiene 40 diversi elementi metallici, alcuni dei quali pregiati e riutilizzabili come stagno, tungsteno, tantalio e oro, ma disassemblare i circuiti elettronici è un’operazione inefficiente se comparata all’estrazione deregolamentata delle materie prime “vergini”. Anche smaltire le batterie è difficile e inquinante, e ad oggi esistono soltanto due tecniche note: la pirometallurgia, che le fonde a temperature altissime, e l’idrometallurgia, che le discioglie in acidi iper-corrosivi. Proprio le batterie mostrano come sia tipico dell’industria digitale e informatica sviluppare tecnologie senza prestare alcuna attenzione al loro impatto ambientale, sacrificando la sostenibilità sull’altare della performance, dell’esperienza di consumo e della competitività sul mercato. La retorica dell’innovazione è tutta concentrata sulle prestazioni delle ICT, mai sulla loro capacità di essere riparate, riciclate, riutilizzate, rigenerate o – perché no – compostate. All’obsolescenza tecnologica pianificata ci siamo ormai assuefatti, ne abbiamo tutti esperienza: i computer portatili che registrano la prima rottura fuori garanzia entro i primi tre o quattro anni di attività, la scocca di plastica degli ebook incollata in modo da rendere complicato aprirli e sostituirne la batteria, aziende che saldano le componenti interne dei propri device per avversarne la riparazione. Insomma, prodotti che si guastano secondo programma e che vengono deliberatamente progettati per non essere aggiustati, anche perché le case madri non forniscono in genere alcuna istruzione in merito e le comunità di riparatori indipendenti sono costrette ad organizzarsi dal basso, spesso e volentieri osteggiate dai marchi produttori. Il piccolo riparatore di smartphone Henrik Huesby, ad esempio, è stato citato in giudizio dalla Apple, una società da mille miliardi di dollari di capitalizzazione e 200 milioni di dispositivi venduti nel 2019, per aver riparato iPhone con schermi considerati contraffatti. Apple, dal canto suo, è stata multata per aver introdotto aggiornamenti che rallentavano il funzionamento dei vecchi modelli di iPhone, una pratica che gli analisti hanno ribattezzato throttling, “strozzamento”. È la nuova frontiera dell’obsolescenza indotta: non più un guasto precoce dei device a causa di difetti occulti, ma un sottile e pianificato disallineamento tra hardware e software che li rende di fatto inutilizzabili. Mentre l’Unione Europea spinge per l’introduzione del diritto alla riparazione e per l’estensione della normativa sull’eco-design dagli elettrodomestici a smartphone, tablet e laptop, Apple ha dato negli ultimi anni un bel colpo di spugna alla propria immagine aziendale varando un vasto programma di iniziative “green”. Ha iniziato a riciclare (in parte) i dispositivi dismessi e per quelli di nuova fabbricazione utilizza (in parte) materiali di recupero. Ha installato pannelli solari nei propri centri e indirizzato i fornitori a ridurre le emissioni. I futuri modelli di iPhone saranno venduti senza adattatore per la ricarica e cuffie auricolari di modo da ridurre gli scarti elettronici – ma a quanto pare anche per abbattere il prezzo finale fatto lievitare dalle tecnologie di supporto al 5G. Al tempo stesso, però, Apple resiste alle pressioni dell’Unione Europea per l’adozione del connettore USB-C come standard internazionale di ricarica e con la rimozione del jack audio ha inaugurato l’obsolescenza delle cuffie auricolari con cavo in favore del nuovo business dei sistemi wireless, ben più impattanti per via delle batterie incorporate. Parafrasando la nota burrasca di Schumpeter, si potrebbe parlare di innovazioni che fanno “creazione distruttrice”, col danno all’ambiente mascherato ad arte da beneficio. Tutto questo greenwashing di Apple e delle altre Big Tech ha l’effetto di sviare l’attenzione dal punto centrale della questione: perché l’industria elettronica e digitale non si è mai fatta carico dei rifiuti che produce e dei problemi ambientali che causano i suoi prodotti? In un’economia realmente sostenibile e circolare, ciò che inquina o non può essere riciclato, riparato e riutilizzato, dovrebbe essere riprogettato, altrimenti limitato nelle vendite e in ultima analisi bandito dal mercato. Come ha scritto Samanth Subramanian in un articolo del Guardian (tradotto in Italia da Internazionale), anche il commercio digitale ha aggravato sensibilmente il nostro impatto sull’ambiente. Trasforma l’acquisto in un clic ed è come avere il mondo a domicilio, ti cambia radicalmente la percezione della realtà: “il grande inganno delle vendite al dettaglio online è stato spingerci a comprare sempre di più e a pensare sempre di meno, soprattutto a come arrivano gli acquisti a casa nostra”. Per resistere all’ultimo miglio critico, sballottati nei furgoni di consegna, i prodotti acquistati di comodo negli scaffali digitali richiedono un packaging decisamente più robusto: “aggiungere un millimetro di spessore al cartone per renderlo più resistente, se moltiplicato per centinaia di miliardi di scatole, può consumare un’intera foresta”. Spesso, scartando il pacco recapitato da Amazon, si ha l’amara sensazione di aver comprato più spazzatura che prodotto. Così, anziché smaterializzata, la forma merce esce dai mercati virtuali appesantita da un sovrappiù di esternalità ambientali sotto forma di imballaggio. Pure la logistica del commercio elettronico si rivela estremamente inefficiente dal punto di vista ambientale. I centri di smistamento consumano molto suolo e spesso fanno land grabbing, i furgoni semivuoti dei corrieri ingorgano le strade e inquinano l’aria, i servizi digitali di vendita non sono altro che la variante esasperata e iper-consumistica del commercio analogico. Con internet possiamo consumare ad ogni ora del giorno e della notte, senza più nemmeno doverci alzare dalla sedia. “L’idea di un pacco che compare miracolosamente davanti alla porta di casa è molto affascinante”, commenta Subramanian. “Ci siamo abituati così in fretta ad accettarla da non capire veramente cosa comporta”. È indubbio che il commercio digitale ci regali un grande risparmio di tempo, ma come lo impieghiamo? Certo non impegnandoci a ridurre le nostre emissioni individuali, più probabilmente scrollando il feed di Facebook o le stories su Instagram. Internet ci libera il tempo, e poi ce lo sottrae. Nel suo ultimo libro “I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo”   (ombre corte, 2021), il sociologo dell’ambiente Razmig Keucheyan fa notare che sì, “Amazon sarà anche un gigante del digitale, ma le merci che distribuisce sono proprio questo: delle merci, dotate di una materialità concreta”. A conti fatti la digitalizzazione degli scambi non ha affatto ridotto la circolazione degli oggetti materiali, anzi. Online si finisce per comprare più di quel che serve, si cede alla gratificazione immediata che azzera il tempo intercorso tra desiderio e acquisto, non si immagina minimamente quanta anidride carbonica possa accumulare la roba che mettiamo nel carrello virtuale. I prodotti acquistati con un clic nei mercati digitali viaggiano lungo le stesse rotte che le merci percorrono ormai da secoli, a bordo di navi portacontainer che solcano gli oceani bruciando oli combustibili pesanti. È servito che uno di questi cargo si mettesse di traverso nel canale di Suez per accorgersi dell’assoluta insostenibilità del traffico mercantile globalizzato, che le tecnologie digitali mica hanno diminuito, ma al contrario fomentato. Contro l’alienazione generata dall’obsolescenza dei prodotti digitali e dal commercio compulsivo online Keucheyan propone di estendere l’anticapitalismo agli oggetti. “Il nostro problema oggi”, scrive, “è scongiurare la continua rivoluzione delle cose, interrompere la corsa precipitosa che sostituisce incessantemente l’ultimo gadget con uno nuovo, anch’esso subito colpito da obsolescenza e gettato come i suoi predecessori nei rifiuti della storia materiale”. Per rallentare l’oblio e l’incessante rinnovamento delle merci digitali serve emanciparle dalle esigenze capitalistiche dell’accumulazione, progettando beni che siano fin da principio più robusti, smontabili, modulari (ogni componente “deve essere utilizzabile e sostituibile separatamente”), interoperabili (“componenti e software devono essere tecnologicamente compatibili con quelli di altri marchi”) ed evolutivi (“incorporano nella loro progettazione le future evoluzioni tecnologiche”).  Emancipati sono quindi quei beni per i quali l’equilibrio di potere tra valore d’uso e valore di scambio torna a volgersi a favore del primo, come nel caso del Fairphone, lo smartphone pensato dagli sviluppatori con l’intento di minimizzarne l’impatto ambientale e massimizzarne il ciclo di vita. Per scardinare la dialettica tra il vecchio e il nuovo che fa da fondamento all’economia digitale servirebbe poi allungare la garanzia a copertura dei suoi prodotti, assecondando un desiderio di durabilità che è di per sé naturale nel consumatore medio. “La garanzia non sembra granché”, suggerisce Keuchayan, “ma è una potente leva per la trasformazione economica e, di conseguenza, politica”. E aggiunge: “il passaggio a dieci anni [di garanzia] ci porterebbe in un altro mondo, la forma merce ne verrebbe sconvolta”. L’efficientamento tecnologico delle ICT farà indubbiamente il suo corso, i device impiegheranno sempre meno energia per unità di calcolo e continueranno perciò a moltiplicarsi, ma in ogni caso la tecnica non basterà a fermare da sola se stessa. Per interrompere la crescita insostenibile delle tecnologie digitali c’è bisogno di misure politiche – come appunto l’estensione della garanzia legale – ambiziose e niente affatto scontate, eppure tutt’altro che implausibili. Il 60% delle banche nazionali, ad esempio, sta prendendo in considerazione l’ingresso nel mercato delle criptovalute e il 14% sta già facendo dei test per riportare questa diramazione della tecnofinanza sotto il controllo dello stato: cosa che, al netto dei rischi di un’eccessiva centralizzazione, avrebbe almeno l’effetto di arginare la proliferazione speculativa dei miners privati e offrirebbe maggiori garanzie sul taglio obbligato delle emissioni per l’intero settore. Simile negli intenti all’ipotesi di nazionalizzare la moneta digitale era la provocazione, lanciata qualche anno da Morozov, di “socializzare” i data center. Server, supercalcolatori e big data sono infatti strumenti troppo potenti e importanti per rimanere in mano agli oligopoli digitali e servire al saggio di profitto del capitalismo data-centrico. Occorrerebbe trovare il coraggio politico di democratizzarli, metterli al servizio di una pianificazione economica e tecnologica internazionale che tenga finalmente conto della necessità di preservare quanto più possibile materia ed energia. Pianificazione degli sviluppi tecnologici, ritorno al valore d’uso delle cose, socializzazione dei mezzi di produzione digitali e gestione etica del fine vita degli oggetti. Secondo Keucheyan è questo quello che serve per far sì che alla rivoluzione digitale segua davvero anche quella ambientale. Un passaggio che nel mondo dell’industria informatica e dell’economia digitale in cerca di una difficile sostenibilità appare, a molti, ormai inevitabile. 


lunedì 19 aprile 2021

Piano strategico 2021-2023 Area Metropolitana Torino

 

Seppure oggetto di molti articoli di presentazione e commento, e per quanto alla conoscenza delle Amministrazioni Comunali dell’ex Provincia di Torino, da alcune anche partecipato, il Piano Strategico Metropolitano 2021-2023 è ancora in gran misura sconosciuto per tutti noi “normali cittadini”. Si tratta di un documento molto complesso elaborato nell’ambito dello sforzo progettuale al quale tutti i livelli istituzionali, da quello centrale a quelli periferici, sono stati chiamati per definire il progetto italiano complessivo che concorrerà all’assegnazione dei consistenti fondi del Next Generation EU. Se il processo che si è così avviato raggiungerà effettivo consolidamento questo progetto dovrebbe rappresentare per il prossimo triennio il documento base di orientamento di gran parte delle politiche statali in concorso con il giusto coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali locali. La speranza va da sé è quella che in questo percorso “virtuoso” possano trovare soluzione le tantissime problematiche che da tempo incidono sul quadro economico, sociale e culturale del nostro paese, a partire, per quanto ci riguarda da vicino, su quello dell’area metropolitana torinese. Vale quindi la pena, per questa sua valenza, sapere della sua esistenza ed approfondire il più possibile la conoscenza dei suoi contenuti. Strada facendo cercheremo come Circolarmente di essere attivi in tal senso, convinti come siamo del ruolo fondamentale che i “territori” possono e devono avere per una sua positiva concretizzazione. Da tempo infatti, grazie soprattutto agli importanti e approfonditi contributi che su questa tematica ci vengono dal nostro socio e collaboratore Gianni Colombo (preannunciamo qui che a breve sarà relatore in una conferenza on-line proprio su queste problematiche) riteniamo che il “territorio” sia un elemento fondamentale per progettare e realizzare un nuovo modello di sviluppo, capace di coniugare sostenibilità ambientale e giustizia sociale.  Per intanto per avere una prima nozione del Piano torinese pubblichiamo l’Introduzione della Sindaca dell’Area Metropolitana e la traccia della sua articolazione, ed unitamente il link, qui sottostante, utile per chi fosse interessato per accedere al sito che lo pubblica nella sua interezza

Piano strategico 2021 - 2023

Città metropolitana di Torino - 18 febbraio 2021

Piano Strategico Metropolitano 2021-2023

 

Introduzione di Chiara Appendino sindaca della Città metropolitana Perché un nuovo Piano Strategico Metropolitano (PSM)

L’elaborazione del nuovo Piano strategico 2021-2023 è avvenuta in un momento particolarmente difficile per il territorio metropolitano, in cui i fattori critici locali di lungo periodo sono stati catalizzati dalla pandemia mondiale. La Città metropolitana di Torino ha subito più di altri territori la trasformazione della propria economia e demografia avvenuta negli ultimi decenni e la pandemia di Covid-19 ha accentuato il rischio che essa possa diventare una “metropoli diminuita”, caratterizzata da un’economia debole e aumentate diseguaglianze. Ciò ha reso particolarmente pressante l’esigenza di definire una visione integrata del futuro della Città metropolitana e un progetto di sviluppo condiviso, finalizzato a promuovere una crescita armoniosa, inclusiva e sostenibile di tutto il territorio. Proprio la difficile congiuntura che stiamo attraversando ha infatti evidenziato la necessità di individuare soluzioni ed azioni condivise con il territorio, che possano essere implementate anche grazie ai finanziamenti europei previsti dal programma Next Generation EU. Nonostante le restrizioni dovute alla pandemia, il processo di formazione del PSM è stato straordinariamente partecipato: centinaia di soggetti locali, amministratori, rappresentanti di enti, associazioni, imprese del territorio sono stati coinvolti in un processo che attraverso due intense fasi di lavoro ha consentito di elaborare un quadro rappresentativo dei bisogni, delle esigenze e delle proposte del territorio. Il quadro che ne è emerso tiene conto non solo dei punti di debolezza, ma anche e soprattutto dei punti di forza di un territorio dalla straordinaria diversità, unico nel suo unire gli spazi della montagna, della città industriale, della pianura agricola, delle colline; ancora forte di una sua robusta base manifatturiera proiettata sull’export; aperto su nuovi settori e opportunità nel cibo, nel turismo, nella cultura; con un diffuso tessuto di piccole e medie imprese con grandi margini di rafforzamento e crescita; con centri di ricerca, tecnologia e innovazione in cui si progetta il futuro. Abbiamo allora voluto immaginare il futuro di una Città metropolitana di Torino “metropoli aumentata”, in cui il riequilibrio territoriale parta dalla creazione di “condizioni abilitanti” egualmente positive su tutto il territorio grazie alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie applicate in forme nuove a domande sociali emergenti, bisogni consolidati, antiche contraddizioni. Un’idea di innovazione che è insieme tecnologica e sociale, e che ha l’ambizione di migliorare i servizi offerti anche nelle aree da sempre considerate marginali, nell’idea di costruire una metropoli policentrica, più bella e più giusta, abitabile e accessibile in modi diversi ma in ogni suo punto. L’obiettivo è quello di consegnare alle prossime generazioni una Città metropolitana profondamente rinnovata nella sua infrastruttura territoriale, materiale e immateriale, tecnologica, sociale e civica. Il Piano strategico 2021-2023 è stato il risultato di un ampio processo partecipativo, che ha coinvolto in diversi momenti e con diverse modalità (incontri pubblici, focus group, tavoli di lavoro, interviste, questionari, invio di contributi scritti...) una straordinaria platea di attori locali. È stata una grande prova di coesione, in cui abbiamo sperimentato collettivamente nuove forme di interazione che potranno in futuro diventare strumenti ordinari di coinvolgimento e partecipazione da affiancare alle forme già sperimentate di condivisione delle decisioni. In parallelo, abbiamo voluto chiamare il mondo accademico torinese a supportare il processo di formazione del Piano, nella convinzione che strategie e decisioni pubbliche debbano basarsi sulla conoscenza dei fenomeni che si vogliono governare, ed attingere da esperienze e competenze in grado di formulare proposte innovative in risposta ai bisogni del territorio. Da tale processo di pianificazione partecipata è nato un Piano strategico che, attraverso l’individuazione di 111 azioni condivise ed integrate, mira a sostenere lo sviluppo e il riequilibrio del territorio metropolitano, contribuendo a colmare le divergenze tra zone di pianura, collina e montagna e tra metropoli, città e piccoli borghi. L’obiettivo è quello di implementare azioni ed interventi volti a superare le marginalità sociali, economiche e territoriali dell’area metropolitana, attraverso il supporto alla digitalizzazione, all’innovazione e alla competitività del sistema produttivo, con particolare attenzione alle micro e piccole imprese; il sostegno alla rivoluzione verde e alla transizione ecologica; il potenziamento delle infrastrutture per una mobilità sostenibile; il supporto al sistema dell’istruzione, formazione e ricerca; la valorizzazione del patrimonio culturale e delle opportunità turistiche; e il ripensamento e il rafforzamento del sistema di sanità territoriale. Affinché tali obiettivi possano essere raggiunti è necessario che non solo il processo di pianificazione sia stato condiviso e partecipato ma che anche il processo di implementazione delle azioni che da esso sono scaturite sia successivamente condiviso e supportato dal territorio e da tutti i soggetti, gli enti e le istituzioni che hanno partecipato alla formulazione del Piano. E’ necessario che ciascuno si “assuma la responsabilità” e contribuisca per quanto possibile al raggiungimento degli obiettivi condivisi. Allo stesso tempo è indispensabile che il sistema di potere locale, che è stato in passato di grande supporto alla crescita e allo sviluppo locale, ma che poi non ha saputo rinnovarsi, sia in grado di ripensare alle politiche e alle modalità di intervento, svincolandosi da una visione politica di breve termine per guardare alla crescita di lungo periodo e al benessere delle generazioni future. Solo in questo modo la crisi economica e sociale che stiamo attraversando potrà trasformarsi in un’opportunità per rilanciare, anche attraverso i finanziamenti europei previsti dal programma Next Generation EU, uno sviluppo economico, sociale ed ambientale armonioso del territorio metropolitano. Con questo obiettivo la Città metropolitana ha aperto un confronto con la Presidenza della Commissione Europea sottolineando l’importanza di dare un maggiore ruolo, riconoscimento di competenze e strumenti alle aree urbane e metropolitane per l’implementazione dell’European Green Deal e del programma Next Generation EU.

L’Ufficio della Presidente della Commissione Europe Ursula von der Leyen ha risposto con una presa d’atto e di impegno

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Articolazione per punti del Piano

*      Lo stato della metropoli

*      Torino metropoli diminuita? Economia e società in una transizione difficile

*      L’habitat metropolitano. Letture territoriali e condizioni abilitanti

*      Il contesto produttivo: tendenze territoriali in atto e opportunità di sviluppo

*      Il processo di costruzione del Piano strategico

*      Metropoli partecipata. Come il territorio ha contribuito ad una nuova visione del suo futuro

*      Un processo di costruzione a distanza

*      La visione

*      Aumentare Torino. Una visione per la Città metropolitana di Torino

*      Che cosa vuol dire “città aumentata”?

*      La strategia

*      Come aumentare Torino?

*      Diagramma complessivo del Piano

*      Albero delle azioni e delle connessioni 


sabato 10 aprile 2021

Il "Saggio" del mese - Aprile 2021

 

Il “Saggio” del mese

 APRILE 2021

Ancora un saggio che prende le mosse dalla pandemia per proporre riflessioni che, partendo dalle sollecitazioni imposte da questa impattante vicenda, si aprono verso orizzonti più ampi. Nulla di nuovo per certi versi, si tratta pur sempre di fare tesoro degli insegnamenti che il nostro vivere, individuale e collettivo, costantemente ci offre, a patto di mostrarsi realmente attenti e disponibili a coglierli. Ed è esattamente quanto ci offre il filosofo Roberto Esposito (docente di filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore, editorialista e saggista)

in questo suo ultimo agile, ma molto denso, saggio


dal risvolto di copertina …….. Come ricostruire la nostra società dopo il blocco della pandemia? Le istituzioni saranno decisive poiché rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di sé al di là della propria vita e della propria morte

Ci sia concesso lo spazio per una sorta di consiglio alla lettura. Il testo di Esposito si muove su due versanti: l’attenzione alle concrete dinamiche istituzionali, a partire da quella della fase pandemica, che lo stesso Esposito definisce il polo dell’attualità e la ricostruzione dei filoni di pensiero che le hanno storicamente studiate ed ispirate il polo dell’origine Nel primo polo rientrano il “Prologo” ed i Capitoli I e V, nel secondo i Capitoli II e III, mentre il Capitolo IV si pone a metà strada fra i due. La lettura della sintesi dei Capitoli II e III, quelli del polo dell’origine, può risultare impegnativa per i non “addetti ai lavori” (chi scrive ben compreso). L’invito è però quello di misurarsi con questo impegno, che rende omogenea e coerente l’intera trattazione, tenendo comunque conto che la lettura delle altre parti già del suo consente di entrare nel merito delle valutazioni di Esposito. N.B.= le parti in corsivo blu sono estratti del testo del saggio

Prologo

Una questione è da sempre rimasta aperta per il suo essere in costante evoluzione e cambiamento, la relazione enigmatica tra istituzione e vita umana, i due aspetti che formano il mutevole rapporto tra il carattere vitale delle istituzioni e la potenza istituente della vita. Sarebbe un errore ritenere che questo rapporto sia emerso solo con la recente comparsa del termine “biopolitica” (in un recente nostro post di Gennaio 2021 abbiamo riassunto un confronto a più voci sulla sua validità come chiave di lettura delle attuali istituzioni politiche), da sempre la sfera del potere mantiene uno stretto intreccio con quella della vita anche se, come la stesa pandemia dimostra, con la Modernità esso si è fatto più stretto e più percepibile. E’ quindi impossibile parlare di politica senza considerare il suo legame con la vita umana, con il suo aspetto “organico” (la “nuda vita”), così come con desideri, scelte, passioni, progetti, individuali e collettivi, con tutta la rete di rapporti che formano una comunità. Ma è evidente che, perché tutto questo si possa manifestare, la “nuda vita” debba essere il più possibile protetta dalle mille insidie che la circondano.  Questa difesa della “prima vita” sopravanza quindi ogni altro passaggio, ma, affinché non si appiattisca sulla mera sopravvivenza organica insieme ad essa dobbiamo difendere la seconda, quella istituita e capace di istituire. Come si avrà modo di approfondire sta proprio in questo il pieno significato di “istituzione”, e cioè non solo quello che individua la miriade di strutture articolate della dimensione sociale, economica, politica e statale, ma anche quello che definisce il bisogno di una comunità di gestire, attraverso queste strutture, il presente per poter continuare a proiettarsi nel futuro. Vale a dire di essere la forma capace di dare concretezza alla “institutio vitae

I =  l’eclissi

1 – Dalla pandemia:

La pandemia si è così violentemente abbattuta sulla “normalità” del rapporto tra istituzioni e vita da imporre una riflessione su come esse hanno gestito la sfida al virus. Non sono mancate insufficienze, ritardi, confusioni e contraddizioni, un eccesso di invadenza negli stili di vita individuali, ma una domanda comunque si impone: come avremmo retto all’attacco del virus senza di esse?  Una risposta obiettiva impone di riconoscere che le istituzioni -  non solo governo, regioni, enti locali, ma anche tutti gli organismi, professionali e volontari, che hanno avuto un qualche ruolo -  sono state, per quanto in modo perfettibile, l’unico concreto punto di riferimento. Si sono poi levate voci di denuncia di un eccessivo ricorso allo “stato di emergenza”, ed in effetti raramente sono state rispettate le “normali” procedure legislative e decisionali, ma anche in questo caso sembra ingiusto non riconoscere l’esistenza di un oggettivo “stato di necessità”. Da tempo la sanità è diventata questione direttamente politica, ma non sembra che in tutta la fase pandemica siano emersi particolari disegni di controllo e limitazione dei diritti. Ed è d’altronde da tempo evidente che la sovranità statale così come è stata finora intesa sia esplosa in mille frammenti, in buona parte autonomi dai governi nazionali e collocati in uno spazio transnazionale.  Se è quindi legittimo sostenere che nel complesso le istituzioni abbiano retto all’urto del virus, è però bene ribadire con fermezza che ogni reazione immunitaria non può prolungarsi ai suoi massimi livelli oltre una certa soglia senza rischiare una vera e propria crisi della socializzazione.

2 – Istituzioni e movimenti

E’ quindi emerso anche nella vicenda pandemica lo storico snodo critico del rapporto tra istituzioni e comunità, tra istituzione e vita, l’insopprimibile tensione fra “interno”, ciò che sta dentro le istituzioni, ed “esterno”, ciò che le fronteggia dal di fuori. Ed ancora una volta è opportuno, evitare due errori: quello di ritenere che le istituzioni siano esclusivamente quelle “statali” e quello di considerarle statiche, ferme, non cogliendo il loro continuo divenire. Questo secondo errore è aggravato da due contrapposte tendenze: quella conservativa delle istituzioni stesse che tendono ad essere refrattarie ad ogni cambiamento e quella opposta del proliferare continuo di movimenti anti-istituzionali. Ambedue questi errori rendono evidente l’insufficiente consapevolezza della vera natura delle istituzioni che, a ben vedere, altro non sono che dispositivi artificiali necessari a ordinare, selezionandole, tendenze naturali presenti in ogni società complessa. Per comprenderlo non occorre scomodare Freud, e la sua tesi della civilizzazione come inibizione degli istinti primari, per capire che le istituzioni, tutte, servono al duplice scopo di proteggerci dalla nostra stessa natura e di regolamentare i nostri rapporti con gli altri. Con la nascita del moderno Stato esse si sono evolute in un sistema di regole che consente di governare la società umana e in un potere finalizzato a farle rispettare. Il complesso rapporto tra istituzioni e comunità, tra “interno” ed “esterno”, in definitiva si gioca tutto attorno a questa loro dialettica natura.

3 – L’invenzione della natura

La nozione giuridica di istituzione compare per la prima volta nel diritto romano, ma non per definire dei soggetti giuridici formalmente individuati quanto piuttosto l’attività dell’ “instituere” che, attribuita a una vasta categoria di soggetti, consentiva di creare specifiche relazioni sociali in un processo fortemente dinamico. In linea peraltro con l’impostazione di fondo del diritto romano fortemente improntato ad un continuo adattarsi al mutare dei contesti e quindi refrattario a riconoscere vincoli esterni compresi quelli imposti dalla stessa natura, umana e non. E’ la natura che viene assoggettata al diritto, non viceversa. In un quadro così mutevole l’istituzione, qualsiasi istituzione, non poteva assumere carattere di stabilità. Ed è proprio in opposizione a questa eccessiva indipendenza dai vincoli naturali che si forma la concezione giuridica cristiana, nella quale il diritto non legifera più sulla natura, ma le si conforma dando voce alla legge in essa contenuta. Questa voce è quella divina e, conseguentemente, tutto il diritto, principio di istituire compreso, rientrano pienamente nella sfera della teologia. La stessa “institutio vitae”, con la natura posta sotto l’ordine divino, perde ogni carattere autonomo: ogni istituzione è inserita in un orizzonte metafisico. Questa svolta teologica definisce i caratteri delle istituzioni per almeno un millennio, bisognerà attendere il primo timido affacciarsi della Modernità per cogliere l’avvio di una svolta

4 – Istituzioni sovrane

Ancora per tutto il Medioevo si mantiene intatto questo carattere trascendentale, tutte le  istituzioni, che pure iniziano a formarsi con una certa varietà di forme, mantengono un carattere di fissata stabilità proprio perché sono intese come espressione di un potere che scavalca quello umano. I secoli dell’Ancien Régime per certi versi accentuano questo tratto distintivo incorporandolo nella figura del sovrano assoluto, non a caso tale per volere divino. Si forma così lungo questo lungo percorso un tratto destinato a mantenere una sua rilevanza. Questa sottrazione di storicità è decisiva per la configurazione di “istituzione” nella cultura politica e crea le condizioni per un rischio ancora riscontrabile nella contemporaneità: che le istituzioni restino fissate da caratteri e meccanismi impersonali essendo slegate dal loro reale contesto storico e sociale. Una prima vera cesura avviene solo nel corso della Rivoluzione Francese che sancisce l’irruzione del contrasto movimenti-istituzioni, affiancando però al precedente rischio quello opposto del proliferare disordinato di fragili istituzioni. Dovranno intervenire altre cesure prima che questa dialettica diventi la contemporanea forma di “prassi istituente”, il tormentato secolo XIX, tra la lenta agonia delle forme classiche di sovranità, l’affermarsi del mercato capitalistico e l’incedere ancora fragile dei movimenti che ad esso si oppongono, non è ancora il secolo della svolta

II =  Il ritorno

1 – Sociologia

E’ solo con il Novecento che si manifesta un reale interesse verso le istituzioni, il cui “ritorno”, dai lontani tempi romani, sulla scena culturale-politica non passa però per lo Stato, ma per la società, e ad inaugurare un sguardo nuovo su di esse è la nascente scienza della sociologia Non quella di Weber (1864-1920, sociologo, filosofo ed economista tedesco) che ancora si muove all’interno del paradigma dell’ordine sovrano hobbesiano, ma quella della scuola francese di Durkeim (Emile Durkheim, 1858-1917, sociologo, filosofo) e soprattutto di Mauss (Marcel Mauss, 1872-1950, antropologo, sociologo) che già nei primi anni del secolo afferma esplicitamente che le istituzioni sono oggetto privilegiato della sociologia e che come esse dipendono dal contesto sociale così questo ne è a sua volta modellato. Si intravedono in questa definizione i due elementi fondamentali del formarsi dal basso delle istituzioni: una concezione orizzontale del loro istituirsi e, di conseguenza, il loro elemento dinamico. Rispetto a tutti i precedenti paradigmi è avvenuto un deciso mutamento, il concetto di istituzione si è ormai spostato dall’istituito all’istituire. Questo capovolgimento di paradigma è attestato dalla capacità di continua auto-generazione, dal loro carattere sociale, e, novità non solo semantica, dall’’uso di un linguaggio autenticamente nuovo in cui confluiscono elementi di carattere religioso, giuridico, economico, politico, estetico

2 – Diritto

Questo fermento movimentista, la sua capacità di prassi istituente, non poteva non essere riconosciuto anche nell’ambito giuridico fin lì appiattito sul considerare le Norme unicamente come espressione dello Stato. Due scuole di pensiero giuridico, una francese (Maurice Hauriou, 1856-1929, giurista francese) ed una italiana (Santi Romano, 1875-1947, giurista e magistrato) pongono le basi per quello che, più tardi, diverrà un compiuto “istituzionalismo giuridico” capace di recepire buona parte delle istanze evidenziate in campo sociologico. E’ lo stesso concetto di soggetto giuridico che viene modificato dall’irruzione delle nuove istituzioni, si afferma una netta distinzione tra le “istituzioni-persona”, quali lo Stato e le sue articolazioni, i partiti ed i sindacati, ossia tutte quelle che possono essere collegate ad un formale soggetto giuridico, e le “istituzione-cose”, tutte quelle concretamente attive nella realtà sociale ma non riconducibili ad un individuato soggetto giuridico. E a queste ultime viene riservata pari attenzione in termini di diritto, all’origine della legge non c’è quindi solo più la volontà del legislatore, ma anche la necessità espressa dalla società tramite queste diverse istituzioni. E’ una svolta radicale che attraverserà tutte le tragiche traversie novecentesche per formare un tassello importante dell’attuale rapporto istituzione – movimenti

3 – Filosofia

Più complesso, e più lento a produrre nuovi paradigmi, è l’impatto in campo filosofico. Il dibattito filosofico per tutta la prima metà del Novecento verte su interessi e filoni di pensiero estranei alla prassi istituente. E’ solo con la “fenomenologia” di Husserl (Edmund Husserl, 1859-1938, filosofo e matematico austriaco) ripresa da parte dell’esistenzialismo francese di Sartre (Jean-Paul Sartre, 1905-1980, filosofo e scrittore) ed Aron (Raymond Aron, 1905-1983, filosofo, sociologo e politologo) che l’istituzione riacquista un ruolo in campo filosofico lungo due distinti filoni: il rapporto tra soggetto ed oggetto (con più evidente derivazione dalla fenomenologia) e il concetto di relazione del soggetto con gli altri (più vicino alle tematiche esistenzialiste). Rispetto alla fenomenologia classica, ancora basata sul ruolo della “coscienza” del soggetto, si passa con l’esistenzialismo ad un visione molto più legata alla dimensione storica, al concreto sviluppo delle relazioni sociali. Si afferma in questo senso una netta distinzione tra prassi istituente e potere costituente: con questo secondo termine si intende una creazione dal nulla di nuove istituzioni, con il primo invece un processo che, partendo da una dimensione già istituita, produce loro trasformazioni. Secondo Merleau-Ponty (Maurice Merleau-Ponty, 1908-1961, filosofo francese) questo processo di trasformazione ha una valenza aggiuntiva: nel cambiare l’istituzione si produce una evoluzione anche nei soggetti che l’attivano: il pensiero istituente vede la soggettività scaturire dalla sua stessa prassi, una dote fondamentale non riscontrabile al contrario nel potere costituente che presuppone, per manifestarsi, un soggetto già compiutamente formato. Seppure con ritardo ma anche dalla filosofia novecentesca iniziano ad emergere importanti elementi di riflessione utili a meglio comprendere le attuali dinamiche

4 – Politica

In stretta relazione con queste riflessioni sociologiche, giuridiche e filosofiche si muovono poi alcuni filoni di pensiero più strettamente politici. Prendono infatti corpo alcuni concetti che già affrontano gli snodi dell’attuale dibattito sulle istituzioni. Il primo concetto fondamentale consiste nel riconoscimento del ruolo del conflitto che diventa l’elemento capace di tutto racchiudere e generare: a congiungere istituzioni, società e politica è la funzione del conflitto. Da sempre le società sono attraversate da fisiologiche divisioni delle quali spesso non si ha adeguata coscienza e nozione, ed è allora proprio la prassi istituente, il formarsi di nuove istituzioni prodotte da queste linee di conflitto, che consente di avere chiara evidenza delle sue linee di frattura. Il cui punto finale di caduta, secondo concetto basilare, è inderogabilmente rappresentato dalla forma di potere, della sua attribuzione e articolazione, che viene conformata dalla prassi istituente: non esiste, né è mai esistita, una società senza potere, intendendo però per potere non solo e non tanto il dispositivo formale di dominio, ma soprattutto la configurazione delle istituzioni che lo rappresentano e lo definiscono. Le istituzioni sono allora i luoghi, le procedure, entro cui si rapportano potere e conflitto. Difficile indicare i pensatori novecenteschi che meglio rappresentano questi concetti, il pensatore per eccellenza del potere istituente, da tutti richiamato, resta ancora Machiavelli. Per la sua capacità di vedere le natura conflittuale della società, per il suo attribuire al conflitto il ruolo di motore della storia, e per la sua intuizione del ruolo delle istituzioni come ciò che tiene insieme interessi contrapposti evitando che il conflitto politico degeneri in violenza. Il pensiero di Machiavelli ancora oggi conduce allo snodo chiave nel cuore del paradigma istituente resta l’enigma di come possa una contrapposizione creare ordine. Un enigma inaggirabile che impone di affrontare il ruolo negativo della prassi istituente.

III =  Produttività del negativo

1 – Fine della mediazione

La negatività della prassi istituente non riguarda i suoi effetti, va oltre ed investe la natura stessa dell’istituire. Se l’atto dell’istituire suggella un processo che produce un elemento prima inesistente, questo da subito assume uno status di entità che si vota a permanere. Vale a dire che il concreto risultato di una prassi istituente di fatto nega il processo che lo ha istituito puntando in senso opposto al garantirsi stabilità, perché il processo istituente sia produttivo occorre che dia vita a qualcosa che però acquisisce una realtà esterna al movimento che l’ha prodotta. L’istituzione è allora al tempo stesso libertà e necessità, soggetto e oggetto, positivo e negativo. L’illusione di riuscire in qualche modo a “mediare” questo gioco di contrasti, ancora coltivata dall’idealismo di Hegel (Friedich Hegel, 1770-1831, filosofo tedesco), non appena le istituzioni acquistano maggiore consistenza storica si rivela fallace: lo è già con la prassi rivoluzionaria di Marx, (1818-1883), lo è nella visione di Nietzsche (1844-1900) dello Stato come “mostro freddo”, lo è infine nella stessa idea di Weber della società capitalistica come “gabbia d’acciaio”. In tutte queste letture il negativo ha però un peso tale da escluderlo, si mantiene  come potenza dialettica in grado di includere il positivo. Viene però così impedita ogni possibile mediazione e si congela un situazione senza una via d’uscita che non sia l’irriducibile contrasto tra il negativo che punta alla conservazione ed il positivo inteso come sola destituzione del presente: da un lato la progressiva sclerosi istituzionale, dall’altro la libertà dalle istituzioni, quando invece la via da percorrere è quella di un nuovo nesso tra istituzioni e libertà

2 – Protesi dell’umano

Ma l’ineliminabile presenza del negativo rappresenta solo una sorta di eterna condanna a questa contrapposizione oppure può rappresentare un incentivo per la trasformazione delle istituzioni? Alcune delle scuole di pensiero novecentesche si sono misurate con questo dilemma, ad iniziare dalle considerazioni, piuttosto controverse, portate avanti dalla “antropologia filosofica” di marca tedesca. Secondo la quale la questione di partenza, in stretta analogia con il rapporto tra natura e tecnica, consiste nella necessità dell’uomo, per realizzare i propri bisogni esistenziali e sociali, di ricorrere a dei “filtri istituzionali”. Così come per gestire al meglio il rapporto con la natura, conscio della limitatezza dei suoi strumenti naturali, l’uomo si è dotato di protesi tecnologiche, allo stesso modo la gestione delle tante problematiche del vivere in comunità, in società, non risolvibile sulla base degli istinti naturali, richiede il ricorso a specifiche protesi, che altro non sono che le istituzioni.  Un processo articolato che comporta un rischio: così come le protesi tecnologiche implicano quello della sostituzione della dimensione naturale con quella artificiale, le istituzioni corrono il rischio di divenire una dimensione a sé permeata da una logica di continuo processo di smantellamento di sè stesse Una posizione decisamente conservatrice e per questo fortemente criticata: in un celebre confronto Adorno (Theodor Adorno, 1903-1969, filosofo e sociologo tedesco) obiettò a Gehlen (1904-1976, filosofo e sociologo tedesco) il maggiore rappresentante della antropologia filosofica, che le istituzioni non sono solo protesi, ma il frutto di un determinato sviluppo storico, perciò il loro destino non dipende solo dalla loro tenuta , ma al contrario dalla loro disponibilità al mutamento

3 – Istinti ed istituzioni

In linea con la critica di Adorno una seconda scuola di pensiero, quella francese sorta attorno a Deleuze (Gilles Deleuze, 1905-1995, filosofo e sociologo), interpreta il negativo della prassi istituente in senso esattamente contrario: le istituzioni non frenano gli istinti umani ma, a certe condizioni, li possono esaltare positivamente. Deleuze propone questa visione partendo dalla sconnessione che a suo avviso esiste tra istituzione e legge. Mentre la legge rinchiude l’azione umana entro obblighi e divieti, incorporando in tal modo il negativo, l’istituzione le fornisce modelli utili alla sua realizzazione, svolgendo quindi un ruolo positivo: la tirannia è un regime con molte leggi e poche istituzioni, la democrazia uno in cui vi sono molte più istituzioni che leggi. La prassi istituente è pertanto molto più feconda della pura attività legiferante. La visione di Deleuze non sembra però poter risolvere appieno l’esistenza del negativo che in effetti può tornare a riaffacciarsi nella stessa prassi istituente là dove non viene negata la tendenza di ogni istituzione alla propria auto-conservazione. La lodevole volontà di vedere nelle istituzioni il riconoscimento degli istinti naturali - che porta ad esempio la sessualità a trovare riconoscimento nell’istituzione “matrimonio”, oppure l’avidità ad avere campo in quella della “proprietà privata” – inevitabilmente deve fare i conti con il progressivo loro ingessarsi in un sistema di divieti e regole. Vale a dire che l’istituzione non può coincidere perfettamente con l’istinto, essa presuppone una distanza che, anche se in misura inferiore a quella fissata dalla legge, in qualche modo si carica di un negativo. E non a caso le istituzioni sono sempre diverse, perché variano in relazione alla ragione, al costume, ma soprattutto all’immaginazione di chi le inventa in un determinato contesto

4 – Immaginario sociale

Ed è proprio il rapporto tra istituzione e immaginazione ad essere al centro del pensiero di Castoriadis (Cornelius Castoriadis, 1922-1997, filosofo e psicanalista greco naturalizzato francese). La sua posizione, esterna sia al pensiero liberale che a quello marxista, pone in stretta connessione i due termini: immaginare qualcosa significa istituirla, facendo di un non-essere un essere Questo non significa però che l’immaginario, nel nostro caso quello sociale, crei l’essere dal nulla, se così fosse di fatto si ricadrebbe nella concezione teologica della “genesi”. Ora, essendo anche la natura umana in qualche modo istituita, è da questa primordiale istituzione che l’immaginazione si è sviluppata per produrre a sua volta istituzioni, come a dire che: si istituisce solo a partire dal già istituito. Neppure la storia può avere di per sé stessa un inizio, un’origine, perché se mai lo possedesse precederebbe, in una sorta di riproposizione teleologica della genesi, ogni processo di immaginazione sociale. Il quale può quindi esistere solo lungo il sottile equilibrio tra essere e divenire, tra storia e natura, in un contesto perennemente dialettico che, per inverarsi, ancora e sempre necessita di un negativo capace di fare attrito nel flusso incontrollato del divenire e per fare ciò di assumere, a seconda dello specifico contesto, le forme di pratiche rituali, sociali, politiche, Ma, anche in questo caso,  se è dal confronto/scontro con queste forme del negativo che scatta l’impulso all’immaginazione,  non si annulla il negativo ma semmai su di esso ci si innesta

IV = Oltre lo Stato

1 – Istituzioni senza sovrano

Queste diverse correnti di riflessione attorno al tema delle istituzioni testimoniano attenzioni, soprattutto teoriche, nel concreto processo storico a lungo le istituzioni sono state considerate meri contenitori dei comportamenti individuali e collettivi. Classi sociali, modelli economici, trasformazioni tecnologiche apparivano fattori determinanti delle dinamiche politiche assai più della prassi istituente. Guardando alla realtà occidentale è solo con gli anni Sessanta e Settanta che all’attenzione della cultura in senso lato, e a quella sociale e politica in particolare, si impone come oggetto ineludibile di analisi l’impetuosa crescita di momenti istituenti che, nelle forme più variegate - associazioni, circoli, federazioni, assemblee permanenti, comitati, fondazioni, oppure su versanti opposti lobbies e corporazioni – incidono in modo significativo sull’insieme delle dinamiche sociali e politiche: lo scenario è cambiato: le istituzioni hanno cominciato ad apparire sempre più rilevanti nel definire, orientare, trasformare le agende politiche. E se è pur vero che a lungo l’istituzione per eccellenza è rimasta quello dello Stato, e delle sue articolazioni, è altrettanto vero che anche su di esso l’affermarsi di quelle diffuse ha avuto un forte impatto. In un momento in cui, non a caso, lo Stato sempre meno è riuscito a mantenere il suo ruolo di titolare delle decisioni politiche nel mutato contesto globalizzato. E sembra ormai difficile che si possa innescare un percorso inverso, anche perché problematiche come l’emergenza ambientale, le crisi economiche, la stessa pandemia, confermano la necessità irreversibile di momenti decisionali ad un livello superiore a quello statale: lo stesso fenomeno impropriamente definito “sovranismo” appare più una forma di resistenza ai processi in corso che una prospettiva capace di intercettare il futuro. In questo quadro il ruolo delle istituzioni diffuse acquista a maggior ragione un ruolo decisivo sotto diversi profili, sia quando esprimono la voglia di cambiamento sia quando, al contrario, danno voce alla volontà di frenarlo.

2 – Il diritto dei privati

Anche in questo mutato contesto l’evoluzione delle norme giuridiche, un campo erroneamente troppo trascurato dal dibattito culturale-politico, aiuta a comprendere la posta in gioco visto che, come già evidenziato in precedenza, il Diritto altro non è che l’espressione di una trama di relazioni presenti nel corpo sociale ed Il mutamento, o la conservazione, delle norme di Legge altro non esprime che l’esito di un confronto, di uno scontro, extra-giuridico.  Ed è proprio di riflesso a questo quadro, e proprio pensando alla prassi istituente, che in campo giuridico si è da tempo avviato un importante approfondimento sulla opportunità/necessità di definire un nuovo “diritto”, indicativamente denominato come “collettivo”, che si collochi a metà tra i due tradizionali diritti, quello privato e quello pubblico. Per muoversi in questa direzione occorre mettere al centro dell’attenzione non tanto un soggetto giuridico terzo, ma l’insieme delle relazioni fra le sfere del pubblico e del privato in gran misura gestito proprio dalle istituzioni. Si collocherebbe così in questa dimensione un diritto collettivo, “più che privato e meno che pubblico”, che dia riconoscimento normativo alla mutua cooperazione di soggetti organizzati in istituzioni capace quindi di entrare nell’orbita vivente di quel vasto mondo di beni, di utilità, di fini e di interessi che hanno per comune denominatore una collettività

3 – Giustizia sovversiva

I tempi di modifica degli ordinamenti giuridici sono di norma molto lunghi e complessi, ed è quindi lecito non attendersi svolte immediate, ma dal dibattito su un nuovo diritto “collettivo” è già emersa la constatazione che questo diverso intreccio tra società, politica e diritto non necessariamente debba ancora poggiare sulla centralità dello Stato. Non fosse altro che per il fatto che sempre più spesso la prassi istituente si misura e si attiva per problematiche che, conseguentemente all’avvento della dimensione transnazionale, scavalcano l’ambito dei singoli Stati. Si parla cioè di dinamiche che, collocandosi al di fuori dei singoli schemi giuridici nazionali, impongono una sorta di costituzionalismo senza Stato. Una dimensione nuova, né interamente pubblica e né interamente privata, nella quale far rientrare la complessità delle problematiche che investono, globalmente, sfere della società contemporanea quali ad esempio: economia, scienza, tecnologia, ambiente, medicina, trasporti, istruzione, diritti individuali e di genere. Tutti questi settori presentano evidenti linee di frattura tra pubblico e privato, tra interessi nazionali e aggregazioni transnazionali, tra estensione piuttosto che restrizione degli spazi democratici. Si è di fronte ad una divaricazione così complessa, e per molti versi fin qui inesplorata, perché chi viene investita non è più una relazione tra individui, ma una intera comunità se non l’intera umanità, da rendere impossibile la sua gestione, in questo caso giuridica, avendo al centro il “singolo individuo”. Purtroppo però il linguaggio del diritto dispone ancora solo del lessico della persona. Ma può il diritto da solo farsi carico di questo di più di giustizia? E se in qualche modo fosse tentato di farlo non si sostituirebbe in tal modo alla politica? Sovvertendo allora l’intera evoluzione della cultura occidentale che da sempre vede la netta disarticolazione fra lo ius romano, la fonte del diritto, e la polis greca, la casa della politica. Questa domanda di una nuova giustizia impone quindi da subito due correlati passaggi. Il primo chiama in causa la politica che deve, diventando più consapevole della vera posta in gioco, mettere ordine in questa molteplicità di linguaggi inserendo in quello del diritto la lingua del diritto “comune”. E, secondo passaggio, in questo sforzo a cui la politica è chiamata la prima sponda alla quale appoggiarsi sono proprio le istituzioni che possono costituire gli snodi decisivi in cui i fili del diritto e della politica, da sempre separati, riprendono ad intrecciarsi in un orizzonte poststatuale

4 – Oltre lo Stato?

Il declino della forma Stato nell’epoca della globalizzazione è fenomeno ormai diffuso, resistono solamente le grandi potenze autosufficienti e in posizione dominante al centro di una ampia rete di relazioni. Altro discorso è invece quello della crisi della “sovranità” che si manifesta in forme molto più complesse e variegate. L’incrocio fra questi due fenomeni attesta l’evidente contraddizione costituita dal fatto che molti aspetti riconducibili alla globalizzazione neoliberista, ed al formarsi di centri di potere sovra-nazionali, si sono paradossalmente realizzati sulla base di politiche statali mirate in tale direzione. In questo quadro quanto mai complesso, ed in costante contraddittoria evoluzione, emerge comunque come dato comune di ogni singola situazione statale e dell’insieme globale delle loro relazioni, una nuova dialettica fatta di scontro tra poteri e contropoteri. Ogni accelerazione dei processi che pongono in crisi Stato e sovranità nazionale, attiva infatti forme di reazione, più o meno compiute e adeguate, a dimostrare che la sostanza dello scontro sociale non è mutata: seppure frastagliata su piani diversi sempre si articola nel contrapporsi di poteri e di opposizioni che mirano ad essere reali contropoteri che chiama le istituzioni, la prassi istituente, ad un nuovo ruolo. Ciò richiede un nuovo impegno istituente lungo due linee differenziate ma convergenti: la prima è quella di una nuova e diversa relazione fra istituzioni pubbliche e private, fondata sulla categoria di interesse “comune” in grado di concretizzarsi in ambito nazionale  e sovra-nazionale. La seconda è quella di sviluppare una maggiore interrelazione tra le istituzioni classiche – partiti, sindacati, gruppi parlamentari – e quelle di nuova forma e finalità per definire e condurre comuni politiche di carattere civile, sociale, ambientale rivitalizzando in questo modo, proprio con l’innesto al loro interno della categoria del “comune”, le grandi famiglie politiche novecentesche: liberali, popolari e socialiste

V – Istituzioni e biopolitica

1 – Biopolitica

Al termine di questo percorso attorno al tema delle istituzioni occorre riprendere la questione di partenza: la relazione enigmatica tra istituzione e vita umana alla quale, va detto, la cultura contemporanea, e la filosofia politica in particolare, qui esaminate non sembrano aver fornito risposte convincenti. Qualcosa è mutato con l’avvento della “biopolitica” uno dei paradigmi politici più utilizzati in questi ultimi anni. In quale misura il rapporto tra biopolitica e istituzioni può fornire indicazioni utili a risolvere tale relazione enigmatica? Queste domande consentono un preciso collegamento con la stessa vicenda pandemica. Covid19 ha attaccato la nostra vita ed ha imposto provvedimenti di chiara natura biopolitica, ma al tempo stesso, come si è visto, è stato possibile affrontarlo solo grazie al ruolo decisivo delle istituzioni. Eppure non sembra che, anche in una situazione emergenziale come questa, si sia realizzata tra di loro una vera integrazione. Da dove nasce questa persistente sensazione di eterogeneità?  Non convince la convinzione diffusa che la biopolitica, nella versione che di essa ha dato Foucault (Michel Foucault, 1926-1984, filosofo e sociologo francese), stabilisca di fatto un rapporto così diretto e stretto tra politica e vita tale da non necessitare della mediazione di istituzioni: Questa convinzione si basa sull’idea di Foucault che la biopolitica non si rapporti più ai cittadini intesi come soggetti giuridici, ma a loro come esseri viventi e che, per sottoporli a controllo sociale, non servano  più “leggi”, le quali implicano la presenza di istituzioni, ma “norme” messe in atto da “apparati”, ad esempio medici e amministrativi, che puntano più a normalizzare che a sanzionare. Ma ancora una volta ciò che colpisce è la disgiunzione che ne deriva tra la sfera della vita e quella del diritto. Oltretutto anche le “norme” per essere efficaci necessitano di istituzioni, ovvero di tutte le articolazioni istituite dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione, della sanità, piuttosto che della famiglia, della religione, della sessualità. Il problema quindi non è risolto sostituendo al termine istituzione quello di apparato. Si cela qui un limite della visione di Foucault che vede le due polarità della biopolitica, il bios e la politica, esaminate separatamente per poi però ricongiungerle in una maniera forzata che finisce per sovrapporre l’una all’altra. Con la conseguenza di rendere concettualmente impossibile l’intero rapporto tra biopolitica e istituzioni.

2 – Doppia nascita

L’idea di Foucault di una vita che può esprimersi solo fuori dalle istituzioni, viste come una gabbia oppressiva, trova una sponda esattamente opposta in quella di Hannah Arendt (Hannah Arendt, 1906/1975, filosofa e politologa tedesca poi naturalizzata statunitense) che vede al contrario le istituzioni minacciate dalla pressione della vita. A suo avviso l’agire politico altro non è che un incessante crearsi di istituzioni non riducibili alla centralità del potere costituito. Al centro della sua attenzione sta quindi la prassi istituente, la vera matrice della storia, per il suo essere sempre l’inizio di qualcosa di nuovo. Che non è però riducibile al ciclo della vita naturale, alla nascita biologica, ma al contrario alla volontà di sottrarsi alla naturalità ed ai suoi cicli. La prassi istituente diventa una sorta di seconda nascita che differisce dalla prima ed ha significato proprio in tale differenza. La politica è un’attività umana feconda solo quando riesce a sottrarsi all’urgenza della vita. Le rivoluzioni, come quella francese, sono state vincenti finché sono state al riparo dalla pressione dei bisogni naturali, fino a quando hanno retto all’urgenza delle esigenze primarie, che hanno imposto la fine della prassi istituente e l’instaurazione, liberticida, di istituzione durature, di un potere sovrano. all’origine di questa divaricazione sta la concezione cristiana della sacralità della vita diventata il bene supremo a cui ogni altro va sacrificato. Per ragioni esattamente opposte anche in questa visione non sembra esservi soluzione al rapporto tra vita e istituzioni, l’una è irriducibile alle altre per Foucault, ovvero queste lo sono alla vita per la Arendt

3 – Diritto impersonale

Al termine dell’intero percorso nel dibattito culturale novecentesco attorno al tema del rapporto tra vita e istituzioni non sembra quindi che siano emerse adeguate idee per il superamento della loro relazione enigmatica. La sola strada percorribile sembra allora quella, facendo comunque tesoro di quanto di utile è emerso in questo dibattito, di costruire un duplice movimento: delle istituzioni verso la vita e della vita verso le istituzioni. Il primo movimento chiama necessariamente in causa la politica e la sua capacità di attivare un profondo ripensamento del “Diritto” finalizzato ad un chiaro incorporamento in esso del fatto sociale, perché la vita del diritto è anche vita nel diritto. Può in questo senso essere utile recuperare il concetto di “diritto comune” di cui si è detto sciogliendo però una sua intrinseca contraddizione: il “diritto” inteso nella sua accezione classica è sempre un insieme di prerogative di alcuni nei confronti di altri, mentre “comune” può essere tale solo se non prevede prerogative particolari.  E’ allora necessario un ulteriore passo in avanti: per identificare nuove e diverse linee di incontro tra istituzioni e vita più che di “diritto comune” si dovrebbe parlare di “diritto impersonale”, un concetto che meglio segna lo scavalcamento sia del “diritto privato” che del “diritto pubblico”. “Impersonale” può, diversamente da “comune” indicare un diritto che superi il paradigma fin qui basilare dell’individualità, ma senza poi convergere in una indistinta nozione di socialità, di collettività: l’io e il noi, entrambi prima persona singolare e plurale, vanno sostituiti con la terza persona dell’egli. O meglio ancora dell’esso, una versione ancor più impersonale capace di andare oltreal’ antropocentrismo. In una dimensione giuridica così strutturata tutte le istituzioni, e la prassi istituente, sarebbero meglio predisposte a recepire le istanze della vita intesa nel senso più ampio possibile, di dare davvero corso alla “institutio vitae

4 – Istituire la vita

A questo movimento delle istituzioni verso la vita deve corrispondere quello della vita, del bios in senso inverso. E non a caso si parla di bios, e non di zoe, si parla cioè non della sola “materia” vivente, ma di una vita umana che è da sempre “istituita” in un tessuto articolato di relazioni, di pensieri, di linguaggi, di simboli, di cultura, da cui non si può prescindere. Lo stesso termine di “nuda vita” non si presta ad essere inteso nella sua estrema interpretazione di prevalenza della materia vivente, ma semmai di una possibile sudditanza delle ragioni della vita istituita rispetto alle esigenze impellenti di quella organica: non è mai esistito un uomo puramente naturale, così la vita, fin quando non è spenta, resta pur sempre una forma di vita nel senso pieno del termine. Eppure esistono purtroppo nella storia e nella cultura umana situazioni in cui ciò viene negato: lo sono ad esempio le manifestazioni di razzismo, il ridurre la vita al colore della pelle, le proclamazioni nazionalistiche dello “spazio vitale” che possono sfociare nel genocidio. Ma lo è lo stesso disastro ambientale frutto di un cieco antropocentrismo che in nome della vita umana sacrifica quella dell’intero pianeta.  Ed è proprio in contrasto a queste degenerazioni che si pongono il pensiero e la prassi istituente capaci di guardare ad una esistenza umana inscritta nel tessuto della propria storicità. Alla categoria dell’impersonale deve allora corrispondere dalla parte della vita, nel movimento opposto verso la coincidenza di vita e istituzioni il porre l’accento sulla differenza che fa di ogni vita qualcosa di irriducibilmente singolare: una vita, quella vita. Per rispettare e valorizzare le differenze servono le istituzioni, momenti di comune aggregazione di volontà che mirano a salvaguardarle dal pensiero unico, dall’appiattimento in sistemi giuridici, dai dispositivi sociali ed economici, dal peso di interessi egoistici. In questo quadro anche la stessa categoria della biopolitica va ripensata per superare la divaricazione fra il vederla come un potere assoluto sulla vita ed il volerla vivere illusoriamente libera da ogni potere

Epilogo

Quanto qui proposto sul piano teorico è già anticipato nella realtà dal proliferare di istituzioni esterne, e spesso alternative, a quelle formali dello Stato. La pandemia non fermerà, sul tempo lungo, questo processo di superamento del paradigma della sovranità: ne sono segnali evidenti, accanto ai temi tradizionali …. la centralità attribuita ai corpi viventi, la segmentazione della popolazione in base all’età, al genere, alle condizioni di salute, il rapporto tra politica e medicina …… I movimenti che li sostengono possono realizzarsi solo istituzionalizzandosi per acquisire più forza e durata e così riportando in primo piano ….. l’istitutio vitae, nel doppio senso di vitalizzare le istituzioni e di restituire alla vita quei tratti istituenti che la spingono oltre la mera materia biologica …..